Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
MEDIOPOLI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
“L’Italia della libera informazione, di parte e gossippara, che pende dalle veline giudiziarie e la notizia la fa, non la dà. L’editoria è la casta più importante. Gli editori sono i veri censori e i manipolatori della coscienza civile. Il sistema prima riconosce la libertà di manifestare il proprio pensiero e poi ne impedisce l’esercizio.
Sia libera la parola, con diritto di critica, di cronaca, d'informare e di essere informati, così come sia libero l'esercizio della stampa da vincoli di Albi, Ordini e collegi”.
di Antonio Giangrande
MEDIOPOLI
L'ITALIA DELLA CENSURA, DELL'OMERTA'
E DELLA DISINFORMAZIONE
SOMMARIO PRIMA PARTE
CAPITOLO 1: MASSMEDIOPOLI
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
PERCHE’ RINO GAETANO E’ ATTUALE?
L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.
L’HANNO DETTO I GIORNALI? E’ FALSO! UN ESEMPIO: MARCO TRAVAGLIO VS I RENZI.
LA FINE DELLA DIVERSITA' MORALE. I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN...LA REPUBBLICA.
INFORMARE CON DUE PESI E DUE MISURE.
FAKE NEWS, OSSIA BUFALE E DISINFORMAZIONE DI STAMPA E REGIME.
LA VERITA' E' FALSA.
IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.
GIORNALI E PROCURE.
STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.
I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.
I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.
I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.
IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.
LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.
I LAVORI MEDIA FREELANCE.
MEDIA COPROFILI E COPROFAGI.
GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.
LA TRUFFA DEI MEDIA.
I TRIBUNALI TELEVISIVI PARTIGIANI.
CON LA RADIO NON S'IMBROGLIA. VIVA LA RADIO CHE NON MUORE MAI.
L’ANGOLO BUIO DEI SOCIAL.
SI PUO’ CHIUDERE INTERNET?
MAGISTRATI…STATE ZITTI!
IN ITALIA I MORTI NON HANNO LO STESSO VALORE. DUE PESI E DUE MISURE: MORTI DI SERIE A (DI SINISTRA) E MORTI DI SERIE B (TUTTI GLI ALTRI).
"PADRI DELLA PATRIA": VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
LEZIONE DI MAFIA.
ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
LA LIBERTA'.
LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?
A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?
L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.
IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.
SOLDI A PALATE. PARENTI DELLE VITTIME PAGATI PER ANDARE IN TV E LE BUFALE SPACCIATE PER VERITA’.
L'ANTIMAFIA DEI PROFESSIONISTI ED IL CONTESTO SPUTTANATO.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
GLI EDITTI BULGARI, TRA UNA LECCATA DI CULO E L’ALTRA.
MAFIA ED ANTIMAFIA. GIORNALISTI PAVIDI E PARTIGIANI: NON SENTONO, NON VEDONO, NON PARLANO. TELEJATO E PINO MANIACI: ORGOGLIOSI SI ESSERE DIVERSI.
PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.
A PROPOSITO DI QUERELE PRETESTUOSE E DI LITE TEMERARIA.
AMBIENTE SVENDUTO E TARANTO INQUINATA: GIORNALISMO CORROTTO E STAMPA INFETTA.
LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
MEDIA E MASS MEDIA: I GIORNALI SIAMO NOI!
FORCAIOLI CONTRO GARANTISTI.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
E’ SEMPRE COLPA DEI GIORNALISTI FOTOCOPIA: GUFI E SOBILLATORI A PERDERE.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
SOMMARIO SECONDA PARTE
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
L’UNITA’ E GLI ALTRI: FALLITI DI SERIE A E FALLITI DI SERIE B!
L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.
COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.
UNA FARSA CHIAMATA GIORNALISMO. DALLE SOUBRETTE DELL’INFORMAZIONE AI CORSI BURLETTA.
DIRITTO D’AUTORE E FINANZIAMENTO PUBBLICO. IL COPYRIGHT DEI CITTADINI.
CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. STOP A RICORSI PROLISSI ED A TESTIMONI INUTILI.
DE MAGISTRIS ED I PASDARAN DELLA NOTIZIA SPICCIA. L’EVOLUZIONE DELL’INFORMAZIONE.
GIORNALISTI: ZERBINI DEI MAGISTRATI.
ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?
MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!
LA BANDA DEGLI ONESTI.
BERLUSCONI ASSOLTO: I MANETTARI ROSICANO....
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
LUIGI ABBATE....MA L'EDITORE LO SA?
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
I GIORNALISTI? SONO PIU’ DISONESTI DEI POLITICI.
ITALIA. PROCESSO ALLA STAMPA. COME IL FATTO DIVENTA NOTIZIA.
SI CENSURA, MA NON SI DICE.
BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.
SIAMO TUTTI PUTTANE.
LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
GIORNALISMO: LO SCANDALO DELLA MANCANZA DI LIBERTA' E LA VERGOGNA DEGLI AFFARI SUI DOVERI DEL GIORNALISTA.
IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.
LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.
BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.
GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.
BUONI E CATTIVI CON L’ABILITAZIONE COL TRUCCO.
LA VERITA’ MANIPOLATA.
LA CASTA SI RIBELLA. DIFFAMAZIONE, NIENTE CARCERE, MA NON PER TUTTI.
LE SPUTASENTENZE. LA GOGNA MEDIATICA, GLI AVVOLTOI DELL'INFORMAZIONE E LA POTENTE LOBBY GAY.
PER I GIORNALISTI INTERNET E' NOCIVO.
LA MACCHINA DEL BACIO E LA MACCHINA DEL FANGO.
GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.
CREDIBILITA' E CENSURA.
MAGISTRATI E GIORNALISTI. A CIASCUNO IL SUO MESTIERE.
SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?
I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.
I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.
I VOLTAGABBANA E GLI APPESTATI. BERLUSCONI E CRAXI.
IL NUOVO CHE AVANZA.
PENNIVENDOLI E DISINFORMAZIONE: DA SOCRATE A GRILLO, PASSANDO DA VANNONI DI STAMINA A DI BELLA.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO. MILENA GABANELLI.
GIULIA INNOCENZI E L’ESAME TRUCCATO DI GIORNALISMO.
LA RAI, L’INFORMAZIONE E LA DESTRA ITALIANA.
LE CONFESSIONI DI PAOLO MIELI.
STAMPA E MAGISTRATURA: PAPPA E CICCIA.
ECCO COME MI VOGLIONO FAR FUORI.
INFORMAZIONE E CAZZEGGIOPOLI: GIORNALISTI OPINIONISTI.
PARLI MALE DEI MAGISTRATI? GIORNALISTI CONDANNATI.
C’E’ CHI FA IL VERO GIORNALISTA, MA NON LO E’, C’E’ INVECE CHI GIORNALISTA LO E’, MA NON LO MERITA.
LA LIBERTA' DI STAMPA E' PRECARIA.
LA LIBERTA' DI STAMPA E' SVENDUTA.
I CLAN DEL GIORNALISMO.
PARLIAMO DEGLI IDOLATRI DELL’INFORMAZIONE. L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO. PARLIAMO DI MARCO TRAVAGLIO. PARLIAMO DI MICHELE SANTORO.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA.
SPECIALE CANALE 8 TV.
SPECIALE ANTENNA SUD.
A PROPOSITO DI GIORNALISTI.
IL COSTO DELL’ONESTA’ E DEL MORALISMO DELLA RAI E DEI SUOI GIORNALISTI.
FLOP TELEVISIVI: MILIONI DI EURO PER PROGRAMMI ANDATI IN ONDA UNA SOLA VOLTA.
RADIO RAI1: FACCIO FUORI LA GIORNALISTA PER METTERE LA FIDANZATA. E GLI ASCOLTI? PESSIMI.
LA STORIA DI SPRECHI DELLE EDIZIONI DEI FESTIVAL: TUTTI I CACHET DI CONDUTTORI E OSPITI.
GIORNALISTI SOTTO INCHIESTA PENALE.
SUBISCI E TACI.
GUAI A FARE SCOOP SULLE NEFANDEZZE DEI GIUDICI.
SE SI DENUNCIANO ERRORI DEI MAGISTRATI: SCATTA LA REAZIONE.
RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.
NAVIGATE PER INFORMARVI E NAVIGATE INFORMATI.
A PROPOSITO DI WIKIPEDIA, L'ENCICLOPEDIA CENSORIA.
GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. (I MAGISTRATI)
A CHI CREDERE E DA CHI DIFENDERSI? LIBERTA’ DI CRONACA E LIBERTA’ DI CRITICA.
MAFIA, MALA POLITICA, MALA GIUSTIZIA: ECCO COME TI IMBAVAGLIO!!
QUERELOPOLI. TI SPIEGO COME TI TACCIO.
DIFFAMAZIONI MEDIATICHE STRUMENTALI.
PARLIAMO DEI TG SATIRICI E DEI PROGRAMMI D'INCHIESTA. FORTI CON I DEBOLI E DEBOLI CON I FORTI?
ALDROVANDI, STAMPA ALLA SBARRA.
GIORNALISTA PREZZOLATO (MALE), CITTADINO DISINFORMATO.
PARLIAMO DI “MOSTRI IN PRIMA PAGINA” E “BUFALE” GIORNALISTICHE.
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.
INFORMAZIONE INATTENDIBILE. ORDINE DEI GIORNALISTI LOMBARDI: PROFESSIONE MALANDATA, DEGRADATA, IN MALAFEDE.
GIORNALISTI DI SERIE A E GIORNALISTI DI SERIE B.
LA TV PUBBLICA IN MANO AI PARTITI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ??? RAI, L'ORGIA DEL POTERE.
90 MILIONI DI EURO DALLA POLITICA PER LA TV PRIVATA: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
FREQUENZE TELEVISIVE NAZIONALI NEGATE: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
1 MILIARDO DI EURO DALLA POLITICA PER I GIORNALI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
CAPITOLO 2: CENSUROPOLI
MUTI PER CENSURA: GIUSTIZIA ORBA, PRIVACY E DIRITTO ALL'OBLIO, DIRITTO D’AUTORE E CONTENUTI INDIGESTI.
PARLIAMO DI LIBERTA' RICONOSCIUTA SOLO AI GIORNALISTI.
"ALL'ALBO, SIAM FASCISTI!"
PARLIAMO DI CENSURA: VERA O PRESUNTA.
QUANDO STRISCIA LA NOTIZIA TOPPA.
QUANDO QUINTA COLONNA TOPPA.
QUANDO VIDEO NEWS TOPPA.
QUANDO LE IENE TOPPANO.
LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.
PRIMA PARTE
CAPITOLO 1: MASSMEDIOPOLI
OSSIA, L’INFORMAZIONE CORROTTA
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Perché leggere Antonio Giangrande?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe
Nessuno pensa con la propria testa! È tutta questione di… Natura, scrive Alessandro Bertirotti su "Il Giornale". Quante volte, soprattutto da ragazzi, ci siamo sentiti dire dai nostri genitori: “Pensa con la tua testa!”? Ebbene, non vi è affermazione più infondata di questa. Perché? Semplicemente perché è impossibile farlo e aggiungo che non sarebbe affatto produttivo nella remota eventualità che qualche essere umano vi riuscisse. Nessuno di noi, volenti o nolenti, è venuto al mondo in modo autonomo proprio in quanto siamo mammiferi. Tutti noi siamo stati accolti e dunque nutriti da un utero femminile, sino a quando è stato necessario abbandonare quell’ambiente meraviglioso per entrare a far parte del mondo. Durante quei nove mesi paradisiaci, l’umore, le emozioni ed i pensieri di nostra madre, completamente inserita nell’ambiente della sua quotidianità, hanno influenzato il nostro umore attraverso la produzione di sostanze chimiche che giungevano anche a noi. E’ evidente quindi che ognuno di noi cresce, anche se dapprima inconsapevolmente, in una minima relazione duale (quella madre-bambino) che impronterà la quasi totalità del nostro stile di vita relazionale quando saremo adulti. Si stabilisce un rapporto intimo di complicità che continua dopo la nascita, abituando il futuro adulto a comprendere che i propri pensieri, le proprie convinzioni, passano attraverso l’approvazione o disapprovazione della madre. Questo modello verrà ripercorso durante tutta l’esistenza sia che esso basato su un rapporto sereno o conflittuale con la madre: rappresenta infatti l’imprinting neuro-cognitivo che prepara tutti noi ad attenderci una conferma o disconferma rispetto alle nostre azioni e pensieri. Parlando in maniera un po’ più scientifica, i filamenti neuronali – i neuriti che mettono in contatto i diversi neuroni tra loro formando quella rete cognitiva che costituisce il funzionamento del nostro cervello- si organizzano per modellarsi secondo questa relazione. Imitano cioè topologicamente quella solidarietà, quella complicità che esiste con la mamma. Ogni madre è stata anche figlia: la formazione dei propri circuiti neuronali presenta l’architettura che, in quanto figlia, ha sviluppato durante la sua evoluzione ontogenetica dallo stato fetale a quello adulto. Così si rinnova, generazione dopo generazione, quell’imperativo naturale che impone alle madri un atteggiamento solidale e complice verso i propri cuccioli sulla base di una forza naturale che prevarica qualsiasi egoismo a vantaggio della specie. E’ proprio in questo vincolo relazionale che si organizza l‘evoluzione mentale umana: il risultato è che nessun neurone nel nostro cervello agisce autonomamente, senza l’aiuto e la complicità di tutto il sistema neuronale. Per questo la mente umana impara a confrontarsi costantemente con il giudizio altrui anche quando questo giudizio non è verbalizzato, ma dimostrato con una serie di azioni e atteggiamenti che approvano oppure disapprovano il comportamento che si mette in pratica. E così, senza esserne del tutto consapevoli, impariamo a stare assieme agli altri, generalizzando il modello relazionale che abbiamo appreso nel nostro primigenio rapporto con la madre. La Natura ci pone così nelle condizioni di svilupparci nell’attesa di incontrare un altro che sappia accoglierci al momento opportuno e farci meditare sulla necessità di cambiare stile di vita e di pensiero.
Ed i media sono il veicolo necessario per uniformare ed omologare il pensiero unico.
Alessandra Moretti: "I giornalisti sono tutti cazzoni", scrive “Libero Quotidiano”. Una polemica che affonda le sue radici nella scorsa settimana, quando Alessandra Moretti è stata ospita di Lilli Gruber ad Otto e Mezzo. Ladylike, interpellata sulla possibilità che Maria Elena Boschi, un giorno, possa diventare premier, si è mostrata scettica: no, meglio di no. Peccato però che nella nota diffusa dopo la trasmissione dall'ufficio stampa de La7, quel "no" si fosse trasformato in un "perché no?", ovvero in un sostanziale "sì". La frase della Moretti che incorona la Boschi, dunque, è rimbalzata un po' da tutte le parti. Ma in una successiva conferenza stampa, quando alla Moretti è stato chiesto un ulteriore commento sull'endorsement, Ladylike non solo ha negato qualsivoglia endorsement, ma ha chiosato: "La verità è che voi giornalisti siete tutti dei cazzoni".
Ed ancora: «Credo che invece di parlare attraverso commenti e opinioni, parlare attraverso informazioni dettagliate e numeri possa essere utile per tutti quegli osservatori che, negli ultimi mesi, stanno riempiendo i nostri quotidiani e media di informazioni di cui nessuno di questi grandi intellettuali era a conoscenza negli anni ‘80 e ‘90. - scrive Paolo Foschi su "Il Corriere della Sera" - Suppongo che tutte queste grandi firme vivessero anche loro all’estero, come me, se solo negli ultime settimane si sono accorti di cosa rappresentano le spiagge chiuse, i camion bar o il censimento del patrimonio di case del Campidoglio che non esisteva. Di tutto questo si stanno accorgendo anche tutti questi grandi soloni, editorialisti e professori che sono arrivati evidentemente di recente nella nostra città» ha detto Marino, che appena qualche settimana fa aveva affermato di non leggere i giornali, «anzi li usiamo per incartare le uova».
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
PERCHE’ RINO GAETANO E’ ATTUALE?
Molti scrittori sono astiosi, a torto od a ragione, contro la Massoneria. La rete riporta spesso articoli o libri che preludono a misteri dietro le più eclatanti note di cronaca. E' doveroso riportare nella storia anche l'altra faccia della cronaca.
"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”.
"Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.
Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?
«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen».
E allora?
«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli».
Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?
«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria».
Cioè?
«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia».
E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.
«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva».
Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?
«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio».
Ne faccia un altro.
«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori».
E quindi?
«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva».
Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.
«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi».
E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?
«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense».
Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?
«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica».
Perché?
«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo».
Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?
«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi».
Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.
«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento».
La tesi choc di un avvocato: "Rino Gaetano è stato ucciso dalla massoneria", scrive Fabio Frabetti su “Affari Italiani”. «Rino Gaetano fu ucciso dalla massoneria deviata». La dinamica della morte del geniale cantautore che continua a trascinare vecchie e nuove generazioni potrebbe non essere così scontata come si è pensato finora. L'avvocato Bruno Mautone, ex sindaco di Agropoli, sta per dare alle stampe un libro in cui è riuscito a decriptare nei testi delle canzoni di Gaetano tutti i misteri della sua morte. Affaritaliani.it lo ha incontrato. Si intitola “Rino Gaetano, assassinio di un cantautore” ed uscirà nelle prossime settimane per le edizioni Gli occhi di Argo.
Come è nata l'idea di scrivere un libro del genere?
«Da tanti anni per passatempo conduco programmi radiofonici e Rino Gaetano è uno dei miei autori preferiti. Ascoltando alcuni suoi brani poco conosciuti mi sono accorto che c'erano dei significati interpretabili in maniera non letterale. Non ritengo di avere il Vangelo in tasca ma penso di avere individuato, partendo dal lavoro in passato svolto da Gabriella Carlizzi e Paolo Franceschetti, una serie di canzoni in cui vengono lanciati degli importanti messaggi sulla storia italiana dal dopoguerra in poi. La morte di Rino Gaetano non è stata casuale, si trattò di una macchinazione per metterlo a tacere. In alcuni suoi testi ci sono messaggi inquietanti ed angoscianti. In altri, frasi di scherno che progressivamente vengono inseriti di disco in disco. Lui era un vero e proprio genio e la massoneria è da sempre interessata a fare entrare nuove leve di alto valore intellettivo. Così probabilmente lui fu fatto entrare molto giovane e così era venuto a conoscenze di segreti e verità apprese nell'ambito di specifiche consorterie massoniche. Nei primi dischi sembra esserci entusiasmo nei confronti di questo mondo, poi pian piano subentrò il disincanto e poi il distacco. Lo spirito di ideali e di giustizia lo spinse a rivelare con le sue canzoni alcuni di quei segreti. Messaggi che seppur criptici hanno indotto la massoneria deviata ad ucciderlo. Ha composto poco più di sessanta canzoni, nel 100% delle sue composizioni ha sempre messo qualche riferimento a fatti o situazioni collegabili alla massoneria. In altre ha individuato e rivelato segreti inquietanti della storia italiana».
«C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta». Rino Gaetano pronuncia questa criptica frase in un concerto del 1979. Sta per eseguire uno dei suoi brani più celebri Nuntereggae più. Proprio nel testo di questa canzone salta di nuovo fuori la stessa spiaggia: «il pitrentotto sulla spiaggia di Capocotta». In quella spiaggia si era consumato nel 1953 il delitto di Wilma Montesi...
«Quando avvenne quell'omicidio, Rino aveva poco più di due anni. Quello che aveva raccontato di quel tragico evento nei concerti e nelle sue canzoni lo aveva quindi sicuramente conosciuto nelle frequentazioni di tipo massonico: tramite le sue parole si può quindi ricostruire cosa avvenne esattamente in quella spiaggia. I segreti che aveva appreso riguardavano però molti aspetti della cronaca e della politica italiana. L'aspetto inedito del libro è proprio questo: aver dimostrato che nelle sue canzoni insieme ad apparenti nonsense si raccontavano i retroscena di molti scandali: i casi Sindona, banco Ambrosiano, Franklin Bank, vicenda Mattei. Addirittura Rino Gaetano era arrivato a pronosticare come sarebbe finito il processo per la bomba a Piazza Fontana a Milano e ad annunciare i reali colpevoli dello scandalo Lockheed».
Rino Gaetano morì il 2 giugno 1981 dopo un incidente stradale sulla via Nomentana a Roma. La sua auto finì addosso ad un camion: perse la vita per le gravi ferite riportate dopo che ben tre ospedali di fatto rifiutarono il suo ricovero. La cosa incredibile è che lo stesso cantautore 11 anni prima aveva raccontato la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e anche dal cimitero. Nel brano “La ballata di Renzo” si legge: Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l'accettarono forse per l'orario si pregò tutti i Santi ma s'andò al S.Giovanni e li non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l'alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c'era in alto il sole,si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c'era posto. Una somiglianza notevole con quello che sarebbe accaduto allo stesso Gaetano.
«I primi tre ospedali citati nel brano sono proprio quelli che non ebbero la capacità o la volontà di curarlo in maniera non professionale od idonea dopo l'incidente. Non abbiamo alcuna prova che il soccorso sia stato tempestivo. I telefonini non esistevano. Sarebbe interessante capire chi allertò i soccorsi, a che ora e con quale modalità. Tra le altre cose, lui non fu degente in tre ospedali diversi. Rimase al Policlinico Umberto I, con motivazioni mai veramente chiarite ed emerse. Non c'era il reparto di traumatologia cranica funzionante e gli ospedali disperatamente contattati dal medico di turno facevano quasi a gara a non prestare soccorso a Rino. Così morì agonizzante al Policlinico per il grave trauma cranico riportato. Lui aveva avuto un altro strano incidente nel 1979 a cui era miracolosamente sopravvissuto. Una jeep speronò la Volvo in cui viaggiava insieme ad un amico. La macchina si distrusse e chi aveva causato l'incidente riuscì a defilarsi e non si seppe mai chi fosse alla guida. Questo incidente avviene nello stesso anno in cui Rino Gaetano aveva fatto quelle rivelazioni su Capocotta. Nelle sue canzoni preconizzava una morte prematura, sapeva i rischi che stava correndo. Per questo probabilmente non aveva messo al corrente le persone a lui care delle frequentazioni che aveva avuto. Voleva preservarle da possibili rischi».
Un altro brano che fa pensare è “Al compleanno della zia Rosina” in cui si legge: “vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me”.
«In quella canzone c'è una emblematica citazione storica di Cleme, che sta per Clemente Rino Gaetano si voleva riferire ai tre papi (Clemente V, Clemente XII e Clemente XVI) che in momenti storici diversi emanarono provvedimenti religiosi nei confronti di movimenti legati alla massoneria. Uno di questi papi emanò il primo editto contro la massoneria, un altro aveva sciolto la Compagnia di Gesù ed il terzo sciolse i Templari. Lui in sostanza sta dicendo: me ne frego se verrò portato a spalla da gente che bestemmierà, evocando queste figure che avevano scomunicato per prime alcune diramazioni massoniche. Lui consultava enciclopedie, libri di storia e di cultura. Nel mio lavoro penso di avere colto dei significati che non era facile afferrare di primo acchito. Rino Gaetano era un generoso ed un idealista, non riusciva a trattenere nell'ambito dei propri pensieri le tante porcherie che erano state combinate in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Nelle sue canzoni parla anche di storia, di Risorgimento, di Hitler e di una miriade di cose. Anche di numerologia. C'è di tutto celato nella sua musica. Anche il mistero della sua morte».
Rino Gaetano e i messaggi in bottiglia. Qualche appunto a margine del vergognoso film della RAI su Rino Gaetano, scrivono Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti. Come abbiamo descritto molte volte nel nostro blog, il nostro è un sistema che uccide e strangola tutti coloro che ne sono al di fuori e non vogliono essere coinvolti nei giochi illeciti del potere massonico. Il sistema, però, non penalizza solo chi ne è fuori, ma anche chi ne è dentro e ne riceve i vantaggi. Perché il problema è che una volta entrati nel sistema, tutto ciò che ti viene dato ti viene chiesto in restituzione sotto altre forme. Se fai carriera grazie al sistema, ad un certo punto arriverà qualcuno che ti chiederà il conto; ti chiederanno di fare uno sgarbo ad un vecchio amico che vogliono rovinare; ti chiederanno di falsificare un documento o farlo sparire, ti chiederanno di accollarti una responsabilità penale per salvare altri, di essere condannato ad un anno con la condizionale e di spendere la tua faccia su tutti i giornali per fare da capro espiatorio. Ribellarsi al sistema è quasi impossibile per la perfezione che esso ha. Tanti, troppi, sono caduti nella trappola. Le promesse che ti fanno sono allettanti: potere, denaro, conoscenza dei meccanismi reali del potere. Ma il conto è salato, perché non si è più liberi di fare ciò che si vuole, e si è in costante stato di ricatto. Ritengo, ad esempio, che molti esponenti della sinistra attuale, a suo tempo, abbiano fatto il cosiddetto “patto col diavolo”, pensando semplicemente di accettare un compromesso in più per fare carriera; e si sono poi trovati invischiati in un gioco di potere più grande di loro, perdendo ogni capacità decisionale reale; ed ecco il motivo per cui la sinistra di questi ultimi anni ha fatto delle cose senza alcuna logica, come se volesse realmente perdere le elezioni e consegnare – come hanno fatto di recente – il paese definitivamente alla destra. In realtà alcuni provano a ribellarsi. Ribellarsi in modo esplicito, in un attacco frontale, non è possibile altrimenti si muore (la lista dei morti è lunghissima; Falcone e Borsellino, Occorsio, Pecorelli, Tobagi, Mauro De Mauro, Cosco, Pasolini, Cecilia Gatto Trocchi, Ilaria Alapi, Graziella De Palo, e tutti coloro che hanno provato a testimoniare coraggiosamente in processi importanti, morti suicidi o in incidenti stradali). Molti però provano a ribellarsi non apertamente, lanciando una serie di messaggi in bottiglia. Come delle tracce, per chi le vorrà cogliere un giorno. Ricordo un'archiviazione vergognosa che aveva a che fare con un soggetto che si era suicidato con "una coltellata sulla schiena". Il magistrato archiviò dicendo delle cose che li per li mi parvero incomprensibili; mischiava citazioni di Dante a frasi demenziali del tipo "la prova che si sia trattato di un suicidio è nel fatto che sul coltello piantato nella schiena furono trovate le impronte digitali della vittima". Dopo anni di rabbia in cui non capivo l'assurdità di quel provvedimento, ho capito che la citazione di Dante era un chiaro riferimento alla legge del contrappasso, utilizzata dalla Rosa Rossa per i suoi omicidi. Mentre con la frase in cui parlava delle impronte digitali voleva dire esattamente il contrario.... Tra l'altro fu uno dei provvedimenti il cui studio e la cui lettura approfondita mi hanno permesso di arrivare alla regola del contrappasso da noi descritta negli articoli sull'omicidio massonico. A mio parere si trovano molti messaggi in bottiglia anche in molti libri, articoli di giornale, e opere attuali, ma evitiamo di indicarli per non mettere in pericolo le persone coinvolte. Rino Gaetano era una di queste persone che si erano ribellate al sistema in modo vistoso. Non poteva denunciare il sistema direttamente, perchè non gli avrebbe dato voce nessuno, allora lasciò una serie di tracce nelle sue canzoni, che sarebbero state raccolte dalle generazioni successive. Rino Gaetano ci parla della Rosa Rossa, dei crimini commessi dai potenti, dei meccanismi segreti di questa associazione e dei loro metodi. Vediamone qualcuna.
Le canzoni. C’è un album di Rino, in particolare, che pare dedicato proprio alla Rosa Rossa. Nello stesso album, infatti troviamo ben tre canzoni: Rosita, Cogli la mia Rosa d’amore, e Al compleanno della zia Rosina. Una trilogia a nostro parere non casuale. In Rosita ci dice che la Rosa Rossa, quanto te la presentano, sembra bellissima... onori, gloria, soldi, potere... poi però un giorno scopri la verità. E allora la tua vita cambia completamente perchè sei in trappola.
Ieri ho incontrato Rosita, perciò questa vita valore non ha,
Come era bella rosita di bianco vestita più bella che mai.
Nella canzone “Al compleanno della zia Rosina” ci spiega che nel linguaggio criptato della Rosa Rossa, Santa Rita è in realtà la Rosa Rossa; e ci spiega che un giorno capiranno che sta svelando questi messaggi, e quindi lo uccideranno.
La vita la vita, e Rita s'è sposata, al compleanno della zia Rosina.
Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia e che ce l'ha con me.
Questa frase apparentemente incomprensibile vuole dire probabilmente che gli appartenenti alla massoneria rosacrociana della Rosa Rossa al suo funerale porteranno a spalla la sua bara (ai funerali delle vittime i mandanti sono sempre presenti tra i partecipanti); ma bestemmieranno, perchè in realtà una caratteristica della massoneria della Rosa Rossa è di stravolgere i simboli e i riti Cristiani per interpretarli al contrario. Infine, in “Cogli la mia rosa d’amore” lancia un messaggio molto chiaro:
cogli la mia rosa d’amore,
regala il suo profumo alla gente;
cogli la mia
rosa di niente.
Non credo sia un caso anche il titolo del disco: "mio fratello è figlio unico",
perché sapeva che questo scherzetto gli sarebbe costato la vita. Nella canzone
“Nun Te Reggae più” parla della spiaggia di Capocotta. E, ad un concerto, disse:
"C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. E che grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Apriranno gli occhi e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta".
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto
che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo
politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né
Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni
d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella
filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e
Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come
Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro
quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la
versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo
ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica,
come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà
vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.
La spiaggia di Capocotta. OMICIDIO DI WILMA MONTESI (1953, vigilia di Pasqua). La vicenda coinvolse il musicista Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del consiglio della DC, e altri noti esponenti della nobiltà, politici e personaggi famosi... Inizialmente fu presa in considerazione l'ipotesi di un banale incidente, ipotesi che fu considerata attendibile dalla polizia, e il caso venne chiuso. I giornali, L'Espresso su tutti, invece si mostravano scettici. Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi? a firma Riccardo Giannini ebbe largo seguito. A capo di questa campagna stampa, vi erano prestigiose testate nazionali, quali Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali. Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Cesarini Sforza pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato con Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, il Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana. Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico. Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto. La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953. Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Cesarini Sforza venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe il giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento. (QUINDI ANCHE LO STESSO PCI SEMBRA VOLER COPRIRE E INSABBIARE TUTTO... CHISSA' COME MAI?). Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi". Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni. L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega e il 31 maggio, Cesarini Sforza fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa. Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di una attricetta ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana. Continuano ad essere ritrovati corpi di donne su quella spiaggia. Forse è questo che voleva dire Rino. Non si riferiva solo al caso Montesi, ma a decine di altri casi che evidentemente continuano a verificarsi a Capocotta... O forse voleva dire che è una situazione "emblematica" di tutto quello che succede in Italia. Ma sono solo nostre deduzioni. Potremmo continuare perchè ci sono altre canzoni molto più significative e piene di messaggi, come Gianna. Ma terminiamo qui perchè per capire queste canzoni occorre avere una conoscenza specifica di determinati fatti e situazioni. Forse però non molti sanno che la canzone Nuntereggaepiù, che nomina molti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, della televisione... è stata censurata. Inizialmente infatti l'elenco conteneva, tra gli altri, i nomi del finanziere Nino Rovelli, del banchiere Ferdinando Ventriglia, di Camillo Crociani (scandalo Lockheed e loggia P2), di Amintore Fanfani, di Guido Carli... e persino di Aldo Moro e Michele Sindona. Questi nomi vennero cancellati dal testo della canzone. Evidentemente perché ancora più scomodi di quelli che furono lasciati. Un personaggio come Rino non poteva vivere a lungo, e perse infatti la vita il 2 giugno del 1981 in un incidente d'auto. Poco tempo prima, come abbiamo già raccontato altrove, aveva avuto un incidente analogo, ma si era salvato. Aveva ricomprato un’ auto identica ed ebbe un incidente dello stesso tipo; morì non tanto per l'incidente in sè, quanto per il ritardo con cui fu curato perchè negli ospedali della zona nessuno volle accoglierlo. Ben 5 ospedali si rifiutarono di curarlo, così come lui aveva scritto in una sua canzone, La ballata di Renzo. Cioè, è stata applicata ,nel suo caso la regola del contrappasso di cui ci siamo occupati in altri articoli. La ballata di Renzo è un brano inedito, di cui peraltro si scoprì l'esistenza solo qualche anno fa. Dunque, all'epoca, solo gli "addetti ai lavori" (i produttori e le persone che lavoravano insieme al cantante) erano a conoscenza di quel brano. E solo chi conosceva la canzone poteva fare in modo che si realizzasse nella pratica, e in modo così dettagliato. Quando qualche anno fa uscì la notizia della scoperta del brano inedito, i media si affrettarono subito a definirla una "profezia". I giornali scrissero che ne La ballata di Renzo "Rino aveva previsto e messo in musica, dieci anni prima, la propria morte". Ma sarebbe invece più oppurtuno affermare il contrario: la morte del cantautore è avvenuta esattamente come nella sua canzone non perché quel brano fosse una profezia, ma perché qualcuno l'ha usata per applicare la regola del contrappasso.
Il film. Di recente la RAI ha prodotto un film su Rino Gaetano. Vediamo cosa dice la presentazione ufficiale del film sul sito Rai. "Ci sono film su personaggi della musica che riescono a descrivere compiutamente lo spirito di un'epoca. È questo l'obiettivo della fiction Rino Gaetano. Ma il cielo è sempre più blu, una produzione Rai Fiction realizzata da Claudia Mori per la Ciao Ragazzi. L'interesse per Rino Gaetano e per la sua musica si è riacceso negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani, al punto di farne una figura di culto oltre la sua epoca. La fiction, che racconta in due puntate la sua biografia e la genesi delle canzoni più popolari, è uno spaccato della sua generazione, e trasmette un messaggio che può valicare i confini nazionali italiani, perché ancora oggi modernissimo". In realtà guardando il film si capisce che è stato scritto al solo scopo di infangare l’immagine del cantautore. La sorella di Rino e la ex fidanzata, intervistate, diranno che il film racconta qualcun altro rispetto al protagonista. Quello non era Rino, non era la storia d'amore tra lui e la fidanzata. Vediamo perchè. Anzitutto il film si apre con la scena di lui che sviene per aver bevuto troppo. E si chiude con le immagini di lui, ubriaco, che vaga senza meta alla ricerca di amici che oramai lo hanno abbandonato. Il messaggio è chiaro. Era un ubriacone. Altre scene salienti del film sono queste:
1) Dopo aver chiesto alla fidanzata di accompagnarlo a Stromboli per scrivere una canzone, dopo alcuni giorni in cui non combinava nulla tranne trattare male gli amici musicisti, e ubriacarsi continuamente, inveisce contro la fidanzata e la tratta male dicendo che non si sente capito
2) Geniale poi come presentano il suo rapporto con le donne. Si fidanza. Mette le corna alla ragazza (Irene) con un altra ragazza, stupenda e che lo adora, di nome Chiara. Irene li scopre a letto e lui che fa? Esce dalla stanza, parla con Irene e le dice “non preoccuparti, era solo una scopata”. Poi abbandona Chiara senza dirle una parola nè salutarla, dopo giorni di idillio romantico. Dopo qualche anno incontra nuovamente Chiara. Mette nuovamente le corna alla fidanzata e abbandona nuovamente Chiara, ancora una volta senza una spiegazione e senza una parola. Verso la fine del film, abbrutito dall’alcol e senza una meta, tenta di recuperare il rapporto con Chiara e con Irene (tutte e due in contemporanea), ma entrambe lo abbandonano. Per giunta tenta di baciare Chiara proprio un giorno che lei lo trova ubriaco già al mattino presto. Chiaro è il messaggio: Gaetano era un superficiale.
3) Altrettanto geniale poi come viene delineato il suo rapporto col padre. In una delle scene clou del film lui, all’apice del successo, mostra una casa al padre, ma il padre la rifiuta, perché non vuole la sua elemosina. E lui risponde arrabbiato “ma come, finalmente ora possiamo permetterci una casa come la gente normale e non uno schifoso sottoscala”. Il messaggio qui è molto sottile ed è duplice: la gente che vive in un sottoscala non è normale. Un sottoscala fa schifo. Ma dietro a questo messaggio ce n’è un altro, molto più sottile: Gaetano, come tutti, una volta che ha avuto un po’ di soldi e si è arricchito, non ha più rispetto per le condizioni della gente più povera che infatti viene definita “non normale”. E infatti rinfaccia al padre di essere un poveraccio: "io non volevo diventare come te e ci sono riuscito... non vi voglio più vedere in quel sottoscala schifoso.. e aggiunge: "sei orgoglioso come tutti gli ignoranti". Dopodichè al padre prende anche un infarto. Quando il padre uscirà dall'ospedale Rino ancora una volta lo tratterà malissimo e gli causerà un altro malore. In altre parole, lo descrivono come un pessimo personaggio, indelicato e ignorante che arriva a far ammalare il povero padre.
Altro aspetto curioso del film è che Rino ha una sorella, che nel film però non compare mai. Non compare mai neanche quando, nella parte finale del film, bussa alla porta di tutti gli amici, ubriaco e disperato, lasciato solo da tutti. Strano che Rino quel giorno non abbia pensato di telefonare anche alla sorella no? Come è strana un'altra circostanza. Rino morì pochi giorni prima del suo matrimonio. Doveva sposarsi. In questo indegno e vergognoso film, invece, l'ultima scena del film mostra lui disperato e abbandonato da tutti. Nessun cenno alla figura della sorella. Nessun cenno al matrimonio, ma anzi, viene presentata una fattispecie completamente opposta. Insomma, per essere un film che voleva valorizzare la figura del cantautore, la trama presenta tali e tanti inesattezze, buchi ed omissioni, che rimane una sola certezza: che il film è stato fatto unicamente per oscurare le ragioni della sua morte e il valore delle sue canzoni. Per infangarne la memoria quindi. Chi ha prodotto il film, inoltre, ha appositamente evitato di inserire la figura della sorella, forse perchè è l'unica della famiglia rimasta ancora viva, e che avrebbe potuto creare guai giudiziari agli autori del film se la sua immagine fosse apparsa troppo deformata dalla fiction. In conclusione, cosa rimane dopo la visione del film? L’idea che fosse un ubriacone, anche egoista, non troppo intelligente, che ha scritto canzoni superficiali e senza senso. Così non ci si stupisce se muore in un incidente. E se un giorno qualcuno dirà che è stato ucciso, la gente dirà: "ucciso? ma come? Era stato un incidente perchè beveva ed era ubriaco". Come succede per Pantani: "era un drogato, si è suicidato". Che poi le perizie abbiano dimostrato che il suo cuore era intatto non conta, per questo mondo dei mass media asservito ad una criminalità senza scrupoli. E che la sorella e la fidanzata di Rino dicano che quello non era Rino, che conta? L'obiettivo è riuscito. Milioni di italiani lo considerano un ubriacone che scriveva canzoni senza senso. Il film è stato confezionato ad arte probabilmente per screditare la figura di un artista, proprio in un periodo particolare, ovverosia gli anni in cui, a seguito dei delitti del mostro di Firenze, si comincia a parlare della Rosa Rossa e dei suoi delitti. D'altronde, una bella coincidenza che il film sia prodotto dalla Ciao Ragazzi, società che porta, guarda caso, l'acronimo dei RosaCroce e di Cristian Rosenkreutz (CR). Di recente poi è uscito un dvd "Figlio unico", uscito insieme alla raccolta il 02.11.2007. Giorno dei morti e data a somma 13. Un altro bello scherzetto combinato ai danni di Rino. Tanto per mettere di nuovo una firma, se ce ne fosse bisogno. Il dvd contiene molti filmati, tra cui quello con Morandi: Rino a un certo punto dice: "Io conosco anche il profumo dei ministri". Una frase senza senso per i più. Un non sense, appunto, di quelli tipici di Rino. E invece no. Infatti Morandi si guarda intorno impaurito e cambia subito discorso, spostandosi di nuovo sull'ironia. "Qui non possiamo parlare di ministri, parliamo solo di canzoni. No, ma parliamo della tua ironia". Ma noi che conosciamo il sistema, riteniamo che il film sia l’ulteriore vittoria di Rino Gaetano. Rino era così grande e così bello, che hanno cercato di distruggerlo anche da morto. Perché indubbiamente le sue canzoni, come del resto aveva predetto anche lui, fanno più paura ora che quando era vivo. Ora infatti le possiamo capire. E a Venditti che, in questi ultimi tempi, ha affermato che la causa della morte di Rino è stata la cocaina (se ne è ricordato dopo quasi trenta anni) possiamo rispondere una cosa. Strano, Antonello, che ti ricordi dopo tanti anni della cocaina. In realtà la sai bene quale è la verità: lui ha avuto quel coraggio che pochi hanno, di andare contro il sistema fino a farsi uccidere per non rinnegare i suoi ideali. Quel coraggio che molti di quelli che oggi hanno successo certamente non hanno avuto.
La ballata di Renzo
Quel giorno Renzo uscì,
andò lungo quella strada
quando un’auto veloce lo investì
quell'uomo lo aiutò
e Renzo allora partì
verso un ospedale che lo curasse per guarìr.
Quando Renzo morì io ero al bar
La strada era buia
si andò al San Camillo
e lì non l'accettarono
forse per l'orario
si pregò tutti i Santi
ma s'andò al San Giovanni
e lì non lo vollero per lo sciopero
Quando Renzo morì
io ero al bar era ormai l'alba andarono al policlinico
ma lo si mandò via perchè mancava il vicecapo
c'era in alto il sole
si disse che Renzo era morto
ma neanche al Verano c'era posto
Quando Renzo morì
io ero al bar,
al bar con gli amici bevevo un caffè.
Anche il delitto di Marco Pantani si è tinto di giallo.
"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”. "Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.
Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?
«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen.»
E allora?
«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli.»
Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?
«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria.»
Cioè?
«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia.»
E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.
«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva.»
Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?
«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio.»
Ne faccia un altro.
«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori.»
E quindi?
«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva.»
Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.
«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi.»
E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?
«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense.»
Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?
«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica.»
Perché?
«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo.»
Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?
«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi.»
Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.
«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento.»
Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti. I segreti della longevità del geniale cantautore, nato a Crotone il 29 ottobre del 1950, scrive Gabriele Antonucci il 29 ottobre 2018 su "Panorama". “C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio: io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera. Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale”. La profezia che fece Rino Gaetano in un concerto sulla spiaggia di Capocotta nel 1979 si rivelò esatta. Il geniale cantautore crotonese, nato il 29 ottobre del 1950, ci ha lasciato 37 anni fa, eppure le sue canzoni sono ancora oggi così amate e ascoltate, anche dai più giovani, che riesce difficile pensare a una sua scomparsa ormai lontana. Il 2 giugno del 1981 Rino Gaetano perse la vita in un incidente a via Nomentana, poco distante da casa sua, nel quartiere di Montesacro. La sua auto finì addosso ad un camion proveniente dall’altra corsia, ma il cantante non morì sul colpo. Dopo che tre ospedali rifiutarono il suo ricovero, morì per le gravi ferite riportate alla testa.
Le inquietanti coincidenze. È incredibile come lo stesso cantautore, 11 anni prima, aveva raccontato ne La ballata di Renzo la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e perfino dal cimitero. Nel brano La ballata di Renzo cantava: «Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l’accettarono forse per l’orario si pregò tutti i Santi ma s’andò al S.Giovanni e lì non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l’alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c’era in alto il sole, si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c’era posto». Una somiglianza inquietante con quello che sarebbe accaduto davvero pochi anni dopo allo stesso Gaetano, arrivato al Policlinico Umberto I già in condizioni disperate. Sulle sue ultime ore di vita non sono mai stati fugati del tutto dubbi e sospetti, come conferma la pubblicazione di un saggio, Rino Gaetano, la tragica scomparsa di un eroe di Bruno Mautone, nel quale l’autore sostiene che l’artista sia stato ucciso dalla massoneria deviata. La notte dell’incidente un’ambulanza dei vigili del fuoco lo portò al San Camillo, dove venne però rifiutato il ricovero perchè non attrezzato a prestargli soccorso. Verrà poi rifiutato anche dall’ospedale San Giovanni e infine portato al Policlinico Umberto I nel quale, però, il reparto di traumatologia non era funzionante. Dopo alcune ore di agonia, senza aver ricevuto alcuna cura, il cantautore morirà verso le sei del mattino a soli 31 anni. In un primo momento gli verrà perfino rifiutata la sepoltura al cimitero del Verano, dove riposano numerosi personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura, e soltanto dopo le pressioni di alcune personalità verrà trasferito definitivamente lì. Nel 2012 Comune di Roma ha dedicato al cantante una targa commemorativa sul palazzo di Via Nomentana Nuova 53, dove Rino ha abitato dal 1970 fino alla sua scomparsa.
Il segreto del successo di Rino Gaetano. Il segreto della longevità di Rino Gaetano è nella sua capacità unica di coniugare un’impareggiabile attitudine all’ironia e allo sberleffo con una graffiante satira politica e sociale. In un paese come il nostro, da sempre diviso tra Guelfi e Ghibellini, la sua musica ha messo d’accordo sia la destra che la sinistra proprio perché non ha risparmiato nessuna delle due parti, tanto meno il centro. Per questo non è mai stato catalogabile, a differenza di altri suoi colleghi degli anni Settanta, in uno schieramento politico. Rino non si limitò ad accenni generici all’attualità politica e ai suoi protagonisti, ma nelle sue canzoni fece i nomi e i cognomi e, anche per questo, i suoi testi e le sue esibizioni dal vivo sono stati più volte censurati. Il suo universo è affollato di santi vestiti d'amianto che salgono sul rogo, di donne immaginarie che filano la lana e fiutano tartufi, di cieli blu e di notti stellate, di amabili prostitute e di detestabili politici di ogni schieramento. Gaetano era accessibile e oscuro al tempo stesso, le sue canzoni venivano ballate in discoteca e facevano da colonna sonora delle manifestazioni politiche. Una canzone esemplare di questa sua attitudine allo sberleffo intelligente è Nuntereggae più nella quale, a ritmo di reggae, punta ironicamente il dito contro Gianni Agnelli, Enrico Berlinguer, le logge massoniche, il decano del giornalismo sportivo Gianni Brera e lo scandalo della spiaggia di Capocotta. Come non ricordare, poi, la sua fortunata partecipazione al Festival di Sanremo, dove nel 1978 si classificò terzo con la scanzonata Gianna, esibendosi in frac, camicia a righe rosse e scarpe da ginnastica?
Gli esordi. Eppure i suoi esordi discografici sono stati tutt’altro che esaltanti. Dopo alcune esperienze teatrali, tra i quali il ruolo della volpe nel Pinocchio di Carmelo Bene, Gaetano iniziò ad esibirsi nel leggendario Folkstudio, inesauribile fucina artistica dei cantautori romani, dividendo spesso il palco con gli allora sconosciuti Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Si accorge del suo talento il produttore Vincenzo Micocci, che gli permette di pubblicare i suoi primi due singoli I love you Maryanna e Jaqueline, incisi dal cantante con lo pseudonimo di Kammamuri’s, e il primo album Ingresso libero, pubblicato dalla It nel 1974. Né pubblico né critica restano particolarmente colpiti dal cantautore crotonese, che si mette in luce un anno dopo con il 45 giri Il cielo è sempre più blu, un saggio della sua capacità di tenersi in perfetto equilibrio tra satira e nonsense. Nel 1976 il pubblico si accorge delle sue singolari qualità grazie al secondo album Mio fratello è figlio unico, trascinato dalla splendida title track, una struggente ballad in bilico tra affetti familiari e denuncia sociale. Nel disco spicca anche l’emozionante canzone d’amore Sfiorivano le viole, da molti considerato uno dei vertici della sua produzione artistica.
Il successo. Il terzo album Aida del 1977 è una piacevole conferma, ma è con il successivo Nuntereggae più e soprattutto grazie al terzo posto a Sanremo con l’orecchiabile e maliziosa Gianna che Rino entra ai piani alti delle classifiche. Il 1979 segna il suo passaggio dalla piccola etichetta It a una major come l’Rca, con la quale pubblica il suo quinto album Resta vile maschio, dove vai?. Nel 33 giri troviamo la divertente melodia spagnoleggiante di Ahi Maria, l’emozionante ritratto della amata Calabria in Anche questo è Sud e la sferzante satira politica di Nel letto di Lucia. Gaetano è ormai lanciatissimo, tanto che, dopo la pubblicazione nel 1980 del suo ultimo album in studio E io ci sto, viene chiamato da Riccardo Cocciante per alcune tappe di un tour fortunatissimo, che verrà ribattezzato Q Concert.
L'incidente mortale. Proprio nel periodo di massimo fulgore, nel quale stava prendendo forma un lavoro sperimentale intitolato provvisoriamente Alice, un tragico incidente stradale ha interrotto il 2 giugno del 1981 la sua parabola umana e artistica. Nel 2007 la fiction Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu, trasmessa in prima serata da Rai Uno, ha fatto scoprire a tanti giovani la musica di Rino Gaetano, grazie anche all’eccellente interpretazione di Claudio Santamaria. La miniserie ha avuto un grande successo di ascolti, dimostrando ancora una volta l’attaccamento del pubblico al cantautore calabrese, ma non è piaciuta alla sorella Anna, secondo la quale la figura di Rino è stata troppo romanzata. In effetti non deve essere stato semplice riassumere, in due sole puntate di una fiction, una personalità complessa e fuori dagli schemi come quella del cantautore. Quella personalità che rende ancora oggi le canzoni di Gaetano incredibilmente fresche e attuali.
“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.
Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.
“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».
L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.
"Non spegnete la tv, ma accendete la libertà": l'inedito di Umberto Eco sulla televisione. La Tv è maestra, a volte cattiva, ma in modo non prevedibile. Come gli altri media. La lezione del grande semiologo ora diventa un volume, scrive Umberto Eco il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". L'intervento che qui anticipiamo, datato 1978, è integralmente contenuto nel volume "Sulla televisione" in uscita per La nave di Teseo. Otto o nove anni fa, quando mia figlia stava iniziando a guardare il mondo dalla finestra di uno schermo televisivo (schermo che in Italia è stato definito “una finestra aperta su di un mondo chiuso”), una volta la vidi seguire religiosamente una pubblicità che, se non ricordo male, sosteneva che un certo prodotto era il migliore al mondo, capace di soddisfare qualsiasi bisogno. Allarmato sul fronte educativo, cercai di insegnarle che non era vero e, per semplificare i miei argomenti, la informai che le pubblicità di solito mentono. Capì di non doversi fidare della televisione (in quanto, per ragioni edipiche, faceva di tutto per fidarsi di me). Due giorni più tardi stava guardando le notizie, che la informavano del fatto che sarebbe stato imprudente guidare lungo le autostrade del Nord per via della neve (un’informazione che soddisfò i miei più intimi desideri, dato che stavo disperatamente cercando di restare a casa per il fine settimana). Al che mi fulminò con uno sguardo sospettoso, chiedendomi come mai mi fidassi della tv visto che due giorni prima le avevo detto che raccontava bugie. Mi trovai costretto ad avviare una dissertazione molto complessa di logica estensionale, pragmatica dei linguaggi naturali e teoria dei generi allo scopo di convincerla che ogni tanto la televisione mente e ogni tanto dice il vero. Per esempio, un libro che comincia con “C’era una volta una bambina chiamata Cappuccetto Rosso e così via...” non dice il vero quando sulla sua prima pagina attribuisce la storia della bambina a un signore di nome Perrault. Solo lo psichiatra al quale mia figlia probabilmente si rivolgerà una volta arrivata all’età della ragione sarà in grado, direi, di constatare i danni consistenti che il mio intervento pedagogico ha provocato alla sua mente o al suo inconscio. Ma questa è un’altra storia. Il fatto, che ho scoperto proprio in quell’occasione, è che se si vuole usare la televisione per insegnare qualcosa a qualcuno bisogna prima insegnare come si usa la televisione. In questo senso, la televisione non è diversa da un libro. Si possono usare i libri per insegnare, ma per prima cosa bisogna spiegare come funzionano, almeno l’alfabeto e le parole, poi i livelli di credibilità, la sospensione dell’incredulità, la differenza tra un romanzo e un libro di storia e via dicendo. [...] Credo che i problemi legati all’uso educativo della televisione siano gli stessi di quelli legati ai suoi supposti effetti perversi. Può essere che la televisione, così come gli altri media, corrompa gli innocenti, ma lo fa indubbiamente in un modo non previsto da molti educatori (o da molti corruttori). Supponiamo che un marziano cerchi di estrapolare l’impatto della televisione sulla prima generazione cresciuta sotto la sua influenza (persone che hanno cominciato a guardarla all’età, poniamo, di tre anni nei primi anni cinquanta), quindi il nostro marziano potrebbe cominciare analizzando il contenuto dei programmi televisivi degli anni Cinquanta. Nutrita a forza di programmi come The $64,000 Question, soap opera, sceneggiati in stile Mary Walcott, pubblicità della Coca-Cola e film con John Wayne sulla seconda guerra mondiale, è probabile che quella generazione sia arrivata al 1968 con un buon posto di lavoro in banca, taglio militare e colletto bianco, una solida fede nell’ordine costituito e l’intenzione di sposarsi virtuosamente con la ragazza o il ragazzo della porta accanto. E invece, se non ricordo male quell’evento preistorico, nel 1968 è successo che questa “generazione televisiva” non ha cercato di ammazzare i giapponesi bensì i professori universitari, fumava la marijuana invece delle Marlboro, praticava lo yoga, la meditazione trascendentale, mangiava macrobiotico e così via. Lasciatemi aggiungere che quando la televisione propose capelloni che fumavano marijuana e mettevano fiori nelle canne dei fucili come nuovo modello per uno stile di vita “giovane”, la generazione successiva si tagliò i capelli, iniziò a usare le armi e a preparare bombe. Questo ci suggerisce che i giovani leggono la televisione in maniera diversa da chi la fa. Non credo che accada a caso: credo ci siano delle regole che governano lo spazio vuoto tra l’emissione e la ricezione di un programma televisivo. Bisogna conoscerle e bisogna soprattutto cercare di insegnarle, in particolare ai giovani. […] I sociologi che studiarono i mass media negli anni Quaranta e Cinquanta conoscevano già molto bene fenomeni come l’effetto boomerang, l’influenza degli opinion leader e la necessità di rafforzare il messaggio mediante una verifica porta a porta. Sapevano che tra il punto d’invio e quello di ricezione vi sono molti filtri attivati da schermi psicologici e sociali, o culturali. I primi test dopo l’arrivo della televisione nelle aree suburbane e depresse dell’Italia dimostrarono che moltissime persone guardavano i programmi serali come un continuum, senza alcun discrimine tra show, telegiornali o drammi. Tutto veniva preso allo stesso livello di credibilità, un assoluto guazzabuglio di competenza di genere. Per anni e anni, le aziende televisive hanno fatto affidamento su diversi tipi di indici di gradimento e si sono accontentate di sapere quante persone apprezzavano un determinato programma (un’informazione senza dubbio importante da un punto di vista commerciale) seppur ignorando quel che il pubblico realmente capiva del programma stesso. Detto questo, il gap comunicativo descritto poc’anzi è molto più complesso. Dobbiamo considerare non solo le differenze di codice fra mittente e destinatario, ma anche la varietà di codici che distinguono certi gruppi di destinatari da altri, in base al loro status sociale e alle loro propensioni ideologiche. E dovremmo considerare, anche da un punto di vista così flessibile, che il quadro resta incompleto dato che dovremmo anche tener conto del fatto che un dato soggetto appartiene a gruppi diversi a seconda del programma e dell’orario. Intendo dire che la persona X può valere come un lavoratore sensibile alla politica (quindi dotato di competenze economiche e politiche) quando guarda il telegiornale. Però la stessa persona X può sposare le predilezioni di un filisteo borghese quando guarda uno sceneggiato, tenendo in disparte le sue sensibilità in tema di ruoli sessuali, liberazione femminile o lotta di classe, anche se è capace di risvegliarle quando il televisore parla di salari, scioperi o diritti umani. Dovremmo essere consapevoli del fatto che lo stesso fenomeno accade ai bambini. I bambini possono essere estremamente sensibili ai valori ecologici quando la televisione stuzzica la loro competenza spontanea, già acquisita, circa il rispetto per gli animali, mediante una trasmissione sulla fauna selvatica. Ma lo stesso bambino, davanti a un western, parteciperà all’eccitazione del cowboy che parte al galoppo inseguendo i fuorilegge senza soffrire per il tour de force del cavallo, sfruttato senza pietà. Possiamo dire che anche in questo caso stiamo assistendo a una differenza tra codici? Possiamo dire che a seconda della situazione e dell’attivazione di una competenza di genere la stessa persona reagisce in base a codici culturali differenti? Dipende dal nostro accordo sulla nozione di codice culturale. [...]. Ma che succede al bambino che guarda il film western e, una volta accettate, le sue regole di genere non attivano la competenza sullo sfruttamento animale? Non riesco a immaginarmi lo stop del film con un presentatore che appare e dice “Fa’ attenzione al comportamento non etico dell’eroe”. O meglio, posso immaginarmi una situazione simile ma non nei termini di un intervento grammaticale, come nel caso della “metempsicosi”. Si tratterebbe piuttosto di una procedura di decontestualizzazione e decostruzione. [...] La televisione educativa ha avuto molti meriti. Un programma come Sesame Street ha insegnato a milioni di giovani americani che l’inglese della comunità nera è una lingua in tutto e per tutto, capace di esprimere gioia, arguzia, compassione, concetti. Ma mi piacerebbe vedere un programma che spieghi agli insegnanti come usare, ad esempio, il Johnny Carson Show al fine di prevedere cosa dirà a un giovane portoricano, a un giovane nero, a un giovane bianco protestante. Forse ciascuno di essi vede qualcosa di diverso in quel programma. Nessuna di queste interpretazioni è, in sé, un caso “aberrante”. La vera aberrazione è che tutti questi ragazzi non si rendono conto che il programma è lo stesso ma le interpretazioni variano. Ogni interpretazione riflette un diverso mondo culturale con codici differenti. [...]. Fino a che punto una formazione specifica nell’ambito delle arti visive consente di individuare meglio riferimenti visivi che (a loro volta) sono indispensabili per capire determinate situazioni narrative? Prendiamo i sottocodici estetici: ci sono differenti modelli di bellezza per il corpo umano così come in termini di arredamento, case e automobili, a seconda della tradizione nazionale, dell’adesione a una classe, di un’eccessiva esposizione televisiva ad altri modelli e così via. È importante mostrare che un dato programma fa uso di stereotipi, ma è anche importante vedere se questi stereotipi hanno lo stesso effetto su ciascun bambino della classe. […] Un’educazione criticamente orientata deve riconoscere il fatto che la televisione esiste e che è la principale fonte formativa per adulti e ragazzi. Ma un’educazione criticamente orientata deve far sì che gli insegnanti usino la televisione lorda come una fetta di mondo proprio come usano il tempo atmosferico, le stagioni, i fiori, il paesaggio per parlare dei fenomeni naturali. A questo punto la mia proposta per una televisione educativa riguarda, credo, non solo i bambini ma anche la formazione permanente degli adulti. Appena due giorni fa il primo ministro tedesco Schmidt ha scritto un lungo articolo sulla Zeit per manifestare la propria preoccupazione circa la tv, che assorbe gran parte del tempo libero dei suoi connazionali bloccando qualsiasi possibilità d’interazione faccia a faccia, soprattutto nelle famiglie. Schmidt ha quindi proposto che ciascuna famiglia decida di dedicare un giorno al rito di tenere il televisore spento. Un giorno a settimana senza televisione. Forse i tedeschi saranno così obbedienti da accettare la proposta. Spero solo che non lo facciano proprio nel momento in cui il governo sta promulgando una nuova legge! Comunque, se fossi nei panni di Schmidt, la mia proposta sarebbe diversa. Direi così: amici, connazionali, tedeschi (ma la proposta vale anche per gli inglesi), un giorno a settimana incontriamoci con altre persone e guardiamo la televisione in maniera critica tutti assieme, confrontando le nostre reazioni e parlando faccia a faccia di quello che ci ha insegnato o ha fatto finta di insegnarci. Non spegnete la televisione: accendete la vostra libertà critica.
Quella carovana di migranti che entusiasma il politically correct, scrive il 28 ottobre 2018 Michele Crudelini su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. In poche settimane è già diventata il simbolo dell’ala progressista americana e occidentale. L’hanno soprannominata “carovana dei migranti”, volendole così conferire un carattere innocuo e pittoresco. Una semplice carovana, al pari di quelle organizzate in occasione di alcune festività, è un qualcosa di pacifico e non potrebbe dunque rappresentare una minaccia. Come di consueto, la narrativa mainstream, con l’aiuto di una terminologia iperbolica e fotografie tatticamente estrapolate da contesti specifici, è riuscita a creare un “mito” nell’immaginario collettivo che, tuttavia, poco si avvicina a quella che è la realtà dei fatti.
Quanti sono davvero i migranti della carovana? Proviamo ad andare con ordine. All’inizio della scorsa settimana è iniziata a circolare la notizia, con foto annesse, che un nutrito gruppo di persone si sarebbero messe in marcia dall’Honduras con l’obiettivo di oltrepassare le frontiere di Guatemala e Messico per arrivare infine negli Stati Uniti. Il gruppo, beneficiando della possibilità di poter oltrepassare il confine guatemalteco solamente con il proprio passaporto, è arrivato dunque al confine con il Messico è lì si trova tuttora bloccato. Bene, partendo da questa ricostruzione, appositamente stringata e ridotta all’osso proprio perché si tratta degli unici eventi di cui si ha la certezza, proviamo a capire cosa è stato detto a sproposito e quelle che possono essere le interpretazioni di questo fenomeno. Innanzitutto i numeri. Non si riescono a trovare, infatti, due articoli di giornale che riportano lo stesso numero circa i partecipanti alla carovana. Secondo Rai News sarebbero attualmente 2mila, anche se non viene specificato quale fosse il numero iniziale. Stime decisamente più larghe arrivano invece da Askanews, dove si parla di 4mila persone. Molto più ridotta invece la stima del The Post International, secondo cui la carovana sarebbe composta da sole 1.600 persone.
Tutte le contraddizioni dei media sulla carovana. Non sono solo i numeri a creare confusione in questa vicenda. Anche lo stesso evolversi degli eventi non viene descritto in maniera chiara. Per esempio, sempre su Rai News, si può leggere così “migliaia di migranti dell’Honduras, di El Salvador e del Guatemala, componenti la carovana che marcia verso gli Usa, hanno sfondato, provenendo dal Guatemala, i cancelli e le reti di protezione della frontiera del Messico. Sono entrati nel territorio messicano e stanno avanzando verso gli Stati Uniti”, preludendo così ad un’avanzata senza intoppi. Nello stesso articolo viene però scritto che “molti altri sono bloccati sul ponte di confine tra Messico e Guatemala, dove si sono uniti ad altri manifestanti locali”, e nella foto pubblicata sono visibili alcune migliaia di persone proprio sul ponte. Se la maggior parte della carovana è bloccata sul ponte, chi ha sfondato la barriera con il Messico? Alla domanda prova a rispondere il Corriere della Sera, pur lasciando alcuni dubbi. Inizialmente afferma che “migliaia di migranti dell’Honduras hanno sfondato dal Guatemala i cancelli e le reti di divisione alla frontiera con il Messico a Tecun Uman”, per poi, quasi contraddirsi, poche righe più sotto, dove si afferma che in realtà “un primo gruppo di circa 30 persone ha attraversato il confine venerdì mattina e sono stati fermati dagli agenti del confine messicano che studieranno le loro domande di asilo o di visto”.
Chi è il vero organizzatore della carovana di migranti. Nel frattempo, quel che è certo, è che il Messico ha schierato alcune unità del proprio esercito lungo quel confine, proprio per evitare che alcuni impavidi migranti si avventurino attraverso il fiume per oltrepassare la frontiera. Difficile credere che poche migliaia di persone (numeri modesti anche per un corteo cittadino) abbiano vinto la resistenza della nutrita polizia messicana schierata al confine. Passando invece alle interpretazioni del fenomeno c’è, ovviamente, qualcosa di più profondo rispetto alla narrativa dominante che la carovana come un gruppo di persone alla ricerca di una nuova vita, in marcia proprio contro il Presidente dei “muri” e dei “confini”. I primi dubbi iniziano a sorgere quando si legge che dietro alla “carovana” ci sono alcuni organizzatori e tra questi risulta esserci tale Bartolo Fuentes. Si tratta di un ex politico honduregno legato al partito Libertad y Refundación che è attualmente all’opposizione nel Paese. Il governo honduregno sostiene che Bartolo Fuentes abbia “utilizzato le persone con finalità eminentemente politiche e persino criminali”. Inoltre non sarebbe la prima volta che lo stesso Fuentes viene riconosciuto come organizzatore di questi movimenti migratori, ruolo da lui stesso ammesso. Quest’ultimo però si difende sostenendo che queste persone stiano davvero scappando da una situazione di estrema crisi economica che colpisce l’Honduras.
L’Honduras è in una fase di crescita economica. Su questo punto sembrerebbe non esserci nulla da obiettare, sennonché il quadro macroeconomico dell’Honduras ci dà in realtà uno scenario ben diverso. Secondo la piattaforma Focus Economics, leader nella raccolta di statistiche economiche nei Paesi del mondo, “l’economia honduregna ha avuto una accelerazione nel secondo quadrimestre grazie ad una robusta domanda interna e i consumi privati sono molto aumentati”. Inoltre viene riportato come il reddito pro capite sia aumentato progressivamente dal 2013 al 2017 e il tasso di crescita del Pil sia passato dal 2.8% del 2013 fino ad arrivare ad un 4.8% nel 2017. Lo stesso tasso di disoccupazione è sceso dal 6.3% del 2016 al 5.9% del 2017. Certo, rimangono problemi legati alla criminalità organizzata e ad una sperequazione costante tra le campagne e i centri urbani. Tuttavia l’economia del Paese è in una fase di crescita e non sta attraversando una crisi tale da scatenare un esodo, come paventato da Bartolo Fuentes. Molto più probabile è che questa carovana rappresenti un’arma politica dell’opposizione honduregna volta a indebolire il Governo attraverso, in particolare, l’interruzione degli aiuti americani, ipotesi che è stata per l’appunto paventata da Donald Trump.
Perché la “carovana” umanitaria in Centroamerica fa male alla causa dei migranti. Duemila persone partite dall'Honduras chiedono di entrare negli Stati Uniti. Trump ha trasformato la questione in un tema elettorale potente, scrive Maurizio Stefanini il 18 Ottobre 2018 su "Il Foglio". Negli ultimi giorni, circa 2.000 persone partite dall'Honduras, nell'America centrale, stanno marciando verso nord in una “carovana” con l'obiettivo dichiarato di immigrare negli Stati Uniti. Queste “carovane” sono un fenomeno tipico latinoamericano (ce ne fu una anche a marzo, che si disperse in Messico), e sono più marce di protesta che veri movimenti migratori. Tuttavia, la loro presenza crea un panico sconsiderato tra i media statunitensi: duemila latinos sono pronti all'invasione! Questo panico è spesso strumentalizzato in chiave politica, e in periodo di mid-term questo movimento nato con intenti tutto sommato umanitari sta ottenendo l'effetto contrario: avvantaggia gli impulsi anti immigrati e spesso xenofobi dell'elettorato del presidente Donald Trump, che non a caso negli ultimi giorni ha fatto della “carovana” un tema di politica nazionale. Le duemila persone sono partite da San Pedro Sula, in Honduras, venerdì 12 ottobre: il giorno della scoperta dell'America. Erano all'inizio 160, ma presto le loro fila si sono ingrossate. “In Honduras non c'è lavoro e non c'è sicurezza”, la semplicissima motivazione. “Abbiamo fede che Dio ci aiuterà come quando aiutò il popolo di Israele a uscire dall'Egitto scampando al Faraone”, ha scritto su Facebook un simpatizzante dell'iniziativa. E un altro: “Geova guida e protegge Bartolo Fuentes così come fece con Mosè per liberare il suo popolo”. Bartolo Fuentes è il leader dell'iniziativa. Giornalista, fu da 2013 al 2017 deputato in Honduras con il partito di Manuel Zelaya: il presidente liberale che durante il suo mandato si trasformò in un simpatizzante di Chávez. Come humus ideologico, siamo dalle parti del classico populismo di sinistra latino-americano. Ma un populismo che in centroamerica da una parte si ormai solidamente innervato col linguaggio e l'immaginario delle sette evangeliche. Lunedì 15 ottobre i migranti hanno passato il confine col Guatemala, puntando verso il Messico e il confine con gli Stati Uniti. Martedì 16 Trump ha iniziato a preoccuparsi al punto da minacciare di tagliare gli aiuti all'Honduras se non avesse fermato la fiumana. Il vicepresidente Mike Pence ha fatto sapere di aver chiamato direttamente i presidenti Juan Orlando Hernández dell'Honduras e Jimmy Morales del Guatemala. Il Guatemala ha risposto arrestando Fuentes e rispedendolo in patria. Ma i suoi seguaci hanno continuato la marcia. Secondo quanto aveva spiegato lunedì Fuentes alla Cnn, l'intenzione dei marciatori era quella di chiedere al Messico dei “visti umanitari”. L'ambasciata americana in Honduras ha avvertito sui rischi del viaggio e ha preannunciato che gli Stati Uniti avrebbero fatto valere le proprie leggi sull'immigrazione. Cioè, che i migranti sarebbero stato respinti in blocco al confine. Il governo del Messico ha a sua volta avvertito che fermerà coloro che non hanno i documenti in regola, il che però vuol dire che chi li ha potrà entrare indisturbato: stessa posizione già presa dal governo del Guatemala. Cogliendo al balzo l'occasione, mercoledì 17 Trump è tornato sul tema: “E' difficile credere che, con migliaia di persone che stanno camminando senza ostacoli verso la frontiera sud, organizzati in grandi carovane, i democratici non vogliano approvare una legislazione che permetta leggi per la protezione del nostro paese. Questo è un grande tema di campagna elettorale per i repubblicani!”. Oggi (18 ottobre ndr) il presidente è tornato sulla questione e ha accusato il Partito democratico di “guidare l'assalto al nostro paese dal Guatemala, dall'Honduras e da El Salvador (perché loro vogliono frontiere aperte e vogliono mantenere le deboli leggi in vigore)”, ha detto che tra i migranti ci sono “MOLTI CRIMINALI” e ha aggiunto: “Oltre a bloccare gli aiuti a questi paesi, che sembrano non aver praticamente alcun controllo sulla loro popolazione, devo chiedere con estrema forza al Messico di bloccare questo assalto”, e se il Messico non sarà in grado di farlo Trump chiamerà l'esercito. Infine l'ultima minaccia: difendere i confini americani è più importante dell'accordo di libero scambio con Messico e Canada appena ratificato – come a dire: sono pronto a stralciare tutto. Sono tutte minacce vuote e strumentali, anche perché, come già successo a marzo, con ogni probabilità i migranti hondureñi si disperderanno da qualche parte in territorio messicano – ma non prima di far ottenere a Trump qualche vittoria retorica e perfino elettorale sul tema dell'immigrazione. La marcia dei migranti avrà effetti diametralmente contrari a quelli sperati dai suoi organizzatori.
Sono di sinistra ma non voglio gli africani. Lettera del 28 ottobre 2018 su "L'Espresso". "Cara Rossini, sono una persona di sinistra che ha votato per il Pci, Pds, Ds, Ulivo, Pd e il 4 marzo avrei votato Leu. Ma qualche giorno prima Grasso dice in Tv: "Siamo il partito dell'accoglienza!". Ho cambiato idea. Vorrei chiedere ai sigg. dell'accoglienza quanti ne dobbiamo accogliere: 1 milione, 10 milioni, 20 milioni? Perchè non lo dicono? Penso che se non si fermano non si fermeranno mai. Li salviamo in mare? Ma vanno riportati da dove vengono. Perchè Salvini ha raddoppiato i voti? Leu, invece, che prima del 4 Marzo era dato a molto di più del 6 % é sceso dopo al 3 %. Chissà se molti mi hanno imitato. Posso essere in disaccordo su questo argomento? Si parla di "migranti" quando dovrebbero chiamarsi "pretenziosi fuggitivi" che imbarcano su precari gommoni anche donne incinte e bambini per impietosire chi li salva. Li chiamerei anche sciagurati. Sono quasi tutti giovanotti con le spalle così che alla domanda (ne ho fatte tante sulla via Tiburtina) perchè sei venuto qui? Rispondono: per trovare una casa e un lavoro. Alla faccia! In Italia abbiamo migliaia di giovani laureati e non, senza lavoro e senza casa. Credo che tutti quelli che parlano di accoglienza, umanità, solidarietà, ecc. lo facciano solo per compiacimento personale come a dire: "vedete come sono buono e come sono bravo?". Oppure per interesse personale. Non possiamo fare da balia a un continente. Una riflessione che ritengo realistica è che se non si fermano non si fermeranno più. Fino ad avere un'Italia colorata in nero. Non sono razzista. Il razzismo non c'entra niente. Anzi viene usato a sproposito perchè il razzismo è ritenere una razza o un popolo superiore agli altri (Hitler, Mussolini). Discendiamo tutti da chi lasciò le orme a Laetoli. Mi vien da dire che è razzista ci lo dice agli altri. Si tratta di non volere flussi di altri popoli, che non sono ineluttabili, a casa nostra. La destra, che aborro, semplicemente non accetta, con diritto, pretenziosi fuggitivi. TV e giornali ripetono come litanie: "Gli africani trasportati qui sono doni di Dio, risorse, fuggono da guerre e fame, ci pagheranno le pensioni" et similia. Ha scritto su un noto bimestrale Carlo Lauletta, magistrato a riposo, che per destabilizzare l'Europa e al tempo stesso sottrarre all'Africa fresche energie e frenarne così lo sviluppo si è trovato un metodo infallibile: trasferire in Europa quanta più possibile popolazione africana. Donde: indebolimento delle strutture territoriali, guerra tra poveri, conflittualità permanente, disfunzionamento dei pubblici servizi fino al collasso dello Stato sociale. Questa è la posta in gioco. Ha detto Wolfgang Schaeubler giorni fa: "L'Europa attira persone da tutto il mondo". Che cosa ne vogliamo fare, una scatola di sardine?. Marcello Fagioli - Roma.
Il signor Fagioli ha affidato alla tastiera, e poi a noi, pensieri che da qualche tempo vengono in mente a molte persone di sinistra. E' una riflessione importante e sincera. Coloro che qui la vorranno commentare sono pregati di tenerne conto, evitando faziosità in un senso o nell'altro.
LA FINE DELLA DIVERSITA' MORALE. I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN...LA REPUBBLICA.
Repubblica contro Travaglio a colpi d’editoriale, scrive Giulia Merlo il 12 Agosto 2018 su Il Dubbio. Negli ultimi giorni è andato in scena, dalle pagine di Repubblica e del Fatto Quotidiano, uno scontro a tutto campo sul modo di fare giornalismo. Non è la prima e, ad azzardare dai toni, non sarà l’ultima. Rissa forse è il termine sbagliato, ma i decibel d’inchiostro sono quelli di uno scontro che vede contrapposte non solo due testate – il Fatto Quotidiano e Repubblica – e due giornalisti Marco Travaglio e Carlo Bonini ma due modi di fare giornalismo. Il caso scatenante, in questo agosto tutto sommato ancora tranquillo, sono una serie di notizie di cui mancano i tasselli necessari a metterle in relazione, ma che avrebbero potuto gonfiarsi fino a diventare uno scandalo: la fabbrica di fake news di San Pietroburgo; il fatto che dei 3 milioni di tweet “troll” prodotti in Russia circa 18mila fossero in lingua italiana; il tweetstorm della notte del 27 maggio contro il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo il veto sul nome di Savona al ministero dell’Economia, su cui la procura di Roma apre un’indagine. Travaglio, nel suo editoriale di giovedì, contesta a Repubblica e ai «giornaloni» di fabbricare «complotti un tanto al chilo», perchè avrebbero messo in relazione il tweetbombing contro Mattarella (attaccato dai sostenitori del governo gialloverde) con i troll russi, senza poi «chiedere scusa per tutte le balle raccontate» quando la Polizia Postale ha stabilito che non c’erano prove di un collegamento. La sintesi è la seguente: i giornali dell’establishment e l’establishment scalzato da Lega e 5 Stelle non sono in grado di giustificare la loro perdita di presa sull’elettorato e sui lettori, se non inventando «un complotto dei russi a suon di fake news». E poi ancora, Travaglio ironizza sul fatto che Repubblica, non paga del «boomerang» russo, scelga di pubblicare una serie di inchieste sul modo di utilizzare la rete da parte del Movimento 5 Stelle e dei suoi sostenitori. Anche in questo caso, le notizie non sarebbero di alcun interesse ma solo frutto di una teoria della cospirazione che è parte della campagna liberticida contro il web, condotta da Repubblica per ossequiare i poteri forti. All’attacco, duro e limato con la retorica irridente che è il marchio di fabbrica di Travaglio, risponde altrettanto duramente Carlo Bonini, editorialista di Repubblica. Il pezzo, a scanso di equivoci, si intitola “Il metodo Travaglio” e già rimanda ad un altro scontro tra giornalisti diventato celebre. La locuzione, infatti, è stata coniata da Giuseppe D’Avanzo – il giornalista di Repubblica scomparso nel 2011 e autore di inchieste a quattro mani con Bonini – che con questa intendeva «una pratica giornalistica che, con “fatti” ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/ spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. È un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target ( gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra)». Ecco, secondo Bonini, Travaglio «folgorato dai 5 Stelle della Casaleggio Associati» utilizza il solito metodo per attaccare Repubblica, mistificando i fatti e «mescolando titoli e ritagli di giornali diversi» in una «manipolazione necessaria al sabba di pernacchie» che trascura il merito di fatti (le campagne condotte dai produttori di fake news) di stanno discutendo «l’intero Occidente e gli stessi giganti della rete». Una querelle che nel merito risulta anche quasi scontata, nel suo essere figlia delle due diverse e opposte idee culturali (e politiche) che animano le testate. Più interessante, invece, è ricordare l’origine di quel “metodo Travaglio” stigmatizzato da D’Avanzo, in quello che, dieci anni fa, fu a tutti gli effetti il più aspro scontro tra i due mostri sacri dell’inchiesta giudiziaria italiana e la dimostrazione in chiaroscuro di come esistano due grandi fazioni anche tra le fonti che a loro si riferiscono nei palazzi di Giustizia della Penisola. In quel caso, l’origine dello scontro fu l’invettiva di Travaglio contro l’allora presidente del Senato, Renato Schifani, cui contestava «amicizie mafiose» per stigmatizzare la decadenza dell’attuale classe politica. È allora che D’Avanzo teorizza il “metodo Travaglio” e si esercita ad usarlo contro il suo inventore: cita, infatti, un’indagine della procura di Palermo farcita di intercettazioni, da cui risulta che Travaglio sia stato in vacanza in Sicilia con Giuseppe Ciuro, sottufficiale di Polizia Giudiziaria. A pagare l’albergo al giornalista sarebbe stato Michele Aiello, impresario della sanità siciliana, ed entrambi – sia Aiello che Ciuro – sono stati condannati per reati di mafia. Morale: «Anche Travaglio può essere travolto dal metodo Travaglio». Seguirono settimane di botte e risposta: Travaglio smentì non le vacanze con Ciuro ma il fatto che gli fossero state regalate, pubblicando assegni ed estratti conto di carta di credito del 2002; D’Avanzo rispose che Travaglio ammetteva dunque di aver trascorso le ferie con il «“criminale” Giuseppe Ciuro» anche nel 2003 e che di quel soggiorno avrebbe dovuto trovare i cedolini.
Dopo un decennio i toni non sono cambiati e non sono cambiate nemmeno le fazioni, ognuna col suo “metodo”. Scalfari nel mirino di Travaglio che punta ai lettori di sinistra di Repubblica, scrive Francesco Damato il 25 Novembre 2017 su Il Dubbio. Da un po’ di tempo non gliene va bene una al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Accade sempre più di frequente che le buste gialle delle Procure, come le chiama Piero Sansonetti, raggiungano la concorrenza, costringendo Travaglio ad elogiare gli scoppisti di turno. L’ultimo buco giudiziario l’ha rimediato dal Corriere della Serasulla vicenda di una collaboratrice del ministro dell’Economia accusata di passare notizie riservate ad una società della quale era stata dipendente continuando a percepire un compenso anche dopo essere passata alla pubblica amministrazione. Poi è arrivato il corteggiamento degli scissionisti del Pd come leader dello schieramento elettorale antirenziano di sinistra al presidente del Senato Pietro Grasso. Al quale Travaglio non ha mai perdonato di avere vinto il concorso, a suo tempo, al vertice della Procura nazionale antimafia grazie ad una legge dell’allora governo Berlusconi che aveva escluso dalla corsa lo sgradito Giancarlo Caselli. Piuttosto che vincere in quel modo, Grasso avrebbe dovuto rinunciare alla nomina, secondo il direttore del Fatto Quotidiano. Ed evitare poi di apprezzare il contributo dato da alcune iniziative dello stesso governo Berlusconi alla lotta alla mafia, mentre c’erano pubblici ministeri che sospettavano ancora, come anche oggi, lo zampino degli uomini di Arcore e dintorni addirittura nelle stragi mafiose che accompagnarono la fine giudiziaria e politica della cosiddetta e odiata prima Repubblica. Poi ancora sono arrivate le cronache dalla Corte europea dei diritti umani sulle crescenti possibilità di Berlusconi – sempre lui – di vincere il ricorso contro la sua decadenza da senatore, quattro anni fa, e la relativa ineleggibilità con l’applicazione retroattiva di una legge quasi fresca di approvazione. E già tanto controversa da indurre anche l’ex presidente della Camera Luciano Violante a consigliarne il rinvio alla Corte Costituzionale. Per giunta, la decadenza fu deliberata al Senato con votazione innovativamente palese, voluta e annunciata nell’aula di Palazzo Madama dal presidente Grasso col conforto di un improvvisato e stentatissimo parere della commissione competente. Come se non bastasse tutto questo, è arrivata sul Fatto la tegola di Eugenio Scalfari che in televisione annuncia di preferire nelle urne e dintorni il vecchio nemico Berlusconi – sì, proprio lui – al candidato grillino a Palazzo Chigi Luigi Di Maio. Be’, a questo il povero Travaglio non ha retto. E si è a suo modo vendicato improvvisando in prima pagina un invasivo montaggio fotografico titolato Berluscalfari. E liquidando come un tradimento delle origini la nuova veste grafica, oltre che politica, della Repubblica di carta fondata da Scalfari nel 1976 e da lui stesso diretta per i primi vent’anni. Poiché non bastava evidentemente il fotomontaggio, Travaglio si è speso in un lungo editoriale contro Barpapi, variante berlusconiana dell’affettuoso soprannome di Scalfari nelle redazioni da lui dirette: Barpapà. Una variante perfida perché ispirata al soprannome papy assegnato all’allora presidente del Consiglio da una diciottenne al cui compleanno lui era corso procurandosi un’infinità di sospetti, pettegolezzi e quant’altro su cui il compianto Giuseppe D’Avanzo aveva imbastito per la Repubblicadi vecchia maniera un processo mediatico contro Berlusconi ruotante attorno a dieci domande. E dieci sono state volutamente le volte in cui Travaglio ha commentato con la parolaccia ‘stracazzi’ la svolta filoberlusconiana attribuita a Scalfari. Mentre Travaglio già si godeva lo spettacolo di una sostanziale retromarcia del fondatore di Repubblica, anticipata dal condirettore Tommaso Cerno a Corrado Formigli, di Piazza pulita, gli è caduto addosso come un’altra tegola il testo dell’intervento correttivo di Scalfari. Che per i gusti del Fatto Quotidiano è stato persino peggiore, perché si è tradotto in un endorsement del Pd, che Scalfari ha annunciato di voler votare anche la prossima volta, sperando però che poi Renzi e Berlusconi si mettano d’accordo in funzione anti grillina, vista ormai la impraticabilità di una ricomposizione del centrosinistra comprensivo degli scissionisti Bersani, D’Alema e compagnia varia. D’altronde il fondatore di Repubblica era già finito nella gabbia metaforica degli imputati custodita dal Fatto per i suoi confessati rapporti di amicizia e quasi di scuola, fatti di incontri, telefonate, consigli e quasi compiti a casa con l’odiato Matteo Renzi, prima e dopo il referendum dell’anno scorso sulla riforma costituzionale. Che Scalfari votò e difese, per quanto inutilmente, dalle critiche anche di un vecchio amico e prestigioso collaboratore di Repubblica come Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale. Ora la sorveglianza, diciamo così, del Fatto Quotidiano su Repubblica sarà prevedibilmente più stretta e fastidiosa. L’ambizione neppure tanto nascosta di Travaglio, e del suo predecessore Antonio Padellaro, entrambi provenienti da un’esperienza difficile all’Unità, è di poter sottrarre alla ‘ nuova’ Repubblica i lettori della sinistra al cubo, da altri definita radicale senza rispetto per il compianto Marco Pannella, insoddisfatti del berlusconrenzismo attribuitole da Travaglio col piglio di un pubblico ministero. Sarebbe una parabola al rovescio della vecchia o primaRepubblica, che irruppe nelle edicole più di 41 anni fa danneggiando due giornali orgogliosamente di sinistra come l’Unità e Paese sera, dalle cui redazioni Scalfari aveva prelevato eccellenti professionisti. Ma erano altri tempi. E ben altri erano i protagonisti mediatici e politici.
Odifreddi smonta le bufale di Scalfari. E Repubblica lo silura. Il matematico che ha smontato le bufale di Scalfari sull'incontro con Papa Francesco: "Calabresi doveva scegliere tra me e lui. Era ovvio che scegliesse il fondatore", scrive Chiara Sarra, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Alla fine Piergiorgio Odifreddi ha pagato caro l'articolo sul suo blog in cui smontava una ad una le "fake news" di Eugenio Scalfari sull'incontro con Papa Francesco. Il matematico che da 18 anni collabora con Repubblica è infatti stato silurato dal quotidiano fondato proprio da Scalfari. "Dopo il post su Scalfari di ieri il direttore Calabresi, com'era non solo suo diritto, ma forse anche suo dovere, mi ha comunicato che la mia collaborazione a Repubblica termina qui", scrive oggi Odifreddi nel suo commiato. In cui ricorda i precedenti "problemi di coabitazione" con il gruppo e si richiama alla "funzione sociale dell'intellettuale" che secondo Moravia "è di essere antisociale": "È forse dunque una mia colpa sociale, l'aver sempre cercato di dire ciò che pensavo, anche quando sarebbe stato più comodo o più utile (e a volte, forse, anche più corretto o più giusto) tacere", scrive ancora, "Ma ciascuno di noi è fatto a modo suo, e io sono fatto così. Dunque, un grazie a tutti, e a risentirci magari altrove". Poi, a Un giorno da Pecora su Rai Radio 1, Odifreddi ha spiegato che l'articolo in questione è stato pubblicato nel giorno dedicato al "fact checking", il controllo delle notizie. "In tal senso, Scalfari è recidivo", attacca ancora, "Lo dice il portavoce del Vaticano, che per tre volte lo ha censurato dicendo che aveva messo in bocca al Papa cose che non aveva detto. Che dica di esser andato dal Papa senza averlo fatto mi parrebbe eccessivo. Lui però fa sempre così: va a fare interviste senza prendere appunti e senza registratori, e poi dice quello che crede il suo interlocutore voglia dire. Una volta lo ha anche ammesso: io ho detto cose che il Papa non ha detto. Che affidamento si può fare in interviste di questo tipo?". E su Calabresi ha aggiunto: "È ovvio che dovendo scegliere tra me e Scalfari ha scelto il fondatore di Repubblica. Ma è il suo ruolo, io non ci sono rimasto male ed in parte me lo aspettavo". "Ciò non accade per le critiche a Scalfari, che sono lecite e fanno parte di un libero dibattito, ma per quello che hai scritto del giornale con cui collabori da anni", replica però Mario Calabresi, "Il problema è che non si può collaborare con un giornale e contemporaneamente sostenere che della verità ai giornalisti non importa nulla. Che oggi serva di più pubblicare il falso del vero. Questo è inaccettabile e intollerabile, non solo per me ma per tutti quelli che lavorano qui. Facciamo il nostro lavoro con passione e con professionalità e la gratuità delle tue parole di ieri ci ha fatto male. Tu sai di aver sempre goduto della massima libertà, ma l’unica libertà che non ci si può prendere è quella di insultare o deridere la comunità con cui si lavora. Mi aspettavo tu fossi conseguente con questa presa di posizione e ora non posso che dirti buona fortuna".
Odifreddi su Repubblica ora smonta le bufale di Scalfari su Francesco. Il matematico Giorgio Odifreddi attacca il quotidiano su Repubblica la stessa Repubblica e il suo fondatore, scrive Luca Romano, Lunedì 02/04/2018, su "Il Giornale". "Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di Papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa". A scriverlo, sul blog che tiene su Repubblica, è il matematico Giorgio Odifreddi. Che sostanzialmente attacca il quotidiano su cui scrive. Tema del contendere è l'intervista inventata a Papa Francesco e scritta da Scalfari. "Il fatto è che Scalfari - continua Odifreddi - non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre "interviste" pubblicate su Repubblica il 1 ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del Papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica". E le bordate poi continuano: "Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente “stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro” (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste. Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, “alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette”. Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo Repubblica". Odifreddi poi prende di mira anche il giornale: "Rimane il secondo problema, che è perché mai Repubblica non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale".
E "Repubblica" denuncia le fake news di Scalfari. Odifreddi smaschera il fondatore sul suo stesso quotidiano: "Scrive bufale su Papa Francesco", scrive Stefano Zurlo, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Repubblica contro Repubblica. Piergiorgio Odifreddi versus Eugenio Scalfari. Parole durissime in un cortocircuito mediatico stupefacente che chiama in causa, nientemeno, papa Francesco. Come si sa, il fondatore di Repubblica ha il privilegio di un rapporto a tu per tu con Bergoglio. E viene invitato con una certa regolarità a Santa Marta, la residenza di Francesco. Il problema è che ogni volta il giornalista trasforma questi colloqui privati in interviste pubbliche. Confezionate senza prendere un appunto, senza registrare, senza rimandare il testo, non concordato, all'autore. Cosi Scalfari in versione pasquale è arrivato ad attribuire a Bergoglio una fake news, come la chiama, impietoso, Odifreddi, senza capo né coda: l'inferno non esiste, le anime dei dannati svaniscono. Odifreddi, matematico, divulgatore scientifico e firma di Repubblica, colpisce con asprezza il creatore del quotidiano, innescando un duello surreale, tutto interno al giornale. «Vale la pena soffermarsi - nota dunque Odifreddi - su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l'ultima solo pochi giorni fa». Di che si tratta? C'è solo l'imbarazzo della scelta, a quanto si può vedere. Il punto è che il canovaccio si ripete: «Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neoeletto Francesco nell'inesistente stanza accanto a quella con il balcone che da su piazza San Pietro (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti) all'ultima novità che secondo il papa l'inferno non esiste». Affermazione che obiettivamente farebbe a pezzi duemila anni di cristianesimo, anche se un teologo grandissimo come Hans Urs Von Balthasar ha sempre ripetuto: l'inferno c'è ma spero sia vuoto. Dispute teologiche. La questione che resta insoluta è un'altra: perché al di là delle puntuali smentite del Vaticano, Francesco non sia intervenuto per bloccare questa catena di incidenti. Odifreddi, ateo con una mentalità da cinico positivista dell'Ottocento, butta pure un po' di fango addosso a Francesco, azzardando ipotesi maliziose di strategia mediatica: Bergoglio accetterebbe lo sconquasso per ingraziarsi il secondo giornale italiano, passato da una linea laica a una posizione filovaticana. Odifreddi non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che Bergoglio ragioni da prete, da pastore e si preoccupi della persona che ha davanti, della sua anima si sarebbe detto a catechismo, del percorso problematico e accidentato cominciato da Scalfari. È quel che risulta al Giornale: i colloqui fra i due sono in realtà, monologhi, o quasi, di Scalfari. Più interessante l'altra puntura di spillo di Odifreddi: perché non sia Repubblica a bloccare le fake news del suo illustre ex direttore. «Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali - è la risposta ustionante che il commentatore si dà da solo - non interessano le verità, ma gli scoop». Se fanno il giro del mondo, anche le bufale vanno bene. E cosi il collaboratore di Repubblica toglie ogni credibilità a Repubblica.
Le “fake news” di Scalfari su papa Francesco, scrive il 2 aprile 2018 Piergiorgio Odifreddi su "La Repubblica". Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. Com’è ormai noto urbi et orbi, Scalfari ha ricevuto nel settembre 2013 una lettera dal nuovo papa. Fino a quel momento, per chi avesse seguito anche solo di lontano la cronaca argentina, Bergoglio era un conservatore medievale, che nel 2010 aveva scandalizzato il proprio paese con le proprie anacronistiche prese di posizione contro la proposta di legge sui matrimoni omosessuali, riuscendo nell’ardua (e meritoria) impresa di coalizzare contro di sé un fronte moderato che fece approvare in Argentina quella legge, ben più avanzata delle timidi disposizioni sulle unioni civili approvate nel 2016 in Italia. Dopo la sua lettera a Scalfari papa Francesco si è trasformato per lui, e di riflesso anche per Repubblica, in un progressista rivoluzionario, che costituirebbe l’unico punto di riferimento non solo religioso, ma anche politico, degli uomini di buona volontà del mondo intero, oltre che il papa più avanzato che si sia mai seduto sul trono di Pietro dopo il fondatore stesso. Fin qui tutto bene, o quasi: in fondo, chiunque ha diritto di abiurare il proprio passato di “uomo che non credeva in Dio” e diventare “l’uomo che adorava il papa”, andando a ingrossare le nutrite fila degli atei devoti, o in ginocchio, del nostro paese. Il fatto è che Scalfari non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre “interviste” pubblicate su Repubblica il 1 ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica. Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente “stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro” (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste. Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, “alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette”. Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo Repubblica. Il primo problema è perché mai il papa continui a incontrare Scalfari, che non solo diffonde pubblicamente i loro colloqui privati, ma li travisa sistematicamente attribuendogli affermazioni che, facendo scandalo, devono poi essere ufficialmente ritrattate. Sicuramente Bergoglio non è un intellettuale raffinato: l’operazione (fallita) di pochi giorni fa, di cercare di farlo passare ufficialmente per un gran pensatore, suona appunto come un’excusatio non petita al proposito, e non avrebbe avuto senso per il ben più attrezzato Ratzinger (il quale tra l’altro se n’è dissociato, con le note conseguenze). L’avventatezza di papa Francesco l’ha portato a circondarsi autolesionisticamente di una variopinta corte dei miracoli, dal cardinal Pell alla signora Chaouqui, e Scalfari è forse soltanto l’ennesimo errore di valutazione caratteriale da parte di un papa che non si è rivelato più adeguato del suo predecessore ai compiti amministrativi. Non bisogna però dimenticare che Bergoglio è comunque un gesuita, che potrebbe nascondere parecchia furbizia dietro la propria apparente banalità. In fondo, un minimo di blandizia esercitato nei confronti di un ego ipertrofico gli ha procurato e gli mantiene l’aperto supporto di uno dei due maggiori quotidiani italiani, che è passato da una posizione sostanzialmente laica a una palesemente filovaticana. Se da un lato Bergoglio può ridersela sotto i baffi dell’ingenuità di uno Scalfari, che gli propone di beatificare uno sbeffeggiatore dei gesuiti come Pascal, dall’altro lato può incassare le omelie di un Alberto Melloni, che dal 2016 ha trovato in Repubblica un pulpito dal quale appoggiare le politiche papali con ben maggior raffinatezza, anche se non con minore eccesso di entusiasmo. A little goes a long way, si direbbe nel latino moderno. Rimane il secondo problema, che è perché mai Repubblica non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale. Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali non interessano le verità, ma gli scoop: cioè, le notizie che facciano parlare la maggior parte degli altri giornalisti e degli altri giornali. E se una notizia falsa fa parlare più di una vera, allora serve più quella di questa. Dire che il papa crede all’esistenza dell’Inferno è ovviamente una notizia vera, ma sbattuta in prima pagina lascerebbe indifferenti la maggior parte dei giornalisti e dei giornali. Per questo Scalfari scrive, e Repubblica pubblica, che il papa non crede all’Inferno: perché altri giornalisti e altri giornali lo rimbalzino per l’intero mondo. Il vero problema è perché mai certe cose dovrebbero leggerle i lettori. Che infatti spesso non leggono le fake news, e a volte alla fine smettono di leggere anche il giornale intero. Forse la meditazione sul perché i giornali perdono copie potrebbe anche partite da qui, nella Giornata Mondiale del Fact Checking.
La censura viene da lontano. Censura a Repubblica: “cancellato” Odifreddi. La censura colpisce ancora: sul sito del quotidiano sparisce un post di Odifreddi. E lui ritira il suo blog, scrive Roberto Scafuri, Mercoledì 21/11/2012, su "Il Giornale". La censura colpisce ancora. Capita, sul sito di Repubblica, al professor Piergiorgio Odifreddi, colpevole di aver postato un commento abbastanza aspro sulla situazione in Medioriente, dove paragona il comportamento attuale del governo israeliano a quello dei nazisti. Il suo articolo, inserito nel blog “Il non senso della vita”, è stato inopinatamente e unilateralmente eliminato dal quotidiano on-line. Odifreddi ha deciso di ritirare il blog, argomentando che nella vita “ci sono momenti in cui, candidamente, bisogna ritirarsi a coltivare il proprio giardino”. Se finora la direzione del giornale e i curatori del sito avevano difeso il diritto di opinione senza preoccuparsi troppo delle inevitabili lagnanze – ha scritto Odifreddi – anche loro “hanno dovuto soccombere di fronte ad altre lagnanze, questa volta sicuramente in ebraico”.
Così De Benedetti rottama Scalfari e demolisce Repubblica, scrive Paolo Delgado il 19 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Lo scontro dentro il quotidiano diretto da Mario Calabresi. Anche con le migliori intenzioni è difficile evitare la sensazione di una rotta un po’ sgangherata. Ieri il cdr di Repubblica ha risposto con un comunicato durissimo alle critiche del suo stesso editore, Carlo De Benedetti, che «si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta». Poi i redattori si sono riuniti in assemblea per fronteggiare l’assalto del «nemico interno». Immancabilmente nei prossimi giorni arriverà la replica, prevedibilmente rigida, del padre fondatore strapazzato dall’Ingegnere dal salottino tv di Lilli Gruber: Scalfari «l’ingrato» a cui De Benedetti ha «dato un pacco di miliardi», il «vanitoso» che tra Berlusconi e Di Maio ha scelto il primo invece di rispondere come da copione «né l’uno né l’altro», il «signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Il rimbambito, insomma. Non è stata solo la violenza davvero inusuale degli attacchi dell’editore a Repubblica e all’ex amico Scalfari a suscitare quell’impressione di caduta degli dei che si ricavava inevitabilmente dall’intervista di Carlo De Benedetti. L’Ingegnere voterà Pd, però, come si diceva ai bei tempi, turandosi il naso, avendolo Renzi deluso. Sul caso increscioso di insider training sulla riforma delle Popolari, poi, l’editore di Repubblica si è arrampicato palesemente sugli specchi, essendo a disposizione del colto e dell’inclita l’intercettazione che lo sbugiarda. Il segreto della sbandata mediatica sta probabilmente in quella telefonata ricevuta dal nemico di sempre, Silvio Berlusconi, «dopo la stupidaggine che ha detto Scalfari». Il Cavaliere offriva la pace in nome dell’asse contro il nemico comune, quell’M5S che De Benedetti, Scalfari, Berlusconi, Renzi e Moscovici, divisi su tutto il resto, considerano il pericolo pubblico numero uno nella Penisola. L’offerta è stata respinta al mittente con il dovuto gelo: «Ho risposto che non faccio politica». Ma il senso di quella stupefacente telefonata resta tutto: a comporre il numero è stato chi dalla guerra iniziata trent’anni fa a Segrate esce oggi vincitore, vicino a trionfare sul fronte decisivo che col tempo è diventato quello della politica e non più quello della competizione aziendale a colpi di sgambetto. Quando è cominciata la guerra il Cavalier Berlusconi e l’Ingegner de Benedetti erano due industriali rampanti, molto diversi ma con in comune qualcosa che avrebbe potuto persino spingerli verso un’alleanza. Erano gli intrusi, i nuovi arrivati che tentavano di incrinare e infrangere il potere assoluto delle grandi famiglie del capitalismo italiano: erano parvenu. Seguivano strategie distinte: l’Ingegnere manteneva un piede fuori e uno dentro il mondo dei salotti comme il faut, il Cavaliere tentava l’arrembaggio solo dall’esterno. Politicamente appoggiavano e si appoggiavano a partiti diversi ma alleati nel pentapartito. De Benedetti, intimo di Bruno Visentini, era vicino al Pri, il partito di La Malfa, Spadolini e della borghesia illuminata. Berlusconi si beveva Milano e non solo quella con il socialista grintoso, Bettino Craxi. Si diedero battaglia, per questioni d’interesse ma anche per incompatibilità di carattere. Lo sbotto di Berlusconi alla notizia di quella soffiata di Renzi che permise all’ingegnere di guadagnare 600mila euro di plusvalenze in un batter d’occhio, «L’hanno preso con le mani nella marmellata», era di cuore. I duellanti hanno incrociato le lame davvero su tutti i fronti: in quello torbido delle scalate aziendali, nelle aule di tribunale, con un risarcimento di quasi mezzo miliardo versato dal proprietario Fininvest a quello Cir come risarcimento per l’acquisizione con mezzi indebiti di Mondadori, ma anche nelle battaglie navali tra fregate mediatiche e poi, sempre di più, direttamente nell’agone politico. Il sire di Arcore in prima persona, costretto dalla repentina uscita di scena del suo protettore Craxi, a impegnarsi direttamente per difendere il suo biscione. De Benedetti invece ha sempre preferito tenersi dietro le quinte, ma se c’è stato un vero capo del centrosinistra, diretto antagonista del Cavaliere nel ventennio e passa che gli storici definiranno sbrigativamente ‘ il berlusconismo’, è proprio lui. Quando De Benedetti vantò «la tessera numero uno» del Pd Veltroni di fatto confermò fingendo di smentire: «Quella fu una boutade! Certo però i suoi giornali hanno avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione della sinistra italiana. La sua è una cultura non ideologica ma molto seria, rispettosa della produttività dell’impresa e delle regole del gioco e attenta alla giustizia sociale». Una fotocopia del dna che, secondo il suo primo segretario, il Pd avrebbe dovuto poter vantare. Oggi quel partito moderato di sinistra che doveva veicolare la rappresentanza del nuovo capitalismo rampante italiano, diverso da quello all’arrembaggio di Berlusconi ma anche da quello eterno delle grandi famiglie è alle corde. Se il deludente di Rignano tornerà al governo, e di certo non in prima persona ma per interposto Gentiloni, sarà grazie all’alleanza col nemico di Arcore, il cui prezzo sarà certamente esoso. Se si dovrà tornare alle urne in breve tempo, a giocarsi la partita saranno la plebe stracciona di Di Maio e quella ripulita di Berlusconi, che è anche il solo attore politico a poter sperare in una vittoria secca il 4 marzo. Il partito modellato dall’esterno da De Benedetti, dopo la guerra dei trent’anni è un comprimario guidato da un leader di cui lo stesso ingegnere ha detto chiaramente, di fronte alla commissione parlamentare sulle banche che «di economia, onestamente, ci capisce veramente poco» e che in privato pare definisca più sinteticamente: «Un cazzone». Se del caso, Carlo De Benedetti, il riformista illuminato ha sempre giocato durissimo. Non a caso nel breve periodo trascorso in Fiat prima di essere messo alla porta dall’Avvocato lo chiamavano la tigre perché, come scriverà decenni più tardi Stefano Merlo, era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli». Ma stavolta non si tratta solo di mano pesante. Se davvero ci fosse la mano dell’Ingegnere dietro il falso scoop della Stampa, titolone con notizia di un’indagine sulla vendita del Milan adoperata a scopo di maxi- riciclaggio da Berlusconi seguito da drastica smentita del procuratore Greco, sarebbe un preciso segnale di disperazione e sbandamento. A peggiorare la situazione ci si mette del resto anche l’appello del processo per i morti d’amianto alla Olivetti di Ivrea. Il primo grado si è concluso con una condanna a cinque anni per l’Ingegnere. Se la sentenza fosse confermata il rischio di dover seguire la strada di Berlusconi, tra carcere e affidamento ai servizi sociali, diventerebbe molto concreto. Ma in questa italianissima Guerra dei trent’anni (per ora) colpi di scena e ribaltamenti imprevisti non sono mai mancati. Non è detto che sia finita qui.
De Benedetti, le cene eleganti e "la Repubblica". Al giornale fondato da Scalfari non hanno gradito le esternazioni dell'editore: ha violato la regola del "si fa ma non si dice", scrive il 19 gennaio 2018 su Panorama Giorgio Mulè. Dalle parti di Repubblica hanno un'idea di sé molto prossima a una chiesa. Pontificano su tutto e su tutti: distribuiscono patenti di moralità a destra e manca, segnano a dito i reprobi, si elevano a castigatori dell'umanità politica e giornalistica. Si prendono sul serio: hanno i loro riti, rivendicano di essere una comunità pregna di valori (ah, i valori...), hanno un gran sacerdote in Eugenio Scalfari che santifica ogni domenica con un sermone spesso autocelebrativo e un editore che non è transeunte ma al contrario è eterno e assoluto. Il nome di quest'ultimo è Carlo De Benedetti. Quella di Repubblica è in realtà una chiesa sconsacrata perché è popolata di peccatori e finti moralisti. Tanto per capirci: a quella chiesa è capitato di azzannare gli "infedeli" sulle furberie salvo poi scoprire che il suo direttore aveva acquistato un attico ai Parioli dichiarando nell'atto un prezzo inferiore di 850 milioni di lire versati in nero con assegni da 20 milioni ciascuno; a quella chiesa è successo di imbastire una campagna feroce contro i giornalisti puzzoni di destra (per loro essere di destra è già un'offesa grave) sulla "macchina del fango" attivata con gli articoli sulla casa di Montecarlo della premiata ditta Fini-Tulliani salvo poi scoprire che era tutto vero e non avvertendo se non il pudore almeno la necessità di chiedere scusa. Mi fermo qui per non rubare spazio al protagonista di questo articolo e dunque torno a De Benedetti. Nella chiesa sconsacrata lui è il Deus ex machina, l'elemento che nel teatro greco risolveva le tragedie. L'Ingegnere è persona astutissima incappato spesso nelle maglie della giustizia. Tanto per dire, tra qualche giorno dovrà affrontare un processo d'Appello al quale arriva con una condanna a cinque anni e due mesi di carcere per omicidio colposo plurimo per le morti causate dall'amianto alla Olivetti. Pochi giorni fa, poi, sono stati rivelati un'intercettazione telefonica e un verbale del medesimo sulla vicenda delle banche popolari. Lettura interessantissima negata in massima parte ai lettori di Repubblica, abituati a ingurgitare in questi anni paginate e paginate di intercettazioni telefoniche di ogni genere farcite da immancabili pistolotti moralisteggianti destinati a rimanere invenduti persino ai saldi delle indulgenze. Ma tant'è. De Benedetti, al telefono con la persona che ne cura gli investimenti, sa per certo che arriverà un decreto sulle banche popolari e assicura: "Passa, ho parlato con Renzi, passa...". De Benedetti fa investire 5 milioni di euro acquistando titoli delle popolari e quattro giorni dopo il Consiglio dei ministri approva il decreto che impone alle banche di trasformarsi in società per azioni. I titoli salgono e l'Ingegnere porta a casa, cotto e mangiato, un guadagno di 600 mila euro. Chiamato dalla Consob a spiegare il tutto (la Procura di Roma poi archivierà), De Benedetti ricostruisce il suo rapporto con Renzi e rivela i rapporti con altri ministri. Dalla lettura ricaviamo che "normalmente" De Benedetti e Renzi "fanno breakfast" (sarebbe la prima colazione della plebe) insieme a palazzo Chigi. Succede perché Renzi è stato folgorato quando era ancora sindaco di Firenze dalla levatura di Don Carlo e gli disse quando si davano del lei: "Senta, io avrei il piacere di poter ricorrere a lei per chiederle pareri, consigli quando sento il bisogno". Accolta la richiesta del discepolo, l'Ing. diventò "l'advisor gratuito, saltuario e senza impegni" del segretario Pd ma puntualizzò: "Guardi, va benissimo. Non faccio... non stacco parcelle però sia chiara una roba: che se lei fa una cazzata io le dico: caro amico è una cazzata". In sintesi si riservò "il diritto di dirgli che era un cazzone quando mi sembrava fosse il caso". A giudicare dai risultati ottenuti da Renzi, il "cazzometro" non deve aver mai registrato importanti oscillazioni. Di sicuro bisogna dare credito all'Ingegnere quando racconta di aver cercato di trasferire più o meno inutilmente a Renzi, tra un caffè e un cornetto, elementi di economia in quanto l'ex premier, come milioni di italiani sanno, "di economia capisce onestamente poco". Il discepolo un po' somarello in economia si fidò del Maestro sul Jobs act con i risultati che conosciamo (la creazione di una valanga di precari). E infatti l'Ingegnere ricorda: "Io gli dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il Jobs act è stato - qui lo dico senza, senza vanto, anche perché non mi date una medaglia - ma il il Jobs act gliel'ho... gliel'ho suggerito io all'epoca come una cosa che poteva secondo me essere utile e che, di fatto, lui poi è stato sempre molto grato perché è l'unica cosa che gli è stata poi riconosciuta". Colui che si definisce "l'ultimo grande vecchio che è rimasto in Italia... non per merito ma per decorrenza dei termini" entra ed esce dalle stanze del potere. In realtà preferisce ricevere in casa. Siccome il breakfast è riservato a Renzi c'è spazio per i dinner. Insomma, dà vita e vere e proprie cene eleganti con esponenti del governo che si abbeverano alla sua saggezza: "Sono molto amico di Elena Boschi, ma non la incontro mai a Palazzo Chigi. Lei viene sovente a cena a casa nostra ma non…diciamo io, del Governo vedo sovente la Boschi, Padoan. Anche lui viene a cena a casa mia e basta. Perché poi sa, quello lì si chiama Governo, ma non è un Governo, sono quattro persone, ecco". Dopo questo inno alla collegialità e lette queste confessioni, a Repubblica si sono resi conto che l'Ingegnere l'ha fatta fuori dal vaso. Perché ha contravvenuto alla prima regola della casa, pardon! della chiesa sconsacrata: si fa ma non si dice.
(L'editoriale del direttore di Panorama è stato pubblicato sul numero del 18 gennaio 2018 del settimanale con il titolo: "Le cene eleganti di quell'elegantone dell'ingegnere")
De Benedetti, quando l’ingegnere vestiva alla marinara, scrive Paolo Delgado il 5 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Il ritratto di Carlo De Benedetti. Galeotto fu Silvio, e non per a prima volta. Tra Eugenio Scalfari, decano dei direttori italiani, capo del partito dei moralizzatori in pianta stabile, e Carlo De Benedetti, finanziere spericolato in apparenza e freddo come il ghiaccio nella sostanza, editore democratico e di sinistra per antonomasia, volano scintille per quell’incauta apertura del barbuto direttore sulla possibilità di votare addirittura per il Cavaliere del Male pur di sbarrare la strada ai barbari con la bandiera a cinque stelle. Non è la prima volta che capita. Però nella precedente occasione le parti erano invertire: a flirtare con l’infrequentabile, provocando la levata di scudi del giornalista intrepido, era stato nel 2005 l’Ingegnere, sino a quel momento nemico giurato del reprobo di Arcore. Un fondo comune per le aziende in crisi e un’offerta a sorpresa di Berlusconi: «Tu ci metti 50 milioni? Niente in contrario se faccio lo stesso anche io?». «Ma figuriamoci». Ad avere qualcosa in contrario fu però Scalfari e non risparmiò la rampogna neppure quando De Benedetti, preso di mira, ingranò la retromarcia. Al contrario Scalfari pontificò alla grande invocando «il legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale». Poi, giusto per chiarire: «Forse Carlo De Benedetti non aveva valutato a fondo l’ampiezza di questo disagio». Prima di quel disagiatissimo momento solo una volta l’ombra del divorzio aveva aleggiato sul felice sodalizio: quando nel 1993, nel pieno vortice di tangentopoli, l’Ingegnere era finito in manette. Scalfari vide incrinarsi «i profondi e comuni convincimenti romani», ammise di considerare il divorzio, poi scelse di soprassedere. L’imputato è poi uscito dal guaio legato agli appalti per le Poste pulitissimo. Un po’ per assoluzione, un po’ per prescrizione. Il duello eterno tra l’Ingegnere e il Cavaliere è stato combattuto negli ultimi decenni su tutti i fronti: in Borsa, nelle manovre losche ai margini delle grandi scalate, nelle aule processuali, sulle colonne delle grandi testate giornalistiche, nell’arena di una politica legata a filo triplo agli scontri tra potentati economici e finanziari. Non è un caso che quando Berlusconi aprì il sipario sulla sua avventura politica con il famoso endorsement a favore di Fini nella sfida per la guida di Roma, nel 1993, il primo a rimbeccarlo notificando che lui invece avrebbe votato per Rutelli fu proprio De Benedetti. C’è il rischio però che quella lunghissima disfida nasconda il braccio di ferro precedente e quasi altrettanto lungo tra De Benedetti e l’industriale che nel panorama economico- finanziario italiano rappresentava in tutto e per tutto l’opposto esatto di Silvio Berlusconi: l’Avvocato Gianni Agnelli, signore incontrastato dei salotti buoni dell’altissima borghesia italiana. Il rapporto tra il futuro Ingegnere e la famiglia Agnelli nasce sui banchi di scuola dove studiavano fianco a fianco il figlio dell’industria-le ebreo torinese di media taglia Rodolfo De Benedetti e Umberto Agnelli. I pargoli sono entrambi del 1934 frequentano lo stesso ambiente – quello descritto da Susanna Agnelli nel suo “Vestivamo alla marinara” – si trovano nella stessa classe. La famiglia De Benedetti aveva lasciato l’Italia per la Svizzera con l’avvento delle leggi razziali e decenni dopo l’esule diventato nel frattempo uno dei principali industriali italiani avrebbe reso omaggio all’ospitale Elvezia prendendo la cittadinanza svizzera pur se continuando a pagare le tasse nella natìa penisola. Umberto non aveva avuto di questi problemi ma quando i due diventano amiconi quei tempi bui sono alle spalle. Il neo Ingegnere acquista in tandem col fratello Franco, futuro senatore, una società di affari immobiliari, la Gilardini e la trasforma anno dopo anno in holding di rilievo specializzata nel settore metalmeccanico. Nel ‘ 76, grazie all’amicizia con Umberto Agnelli, diventa amministratore delegato Fiat: vende la Gilardini e investe i proventi in azioni Fiat. Se ne va sbattendo la porta quattro mesi dopo: «E’ uno a cui piace comandare in casa propria», commenta ironico l’Avvocato. Vendute le azioni Fiat l’Ingegnere compra quelle della Cir e si ritrova così editore di Repubblica e dell’Espresso. Rivale degli Agnelli su tutti i fronti, incrina il fronte degli industriali compattamente anti Pci, intrecciando relazioni con il partito che i salotti buoni ancora considerano nemico irriducibile. Incontenibile passa alla Olivetti, dove sfodera un piglio autocratico opposto a quello sbandierato in politica, del resto è proprio lui a spiegare che gli industriali e la politica attiva sono poco compatibili: un buon politico deve essere democratico, un imprenditore capace deve invece essere dittatoriale. La guerra con Berlusconi inizia quasi per caso. De Benedetti ha messo gli occhi sulla Sme, gigante del settore alimentare. Romano Prodi, dagli spalti dell’Iri, vende a prezzi di sconto nel 1985. Craxi cerca qualcuno da opporre all’editore che dalle colonne di Repubblica lo cannoneggia quotidianamente e punta sull’emergente Silvio Berlusconi per organizzare una cordata alternativa. L’affare Sme va a monte la faccenda si concluderà solo nel 1992 con lo spezzettamento della Sme e la vendita in diverse tranches per complessivi 2000 miliardi contro i meno di 400 pattuiti nell’intesa Prodi- De Benedetti. Finita una battaglia ne inizia subito un’altra, quella per la conquista di Mondadori, che si porta dietro un codazzo di processi e condanne lungo chilometri. Berlusconi pianta la bandiera col biscione sulla pregiata casa editrice: il prezzo sarà un decennio più tardi la condanna di Cesare Previti, avvocato e corruttore, e un risarcimento di 493 milioni da parte del vincitore scorretto. Agnelli, Berlusconi e De Benedetti sono i tre volti del capitalismo italiano: il sovrano dell’establishment, l’ambizioso scalatore che ha provato a sovvertire le regole dall’interno dell’establishment stesso, l’avventuriero parvenu. Si sono dati battaglia per decenni e senza esclusione di colpi, adoperando stampa e politica come pedine nel loro gioco. Si sono riempiti spesso la bocca con la parola democrazia, qualche volta credendoci davvero, molto più spesso adoperando anche quella paroletta augusta come viatico per qualcosa di molto più importante: gli affari.
Carlo De Benedetti contro Scalfari e Repubblica, scrive giovedì 18 gennaio 2018 Il Post. L'ex editore di Repubblica ha detto che Scalfari è un ingrato e che il giornale ormai ha perso coraggio e rilevanza. Intervistato da Lilli Gruber durante la puntata di Otto e mezzo di mercoledì 17 gennaio, il fondatore e storico editore di Repubblica Carlo De Benedetti ha detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari, che di Repubblica è stato direttore dal 1976 al 1996, e dell’attuale linea editoriale del giornale. Dopo aver parlato della recente questione delle presunte informazioni riservate che De Benedetti avrebbe ricevuto da Renzi sul salvataggio delle banche popolari e dopo aver parlato del Movimento 5 Stelle, Gruber ha chiesto a De Benedetti se condividesse l’opinione di Eugenio Scalfari – primo storico direttore di Repubblica – secondo cui tra Di Maio e Berlusconi sarebbe meglio Berlusconi. De Benedetti ha detto che «la risposta ovvia da dare se uno non ha problemi di vanità» è che tra Di Maio e Berlusconi è meglio nessuno dei due, ma a quel punto è stato incalzato da Gruber sulla “vanità” di cui aveva accusato Scalfari e il discorso ha cambiato direzione. De Benedetti allora ha ricordato i molti favori economici che ha fatto a Scalfari e a Repubblica nel corso degli ultimi 40 anni e ha seccamente preso le distanze da Scalfari: Ho contribuito a fondarla, li ho salvati dal fallimento e ho dato un pacco di miliardi pazzesco – miliardi di lire – ma un pacco pazzesco a Eugenio quando ha voluto essere liquidato dalla sua partecipazione. Quindi Eugenio deve solo stare zitto tutta la vita, con me. Poi può parlare del Papa, di Draghi, di queste cose di cui lui si diletta parlare, ma non può parlare dei rapporti con me. Quindi pensa che sia un ingrato? Assolutamente sì. Pochi secondi dopo, De Benedetti ha interrotto Gruber per continuare a parlare di Repubblica, dicendo di aver «solo pagato dei prezzi» per esserne stato l’editore e di essere particolarmente triste «quando vedo che perde la sua identità». De Benedetti si è lamentato del fatto che su Repubblica non si faccia più politica – «Repubblica è un giornale politico nato per essere un giornale politico» – e del fatto che in un recente editoriale non firmato in cui il giornale prendeva le distanza da lui, lui stesso non fosse stato ringraziato per «l’indipendenza che sono io che ho dato a loro, non loro che hanno preteso da me».
Chiudendo l’intervista, Gruber ha chiesto: Come definirebbe i suoi rapporti con Repubblica, oggi? Assenti. [..] Mi dica un consiglio che darebbe oggi al direttore di Repubblica. Mah, sa, Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare.
Oggi il Comitato di redazione di Repubblica – ovvero l’assemblea di tutti i suoi giornalisti – ha risposto a De Benedetti con un comunicato in cui si dice: Il Comitato di Redazione respinge le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall’Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari. Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno del Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Ma vogliamo tranquillizzare Carlo De Benedetti: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda. L’assemblea dei redattori di Repubblica si riunirà oggi per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant’anni si è costruito.
La risposta di Repubblica a Carlo De Benedetti, scrive venerdì 19 gennaio 2018 Il Post. Mario Calabresi e Eugenio Scalfari hanno ribattuto alle accuse dell'ex proprietario: proprio con i toni di un litigio tra ex. Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto un editoriale in cui risponde alle critiche che l’imprenditore Carlo De Benedetti aveva mosso al giornale, di cui è stato finanziatore e proprietario e di cui ora è presidente onorario. Intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo lo scorso mercoledì, De Benedetti aveva detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari e dell’attuale linea editoriale di Repubblica: aveva parlato di perdita di identità e di un’assenza di riconoscenza nei suoi confronti, ricordando di aver sempre investito molto nel giornale, senza ottenere molto in cambio. Nell’editoriale pubblicato oggi, Mario Calabresi ha riconosciuto il ruolo fondamentale che De Benedetti ha ricoperto nella storia di Repubblica, ma ha anche stigmatizzato la sua scelta di criticare il giornale durante la trasmissione di un editore concorrente. Calabresi ha ribadito l’indipendenza della redazione e della direzione del giornale. Carlo De Benedetti è stato per oltre un quarto di secolo l’editore di questo giornale, finché cinque anni fa decise di dare la società ai suoi figli per tenerne solo la presidenza. Alla fine di giugno dello scorso anno ha lasciato anche quella mantenendo solo la carica di presidente onorario, senza alcun ruolo decisionale. Purtroppo questa transizione — è ormai sotto gli occhi di tutti — invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore. La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione. In queste settimane anche al New York Times un padre ha lasciato la guida della società al figlio. Non accadrà mai di vedere quel padre attaccare il giornale sugli schermi televisivi di un gruppo concorrente. Inconcepibile farlo mentre si dice di amare profondamente questa testata e la sua storia.
Sempre nel numero di Repubblica di oggi c’è anche un’intervista a Eugenio Scalfari, che oltre ad aver fondato il giornale lo ha diretto fino al 1996. Anche Scalfari ha risposto alle cose che aveva raccontato De Benedetti, contestualizzando alcune sue affermazioni sul ruolo che ebbe nel fondare e poi finanziare il giornale e ribattendo all’accusa di essersi un po’ rimbambito, come ha lasciato intendere De Benedetti nella sua intervista su La7.
Davvero non c’è De Benedetti tra i fondatori di Repubblica?
“No. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. E aggiungo che è la prima volta che glielo sento dire. Repubblica è figlia dell’Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri”.
Quanti soldi mise?
“Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L’altra metà toccava a noi, ma non ce l’avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l’altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: “Non lo racconti mai a nessuno” (allora ci davamo del lei). E infine: “Non lo racconti, ma non lo dimentichi”. E io non l’ho dimenticato”.
Vuoi dire che gli sei stato grato?
“Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica”.
Dice che il gruppo senza di lui sarebbe tecnicamente fallito.
“C’è stato un momento in cui avevamo fatto supplementi belli e costosi, tra cui “Mercurio” diretto da Nello Ajello. Ci eravamo indebitati e avevamo l’acqua alla gola. Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu”.
È questo il pacco di miliardi che dice di averti dato?
“Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica”.
Ne divenne l’editore.
“Quello dell’editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l’amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole”.
I giornalisti di «Repubblica» condannano De Benedetti. Duro comunicato contro l'ex editore: "Non è la prima volta che ci attacca". Oggi attesa la replica di Scalfari, scrive Massimo Malpica, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Guerra civile in Largo Fochetti. Il ciclone di critiche firmate Carlo De Benedetti e sganciate a Otto e Mezzo, dove l'Ingegnere, ospite dell'amica Lilli Gruber, ha attaccato sia il fondatore Eugenio Scalfari («Ingrato? Assolutamente sì») che la linea editoriale della «sua» Repubblica - e dunque la direzione di Mario Calabresi («Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare», il sarcastico «consiglio» riservatogli da De Benedetti su assist della Gruber) - ha innescato l'inevitabile reazione del quotidiano romano. La prima replica è quella del cdr, che in un comunicato ha respinto «le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall'Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari», ricordando anche che la storia non è nuova: «Non è la prima volta - prosegue la nota del comitato di redazione - che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all'interno del Gruppo, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale». Pure sull'accusa di aver «concesso» lui ai giornalisti l'indipendenza il cdr ringhia contro l'ex editore, ricordando che i colleghi «ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda». Lo sfogo a caldo precede, nel pomeriggio, l'assemblea dei redattori del quotidiano, convocata «per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant'anni si è costruito». Ma al termine dell'assemblea non arrivano nuovi comunicati né una nuova presa di posizione del comitato di redazione. Mario Calabresi resta in silenzio. Viene però annunciata, per oggi, un'intervista a Scalfari, a firma di Francesco Merlo. Già di suo una replica del fondatore all'affondo dell'Ingegnere, visto che quest'ultimo l'aveva definito «un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Ma al di là del volo di stracci, le conseguenze del braccio di ferro tra De Benedetti e il quotidiano che l'ex editore sostiene di avere ancora «nel cuore» non sono chiare. Di certo la cura Calabresi seguita alla nascita del polo Repubblica-Stampa e al battesimo della Gedi non ha dato i frutti sperati in edicola dove, certo complice anche la crisi generale dell'editoria, il quotidiano continua a perdere copie, e ha già visto svaporare quasi del tutto il momentaneo picco di vendite coinciso con il lancio della nuova grafica. E l'attacco alla linea «poco politica» di Repubblica lanciato da De Benedetti andava proprio in questa direzione, rimarcando il distacco del quotidiano dalla propria storica identità. L'affiancamento a Calabresi del condirettore Tommaso Cerno, chiamato a «coadiuvare» il successore di Ezio Mauro, era stato letto come un segno di riavvicinamento proprio alla linea editoriale della precedente direzione. Ma evidentemente non ha soddisfatto i gusti da lettore «Pazzo per Repubblica» dell'Ingegnere. Sprezzante con Calabresi, attaccato senza nemmeno citarlo all'indomani del suo secondo compleanno sulla tolda di comando di Largo Fochetti. Di certo la frattura tra lo storico editore e il «suo» giornale è di quelle che fanno male. E tradisce come gli equilibri nel nuovo polo un po' scricchiolino. Non è da escludere, tra l'altro, che le bastonate televisive di De Benedetti avessero un destinatario preciso, fuori dalla redazione. Il suo secondogenito, Marco, che da sei mesi ha preso il suo posto alla guida di Gedi come presidente. Al «vecchio padrone», forse, non piace troppo il nuovo corso.
Scalfari replica a De Benedetti: "Non ha fondato Repubblica". Il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari duro contro De Benedetti: "Ama questo giornale come ami una donna di cui vuoi liberarti", scrive Chiara Sarra, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Un editoriale del direttore Mario Calabresi e un'intervista al fondatore Eugenio Scalfari. È la risposta - durissima - di Repubblica a Carlo De Benedetti. L'ennesimo capitolo di uno scontro che va avanti da mesi. Da quando, il giornalista aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio in caso di sfida tra i due. "Scalfari è un ingrato che con me dovrebbe star zitto perché gli ho dato un pacco di miliardi", ha detto l'Ingegnere a Otto e Mezzo qualche giorno fa, "Parla per vanità, è un signore molto anziano non più in grado di sostenere domande e risposte". Di parere opposto lo stesso Scalfari che non crede di essere "rimbambito", ma di appartenere alla categoria "dei vegliardi": "Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli", dice il giornalista a Francesco Merlo, "Il vanitoso è chi si gloria di qualcosa che ha fatto o peggio non ha fatto; chi si attribuisce meriti che non ha. Che cosa c' entra la vanità con la scelta tra Berlusconi e Di Maio? Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato". Secondo Scalfari, infatti, "i soldi che diede non legittimano la parola fondatore": "Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri", taglia corto il giornalista. Ricordando che per far nascere il suo giornale servivano cinque miliardi di lire: "La Mondadori ne mise la metà", spiega, "L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: Non lo racconti mai a nessuno (allora ci davamo del lei). E infine: Non lo racconti, ma non lo dimentichi. E io non l'ho dimenticato. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica".
E anche sul presunto "salvataggio" del gruppo da parte di De Benedetti, Scalfari racconta una storia diversa: "Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie", assicura, "Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu". Altro che "pacco di miliardi", quindi. "Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica", taglia corto il giornalista, "Quello dell'editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l'amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole... E non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise. La sua abilità di finanziere gli ha consentito di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". Ancge sulla carica di presidente onorario del gruppo Scalfari inizia ad avere qualche dubbio. Pur essendosela meritata rispettando sempre la libertà del giornale, "non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori", spiega. E aggiunge: "Credo che quell' accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore". Infine la stilettata: "Repubblica la ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più".
Lo "sparatutto" tra De Benedetti e Repubblica. Cronistoria della battaglia dell'Ingegnere contro Eugenio Scalfari (e viceversa), scrive Enrico Cicchetti il 18 Gennaio 2018 su "Il Foglio". Quando Lilly Gruber chiede a Carlo De Benedetti, ospite di Otto e mezzo, se sia interessato a fondare un nuovo giornale, la risposta è perentoria: "Mai. Nella vita io sono un monogamo, in questo senso, la mia unica moglie é Repubblica". Oggi tuttavia i suoi rapporti con il quotidiano, ha spiegato l'Ingegnere, sono "assenti" ed "è per questo che soffro", ha aggiunto. Ma come si è arrivati a questo punto? Un veloce ripasso dello scontro tra il presidente onorario del Gruppo Gedi e Eugenio Scalfari e il direttore di Repubblica Mario Calabresi.
23 GIUGNO 2017. Carlo De Benedetti si dimette da presidente e consigliere del cda di Gedi Gruppo Editoriale Spa. Al suo posto diventa presidente il figlio Marco.
24 NOVEMBRE 2017. Ospite a diMartedì Eugenio Scalfari dichiara: “Tra Di Maio e Berlusconi sceglierei Berlusconi”.
3 DICEMBRE 2017. In un’intervista al Corriere della Sera, Carlo De Benedetti critica Scalfari: “Tra Di Maio e Berlusconi mi asterrei. Scalfari farebbe meglio a preservare il suo passato. Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso”.
10 GENNAIO 2018. Ospite di Bianca Berlinguer a Cartabianca, Eugenio Scalfari replica alle critiche di De Benedetti: “È stato molto critico con me. Da allora io non più rapporti con lui. Se mi dispiace di come siano andate le cose? Chi supera il decennio della morte e arriva al decennio dei 90, se ne fotte”.
13 GENNAIO 2018. Esplode il caso della telefonata tra l’allora premier Matteo Renzi e Carlo De Benedetti sulla riforma delle banche popolari. In prima pagina di Repubblica viene pubblicato un editoriale, non firmato, dal titolo “Indipendenza e libertà al servizio dei lettori”. “Nessun interesse improprio - si legge - ha mai guidato le scelte giornalistiche di Repubblica e nessun conflitto di interessi ne ha mai influenzato le valutazioni. Le posizioni che il giornale ha preso in questi anni sono il frutto della libera scelta dei giornalisti, nella linea tracciata da Eugenio Scalfari e poi proseguita da Ezio Mauro. I rapporti, i giudizi, le iniziative di Carlo De Benedetti sono fatti personali dell’Ingegnere”.
17 GENNAIO 2018. Ospite di Otto e mezzo, Carlo De Benedetti torna ad attaccare Scalfari: “Non voglio più commentare un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte. Con me deve stare zitto, gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato”. E quando Lilly Gruber gli chiede di dare un consiglio al direttore di Repubblica Mario Calabresi aggiunge: “Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare”.
17 GENNAIO 2018. Il Cdr di Repubblica risponde con un comunicato: “Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno dl Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Vogliamo tranquillizzarlo: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno”.
La risposta di Scalfari e Calabresi ai veleni di De Benedetti su Repubblica. Il direttore e il fondatore del quotidiano rispondono punto per punto a quello che l'ex editore ha raccontato al Corriere e in tv, scrive il 19 gennaio 2018 "Agi". Lo scontro tra Repubblica e il suo ex editore non sembra destinato a sanarsi. Dopo il duro affondo di Carlo De Benedetti, intervistato dal Corriere il 17 dicembre e poi in tv da Lilli Gruber rispondono sia il direttore del quotidiano, Mario Calabresi, che il suo padre fondatore, Eugenio Scalfari che con l'ingegnere aveva avuto un primo scambio di battute quando il giornalista, rispondendo a una domanda in tv, aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio.
Cosa scrive Calabresi. La transizione da Carlo De Benedetti ai suoi figli "invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore". "La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione". De Benedetti "non ha gradito di non essere stato ringraziato per aver concesso l'indipendenza ai giornalisti di Repubblica, ma crediamo che questa libertà sia alla base come è oggi e come è sempre stato di un corretto rapporto tra editori e giornalisti". "Voglio rassicurare i lettori che l'impegno e l'orgoglio dei giornalisti di Repubblica, della sua intera redazione, sono intatti e che godiamo del sostegno dei nostri azionisti e del nostro vertice aziendale. Un gruppo focalizzato sul futuro". "Questo giornale deve molto a Carlo De Benedetti e alla sua passione, ma anche l'Ingegnere dovrebbe sentire un debito di gratitudine nei confronti di una testata che ha occupato una parte importante della sua vita. Le donne e gli uomini che lavorano a Repubblica lo meritano. Il presidente onorario deve difendere e tutelare l'immagine e l'onorabilità del giornale: il contrario di quanto è accaduto".
Cosa dice Scalfari. "La mia non è vanità e De Benedetti non ha fondato questo giornale. Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri»". "Sono arrivato a un'età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi. Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli". "Repubblica era il meglio della stampa italiana. E quando dunque De Benedetti ne divenne il proprietario esclusivo non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise". "La sua abilità di finanziere ha consentito a De Benedetti di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". "L'indipendenza di Repubblica è stata sempre garantita dalla forza della direzione, dalla libertà e dal prestigio delle sue firme e di tutti i suoi giornalisti, e dal successo in edicola. De Benedetti è stato rispettoso di questa libertà. Diciamo ché l'ha onorata. E però non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori". "Oggi Repubblica vive la crisi dei giornali di carta, e cerca con coraggio nuove strade, sperimenta, si rinnova, scommette sul futuro ma non è vero che ha perduto l'identità e che non aggredisce la politica. Non solo io ne sono la prova e la garanzia. Ci sono i suoi giornalisti e c'è il direttore che, lo ricordo con un sorriso, è stato scelto da Carlo De Benedetti. Lui sì, sta aggredendo l'identità del giornale di cui, come ho già detto, era stato a lungo il rispettoso proprietario. Credo che quell'accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore".
Ma quanti soldi ha dato De Benedetti a Repubblica? Eugenio Scalfari ha anche ricostruito la storia della partecipazione economica di Carlo De Benedetti a Repubblica. "Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: 'Non lo racconti mai a nessuno'. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica" Quando "ci eravamo indebitati e avevamo l'acqua alla gola ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu".
Quando Giulio De Benedetti disse a Valletta: “La Stampa deve piacere agli operai”. La lettera del fondatore di Repubblica ricorda il suocero a quarant’anni dalla scomparsa: “Fu tra i più grandi direttori”, scrive Eugenio Scalfari il 14 gennaio 2018 su "La Repubblica". Sono 40 anni dalla morte di quello che fu mio suocero, sepolto nel cimitero di Rosta il 15 gennaio del 1978. È stato uno dei più grandi direttori di quotidiani di quel secolo. Era molto giovane quando cominciò a fare il correttore di bozze alla Stampa, allora di proprietà di Alfredo Frassati. Le sue capacità di giornalista lo portarono da correttore di bozze al ruolo di inviato. In quella veste fu corrispondente di guerra e poi corrispondente da Berlino dove il nazismo era ancora nell’incubatrice storica ma già impressionava soprattutto i giovani. In quella sede riuscì anche ad intervistare Hitler che già meditava il proprio futuro e ne parlò in quell’incontro con De Benedetti. Rientrato in Italia, diresse la Gazzetta del Popolo ma dopo poco tempo dovette lasciarla e partire per l’estero perché non piaceva a Mussolini l’antifascismo che De Benedetti stava in qualche modo dimostrando. Passò in Svizzera il periodo bellico e rientrò in Italia a guerra finita e a democrazia finalmente ritornata. Fu nominato dalla Fiat e da Frassati vice direttore e poi, dopo un anno, direttore de La Stampa ed è da lì che comincia il suo periodo di giornalismo eccezionale, probabilmente il più eccezionale di tutti e, a mio avviso, anche di Albertini che aveva diretto il Corriere della Sera agli inizi del Novecento. Giulio De Benedetti mise insieme una serie di iniziative giornalistiche che non trova riscontro nella storia del nostro mestiere: la cronaca locale e contemporaneamente quella nazionale e internazionale assurse a un livello mai raggiunto prima, ma a un livello ancora maggiore assurse la cultura, la politica italiana, quella europea e quella americana. Altrettanto avvenne con lo sport, calcio e ciclismo in particolare, ed infine con la rubrica da lui non solo inventata ma messa in pagina e chiamata “Specchio dei Tempi”. Si raccoglievano in quella rubrica opinioni di cittadini dei quartieri torinesi e dei comuni del circondario su questioni di grande attualità locale alle quali De Benedetti rispondeva soltanto con il titolo che poneva sopra ciascuna delle risposte ottenute; sceglieva i testi più importanti e li titolava. A quell’epoca quella rubrica stava nella seconda pagina della Stampa ed era probabilmente la parte più letta del giornale. Desidero infine ricordare la linea politica: l’azionista di maggioranza del giornale era la Fiat ma la linea imposta da De Benedetti era socialdemocratica, avendo Saragat come punto di riferimento ed anche come amico. Ricordo ancora che Valletta, allora consigliere delegato della Fiat, gli chiese all’inizio della sua direzione come mai un giornale della Fiat fosse di ispirazione socialista. La risposta fu molto netta: Torino occupa il popolo operaio più importante e numeroso d’Italia. Se vogliamo vendere dobbiamo fare un giornale gradito agli operai e da loro comprato. Questo non danneggerà la Fiat ma anzi darà alla sua proprietà un colore liberale e socialista insieme. Questa originalità ampiamente positiva a quell’epoca, in quella città, con quella proprietà, fu il requisito più prezioso di Giulio De Benedetti. Invio questo saluto anche a nome delle mie figlie Enrica e Donata di cui lui fu il nonno più amato.
Una guerra che dura dagli anni Settanta, scrive Paolo Guzzanti, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Che fra i due corresse pessimo sangue me ne ero già reso conto durante la lunga intervista con Carlo De Benedetti che pubblicai fa con l'editore Aliberti. Carlo De Benedetti aveva già licenziato in tronco Eugenio Scalfari nel corso di una cena a casa di Carlo Caracciolo, strappando da un momento all'altro era il 1996 Ezio Mauro dalla direzione della Stampa. Tanta furia inspiegabile e priva di garbo mandò in bestia il presidente della Fiat Gianni Agnelli che si trovò senza direttore dalla mattina alla sera, perché l'editore di Repubblica voleva assolutamente liberarsi del fondatore Eugenio Scalfari. Quel che adesso salta fuori con l'intervista di De Benedetti alla Gruber è soltanto la sferzata finale di una tensione che risale al tempo in cui la Repubblica (fine anni Settanta) andava a rotta di collo. In quei tempi Scalfari si presentò con l'editore Carlo Caracciolo da De Benedetti per chiedere aiuto. L'Ingegnere mise mano al portafoglio ma volle anche avere voce in capitolo sull'azienda. Seguirono anni tempestosi, gloriosi e nebulosi allo stesso tempo, durante i quali il quotidiano di piazza Indipendenza annaspò prima di decollare con la crisi del Corriere della Sera alimentata dallo scandalo della P2 di Licio Gelli, uno scandalo simmetrico a quello del tutto prefabbricato con cui fu costretto alle dimissioni il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il giornale fiammeggiava ma restava fragile. Eugenio Scalfari commise il suo più grave atto di ostilità nei confronti Di De Benedetti come lui stesso mi raccontò - andando da Silvio Berlusconi ad per far balenare al Cavaliere la possibilità di acquistare il quotidiano. De Benedetti se la legò al dito. Sborsò un bel malloppo di miliardi al fondatore facendogli credere di volerlo ancora tenere, ma cercando la sua sostituzione che trovò in Ezio Mauro. Eugenio incassò così il valore di cui aveva dotato la testata, vendendo però l'anima al diavolo, o almeno vendendo il proprio futuro all'Ingegnere. De Benedetti mi disse che quando prese la decisione di licenziare Scalfari fu costretto a recitare una stucchevole commedia di inchini e di riverenze, ma non voleva compromessi: era ora di guidare la sua proprietà pagata a caro prezzo, senza riconoscere il diritto alla perpetuità mitizzata di Eugenio. De Benedetti gli disse: non sei tu che tieni in piedi Repubblica, ma sono io. E posso farla anche migliore senza te. E dunque, compiuti i riti previsti, De Benedetti volle che Eugenio si levasse dai piedi. Ma il vecchio direttore ottenne sia la certificazione di fondatore sotto la testata che il diritto feudale al fondo della domenica. De Benedetti ha sempre mal digerito quella specie di pontificato perpetuo: «Qualche volta quel che scrive mi piace - disse - ma in genere gli sproloqui di Eugenio sono di una noia mortale». La tensione è diventata poi conflitto aperto dopo la dichiarazione televisiva di Scalfari pro Berlusconi. Quel che è accaduto dalla Gruber ha avuto l'effetto di una bomba nucleare sui resti dell'antico «partito di Repubblica».
[Il ritratto] Il tramonto di De Benedetti, la tigre che ha sconfitto il capitalismo familista e cassandra della sinistra. Che piaccia o no, che siano simpatici o antipatici, Berlusconi e De Benedetti sono stati due grandi capitalisti che sono riusciti a trovarsi un posto al sole nel Paese più familista del mondo, quasi schiacciato sotto la Storia e il Potere delle Grandi Famiglie. Rispetto al capitalismo conservatore, De Benedetti è un innovatore, scrive Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore, il 15 gennaio 2018 su Tiscali notizie. Se c’è una cosa che ha sempre saputo fare, è quella di trasformare in oro quasi tutto quello che tocca. L’ultima volta, diciamo che ha esagerato: appena ha saputo da Renzi che la riforma delle banche popolari sarebbe andata in porto, ha chiamato il suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo, e ha investito 5 milioni, realizzando plusvalenze di 600mila euro. La Consob ha ipotizzato il reato di Insider trading. L’ex commissario Salvatore Bragantini, editorialista del Corriere dall’aplomb parecchio borghese e abbastanza raffinato, ha commentato che è stato perlomeno «sconveniente». Molto english.
La guerra di Segrate. I suoi nemici, invece, si sono scatenati, Berlusconi in testa: «E’ stato preso con le mani nella marmellata, e se fosse capitato a me sarei già in croce». Poi La Stampa tira fuori una inchiesta sulla cessione del Milan, e Il Giornale risponde che quel falso scoop è un agguato al Cavaliere per vendetta e per distogliere l’attenzione dai peccati dell’Ingegnere. La solita guerra. Sui giornali va avanti dal ‘91, la famosa «guerra di Segrate», rimbalzata da allora fra imboscate e puntate sanguinanti.
Due grandi capitalisti. E’ il volto del capitalismo italiano, che ogni tanto sembra quello da una baruffa di cortile fra comari inacidite. Ma non date retta alle apparenze. Che piaccia o no, che siano simpatici o antipatici, Berlusconi e De Benedetti sono stati due grandi capitalisti che sono riusciti a trovarsi un posto al sole nella Terra più familista del mondo, quasi schiacciata sotto la Storia e il Potere delle Grandi Famiglie. Per farlo, hanno anche finito per identificarsi nel bipolarismo all’italiana, seduti sugli scranni opposti della singolar tenzone, uno contro l’altro armato.
Gli esordi Carlo De Benedetti. In realtà, Carlo De Benedetti, torinese, classe 1934, figlio di Rodolfo, ebreo sefardita convertito al cattolicesimo ma costretto a scappare in Svizzera per le leggi razziali, negli Anni 80, quando lui e Silvio cominciavano a farsi largo nella piazza ribollente dell’economia nostrana, affermava candidamente di sentirsi il paladino del capitalismo italiano, asserendo cose molto poco di sinistra e molto più liberali: «Ho 49 anni, mi piace fare il capitalista e sono fiero di esserlo». Che lo sapeva fare se ne erano già accorti tutti. Dopo la laurea in ingegneria e il servizio militare negli alpini da soldato semplice nel ‘72 aveva acquisito la Gilardini con il fratello Franco, trasformandola in una holding di successo: da 50 a 1500 dipendenti. Con la famiglia erano andati a vivere nella palazzina Agnelli di corso Matteotti, che Truman Capote nel 1969 su Vogue aveva descritto come «splendore italiano» con i tasti da premere per convocare all’istante forbiti maggiordomi in livrea. Carlo era andato a scuola con Umberto, dalla terza media alla quinta ginnasio, e fu lui a portarlo alla Fiat dopo i primi successi imprenditoriali.
La tigre. Nei famosi 100 giorni della sua governance, in azienda lo chiamavano «la tigre», perché era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli», come ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio. Alla faccia della sinistra. Gianni Agnelli aveva accettato il consiglio del fratello perché era affascinato dalla sua intraprendenza e dal suo dinamismo oltre che dalla sua immagine di successo. Solo che dopo neanche 4 mesi, lui (e Romiti) lo fecero fuori. La famiglia Agnelli non voleva ridurre in modo drastico il numero degli addetti alla manodopera. Queste difficili scelte, raccontò poi lo stesso De Benedetti, furono prese 4 anni più tardi, ma dopo aver perso «una barcata di soldi».
Il giovane capitalista. Come si vede, il giovane Carlo è prima di tutto un capitalista, niente affatto diverso da tutti gli altri. Dà lavoro anche a costo di toglierlo. Ma i capitalisti non sono dei benefattori. Sono dei costruttori della società. Nel 1976, l’Ingegnere ha rilevato le Concerie Industriali Riunite cambiando la denominazione della società in Cir, e trasformandole in una grande holding industriale. Nel ‘78 entra in Olivetti, azienda ormai decotta e dal futuro nero. Bruno Visentini, gentiluomo del partito d’azione, presidente del Pri e dell’Olivetti, gli dice: «Non guardi i bilanci, se non accetterà mai. Ma sono convinto che solo uno come lei può riuscirci». E difatti ce la fa. Trasforma l’azienda, producendo personal computer e ampliando la gamma dei prodotti con stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. In 24 mesi, l’Olivetti passa da una perdita di 70 miliardi all’anno, a un profitto di 50 che raggiungono i 350 nel 1983, quando apre il capitale sociale a un colosso americano, l’At&t, in cambio del 25 per cento del capitale. L’anno dopo ingloba l’inglese Acorn Computer.
Imprenditore illuminato. La sua immagine di imprenditore illuminato, che dichiara di votare repubblicano, conquista l’opinione pubblica. Rispetto al mondo conservatore del capitalismo italiano, De Benedetti è un innovatore, un visionario. E Corrado Passera dice che «rappresentava il simbolo della nuova imprenditoria di mercato», in contrapposizione ai grandi gruppi e alle famiglie potenti del nostro Paese. Lui in quei tempi dichiara che non si può ghettizzare il pci e comincia a instaurare un dialogo con Berlinguer. Intanto, nell’85 acquista la Buitoni Perugina, venduta 3 anni dopo alla Nestlé. Nell’81 è entrato nell’azionariato del Banco Ambrosiano, lasciando però subito l’istituto dopo appena due mesi, sulla soglia del fallimento. Fu accusato di aver fatto plusvalenza da 40 miliardi, processato per bancarotta fraudolenta, condannato con sentenze poi annullate dalla Cassazione perché non esistevano i presupposti per i quali era stato processato.
La finanza e la Borsa. Carlo De Benedetti, imprenditore e scalatore, è diventato anche e soprattutto finanziere e sta per diventare pure editore. Attirato dal boom della Borsa, che gli ha permesso di raccogliere 3 miliardi di mezzi freschi, ha cominciato ad acquisire una miriade di partecipazioni finanziarie e assicurative. Gianni Agnelli lo definisce «un centometrista». Compra di tutto e parte alla conquista dell’estero. Dopo aver tentato di acquisire, assieme a Bruno Visentini, il Corriere della Sera travolto dallo scandalo P2 e aver tentato di mettere le mani sul Tempo di Roma, nel 1987, attraverso le partecipazioni della Arnoldo Mondadori entra nel gruppo Espresso e Repubblica, il giornale che lui aveva già finanziato. Nel 90 comincia la guerra di Segrate con Berlusconi, temporaneamente chiusa nel 2011 con un risarcimento danni di 500 milioni di euro che la Fininvest ha dovuto versare alla Cir, perché la precedente sentenza del 1991 sarebbe stata in realtà comprata corrompendo un giudice. Nel 96, a causa di una grave crisi dell’Olivetti, De Benedetti decise di lasciare l’azienda, dopo aver fondato la Omnitel, venduta a Colaninno (forse, col senno di poi, l’unico errore commesso).
Il rapporto con la sinistra. In tutto questo tempo, ha assunto anche un ruolo molto importante nella sinistra italiana, diventandone persino, nella sua ultima incarnazione, un profeta abbastanza pessimista. Dal suo pulpito giudica storia e personaggi. Su D’Alema: «Credo che abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente». Bersani: «Lo stimo moltissimo, ma come leader è assolutamente inadeguato. Lui e D’Alema stanno ammazzando il pd». Matteo Renzi, invece, prima «è un fuoriclasse». Poi si dichiara deluso da lui. Fino a definirlo «un cazzone». Ma anche gli altri sono delusi da De Benedetti. Corrado Passera racconta che quando aveva cominciato a lavorare con lui, «era una vera speranza per l’industria e il capitalismo italiano. Poi ha deluso tutti».
Vince da solo. Se gli parli assieme, dicono però che sembra sempre quello di prima, un uomo molto lucido e molto veloce, capace di leggere con grande rapidità quello che sta accadendo e di coglierne gli sviluppi, in economia come in politica. Poi, è ovvio, puoi scegliere di stare con chi vince o con chi perde. L’impressione è che lui abbia sempre vinto da solo. Ancora adesso non ha perso il suo istinto degli affari, a 83 anni, nel suo esilio dorato di Marbella, dove è riuscito a mettere su un proficuo business immobiliare, acquistando immobili per almeno venti milioni, secondo Franco Bechis. Ma ora è un uomo libero, probabilmente felice, dopo aver passato il suo impero ai tre figli, il cento per cento della scatola di controllo.
L’avvicendamento a La Repubblica. A Repubblica non è più lui quello che conta. E si vede. Rodolfo è molto diverso, formazione liberal, uomo di potere, ma non di establishment. E Marco, sposato con la giornalista Paola Ferrari che si sarebbe candidata nel centrodestra, lo ha già criticato per la sua presa di posizione contro Scalfari, che aveva detto di preferire Berlusconi a Di Maio. La risposta di Scalfari, in pratica «me ne fotto», è già abbastanza indicativa. E’ cambiato tutto, il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’Espresso è diventato un allegato di Repubblica, il fondatore Eugenio Scalfari tiferebbe Berlusconi, dimenticando 20 anni di battaglie e nel crepuscolo della galassia Espresso Repubblica c’è un po’ la nostra storia. Il tempo che è passato, è già andato via. Anche le vecchie guerre sono già finite. Adesso ce ne sono altre. Prima o poi ce ne accorgeremo.
Renzi, De Benedetti e Repubblica: la fine della diversità morale, scrive il 12 gennaio 2018 Stefano Feltri, Vicedirettore de Il Fatto Quotidiano. Molti lettori possono aver l’impressione che tutto questo interesse alle vicende che riguardano Carlo De Benedetti, Repubblica e ilGruppo Espresso (che ora si chiama Gedi) siano questioni interne alla piccola casta dei giornalisti, regolamenti di antichi conti o sfogo di ambizioni professionali frustrate. Magari c’è pure questo, ma quanto sta succedendo intorno a Repubblica riguarda tutto il Paese o almeno quella parte, in senso lato di centrosinistra, che in quel giornale e in quel gruppo editoriale ha sempre cercato una bussola etica e culturale, ben prima che politica. Ne scrivo, pur stando in un giornale concorrente, perché di quel pezzo del Paese ho fatto (e forse faccio) parte anche io, cresciuto leggendo e talvolta ritagliando Repubblica, l’Espresso, Micromega, Limes. Se mettiamo in fila gli eventi di questi ultimi due anni capiamo che è davvero finita un’epoca. Il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli che pubblica la Stampa, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’Espresso è diventato un allegato di Repubblica, molti editorialisti hanno lasciato il giornale (alcuni proprio per il Fatto), in una delle più accese battaglie politiche di questi anni, il referendum 2016 sulla riforma costituzionale, Repubblica non ha preso posizione. Il suo direttore Mario Calabresi ha dedicato più editoriali critici al sindaco di Roma Virginia Raggi che all’ex premier Matteo Renzio a Silvio Berlusconi. Il fondatore, Eugenio Scalfari, ha detto che, dovendo scegliere tra Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, preferisce Berlusconi, ridimensionando vent’anni di leggi ad personam e di politiche economiche contrarie a tutto quello che Repubblica e Scalfari hanno sempre professato. De Benedetti ha attaccato Scalfari in una intervista sul Corriere della Sera, ha definito le sue posizioni “un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso”. Scalfari, che ha troncato ogni rapporto, gli ha risposto martedì da Rai3, a Cartabianca, dicendo che uno arrivato a 94 anni “se ne fotte” di quello che pensa De Benedetti. Ultima, ma solo in ordine di tempo, la vicenda della speculazione di Carlo De Benedetti grazie alle informazioni avute da Matteo Renzi e dalla Banca d’Italia. Questa, come ha detto l’ex commissario Consob, Salvatore Bragantini, è come minimo “sconveniente”, a prescindere dal fatto che sia reato. Per mille ragioni che provo a riassumere.
Primo: Carlo De Benedetti ha accesso a Renzi e alla Banca d’Italia non tanto perché è (stato) un finanziere di successo – l’impero economico l’ha passato da tempo ai figli – ma in quanto editore di giornali rilevanti. Il non detto di questi rapporti è che il politico o l’uomo delle istituzioni coltiva le simpatie dell’editore convinto di ottenere, per questa via, un trattamento di favore dai giornalisti. E quando poi il giornale dovesse invece dimostrarsi completamente autonomo, si genera la spiacevole telefonata del tipo “Ma come, pensavo fossimo in buoni rapporti…”. In questo si vede che Renzi non è diverso dagli altri politici che voleva rottamare, corteggia gli editori nella speranza di avere trattamenti di favore dai giornali. E De Benedetti non ritiene che invitare a cena ministri e presidenti del Consiglio possa complicare la vita ai suoi direttori ed editorialisti.
Secondo: Carlo De Benedetti, che ha consolidato la sua carriera da finanziere in un’Italia in cui l’uso di informazioni privilegiate per fare operazioni di Borsa non era neppure reato, rivendica la correttezza del proprio operato con questa argomentazione: se avessi saputo davvero qualcosa di specifico, non avrei investito solo 5 milioni ma almeno 20. Autodifesa che diventa ammissione dell’assenza di ogni vincolo etico. Renzi, da parte sua, ha dimostrato di non avere alcun filtro, alcuna prudenza nel gestire provvedimenti e informazioni con un impatto sui mercati. Negli anni 2014-2015 a palazzo Chigi c’era un vorticoso ricambio di consulenti, amici del premier, collaboratori più o meno ufficiali che discutevano di Telecom, Eni, banca Etruria, riforma delle popolari e delle banche di credito cooperativo. Ora abbiamo chiaro con quale prudenza e quale riservatezza. Chissà quanti “casi De Benedetti” ci sono stati di cui non sappiamo.
Terzo profilo sconveniente, nella vicenda Renzi-De Benedetti, quello più rilevante: la reazione del sistema a tutela del potere costituito. Renzi e De Benedetti fanno qualcosa, a gennaio 2015, che può essere reato o non esserlo, che può portare a sanzioni o meno. Dipende dalla valutazione che ne viene fatta. La Consob indaga e decide, nel collegio dei commissari, di non sanzionare. La Procura di Roma, a quanto emerge, praticamente non indaga affatto ma chiede subito l’archiviazione dell’unico indagato, il povero broker che esegue l’ordine d’acquisto di azioni di banche popolari arrivato da De Benedetti. La vicenda esce una prima volta sui giornali dopo gli attacchi di Renzi alla Consob di Giuseppe Vegas, riesplode ora che, con grande fatica, i parlamentari della commissione di inchiesta sulle banche sono riusciti ad avere una parte dei documenti dell’inchiesta da una molto riottosa Procura di Roma.
I punti critici sono vari: per quasi tre anni in tanti, troppi, hanno saputo che incombeva questa bomba su Renzi (incombe ancora, visto che l’inchiesta non è stata archiviata). Non è mai una cosa sana quando un politico sa di essere potenzialmente ricattabile. Poi la Procura di Roma, che tanto zelo ha dimostrato in varie occasioni, non ha davvero niente da rimproverarsi nella gestione del caso? Perché è così importante secretare tutto? Perché il procuratore Pignatone considera grave che il contenuto delle carte sia filtrato dalla commissione banche? Non lo ha mai spiegato. E quante richieste di archiviazione vengono trattate come se fossero un segreto di Stato?
E quando Vegas è andato allo scontro con il governo, dopo la sua mancata riconferma al vertice della Consob, rivelando gli interessamenti di Maria Elena Boschi su Etruria, sapeva di avere nel cassetto l’arma segreta: tutte le carte di quello che i suoi uffici avevano classificato come insider trading, prima che la Commissione lo archiviasse. Sicuramente non ha avuto bisogno neppure di evocare la vicenda. Lui sapeva, Renzi sapeva, chi doveva sapere sapeva. E tutti si sono comportati di conseguenza.
E poi ci sono i giornali, parte non irrilevante di questa storia. Il giorno in cui esce la trascrizione della telefonata di De Benedetti con il suo broker, Repubblica non ha la notizia. Succede. Diciamo che è stato uno scoop della concorrenza, anche se di questa fanno parte praticamente tutti i giornali italiani incluso La Stampa, testata dello stesso gruppo editoriale. Il giorno dopo viene dato conto solo del “caso politico” intorno alla telefonata. Poi il Sole 24 Ore pubblica sul proprio sito web in modo quasi integrale il verbale di De Benedetti in Consob dove l’editore di Repubblica si difende e rivela i suoi rapporti con Renzi, Boschi, Padoan, Visco, rivendica perfino di essere stato il primo ispiratore del Jobs Act. Non una riga esce oggi su Repubblica di tutto questo. E, cosa ancora più singolare, solo un francobollo sul Sole 24 Ore cartaceo, che invece spesso ha ospitato gli editoriali di De Benedetti. Scelta bizzarra questa di regalare lo scoop on line ma di non valorizzarlo nell’edizione a pagamento. Gli imprenditori della Confindustria che ricevono ogni mattina la copia del giornale che hanno portato vicino al disastro così non hanno dovuto leggere il verbale del loro collega De Benedetti. Il Corriere della Sera dedica al caso un colonnino. Non è sempre stato così. Negli archivi si trovano ampi e completi articoli, per esempio, su quando alcuni familiari di De Benedetti sono stati sanzionati dalla Consob per 3,5 milioni per un insider trading su Cdb Web Tech, all’epoca uno dei veicoli finanziari dell’Ingegnere.
Durante le feste ho letto un libro di qualche anno fa di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), appena ripubblicato proprio in una collana di allegati a Repubblica. E’ la storia di una maturazione politica e di una scelta individuale di Piccolo, quella di preferire una sinistra del compromesso, pragmatica e disposta a sporcarsi nella pratica quotidiana del potere rispetto a quella che invece rivendica la superiorità morale, una diversità antropologica, che considera chi vota Berlusconi moralmente disprezzabile. E’ la storia di come Francesco Piccolo ha scelto l’Enrico Berlinguer del compromesso storico al posto di quello della “questione morale” e della diversità comunista. E di come ha accettato di essere italiano, nel bene e nel male, invece che considerarsi sempre diverso, una persona un po’ migliore degli italiani raccontati dalla tv, quelli che votavano prima Democrazia cristiana e poi Forza Italia.
Scalfari, De Benedetti e Repubblica sono stati per quarant’anni gli alfieri e la voce di un’Italia che si riteneva migliore della media, che rivendicava il diritto a fare una gerarchia di valori, a inseguire qualche ideale invece che rassegnarsi al “così fan tutti”, che guardava Silvio Berlusconi e il suo stile di vita e poteva permettersi di criticarlo. Abbiamo sempre saputo che, sotto sotto, era un po’ un’illusione, che non esiste una Italia migliore e una peggiore, che gli uomini, visti da molto vicino, sono tutti uguali o che, almeno, nessuno ha titolo di giudicare il suo prossimo. Però quell’illusione è servita, al centrosinistra e a tutta l’Italia, ha dato alla politica (soprattutto alla sinistra), agli elettori e soprattutto ai lettori una tensione etica, ha trasmesso il messaggio che poteva esistere un Paese migliore. Magari un po’ tromboneggiante e moralista, talvolta noioso, spesso più conformista di quello che era disposto ad ammettere, ma migliore. E invece, per citare Francesco Piccolo, Scalfari, De Benedetti e Repubblica hanno realizzato il loro inconfessato e inconfessabile “desiderio di essere come tutti”, perché chi è come tutti non può essere criticato da nessuno. Ma neppure può criticare. Hanno dissipato ogni illusione di alterità. E se sono tutti uguali, allora non c’è differenza tra De Benedetti e Berlusconi, tra Renzi e D’Alema, tra Salvini e Di Maio. Senza illusioni e senza questione morale restano soltanto il cinismo e l’antipolitica. Quando, dopo le elezioni di marzo, commentatori e politologi vorranno spiegare il tracollo del Pd e l’inspiegabile tenuta del Movimento Cinque Stelle nonostante le mille prove di dilettantismo, sarà bene considerare tra le variabili rilevanti il crepuscolo della galassia Espresso-Repubblica.
L’HANNO DETTO I GIORNALI? E’ FALSO! UN ESEMPIO: MARCO TRAVAGLIO VS I RENZI.
L’accusa.
Renzi: "Prima condanna a Travaglio per aver diffamato mio padre". L'annuncio del senatore pd su Facebook: "Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia". Il processo per 6 articoli, tre ritenuti diffamatori dal Tribunale di Firenze, scrive il 22 ottobre 2018 "La Repubblica". "Una notizia personale. Oggi è arrivata la prima decisione su una (lunga) serie di azioni civili intentate da mio padre, Tiziano Renzi, nei confronti di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano". Lo scrive, su Facebook, il senatore del Pd Matteo Renzi. "La prima di oggi - prosegue - vede la condanna del direttore Travaglio, di una sua giornalista e della società editoriale per una cifra di 95.000 euro (novantacinquemila). Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni. Volevo condividerlo con voi. Buona giornata, amici". Il processo civile che ha visto contrapporsi Tiziano Renzi e Il Fatto Quotidiano era incentrato su 6 articoli. Il Tribunale di Firenze ha stabilito che per tre articoli non sussiste diffamazione, e quindi ha assolto il quotidiano. Mentre lo ha condannato per altri tre articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016. Due editoriali e il titolo di un terzo articolo. Nel primo, intitolato "I Babboccioni", parlando dell'indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine "fa bancarotta"; nel secondo articolo, dal titolo "Hasta la lista" Tiziano Renzi era stato accostato per "affarucci" a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio invece il titolo di un articolo apparso on line inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato dalla giornalista Gaia Scacciavillani. Tiziano Renzi aveva chiesto danni per 300 mila euro.
La difesa.
Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell'ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli - firmati con Gaia Scacciavillani - sono stati ritenuti perfettamente veri, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 22 ottobre 2018. Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri. “In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta. Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi”. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democratico quali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzo sulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”. Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.
Cambiamo Mestiere, scrive Marco Travaglio il 23 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Quando un Tribunale ti dà torto e sai di avere ragione, impugni la sentenza e speri che i giudici d'appello te la riconoscano. Così ci siamo sempre comportati, senza fare tante storie. Ora però la sentenza del Tribunale civile di Firenze che dà torto al Fatto (cioè al sottoscritto e a una brava collega), imponendoci di versare lo spropositato risarcimento di 95 mila euro a Tiziano Renzi e creando un precedente che mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale, ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori. Perchè abbiamo bisogno di voi. Fermo restando che, se l'esecutività del verdetto non sarà sospeso, pagheremo il dovuto e ci appelleremo per farci restituire i soldi fino all' ultimo centesimo e la nostra onorabilità. Che comunque non può essere messa alla berlina da manigoldi che si fanno scudo dell'impunità parlamentare e che, se le bugie fossero reato, sarebbero all'ergastolo. Cari lettori, sapete bene di essere l'unica nostra fonte di sostentamento e il nostro unico scudo contro le aggressioni dei potenti: non incassiamo soldi dallo Stato, abbiamo pochissima pubblicità, non siamo sponsorizzati da società o concessionarie pubbliche né da aziende private. Viviamo delle copie vendute in edicola e degli abbonamenti, due voci che sono addirittura aumentate negli ultimi mesi, in controtendenza con il mercato sempre più in crisi della carta stampata. E finora questo bastava e avanzava a garantirci di lavorare sereni, forti del vostro sostegno e dei nostri bilanci attivi. Ma purtroppo, in Italia, fare un buon giornale, libero e indipendente, che incontri il favore dei lettori, non basta più. Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali "a strascico" sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze. Anche perché oggi - come dice Davigo - buona parte della magistratura è stata "genuflessa" dal potere politico come nei suoi anni più bui, dai 50 agli 80, fino a Tangentopoli e a Mafiopoli. Non siamo qui a gridare al complotto né a piagnucolare per la persecuzione giudiziaria. Anzi, se avessimo scritto qualcosa di falso e/o diffamatorio, come può sempre capitare in un quotidiano, avremmo già rettificato da un pezzo, senz' attendere che Renzi sr ci facesse causa. Ma non è questo il caso. Il signore in questione ci aveva intentato una causa da 300mila euro per sei articoli usciti fra il 2015 e il 2016: il giudice gli ha dato torto per quattro articoli e ragione per un titolo (a un articolo ritenuto corretto) e due parole contenute in due miei commenti (per il resto ritenuti corretti). E ha stabilito che il titolo e le mie due parole valgono 30 mila euro ciascuno, più 5 mila di riparazione pecuniaria. Il titolo da 30 mila euro è "Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm". Riguarda le indagini (vere) sulla coop Castelnuovese, che ovviamente faceva affari, era stata appena perquisita e faceva capo all' ex presidente di Etruria Lorenzo Rosi, in affari con Luigi Dagostino, a sua volta in affari con papà Renzi (che non era indagato, e infatti il titolo si guardava bene dall' affermarlo). Tutto vero, eppure ci tocca pagare 30 mila euro. Le mie due paroline da 30 mila euro ciascuna sono "bancarotta" e "affarucci". In quel momento Tiziano Renzi era indagato a Genova per la bancarotta di una sua società poi fallita, la Chil Post. Che la società fosse fallita non era in discussione (il crac è del 2013), mentre si trattava di stabilire se Renzi padre avesse commesso il reato di bancarotta (in seguito avrebbe ottenuto l'archiviazione, che naturalmente non riportò in vita la società fallita, anche perché altri coimputati sono a processo per quella bancarotta). Il crac c'era, la condanna di Renzi sr per bancarotta no: e infatti non ho mai scritto che avesse commesso quel reato, ma semplicemente che era coinvolto nella bancarotta di una società di cui era stato proprietario (e dove aveva assunto Matteo). Si potrà dire che il termine era "atecnico", come si conviene a un articolo di pura satira (il titolo era "I babboccioni", per dire il tono), non a una sentenza o a una cronaca giudiziaria. Invece il giudice ci vede una diffamazione da 30 mila euro. L'altra costosissima parola proibita è "affarucci". Anche qui tutto vero, e pure preciso: come avevamo scritto spesso nelle pagine di cronaca, insieme a gran parte della stampa italiana, il massone Valeriano Mureddu e babbo Tiziano sono vicini di casa a Rignano sull' Arno e il primo acquistò un terreno dal secondo. Un affaruccio, appunto. Che c' è di diffamatorio? Che - scrive la giudice - "in nessuna parte dell'articolo sia spiegato quali sarebbero tali 'affarucci'". Cioè: i due hanno concluso un affaruccio, raccontato più volte sul Fatto e dimostrato per tabulas alla giudice. Ma è diffamazione lo stesso, perché lei avrebbe scritto l'articolo diversamente da come l'ho scritto io: altri 30 mila euro. Totale: 90+5 e un bacio sopra. Per un titolo e due articoli che non contengono fatti falsi e che riscriverei uguali altre cento volte. E sapete il perché di quella cifra spropositata? Per "la posizione sociale del soggetto diffamato (padre del Presidente del Consiglio, politico e imprenditore)". Perbacco. Così la regola aurea che vuole i potenti più esposti alle critiche viene ribaltata: più conti e meno puoi essere criticato. Una specie di immunità contagiosa per via parentale. E ci è andata pure bene. La giudice spiega di averci fatto lo sconto perché siamo il Fatto, e non il Corriere della Sera che vende il sestuplo di noi: sennò ci avrebbe appioppato 600 mila euro, lira più lira meno (con tanti auguri ai colleghi di via Solferino). La sentenza fa il paio con quella del Tribunale penale di Roma che ci ha condannati a pagare la cifra astronomica di 150 mila euro (per fortuna non ancora esecutiva) ai giudici di Palermo che avevano assolto Mori per la mancata cattura di Provenzano. Avevo osato scrivere che erano andati fuori tema, invadendo il campo dei processi Trattativa e Borsellino-ter e negando il patto Stato-mafia e l'accelerazione della strage di via D' Amelio. Condannato. Poi le sentenze dei due processi han demolito quella su Mori, giungendo alle stesse mie conclusioni di 3 anni prima. Ora, a botte di sentenze come queste, un piccolo giornale libero come il Fatto non può reggere: ancora un paio di mazzate come queste e si chiude. Perché non c' è alcun' arma di difesa. Possiamo prestare tutte le attenzioni del mondo a non scrivere cose false o inesatte. Ma se poi veniamo condannati per aver scritto cose vere o per aver esercitato il nostro sacrosanto diritto di critica, allora dovremmo preoccuparci anche di non disturbare certi manovratori, specie se hanno appena agguantato la vicepresidenza del Csm e fanno il bello e il cattivo tempo nella città del tribunale che ci giudica. E allora delle due l'una. O la classe politica mette finalmente mano a una seria riforma della diffamazione a mezzo stampa, dando valore alle rettifiche e alle smentite, imponendo cauzioni contro le liti temerarie, levando la competenza ai tribunali dove risiedono i denuncianti e soprattutto distinguendo i fatti falsi e gli insulti (che, senza rettifiche e scuse date con evidenza, vanno sanzionati) dalle opinioni critiche e dalle battute satiriche (che devono essere sempre legittime). Oppure noi smettiamo di scrivere cose vere e di criticare chi lo merita. Ma in questo caso verrebbe meno la ragione stessa del nostro mestiere, almeno per come lo intendiamo noi: quella che nove anni fa ci ha spinti a rischiare i nostri soldi e carriere per fondare un giornale libero, critico e veritiero. Di certo, visto che i soldi non ce li regala nessuno né li troviamo sotto le mattonelle, non possiamo scrivere ogni giorno con la spada di Damocle di risarcimenti pesantissimi sul capo, l'ufficiale giudiziario dietro la porta, la quotidiana busta verde nella buca delle lettere e l'avvocato tascabile che ci controlla le virgole. Certo, potremmo evitare tutto questo facendo come tanti altri: usando la lingua al posto della tastiera. O facendoci scrivere gli articoli da qualche giudice, per dire che chi fa fallire le sue società è un grande imprenditore un po' sfortunato e chi compra terreni con un socio lo fa a sua insaputa. Ma non ne siamo proprio capaci. Piuttosto, preferiamo cambiare mestiere.
Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 23 ottobre 2018. Renzi è bello carico (Trentino a parte). La Leopolda gli ha ridato vigore e invece di fare il senatore semplice e mettersi da parte come aveva promesso, è tornato alla riscossa. Ieri i giudici gli hanno anche fatto un regalino. «Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95mila euro: è solo l'inizio. Il tempo è galantuomo», scrive sulla sua e-news settimanale. E ancora: «Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni». Il giudice del tribunale civile di Firenze che ha emesso la sentenza è Lucia Schiaretti. Tiziano Renzi aveva chiesto 300mila euro di risarcimento, per tre articoli sulla vicenda Chil Post e Mail Service Srl. La condanna di Travaglio riguarda due editoriali del 24 dicembre 2015 e del 16 gennaio 2016. Nel primo, «I Babboccioni», parlando dell'indagine sulla Chil Post, Travaglio aveva scritto «fa bancarotta»; nel secondo, «Hasta la lista», aveva accostato per «affarucci» Tiziano Renzi a Valentino Mureddu, iscritto alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio anche il contenuto di un articolo on line su Banca Etruria e Renzi senior, della giornalista Gaia Scacciavillani. Il padre dell'ex premier è uscito invece sconfitto nella causa contro Peter Gomez e il giornalista Giordano Cardone per articoli sull' edizione on line. Le cose per babbo Renzi non si mettono bene nemmeno per altri «affarucci», come li definirebbe Travaglio. Ieri, in relazione a un'inchiesta del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, ci sarebbe stata, da parte della Guardia di Finanza, una ulteriore acquisizione di materiale a casa di Silvia Gabrielleschi, dipendente della Marmodiv, altra coop legata ai business dei Renzi e dichiarata fallita dieci giorni fa. L' attività è collegata alle indagini sul fallimento della Delivery service, cooperativa nata nel 2009 con sede presso Confcooperative (le coop bianche) in piazza San Lorenzo a Firenze. Gli investigatori cercano collegamenti tra questa coop, la Eventi 6 dei Renzi e la Marmodiv, appunto. Gli inquirenti ritengono che tra queste società ci sia stato un insolito scambio di fatture. Inoltre ci sarebbe una pista relativa a una presunta truffa legata alla distruzione (a pagamento) dei depliant non consegnati: il macero, la torta su cui tutti puntano, quella che aggiusta i conti. Proprio a Rignano ci sarebbe un magazzino adibito a discarica per le rimanenze, mentre una delle cartiere per il macero si troverebbe a Campi Bisenzio. La Marmodiv è un'azienda fondata nel 2013 da persone legate a papà Renzi, e in questi anni ha visto crescere il fatturato fino a quasi 3,4 milioni di euro. È stato il loro braccio operativo e riceveva gran parte delle commesse della Eventi 6 (che ha come presidente la mamma di Renzi, Laura Bovoli, e socie le sorelle di Matteo, Benedetta e Matilde), la ditta di Rignano sull' Arno specializzata in distribuzione di pubblicità: il compito della Marmodiv era distribuire materiale pubblicitario per Conad, Esselunga, UniCoop Firenze, che avevano firmato contratti con la Eventi 6. A ottobre 2017 la Finanza aveva perquisito i suoi uffici fiorentini acquisendo materiale e hard disk. Ieri altre acquisizioni domiciliari. Ma è sempre il solito fango...
La verità
La verità fra la famiglia Renzi ed il Fatto Quotidiano: Marco Travaglio è stato condannato, scrive il 25 ottobre 2018 Il Corriere del Giorno". ESCLUSIVA! La sentenza integrale della condanna a Marco Travaglio ed al Fatto Quotidiano per aver diffamato il padre di Matteo Renzi. Una sentenza che smentisce quanto asserito dal giornale di Travaglio all’indomani dalla sentenza! Nei giorni scorsi molti organi di informazione, fra cui il nostro giornale, hanno pubblicato la notizia relativa alla condanna in primo grado del Tribunale civile di Firenze nei confronti dell’Editoriale Il Fatto spa (editrice de il Fatto Quotidiano n.d.r.) del suo direttore responsabile Marco Travaglio, e della giornalista Gaia Paolo Scacciavillani, per aver diffamato con i loro articoli Tiziano Renzi, padre del sen. Matteo Renzi, ex premier e segretario nazionale del PD. Una sentenza di condanna che il giornale diretto da Marco Travaglio ha sintetizzato “Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti”, sostenendo che “il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio” ma in realtà tale sintesi riguardava esclusivamente quanto pubblicato online per la quale si è “salvato” dalla condanna il collega Peter Gomez , in quanto la pubblicazione online secondo la Cassazione non è riconducibile alle norme di Legge sulla Stampa (quindi un “cavillo” giuridico, e non un’ assoluzione sul merito) come dimostra e contiene la sentenza che il CORRIERE DEL GIORNO, unico giornale in Italia, è in grado di pubblicare integralmente, come nostro stile giornalistico. Sentenza che anche Travaglio avrebbe ben potuto pubblicare sul FATTO, ma che stranamente… se è guardato bene dal farlo! Ogni giudizio etico sulla vicenda viene quindi demandato ai lettori, auspicando che abbiano conoscenze e competenze giuridiche per capire il contenuto della sentenza. Noi diamo notizie, non esprimiamo opinioni e sopratutto non ci schieriamo mai con nessuna delle parti in causa. Buona lettura.
Il precedente.
Travaglio punito dal giudice, scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.
La solidarietà corporativa.
Se si va per l’aia di una fattoria e provi a toccare un maiale o un’oca, tutti i loro simili grugniscono o starnazzano.
Lo Stato di diritto contro Travaglio, scrive il 24 ottobre 2018 Democratica. La campagna mediatica giustizialista di Marco Travaglio subisce una brusca battuta d’arresto. Il paradigma giornalistico del “diamogli addosso” di Marco Travaglio non ha passato l’esame del Tribunale di Firenze. L’esito finale della sentenza che condanna il Fatto Quotidiano a pagare 95000 euro al padre di Matteo Renzi, Tiziano, può essere considerato come l’albero sul quale si è schiantato a tutta velocità il giustizialismo usa e getta messo in campo nella campagna mediatica travagliesca contro Renzi. Sulla sentenza che condanna Travaglio e dà ragione a Tiziano Renzi c’è molto da dire. Innanzitutto bisognerebbe dire basta alle campagne di odio politico svincolato dai fatti. Chi tenta di collocare il baricentro del discorso pubblico partendo dal garantismo diviene egli stesso oggetto di attacco. Succede di frequente: si viene inseriti nella black list della Casta, si viene classificati come servi del potere, persino scribacchini mercenari. Intanto Travaglio ha preannunciato che ricorrerà in appello perché è sicuro del fatto che il suo giornale abbia scritto la verità, nonostante i giudici civili, almeno in parte, gli abbiano dato torto. Una mossa lecita se non fosse accompagna dalla reiterazione dell’attacco fine a se stesso: “Cercheremo di farci ridare i soldi. Se le balle, poi, fossero reato, Renzi sarebbe all’ergastolo, quindi starei tranquillo al posto suo. Noi le balle non le abbiamo mai raccontate”. Ora più che mai Marco Travaglio appare un apprendista stregone che oggi paradossalmente incappa in una sentenza di quella magistratura che egli ha eletto al vertice del sistema. L’utilizzo delle notizie maneggiate, quelle prese e ricostruite artificiosamente, l’uso di certe parole offensive, finanche la storpiatura dei nomi per canzonare l’avversario: il direttore del Fatto ripensi al suo modo di fare giornalismo. Ma l’informazione politica, anche quella schierata, non dovrebbe essere altro?
Travaglio unico nel fare giornalismo, scrive Giovanni Coviello fondatore VicenzaPiu.com il 10 ottobre 2018. Fare giornali non è un'impresa facile soprattutto in Italia e non di questi giorni ma da molti anni, da quando di fatto sono ben pochi gli editori indipendenti. Tanto per capirci un editore è indipendente se non ha attività imprenditoriali e/o politiche a cui il suo giornale (stampato, televisivo, online...) possa far comodo portandolo a valutare i suoi risultati non solo su base economica, spesso da anni negativa, ma per gli "aiutini" che la sua linea editoriale può dare agli altri suoi affari. È per questo che, visto che ci siamo costruiti la possibilità di essere editori di noi stessi (una "sfortuna" economicamente, una "fortuna" per i lettori ci premano anche con gli abbonamenti) ci piace seguire Il Fatto Quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio, un non simpatico ma grade professionista, non ha padroni di riferimento che non siano alcuni suoi giornalisti, qualche investitore che non ha altri business che non l'informazione e, soprattutto, i suoi lettori. Un giornale così libero (Libero come è di Angelucci, re delle cliniche private e dei giornali... collegati cioè, oltre a Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria, di Siena, di Arezzo, di Viterbo e di Rieti) che, pur essendo più "piccolo", per la gioia dei lettori può fregarsene della RCS (Il Corriere della Sera e Gazzetta dello sport di Urbano Cairo, finanziato, però da Intesa Sanpaolo che è anche il secondo azionista dopo Confindustria de Il Sole 24 Ore), ovviamente dei giornali (e tv) della famiglia Berlusconi e di quelli della famiglia Caltagirone (Il Gazzettino, Il Messaggero, la Gazzetta del sud...), per non parlare di quelli (La Gazzetta del Sud, Il Giornale di Sicilia...) dell'imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo alla sbarra in un processo per concorso esterno all'associazione mafiosa, ma soprattutto del gruppo Gedi dell'accoppiata De Benedetti - eredi Agnelli (Espresso più la Repubblica più La Stampa + Il Secolo XIX più la catena locale dei quotidiani Finegil tra cui Il Mattino di Padova, La Nuova di Venezia, La tribuna di Treviso...). L'elenco dei giornali "dipendenti", serviti da giornalisti "dipendenti" o precari che siano, continuerebbe a dismisura a parte il gruppo dell'editore Riffeser Monti (Il Giorno, la Nazione, Il Resto del Carlino e, cioè, i quotidiani QN) e poche altre eccezioni. I quotidiani più locali (alcuni che fanno capo a gruppi nazionali o para nazionali li abbiamo già citati) non sfuggono alla regola dell'editore impuro. È perciò che noi non ci divertiamo ma abbiamo l'obbligo di far sapere ai lettori, per tutelarne la conoscenza delle fonti a cui si rivolgono per informarsi dei fatti e farsene opinioni, a chi fanno capo i media locali. Se quelli spiccatamente locali sono solo Il Giornale di Vicenza e Tva, che appartengono a Confindustria Vicenza (il secondo direttamente, il primo tramite una società controllata anche da Confindustria Verona) la nostra attenzione, per quanto localmente "piccoli" (numericamente ma sempre meno), come "piccolo" (numericamente ma sempre meno) è Il Fatto Quotidiano rispetto ai colossi dell'editoria padronale nazionale, si concentra su di loro e sulle loro interpretazioni (libere per diritto giornalistico ma non sempre indipendenti dalla proprietà editoriale) dei fatti se non addirittura, come spesso avviene, della loro distorsione se non cancellazione. Per fare esempi non esaustivi ma chiari per le tre suddette caratteristiche citiamo:
- l'interpretazione della convenienza di opere come la Tac Tav e della Pedemontana Veneta (tra i proprietari del GdV e di Tva ci sono quelli che ne traggono e ne trarrebbero utili per loro);
- la distorsione della realtà come per gli ancora recenti e sanguinanti osanna perenni alla Banca Popolare di Vicenza, dei cui vertici facevano parte i vertici di Confindustria sponsorizzati dagli imprenditori amici, e come per gli atti delittuosi e gli immigrati, che nella realtà diminuiscono ma che ci vengono fatti percepire come fattori ogni giorno in crescita di una Vicenza terreno barbaro di lotte per bande, preferibilmente africane e mussulmane, per cui uno scippo diventa terrore di un quartiere (i proprietari del GdV e di Tva hanno come referenti molti politici che sono bravi ad agitare gli spettri della paura e dei mal di pancia, un po' meno a costruire una città meno provinciale e più moderna);
- la cancellazione di fattacci come quelli dei morti e dei feriti sul lavoro (specialmente se sono quelli di aziende come la Marlane Marzotto, i cui nomi o parti di nomi sono oggetto solo di ossequi, e allora due dita mozzate a un gambiano alla Ferretto meritano solo uno sperduto riquadrino); come le pene attuali e future degli impoveriti dal crac della BPVi osannata; come la sodomizzazione della Fondazione Roi; come le denunce intimidatorie ad alcuni, ovviamente pochi coraggiosi, giornalisti, e non parlo solo di me.
Allora ecco il perché del titolo "Travaglio unico per fare giornalismo". Sì, è un travaglio unico farlo bene in Italia e a Vicenza, ma è unico Marco Travaglio nel saperlo denunciare con nomi e cognomi e con fatti e dimenticanze ma anche nel volerlo e saperlo difendere, quello condiviso e quello combattuto, da chi, come Luigi Di Maio, vorrebbe fare a meno di tutto il giornalismo non amico o non servo. Vi proponiamo, quindi, un editoriale di Travaglio, unico anch'esso nell'elencare le opinioni smaccatamente non di parte, è lecito, ma facinorose, i favoritismi e gli oblii dei quotidiani di De Benedetti Elkann ma anche unico e coraggioso nel difendere la Repubblica, La Stampa & c. dalle minacce inaccettabili di un vice ministro come Di Maio. Come li difende è evidenziato in grassetto nell'articolo di sotto riportato, mentre noi, seppure con interno... travaglio, per sostanziare l'ammirazione nei suoi confronti (professionali e non per identità di vedute, spesso diverse), proviamo a difendere l'esistenza di GdV e Tva parafrasando la difesa di Marco Travaglio: Hanno fatto questo e altro, i giornali di Confindustria Vicenza, ma noi vogliamo che continuino a proporsi ai lettori/telespettatori per tre motivi. 1) Nessun deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, ma di sicuro può darle agli editori e ai direttori che li costringono, per loro evidente stato bisogno in assenza di alternative economiche, a servire gli interessi della proprietà e non i lettori 2) Quando VicenzaPiù subisce attacchi ben peggiori delle pagelle dal sistema locale e dai suoi killer, non ci giunge alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché tutti continuiamo ad esistere, la gente può notare la differenza.
Da un travaglio può nascere qualcosa di bello ed è per un po' di quel bello che noi accettiamo il travaglio di fare Giornalismo: è bello il post travaglio.
La differenza di Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano.
Hanno scritto di un'intercettazione fra Rosario Crocetta che taceva divertito mentre un amico medico auspicava l'assassinio di Lucia Borsellino come quello del padre Paolo, e non era vero. Hanno scritto di troll russi dietro la campagna web contro Mattarella, e non era vero. Hanno scritto che il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, nel caso Consip, era stato "smascherato come impostore e falsario di passaggi politicamente significativi dell'inchiesta"; e aveva "consegnato a Marco Lillo la notizia del coinvolgimento di Del Sette", insomma era lui "la mano che dà da mangiare al Fatto" per "far cadere Renzi" (fra l'altro già caduto da solo), ma non era vero; e, quando la Cassazione scagionò Scafarto per i suoi "errori involontari", si scordarono di informarne i lettori. Hanno scritto che Di Maio situava Matera in Puglia anziché in Basilicata, e non era vero. Hanno scritto che l'Italia, se rinunciasse al Tav Torino-Lione, dovrebbe pagare "penali" miliardarie, e non è vero (glielo fece notare l'ex pm Livio Pepino in una lettera, ma non la pubblicarono). Hanno scritto che Marcello Foa, aspirante presidente Rai, è un fabbricante di fake news tant'è che ha scritto un libro per "spiegare come si falsifica l'informazione al servizio dei governi", ma non è vero (il suo Gli stregoni della notizia, al contrario, smonta le fake news al servizio dei governi). Hanno scritto che c'è la Russia di Putin dietro le fake news filo-M5S&Lega, e non era vero.
Hanno scritto che il premier Conte voleva trasferirsi dalla cattedra di Firenze a quella di Roma con un concorso "confezionato su misura", e non era vero (il bando era standard). Hanno taciuto sulla tesi di dottorato in larghe parti copiata dalla Madia. Hanno nascosto la bocciatura del Jobs Act di Renzi dalla Corte costituzionale ("Lavoro, su Jobs Act e Cig si ritorna al passato": nessun riferimento nella titolazione alla Consulta e all'incostituzionalità). Hanno nascosto, mentre tutti gli altri giornali ne parlavano, l'inchiesta per la soffiata di Renzi a De Benedetti sul decreto Banche popolari, usata dall'Ingegnere per guadagnare in Borsa 600 mila euro in due minuti, forse perché troppo impegnati a fare decine di titoli su "Spelacchio" (un albero di Natale). Hanno fatto il taglia e cuci dei messaggi di Di Maio alla Raggi per spacciarlo come "bugiardo" e "garante" di Raffaele Marra in Campidoglio, mentre ne sollecitava il trasferimento. Hanno taciuto per giorni il nome dei Benetton, primi azionisti della concessionaria Autostrade (sponsor de La Repubblica delle Idee), dopo il crollo del Ponte Morandi.
Hanno scritto che il ponte era crollato anche per il no del M5S alla Gronda, che però fu bloccata da chi governava città e regione (centrosinistra e centrodestra) e per giunta contemplava l'uso del viadotto Morandi. Hanno scritto di probabili legami con la Casaleggio di tal Beatrice Di Maio e delle sue fake news anti-renziane e non si sono mai scusati quando si è scoperto che era la moglie di Brunetta. Hanno accostato le leggi razziali del fascismo al decreto Sicurezza di Salvini. Hanno pubblicato una bozza apocrifa e superata del contratto di governo giallo-verde facendo credere che prevedesse l'uscita dell'Italia dall'euro e scatenando spread e mercati. Hanno nascosto il sequestro di 150 milioni e di due giornali all'amico editore-costruttore catanese Ciancio Sanfilippo. Hanno spacciato lo scandalo Parnasi come una storia di tangenti al M5S, mentre i partiti finanziati dal costruttore sono gli altri (Pd, Lega e FI). Hanno elogiato Monti quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020 e massacrato la Raggi quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Hanno scritto che le polizze intestate dal dirigente Romeo all'ignara Raggi celavano "tesoretti segreti" per "garantire un serbatoio di voti a destra", dunque era "vicina" l'"accusa di corruzione", ma non era vero. Hanno dipinto l'assessora Paola Muraro come infiltrata di Mafia Capitale e della "destraccia" nella giunta capitolina, salvo poi intervistarla dopo le dimissioni come grande esperta di rifiuti. Hanno nascosto l'attacco di Rondolino, che sull'Unità dava del "mafiosetto di quartiere" a Saviano, reo di aver criticato la Boschi, mentre il Fatto restò solo a difenderlo. Hanno minimizzato le epurazioni dalla Rai renziana di Gabanelli, Giannini e Giletti come ordinaria amministrazione.
Hanno fatto questo e altro, i giornali del gruppo Gedi (Repubblica-Espresso-Stampa), ma noi siamo solidali con loro per gli attacchi di Di Maio, per tre motivi. 1) Nessun politico deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, tantopiù se sta al vertice del governo. 2) Quando il Fatto subiva trattamenti anche peggiori da Renzi e dai suoi killer, non ci giunse alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché usciamo tutti in edicola, la gente può notare la differenza.
Ps. Per la serie "Chiamate la neuro", segnaliamo i delirii di Carlo Bonini (Repubblica) all'autorevole Radio Cusano Campus: "Il Fatto Quotidiano specifica che non prende alcun finanziamento pubblico? È una furbizia. Siccome i lettori del Fatto sono in buona parte elettori del M5S, è un modo per raffigurare ai lettori del M5S che la terra è tonda e non quadrata, dopodiché la terra è tonda". Il pover'uomo ignora che il Fatto è nato prima del M5S e la nostra scelta di non ricevere finanziamenti pubblici prescinde dalle intenzioni di voto dei nostri lettori (peraltro note solo a lui). Volendo, Bonini potrebbe raccontarci degli aiuti statali (o a spese degli altri giornalisti) ricevuti dal suo gruppo per contratti di solidarietà, prepensionamenti & affini. E regalarci una delle sue grandi inchieste sui vertici Gedi indagati per una truffa milionaria all'Inps.
Eppure…nonostante Travaglio....
Editoria: Cdr Il Fatto, informazione libera interesse Paese, solidali con Gedi, scrive Adnkronos il 7 Ottobre 2018. “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i […] Roma, 7 ott. (AdnKronos) – “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i Comitati di redazione del Fatto quotidiano e de ilfattoquotidiano.it. “Quando giornali e siti di informazione chiudono, dichiarano esuberi o sono costretti a contratti di solidarietà, a rimetterci non sono solo i giornalisti ma anche il pluralismo e quindi la democrazia”, si legge nella nota del Cdr. “Il mercato editoriale e quello pubblicitario vivono situazioni di estrema difficoltà, connesse anche alle trasformazioni tecnologiche e al peso dei colossi della rete e dei trust televisivi, che un vicepremier e ministro del Lavoro senz’altro conosce, o almeno dovrebbe conoscere, meglio di noi. E’ inaccettabile che Luigi Di Maio liquidi i problemi di un importante gruppo come Gedi che edita Repubblica, L’Espresso, La Stampa e altre testate, sostenendo che “nessuno li legge più perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”, con offensivi riferimenti a “bufale” e “fake news” e cioè a una linea editoriale che non gli piace”, si sottolinea nella nota.
Marco Travaglio sbancato in tribunale da Tiziano Renzi: 95mila euro sono troppi, da rivedere la legge, scrive Renato Farina il 24 Ottobre 2018 su "Libero Quotidiano". A Berlusconi dev’essersi sollevato il morale, nonostante i guai tirolesi, per l’umile e insieme dignitosa domanda d’ingresso di Marco Travaglio nel club del quale il Cavaliere è da circa 25 anni presidente. Il circolo si chiama “A me mi hanno rovinato i giudici”. Leggendo l’editoriale di ieri del direttore sulla prima pagina del Fatto quotidiano siamo messi davanti a due avvenimenti antipatici e ad uno stato d’animo atto a suscitare nel lettore un moto di solidarietà. Cominciamo dai fatti. È capitato che il Tribunale di Genova, in sede civile, abbia condannato per diffamazione Travaglio e una sua cronista ad un risarcimento di 95mila euro a ristoro di Tiziano Renzi, il papà di Matteo. Questa sentenza - ci racconta il salassato con una prosa meno satirica del solito - viene dopo un’altra decisione tribunalizia, ancora più pesante: da rifondere con 150mila euro sono in questo caso i giudici di Palermo maltrattati dal Fatto per aver assolto il generale Mario Mori in uno dei tanti processi cui è stato sottoposto. In entrambi i casi siamo al primo grado di giudizio, e non è stata deliberata l’esecutività dell’esborso. Non entriamo nel merito delle sentenze. Travaglio si difende con cipiglio, e le giudica sbagliate fino allo scandalo. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo una stanza dei trofei delle assurdità. Ci è capitato di essere condannati per aver scritto che un brigatista rosso aveva partecipato a tre assassinii, mentre pare fossero solo due, e gli avremmo così rovinato la reputazione. In un’altra vicenda, un imam espulso dall’Italia e restituito al Marocco in quanto teorico del terrorismo, è stato gratificato su ordine del Tribunale di 100mila euro: glieli ha dovuti fornire Libero per non averlo trattato come un noto pacifista. La speranza è che se li sia bevuti o spesi a donne, ma temiamo siano stati impiegati per far danni.
UMORE AMARO. Travaglio dice che se va avanti cosi, tra Tribunali e avvocati, il Fatto rischia di chiudere. «Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali “a strascico” sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze». Chiede soccorso ai lettori, a questo punto. Ci risparmia di associarsi alla lagna di quelli che chiedono aiuto al sindacato unico e all’Ordine dei gazzettieri, entrambi enti non solo inutili ma dannosi. E di questo Dio gliene renderà merito: guai a invocare l’aiuto di Belzebù. A nostra volta non gli faremo il torto di fingerci accorati per lui e il suo giro. Siamo stati costretti dalla nascita, 18 e rotti anni fa, a grattarci le rogne da soli, e se le sentenze dei Tribunali ci hanno spennato, a zittirci hanno provato con qualche successo i consigli disciplinari della sventurata categoria, senza trovare sostegno da chicchessia. Amen.
Dicevo dei sentimenti toccanti che traboccano dallo scritto di Travaglio e quasi annegano gli eventi. Si avverte nel giornalista torinese l’umore sconfortato e amaro del cornuto, cui tocca persino versare l’assegno alimentare alla magistratura così amata eppur fedifraga.
REATI DI OPINIONE. Nessuno può mettere in dubbio la nostra cordiale partecipazione al lutto, avendo Libero dedicato al tema di tradimenti e ripicche una fortunata serie, dove Feltri non ha lesinato spigliati consigli per tirare su il morale agli sventurati. Ma uno buono Travaglio lo dà da solo a se stesso, associandosi a una causa che vede il nostro quotidiano, e il direttore in particolare, ingaggiato dall’età di Gutenberg in una battaglia senza quartiere. Quella per dare una regolata seria alle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa. Logico che chi sbaglia deve pagare. Ogni categoria professionale, dal medico al meccanico al giornalista, è esposta alla possibilità di errori. Che debba risarcire i danneggiati è ovvio, anche se da questa ovvietà sono immuni i magistrati, nonostante un referendum che nessuno ha osato dal 1988 applicare davvero. Occorre però misura e buon senso. Nel caso delle pretese diffamazioni - oltre alla depenalizzazione - occorre predisporre un tariffario certo e non assassino della libertà di stampa nel definire l’entità del danno, oltre a prevedere forme diverse o sostitutive del ristoro in pecunia, che vadano dalla rettifica alle scuse pubbliche. Sarebbe davvero il caso che questo “governo del cambiamento” mutasse il codice sfoltendolo dai reati di opinione e vilipendio, e impedendo che si punisca una parola esagerata come un omicidio stradale. Renato Farina
Ha ragione (sic!) Travaglio, scrive Piero Sansonetti il 24 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Beh, stavolta mi tocca dar ragione a Marco Travaglio. Ieri ha scritto un articolo appassionato, sul Fatto, per difendere se stesso e il suo giornale da una sentenza di condanna inflittagli dal tribunale per via di una querela che si era beccato da Tiziano Renzi, il padre del leader del Pd. Nessuno può negare che il Fatto da qualche anno abbia scelto Matteo Renzi, i suoi genitori, Maria Elena Boschi e chiunque altro abbia frequentazioni con l’ex premier, come bersagli fissi delle sue polemiche. A volte sensate, spesso costruite su notizie (non sempre vere) fatte recapitare da alcune Procure ai suoi cronisti (penso alla campagna battente su Consip, fondata anche su alcune false informazioni e conclusasi solo quando la Procura di Roma ha bloccato i rubinetti della fuga illegale di notizie proveniente da Napoli). E nessuno può togliere al Fatto la colpa o il merito di avere in questo modo (anche con metodi giornalistici che io francamente non condivido e che considero la quintessenza del giustizialismo) contribuito largamente alla pesante sconfitta politica di Matteo Renzi, al dimezzamento elettorale del Pd, al trionfo delle forze penta- leghiste. Ma tutto questo può essere – e a mio giudizio deve essere – il terreno di una battaglia politica e di cultura. Le Procure non c’entrano niente. E’ vero che né la politica, né tantomeno il giornalismo, sono stati capaci di contrastare le campagne del Fatto, da posizioni garantiste e liberali. Anzi, spesso gli sono corsi appresso. Ma questa circostanza non è colpa del Fatto e comunque in nessun modo investe i compiti delle Procure. Sarebbe bene metterselo in testa una volta per tutte: le Procure non possono e non devono svolgere una funzione di “surroga” della politica. Se la politica è assente è assente: non può un altro potere costituzionale assumerne i compiti. Altrimenti si realizza un corto circuito e questo cortocircuito comporta un disastro, perché riduce le libertà di tutti. E innanzitutto riduce la libertà di stampa. Una cosa è una polemica, dove si può prevalere o soccombere o nessuna delle due cose. Una cosa è una sentenza che ti manda in prigione o riduce drasticamente le tue disponibilità economiche. Travaglio su questo ha del tutto ragione. E’ probabile che sul Fatto sia uscita qualche imprecisione sugli affari economici del papà di Renzi, ed è anche molto probabile che queste imprecisioni fossero funzionali a una polemica esagerata nei confronti dello stesso papà, in quanto papà, e cioè che mirassero a danneggiare il figlio. Ma se ogni imprecisione nelle polemiche, anziché combattuta con l’arma della smentita e della rivalsa polemica, finisce con una sentenza severissima del tribunale, succede esattamente quello che denuncia Travaglio: chi svolge questo mestiere, cioè il giornalista, se mai tra le sue intenzioni ci fosse quella di criticare il potere, si rassegnerà a lasciar perdere e a diventare quieto e mansueto. Il potere non perdona, sa come intimidire, e per farsi valere usa la magistratura. Talvolta, come in questo caso, sono i politici o i parenti dei politici a usare la magistratura. Talvolta – io almeno ho questa esperienza – sono direttamente i magistrati a praticare lo stesso metodo. E’ vero che i giornalisti che criticano i magistrati sono molto meno di quelli che criticano i politici, ma quei pochi sono a rischio altissimo, anche perché i politici spesso le cause le perdono, i magistrati assai raramente. Travaglio alla fine del suo articolo propone la riforma del sistema delle querele e delle cause per risarcimento. Credo che abbia ragione da vendere stavolta. Magari dovrebbe tenere conto, nei prossimi anni, del fatto che tutto questo succede anche per un eccesso di potere assunto dalla magistratura. E dovrebbe ragionare sulla possibilità che questo eccesso di potere sia nato anche in seguito al “fiancheggiamento” della stampa giustizialista. Però è probabile che questa mia speranza sia eccessiva.
Mi sono fatto un paio di domande sulla condanna di Travaglio. Nessuna soddisfazione nel ricorrere alla magistratura nei confronti di qualcuno che mi sta sullo stomaco, scrive Andrea Marcenaro il 24 Ottobre 2018 su Il Foglio. Se c’è una cosa che mi fa onore è non aver mai voluto perdere tempo a chiamare alcuno dei miei amici anziani, ma che furono feroci ai loro tempi, per organizzare l’avvelenamento, o l’omicidio semplice, o peggio ancora lo squartamento di Marco Travaglio. Mai, non mi è nemmeno mai venuto in mente. Così ieri, quando ho visto che Travaglio stesso era stato condannato da un tribunale a pagare 95 mila euri per aver sputtanato uno dei mille che ha sputtanato, posso dirvi in tutta sincerità di essermi domandato, primo, se, come persona che aborre l’intervento della magistratura come risolutrice di ogni questione, avrei fatto un’eccezione per qualcuno che mi stava sullo stomaco. Mi sono risposto che non dovevo. E che non l’avrei fatta. Secondo, se avrei provato comunque, al di là della ragione, una per quanto piccola soddisfazione nel profondo del cuore per quella condanna. No, mi sono risposto per la seconda volta, non provavo alcun compiacimento. Neppure un’ombra. E non ho nulla di cui vantarmi, intendiamoci bene, sono fatto così. Dio, però, quanto mi piace sparare cazzate come queste.
Difendo la libertà di stampa e quindi anche “Il Fatto”, scrive Piero Sansonetti il 25 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Trovo molto, molto ragionevoli le critiche di Emanuela Bellizzi e di Filippo Bassi. (Oltretutto non sono solo ragionevoli ma sono anche – rarità – civilissime). E tuttavia dissento. Provo a spiegare perché. È chiaro – e lo ho scritto anch’io molte volte – che la stampa spesso usa in modo arrogante e anche volgare il suo enorme potere. Talvolta lo fa per spavalderia, talvolta per assecondare altri poteri (essenzialmente il potere economico o quello giudiziario, più raramente il potere politico) e con le spalle protette da questi poteri. E’ evidente che questo atteggiamento, (dovuto anche – credo – alla crisi drammatica che sta vivendo, da 15 anni a questa parte, il giornalismo italiano) costituisce un problema. Poi però c’è un secondo problema, grandissimo, ed è quello della difesa della libertà di stampa. Io sono tra quelli che pensano che la stampa, e l’informazione, in Italia siano a un livello molto basso, e che abbiano un grado minimo di indipendenza. Questo però non vuol dire che allora si può rinunciare alla libertà di stampa. Al contrario, proprio per la qualità scadente della nostra informazione è necessaria assolutamente una battaglia strenua per la libertà di stampa. È chiaro che libertà di stampa non può significare né libertà di insulto né libertà di calunnia. Ma come si combattono questi vizi? Con la magistratura? Io non credo. Credo che si combattano con la battaglia politica, con l’impegno. Conosco per esperienza come funziona l’uso della giustizia da parte del potere – per limitare la libertà di informazione. Personalmente, avendo diretto alcuni giornali ( e quando dirigi un giornale rispondi di qualunque cosa sia stato scritto) ho collezionato un po’ più di centocinquanta azioni giudiziarie contro di me ( tra penale e civile). Succede anche a altri miei colleghi. Difendersi diventa quasi impossibile, perché costosissimo. Ogni azione giudiziaria che si è costretti ad affrontare comporta fatica, tensione, preoccupazione, spese alte. Volete sapere quante di queste azioni giudiziarie sono partite da inermi cittadini? Forse due o tre. Tutte le altre sono state messe in moto da persone molto potenti, in particolare da magistrati o da politici. Le più gravi e pericolose da magistrati. Voi pensate che tutto questo non diventi un fatto oggettivo di forte intimidazione? Immaginate che sia facile continuare a scrivere di quel magistrato o di quel politico che ti ha portato in tribunale, mentre procede l’iter processuale? E sapete che anche se poi si vince la causa nessuno ti rimborserà le spese né il tempo? E sapete che se poi si perde – e non sempre perché si ha torto – si viene condannati a pene detentive o a risarcimenti altissimi, pari a quanto guadagni in due o tre anni di lavoro? Dopodichè chiunque un pochino pochino mi conosce sa che le mie simpatie (professionali) per Marco Travaglio sono a zero. E che sono molto preoccupato per come Travaglio e i suoi hanno occupato quasi tutti i talk show nazionali e hanno sottomesso gran parte del nostro sistema di informazione. Ma non è una questione di simpatia, né di giudizio sulle sue qualità professionali o morali, né di difesa di una parte politica. Il problema è molto più semplice: di fatto, la legge viene usata contro la stampa, nel 99 per cento dei casi, non per difendere i cittadini deboli ma per rendere invulnerabili i poteri più forti. Non tanto la politica, e infatti è difficile sostenere che in Italia non esista la possibilità di criticare la politica. Quanto il potere economico e quello della magistratura. La critica a questi due colossi è veramente molto difficile. Per questo io non credo che la mia difesa – forse un po’ paradossale – di Travaglio sia una difesa corporativa. (Del resto ho scritto moltissimi articoli contro gli attacchi spesso pretestuosi del Fatto a Renzi, o a Boschi o ad altri dirigenti del Pd, ma non solo del Pd). Mi pare che effettivamente sia in gioco una parte del nostro potere di giornalisti (e nella sua difesa c’è sicuramente corporativismo) ma sia in gioco anche un bene più grande e generale che è la nostra libertà di giornalisti. E la nostra libertà interessa tutti. Anche se viene frequentemente usata malissimo e trasformata in libertà di starnazzare, di insultare, di spargere odio.
P. S. So di dire una cosa controcorrente. Però io penso che le sentenze si possano criticare. Non ho mai capito perché non dovrebbe essere possibile criticare una sentenza. Forse sono sacre? Vanno rispettate ed eseguite, questo è logico, anche perché non esiste nessuna possibilità di non rispettarle. Ma perché mai se penso che sia sbagliata non dovrei avere il diritto a dirlo?
Eppure lo stesso Piero Sansonetti diceva…
Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio". È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.
Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.
Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.
Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.
Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».
Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.
Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?
Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.
Il Papa: «Giornalismo coprofilo», scrive Piero Sansonetti l'8 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione e possono cadere, senza offesa, nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno». Questo attacco durissimo alla stampa e alla televisione (con evidenti riferimenti alla stampa e alla televisione italiane) non è venuto da qualcuno dei soliti “garantisti imbavagliatori”, che vengono sempre denunciati e indicati al ludibrio pubblico dai profeti dell’informazione combattente. No, questa denuncia contro i lanciatori di fango viene dal papa Francesco Bergoglio. Il Papa ha parlato dei problemi dell’informazione e del suo degrado in un’intervista rilasciata al settimanale cattolico belga «Tertio». Non ci è andato tenero, il pontefice. Magari non tutti sanno cosa vuol dire coprofilia. E’ una parola abbastanza aspra: vuol dire amore per gli escrementi. Vogliamo dirla in modo più crudo ed esatto? Amore per la merda. È considerata una tendenza sessuale estrema, rarissima e un po’ inquietante. Il papa ha scelto questa espressione (” amante della merda”) per descrivere le caratteristiche essenziali del giornalismo, con riferimento evidente a parecchi giornali del nostro paese. E’ stato molto chiaro nel suo ragionamento. Non si è riferito solo alle (peraltro non infrequenti) calunnie. Ma anche alle verità usate non per fare informazione ma al solo fine di demolire e mettere fuorigioco un avversario. «Le tentazioni da evitare – ha detto – sono le eventualità in cui le informazioni possono danneggiare qualcuno, le tentazioni che portano i media lontani dalla loro missione, che è quella di costruire opinione. La prima tentazione si verifica quando una persona magari nella sua vita, in precedenza, nella vita passata, o dieci anni fa, ha avuto un problema con la giustizia, o un problema nella sua vita familiare, ma forse ha già pagato con il carcere, con una multa o quel che sia. In questo caso portare questo alla luce oggi è grave, fa danno, si annulla una persona! L’altra deviazione è la disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione, dire solo una parte della verità e non l’altra. Questo è disinformare. Perché tu, all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio. La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità. I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione» . Non so che risalto avrà questa frustata del papa sui giornali italiani di questa mattina. Temo scarso. I giornali italiani sono fatti così: capacissimi di criticare a sangue chiunque, del tutto incapaci di mettere in discussione se stessi. E siccome il papa è il papa, magari è difficile prenderlo di petto, come si può fare con Renzi, o con Berlusconi, o con Grillo, e dirgliene quattro, ma non c’è nessuna voglia nemmeno di ascoltarlo e di aprire una discussione seria su quanto dice. Meglio sorvolare. Il papa, non c’è dubbio, ha messo il dito nella piaga. In Italia è sempre più diffuso un tipo di giornalismo che nemmeno si pone il problema di sembrare oggettivo. Ho scritto: “sembrare”, nemmeno oso usare la parola: “essere”. Un gran numero di giornali da parecchi anni ha deciso che per conquistare lettori bisogna essere faziosi, avere dei nemici ben visibili e tirare fango (il papa direbbe: “merda”) su di loro tutti i giorni. Venticinque anni fa non era così. I giornali potevano anche essere molto faziosi, poi c’erano i giornali di partito – dichiaratamente schierati con una parte politica – ma comunque compivano uno sforzo per fornire ai lettori una informazione completa. La polemica era dura, anche molto dura, ma questo non impediva la difesa, da parte degli stessi giornalisti, della propria “autonomia”. Venticinque anni fa io lavoravo in un giornale di partito, di opposizione, molto agguerrito. E mi ricordo benissimo le lotte che noi giornalisti conducemmo a difesa della nostra autonomia, anche sfidando il potere del partito- editore, perché sostenevamo che il giornalismo, comunque, deve essere giornalismo, e deve cercare, almeno, il rispetto della verità prima della difesa degli interessi della propria parte. Noi dicevamo che non esiste il giornalista militante. Il giornalista ha le sue idee, le esprime, le applica al suo modo di lavorare, ma non rinuncia mai a sottomettersi alla verità. Poi irruppero sulla scena alcuni giornali “gridatissimi”, molto lontani dall’idea del giornalismo oggettivo. Eravamo ai tempi di “tangentopoli” 19921994. La magistratura aveva iniziato la crociata e i giornalisti messo l’elmo. Alzarono i toni della polemica, ridussero la verità a una comparsa, conquistarono copie e lettori. All’inizio erano giornali di destra, poi questo tipo di giornalismo si estese a sinistra, poi dilagò. E finì per contagiare anche la stampa – come dire? – “borghese”, che si sentì costretta ad inseguire, a fare uso indiscriminato di gossip e di intercettazioni, a venerare il “Dio Sospetto”, ha esaltare il principio della presunzione di colpevolezza. Ha ragione il papa (come spesso gli accade): quella china è diventata sempre più ripida e il giornalismo italiano ci si è rotolato, ed è sceso in basso, in basso, sempre più in basso. Ora sembra che non abbia più né la capacità né la voglia di rialzarsi in piedi, rimettersi in discussione, provare a risalire. Chissà se questa micidiale denuncia del papa, e la forza quasi rozza delle sue parole, riusciranno a scuotere qualcuno. Magari lo stesso sindacato, che qualche decennio fa era in prima fila nella battaglia dei principi alti del giornalismo, ora sembra un po’ rintanato, impaurito. Forse incapace di frenare la coprofilia.
L'impunità (dei giudici) è l'origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti su Il Dubbio, il 9 luglio 2016. Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo "Il Fatto". E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la "chimica" (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due "elementi" così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell'indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il "Fatto" è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all'indipendenza che fonda quella autolimitazione dell'indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull'indipendenza dal potere la propria - volontaria - rinuncia all'autonomia, e cioè all'indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il "Fatto". E si auto-colloca in una posizione di subalternità all'ideale - quasi religioso - del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l'hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l'Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell'aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). "Il Fatto" però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l'accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c'è assoluzione. Per capirci, c'è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all'imputato di rinunciare alla prescrizione e così' si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi - ovviamente - si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c'era e dunque era doveroso svolgere l'inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa "Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi". In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell'indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell'obbligatorietà dell'azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent'anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l'unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il "Corriere della Sera" parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la "Stampa" ha calcolato in 7000 all'anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall'Anm?
Ed a proposito di manette…
Telese: Me ne sono andato dal Fatto perché non voglio morire manettaro, scrive Chiara Sirianni il 5 luglio 2012 su Tempi. «Non ce l’ho con nessuno, ma la mia linea non è quella di Travaglio. È da venti giorni che parla di Napolitano come se fosse Totò Riina. Basta, la politica non è un virus contaminante». Ecco perché Luca Telese si fa il suo Pubblico. «Ero stufo di papelli, politologia, teoremi astrusi. A volte, invece che stare sul campo a scotennare i pochi superstiti, è importante accorgersi che la guerra è finita». Luca Telese è spavaldo, ora che ha ufficialmente divorziato dal quotidiano di via Orazio per approdare in edicola, da settembre, con una testata tutta sua. Del resto anche il Fatto quotidiano, creatura di Antonio Padellaro (direttore) e Marco Travaglio (vicedirettore e uomo icona) è nato da alcuni “dissidenti” dell’Unità (Furio Colombo in primis). E la ruota, prima o poi, gira. Pubblico sarà un giornale di 20-30 pagine, formato Berliner (leggermente più grande del tabloid, utilizzato soprattutto dai quotidiani francesi), molto colorato, pieno di disegni. Il modello di business sarà lo stesso del Fatto: gruppo di soci promotori che detengono il 51 per cento del capitale, per un investimento iniziale complessivo di 650 mila euro. Distribuito su quasi tutto il territorio nazionale, con tre centri stampa in Sardegna, a Milano e a Roma. Aspettative? «Se vendiamo diecimila copie, andiamo in pareggio. Se non vendiamo, chiudiamo». Quindici i redattori, con l’obiettivo di raccontare l’Italia della crisi, «dagli imprenditori suicidi agli operai bidonati da Marchionne». Nonostante non sia un buon momento per l’editoria (Nielsen registra -241 milioni di euro di investimenti pubblicitari nel periodo gennaio-aprile 2012 rispetto all’anno precedente), il campo di gioco è piuttosto affollato. Mentre i partiti di centrosinistra si preparano a rimescolarsi in vista delle elezioni del 2013, anche un altro giornalista “compagno” è alle prese con un debutto cartaceo nel prossimo autunno: si tratta di Piero Sansonetti, già condirettore all’Unità e poi di Liberazione, che ha in cantiere un tabloid, Paese, in distribuzione con alcune testate del Sud. Poi c’è il Manifesto, “salvato” dal decreto editoria approvato dal Senato.
Telese, col Fatto quotidiano non vi siete lasciati benissimo, stando al comunicato stampa con cui le hanno sarcasticamente augurato «buona fortuna».
«Al Fatto eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Politicamente, a un certo punto, hanno preso il potere i croati. Parlo di Marco Travaglio e del suo gruppo. Non ho insultato nessuno: ho solo precisato che c’era una differenza di linea. In generale non ci sono stati scontri, anche perché in questi tre anni sono rimasto in redazione certo più di Marco. Faremo persino una partita di calcetto, Pubblico contro i colleghi del Fatto».
Sarà una partita appassionante, visto che in una recente intervista Travaglio ha detto: «A Telese non rispondo: preferisco ricordarmelo da vivo».
«In casi come questo c’è davvero poco da aggiungere. Fa ridere? Non mi pare. È spiritoso? Nemmeno. Intende dire che è come se fossi morto? Se sì, mi preoccupo per lui. Io invece gli auguro di fare un ottimo giornale, e di parlare di mafia finché avrà fiato per farlo. Io faccio un altro mestiere».
Si riferisce alle conversazioni telefoniche, pubblicate sul Fatto, tra Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio in relazione alla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra?
«È da venti giorni che il Fatto tratta la vicenda come se Napolitano fosse Totò Riina. È “giudiziarismo” giacobino, esasperato. Conduce alla non realtà. Il problema di Travaglio è l’antiberlusconismo tardivo, a oltranza. È come se nell’America odierna ci si ponesse il problema di liberare gli atolli dagli ultimi soldati giapponesi».
Eugenio Scalfari, fondatore ed editorialista di Repubblica, l’aveva predetto con un pizzico di sadismo: ora che non c’è più Berlusconi, Marco Travaglio avrà qualche problemino.
«È l’ideologia del nemico. Il rischio è quello di recitare la commedia anche quando il sipario è calato. Marco è molto carismatico, ma è rimasto un po’ prigioniero del suo ruolo. Che qualcuno pensi di essere portatore di una verità rivelata a me, personalmente, inquieta molto. Contemporaneamente, Beppe Grillo è sembrato una facile via d’uscita: è un partito in forte ascesa? Sì. Ha bisogno di un quotidiano di partito? Diamoglielo».
Perché no?
«Che senso ha scagliarsi per anni contro un imprenditore televisivo per poi mitizzare un comico? Serve altro per fare politica. Non basta urlare a un microfono “siete tutti morti!”. Purtroppo in tempo di crisi tornano in auge i comici e le fattucchiere. Quando invece serve fare, non distruggere».
Ando Gilardi, uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, parlando del rotocalco Lavoro (organo della Cgil) si espresse così, riferendosi al prototipo di operaio da lui fotografato: «Si alzava la mattina troppo presto (…) e dopo troppe ore ecco che usciva e raggiungeva faticosamente casa, dove stanco morto cenava. Ora secondo la stampa illustrata di sinistra quel disgraziato, prima di andare a letto, avrebbe dovuto leggere un giornale che gli parlava della sua vita? Dio remuneri con la Gazzetta rosa tutta la stampa sportiva che è la sola che ha fatto allora, e spero continui a fare, qualcosa di utile per i lavoratori». È un rischio? La gente vuole solo evadere dalla crisi o vuole essere ritratta?
«C’era un bisogno, almeno per me, di puntare il riflettore sull’Italia che soffre. Vorrei raccontare storie di coraggio, di persone che pur nella crisi reagiscono, senza stipendio, senza paracadute. Di certo sarà un giornale di sinistra. Parafrasando Hollande, il giornale del cambiamento. Perché per uscire dalla crisi occorrono soluzioni. I cosiddetti tecnici si sono rivelati dei totali incompetenti, e sento l’esigenza di difendere lo stato sociale da un assalto che si compie togliendo i diritti ai cittadini, dandoci in pasto all’antipolitica».
E qualora i vendoliani di Sel rientrassero in Parlamento, voi accettereste un finanziamento pubblico?
«Vogliamo abbonati e lettori: ci basiamo su quelli, anche perché tutti i giornali finanziati sono falliti. Bisogna aspettare due anni, è rischioso. Stiamo presentando il giornale ovunque: andiamo ai circoli Idv, passando per Fli e le feste del Pd. Su Lusi e Penati andremo giù col Napalm, perché siamo al di là del bene e del male, siamo nel campo della criminalità. Ma con grande rispetto per chi cucina i cappelletti o fa volontariato, come i militanti Pd di Bagnacavallo, con cui parlavo qualche sera fa. Una signora, ostetrica, mi ha chiesto: vorrete mica criticare Bersani? Certo che sì. Serve un Bersani meno bollito».
Per esempio un Nichi Vendola?
«Un giornale non fa politica: suggerisce alla politica un’agenda. La mia sarà una posizione molto laica, dato che non ho tentazioni. Conosco Vendola da anni, e sono libero di dire quando sbaglia e quando la fa giusta. Conosco bene Di Pietro: su personaggi come Scilipoti lo critichiamo, se propone un referendum utile, come quello coltro la riforma Fornero, lo sosteniamo. Ho conosciuto bene pregi e difetti dei politici, e non ho il complesso del vampiro. È Travaglio quello che considera la politica come una sorta di virus contaminante».
Nina Moric contro Marco Travaglio: "Prima manettaro, poi garantista e infine inquisitore", scrive il 5 Novembre 2016 Libero Quotidiano". Marco Travaglio riesce nella mirabile impresa di farsi umiliare da Nina Moric, che lo fa a fettine con una precisione che, onestamente, non era così semplice attendersi. Lo spunto arriva da "un tale Andrea Paolini", così lei scrive, che sul Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo tutto dedicato alle battute infelici della Moric. "Io rispetto il parere degli altri - scrive Nina -, ma un giornalista dovrebbe usare aggettivi soltanto quando questi siano oggettivi o altrimenti specificare che si tratta di opinioni personali di chi scrive". E così, dopo la premessa e qualche insulto gratuito, la Moric demolisce Marco Manetta, alias direttor Travaglio. Lo definisce "una persona confusa, è diventato celebre per le sue accuse a Berlusconi e il suo scarso garantismo riguardo tutti i processi di Silvio". Ma, nota la Moric, "ad un certo punto con un cambiamento di idee da far impallidire Paolo Brosio, è diventato un garantista, uno che diceva che il carcere fosse per i criminali veri". Si parla della campagna condotta anche da Travaglio per la grazie all'ex marito della Moric, Fabrizio Corona. "Lanciò una vera e propria campagna per la sua liberazione - ricorda la croata -, cosa che a me non è dispiaciuta, sia chiaro, salvo poi sul giornale da lui diretto, pubblicare delle vere e proprie inquisizioni su Fabrizio favorendone il ritorno in carcere".
Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co, scrive il 16 giugno 2018 "L'Inkiesta". Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà. Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”
Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo.
In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.
Si grida alla libertà di stampa…
La chiamano libertà di stampa ma è tifoseria organizzata. Gli attacchi quotidiani rivolti all'esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d'intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l'approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio, scrive Ernesto Ferrante il 9 ottobre 2018 su opinione-pubblica.com. Lo scontro tra alcune componenti del governo giallo-verde e i feudatari della carta stampata è giunto ad un livello particolarmente cruento. Gli attacchi quotidiani rivolti all’esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d’intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l’approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio. Conte, preso ancora una volta di mira per il curriculum, presunti conflitti d’interessi e non dimostrata illegittimità del concorso con cui è diventato professore ordinario nel 2002, ha replicato con una lettera aperta al direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Dopo aver sottolineato che “la libertà di stampa è un bene di primaria importanza sul piano assiologico, perché costituisce il fondamento di qualsivoglia sistema democratico”, il premier ha incalzato Calabresi con due sottili domande: “Si può sollecitare una discussione invitando Lei e i Suoi giornalisti a valutare se Voi stessi siate davvero consapevoli di quanto preziosa sia la libertà di espressione e di quali implicazioni l’amministrazione di questo “bene pubblico” comporti sul piano delle responsabilità ?”. E ancora: “Siamo sicuri che le difficoltà con cui attualmente si sta confrontando un po’ tutta la carta stampata siano da ricondurre ai nuovi strumenti info-telematici e non anche, quantomeno in parte, alla rinuncia a coltivare più rigorosamente il proprio mestiere, fidando nell’approfondimento critico delle notizie e nella verifica rigorosa delle fonti?”. Il professore ha rinnovato l’invito al direttore di Repubblica ad avere “un confronto sul momento attuale che sta vivendo la carta stampata, sullo stato dell’informazione e su altre rilevanti questioni per il nostro sistema democratico”, chiarendo anche l’unica condizione posta: che si possa video-registrare l’incontro “in modo che avvenga in piena trasparenza e che di esso sia reso partecipe il più ampio pubblico”. Confronto a cui, stando a quanto ha scritto il presidente del Consiglio, Calabresi si è sottratto, in questi mesi. Meno articolata ma decisamente più veemente è stata la presa di posizione di Luigi Di Maio che attraverso una diretta Facebook, si è scagliato contro i giornali che sistematicamente criticano la maggioranza, ridicolizzandone alcuni esponenti. “Per fortuna, ha detto Di Maio, ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle fake news dei giornali e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini, tanto è vero che stanno morendo parecchi giornali tra cui quelli del Gruppo L’Espresso che, mi dispiace per i lavoratori, stanno addirittura avviando dei processi di esuberi al loro interno perché nessuno li legge più, perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”. L’impulsività ha portato il ministro del Lavoro a fare un po’ di confusione, prestando il fianco alle critiche del Gruppo Gedi, il colosso nato dall’integrazione di Itedi (Italiana Editrice) e Gruppo L’Espresso che controlla la Repubblica, la Stampa, il Secolo XIX e i vari giornali locali di Finegil, come Il Tirreno, la Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara, La Provincia Pavese e la Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, La Nuova Venezia e Mestre, la Tribuna di Treviso e il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto e Il Piccolo e il trisettimanale La Sentinella del Canavese. Il leader del M5S, nello scontro con la carta stampata che fa rumore e tendenza, paga anche il conto di una scelta strategicamente sbagliata del Movimento, quella dell’abolizione indiscriminata dei contributi pubblici erogati dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio. Gli aiuti diretti, che non esistono più già da qualche anno, permettevano la sopravvivenza dei “piccoli”, ovvero i giornali “politici”, quelli delle cooperative di giornalisti e quelli delle minoranze linguistiche. L’ultimo governo Berlusconi e soprattutto gli esecutivi Monti e Letta, hanno progressivamente azzerato la contribuzione, decretando la fine di tante testate e del pluralismo vero e diffuso dell’informazione. I grandi, con editori impuri e grossi gruppi industriali alle spalle, hanno indirettamente beneficiato della campagna condotta dal Movimento Cinque Stelle e da Matteo Renzi. Dure critiche al vicepremier grillino sono state rivolte da Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana che hanno parlato di “insulti del vicepremier Luigi Di Maio ai giornalisti di Repubblica e dell’Espresso” che sarebbero “l’ennesima dimostrazione del disprezzo nutrito nei confronti dell’informazione libera e del ruolo che questa è chiamata a svolgere in ogni democrazia liberale”. “Di Maio, come del resto buona parte del governo, si legge ancora nella nota, sogna di cancellare ogni forma di pensiero critico e di dissenso e si illude di poter imporre una narrazione dell’Italia lontana dalla realtà. Auspicare la morte dei giornali non è degno di chi guida un Paese di solide tradizioni democratiche come è l’Italia, ma è tipico delle dittature. È bene che il vicepremier se ne faccia una ragione: non saranno le sue minacce e i suoi proclami a fermare i cronisti di Repubblica e dell’Espresso, ai quali va la solidarietà del sindacato dei giornalisti italiani, e a piegare il mondo dell’informazione ai suoi desiderata”. Una posizione, quella della Fnsi, che appare molto orientata politicamente contro l’attuale governo. Non ricordiamo simili toni con i governi precedenti, colpevoli di aver condannato alla disoccupazione migliaia di giornalisti, poligrafici, distributori ed edicolanti. A Di Maio ha risposto anche il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, parlando “di nuovi potenti, ovunque nel mondo” che “si sono accorti che grazie alle tecnologie possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode. Basta vendere ai cittadini l’illusione della comunicazione diretta, presentata come la più grande delle conquiste democratiche”, attacca Calabresi. “Siamo un giornale di opposizione, è vero, scrive ancora il direttore del quotidiano del colosso Gedi, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l’Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l’incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni”. Parole inequivocabili e pesanti che non ci sembrano di difesa della libertà di stampa ma di una posizione politica chiara, antitetica a quella del governo giallo-verde. Giornale di opposizione oggi ma di sostegno palese agli esecutivi guidati da Monti, Letta e Gentiloni. E morbido nelle critiche a Renzi. Cassa di risonanza di un ceto politico ed economico che non può certo definirsi popolare e di assetti di potere nazionali ed internazionali che mal digeriscono i cambiamenti di classe dirigente, legittimati a suon di voti dall’elettorato. “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non viviamo di stipendi pubblici (ci avete mai pensato che sia Di Maio sia Salvini non hanno mai avuto altra busta paga nella vita che non fosse quella fatta con i soldi delle nostre tasse?), aggiunge ancora Mario Calabresi, rincarando la dose, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano”. La chiamano libertà di stampa ma a noi sembra più che altro tifoseria organizzata. Le consorterie finanziarie vogliono indebolire il governo e costringerlo alla resa per continuare con l’austerità e i sacrifici che oltre a rallentare la crescita del Paese, hanno eroso i risparmi delle famiglie. Tanti in queste ore inneggiano alla democrazia ma la vorrebbero di fatto sospendere a colpi di spread e di fluttuazioni finanziarie eterodirette per consentire il ritorno al timone degli sconfitti il 4 marzo scorso. Vogliono la cessione totale della sovranità e il governo del cambiamento, pur con i suoi difetti, è un ostacolo in tal senso.
Giornalismo o propaganda? Scrive Valerio Cataldi, presidente Associazione Carta di Roma il 04 ottobre 2018. Ora il colera. L’ennesimo allarme sanitario infondato, impone una riflessione sulla dignità del giornalismo. È ora di scegliere da che parte stare. È necessario stabilire una volta per tutte quale è il limite oltre il tollerabile. Le norme ci sono, i codici deontologici anche, il sistema sanzionatorio è li ad aspettare di essere applicato. Cosa manca allora? Possibile davvero che un giornale si possa permettere periodicamente di lanciare allarmi sanitari, di seminare panico e di spargere menzogne senza subire conseguenze? Credo che di fronte all’ennesima prima pagina disgustosa di Libero la vera domanda sia: quale è il limite di falsità che bisogna superare in questo paese per smettere di continuare a definire giornalismo una certa stampa. È una domanda che giro ai consigli di disciplina dell’Ordine dei giornalisti che si troveranno, di nuovo, a dover esprimere un giudizio su un titolo come quello di oggi sul colera a Napoli portato dagli immigrati. Ma in realtà è una domanda che dovremmo porci tutti noi che facciamo questo mestiere. Quanto siamo disposti ancora a tollerare la violazione delle più elementari regole del mestiere prima di avere una reazione di dignità professionale? C’è un problema profondo di credibilità da recuperare, che viene affossata ogni volta che si propone una prima pagina come quella di oggi. Il tema dei migranti è quello che più di ogni altro riesce a stimolare il lavoro degli “spaventatori” di professione. Ci hanno parlato di imminenti diffusioni di epidemie di lebbra, di ebola, di tubercolosi. Da anni si ripete costante un allarme sanitario terrificante che se avesse un minimo fondamento, dovrebbe prevedere misure di profilassi severissime e riguarderebbe tutti noi. Ma chi si trova di fronte un titolo come quello sul colera come può non aver paura? Dicono che è la verità che è spaventosa, ma quali sono le prove della diffusione di queste malattie? Dove sono i riscontri agli allarmi continui che vengono diffusi attraverso questi messaggi terrorizzanti? Non basta trincerarsi dietro l’articolo 21 della costituzione. Qui non si tratta di libertà di opinione. Questa è propaganda che diffonde paura. Col giornalismo non ha nulla a che fare. Non sta a noi stabilire se viola il codice penale. Sta a noi stabilire se viola le regole fondanti del mestiere di giornalista, la ricerca della verità sostanziale dei fatti. Sta a noi decidere se questo è giornalismo o semplicemente propaganda.
M5S: "La Repubblica dell’inganno è indifendibile, questo non è giornalismo", scrive Silenzi e Falsità l'8 ottobre 2018. “Il direttore della "Repubblica dell’inganno", Mario Calabresi, stamani prova a difendere l’indifendibile con un imbarazzante editoriale pubblicato sul suo giornale”. Così il Movimento 5 Stelle in un post sul proprio blog ufficiale. “Che La Repubblica sia diventato un quotidiano di regime è sotto gli occhi di tutti, – prosegue il post – basti pensare che tra i senatori del Pd c’è Tommaso Cerno, fino allo scorso gennaio condirettore de La Repubblica. Ma il quotidiano "piddino" ha superato ogni limite ‘deontologico’: oltre ad essere fazioso, mentre un giornale dovrebbe essere sempre super partes, ha deciso di avviare una campagna denigratoria contro il MoVimento 5 Stelle. E lo fa sfornando continuamente fake news”. I 5Stelle elencano poi le “bufale e notizie infondate che minano l’informazione italiana” pubblicate dal quotidiano romano:
– La beffa fiscale: tasse più alte per 3,2 milioni di partite iva;
– Di Maio è garante di Marra la prova è nelle chat “Lui è uno dei miei, un servitore dello Stato”;
– I segnali tra grillini e Lega e l’incontro Salvini-Casaleggio contro le larghe intese;
– La Lega contro Salini dg Rai. Tg1, Di Maio vede Sangiuliano;
– Vaccini, Di Maio come Salvini: “No all’obbligo, siamo per le raccomandazioni”;
– Reddito di cittadinanza, ipotesi mini-sussidio: 300 euro al mese a 4 milioni di persone;
– Vitalizi, così è impantanata la riforma bandiera del M5S.
“Per non dimenticare – aggiungono – il video pubblicato da La Repubblica con gli applausi taroccati in occasione del funerale di Genova. Applausi destinati al Governo che La Repubblica ha montato e smontato per attribuirli invece al presidente Mattarella”. “Anche La Stampa, – proseguono i pentastellati – stesso gruppo editoriale de La Repubblica, è riuscita a dare linfa a questa meschina propaganda anti-M5S con la diffusione di una fake news sconcertante. Vi ricordate la storia di Beatrice Di Maio, che secondo la La Stampa era un account chiave della cyber propaganda del MoVimento? Dietro a quell’account, invece, c’era la moglie di Renato Brunetta”. “E questa sarebbe informazione? Con la pubblicazione di notizie false e intenzionalmente alterate viene fatto del male all’informazione e ai cittadini italiani. Con questo comportamento scorretto ed in mala fede La Repubblica danneggia gravemente l’interesse pubblico per dare linfa a interessi privati. Inoltre con la diffusione di notizie false viene destabilizzata l’informazione nel nostro Paese. Lasciatecelo dire: questo non è giornalismo, questa è solo propaganda di partito,” concludono.
Repubblica cieca, scrive il 10 ottobre 2018 Augusto Bassi su "Il giornale". «Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità». Questo il titolo del poderoso editoriale firmato Mario Calabresi. La cui parafrasi è: «Detestato Di Maio, ci stiamo cacando in braca: continueremo a taroccare la verità». La letterina di richiamo del direttore di Repubblica al leader dei 5Stelle metterebbe tenerezza, non facesse ribrezzo. Il dettato è infallibilmente pedestre, la cifra stilistica malconcia, e quanto ai contenuti vale ciò che già avevamo segnalato in passato: un genuino compendio della depravazione intellettuale e morale dei galoppini di un regime boccheggiante, chiamati con una pernacchia a fottere l’opinione pubblica e oggi furenti, frustrati all’idea di non poterla più penetrare neppure servendosi della pompetta; crucciati innanzi alla constatazione di essere diventati impotenti. La primitiva impalcatura dell’argomentare si basa su un trito trucco da cialtroni: calunniare come oscurantista chi si ribella all’oscurantismo della stampa garzona. E lo fa ancora e ancora e ancora alla stessa maniera: si maschera un interesse volgarmente opportunistico da nobile slancio democratico, rivendicando il pluralismo dell’informazione, la libertà di stampa. Ovvero si difende la libertà di usare la stampa a fini politici, contro il pluralismo. Per rendere potabile il veleno si accusa preventivamente la controparte di tutte le proprie alterazioni. Sapendo di essere agitatori di una campagna contro il governo, e contro i 5Stelle in particolare, che sta diventando ogni giorno più ossessiva e più aggressiva, si puntano le corna sulla controparte, accusandola di aggredire la stampa; sapendo di essere dispotici, si urla al fascismo; riconoscendosi avidi e meschini, si biasima la spilorceria d’animo; consci di essere scadenti, si taccia di semplificazione, di incompetenza; sapendosi falsi e conformisti, si annuncia di voler smontare falsità e luoghi comuni; sapendosi piromani della malafede che tutto prova a incenerire, si punta il dito sulle fiammate altrui. «Vogliono mandarci fuori strada, lo dicono e ripetono ogni volta che ne hanno occasione, in pubblico e in privato. Con una costanza e una rabbia che non ha precedenti»; «Siamo preoccupati per noi e per il Paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica»; «Per il potente che vuole liberarsi dalle critiche e vorrebbe solo giornali servizievoli che battono le mani sotto il balcone, quale migliore occasione che infilarsi in questo passaggio storico per aumentare le difficoltà?»; «il Movimento 5 Stelle non digerisce, non sopporta che la voce più ascoltata e diffusa della rete sia dalla prima pagina critica con loro. Siamo “pericolosi” proprio perchè Repubblica è leader in quello che considerano il loro territorio, la loro prateria»; «Chi disturba e insiste nel fare domande, nel mettere in evidenza contraddizioni, nello svelare errori e furbizie, deve essere messo fuori gioco. In fretta. Con qualunque mezzo». In queste poche righe c’è il male. Ancora. Ma non il genio diabolico di un oscuro e ragnato manipolatore, piuttosto la manifesta e dozzinale falsificazione del reale al servizio del padrone, incapace di vedere oltre le proprie corna. Il male nella sua banalità, il male cieco. Ignaro che la sua coda mefistofelicamente suina abbia bucato il camice da ministrante catto-progressista e sia visibile a chiunque butti l’occhio. O ancora il titolo che leggerete domani in edicola: «La manovra non piace a nessuno». Così è il giornalismo di Repubblica: indefinito. I rappresentati che hanno delegato ai propri rappresentanti le scelte politiche ed economiche in una democrazia rappresentativa e che stanno sopra il 60% dei consensi in tempo reale… sono nessuno. Provvidenzialmente, la doppia negazione rende giustizia: loro sono qualcuno; Repubblica è niente. Ogni frase «che continua a raccontare la verità» vergata “a occhi chiusi” da Calabresi porta l’impronta della mano, priva di pollice opponibile, che la verità ha da sempre goffamente cercato di rovesciare.
INFORMARE CON DUE PESI E DUE MISURE.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio". È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.
Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.
Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.
Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.
Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».
Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.
Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?
Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.
Talk show: così il populismo ha vinto grazie alla tv, scrive Angela Azzaro l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Anni di tv fondata sulle urla e sull’emotività hanno favorito il passaggio dal popolo al populismo. Aldo Grasso, il critico televisivo e di costume del Corriere della sera, ha scritto sul ruolo che i talk show hanno avuto in questa ultima tornata elettorale. Secondo il professore della Cattolica di Milano i programmi di politica, che in questi anni hanno perso molti consensi, avrebbero favorito principalmente il Pd e Forza Italia, mentre l’assenza dalla tv avrebbe avvantaggiato i Cinque stelle. Il Pd, in realtà, ha avuto contro quasi tutte le tramissioni a cominciare da quelle che in teoria, ma appunto solo in teoria, dovrebbero essere amiche come Carta Bianca su Rai3. Pochissimi partiti al governo sono stati così osteggiati. I Cinque stelle invece hanno potuto contare su quasi tutto il palinsesto di La7: anche quando non erano presenti per- sonalmente in studio, erano rappresentati dai giornalisti ospiti, schierati molto spesso con il loro movimento. La Lega, pur con una strategia comunicativa in parte differente, ha potuto contare sulle trasmissioni di Del Debbio e Belpietro su Rete4. Ma la questione è molto più strutturale di un appoggio che potremmo definire “esterno” alle forze populiste che poi hanno vinto le elezioni. I talk show sono parte del “populismo”, per alcuni versi lo hanno creato, condizionando la percezione della realtà e gli schieramenti, ancora prima che partitici, ideologici e identitari. In questi anni siamo stati abitutati a una tv urlata, che ha dram- matizzato qualsiasi problema, dall’arrivo dei migranti alla sicurezza nelle città. Sono state davvero poche le trasmissioni che non abbiano alimentato la paura, creato l’odio per il diverso, fatto credere che i diritti degli uni ( chi arriva in Italia in fuga da fame e povertà) siano opposti ai diritti degli altri ( gli italiani). È una tv basata non sulla ragione e sui dati, ma sulle emozioni non mediate, sulla cosiddetta pancia, sull’irrazionalità. È una tv che ha creato un suo pubblico, lo stesso pubblico che ha poi votato Cinque Stelle e Lega che usano da questo punto di vista la stessa cifra comunicativa. Pier Paolo Pasolini, parlando prima di tutti in Italia di quel fenomeno che poi avremmo chiamato globalizzazione, teorizzava un mutamento antropologico degli italiani. Era il rimpianto delle lucciole, che aveva un certo sapore reazionario, ma che coglieva un cambiamento profondo della società. Oggi quel mutamento è diventato ancora più radicale e ha avuto come campo di battaglia proprio un modo di intendere la televisione e l’informazione. Il passaggio da popolo a populismo, dal conflitto all’odio, avviene dentro un format televisivo che vive tutto come una guerra, un processo mediatico, uno scontro. Le forze politiche che non hanno questo approccio alla politica hanno pagato un prezzo molto alto, non solo perché la loro voce risalta di meno, ma perché meno rispondono alla trasformazione antropologica e sociale avvenuta in questi anni. Il presidente del Censis De Rita, che ha fotografato la società del rancore, vede nuovi segni di cambiamento. Comunque sia questo cambiamento non può non passare anche attraverso una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, dalla tv a internet.
Sembrava il talk di Kim, ma era la Tv italiana, scrive Piero Sansonetti il 16 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Ho visto in Tv, l’altra sera, un talk show dedicato al pasticcio- rimborsi dei 5 Stelle, e sono rimasto senza parole. Per come era organizzato, per le cose che si dicevano, per i protagonisti. Lo conduceva Enrico Mentana. Mentana, ma come fai un talk? Solo 5stelle a processare i 5stelle? Mentana è sicuramente è uno dei giornalisti italiani più bravi. Ed è un professionista di grandissima esperienza, ha lavorato ai massimi livelli in Rai a Mediaset e ora alla Sette. Eppure la sensazione netta era quella non di assistere a un dibattito ma ad una rappresentazione di regime. Scusate se uso questa parola così aspra, ma è quella giusta. Sia chiaro, non sono mai stato un fanatico della par condicio, anzi penso che sia una pessima cosa. Penso che l’informazione non la si possa fare col bilancino: deve godere di spazi di libertà, e professionali, che le norme della par condicio mortificano. Però una cosa è la discrezionalità della rete, o del conduttore, un’altra cosa è condurre una trasmissione sui 5 Stelle in difficoltà per i rimborsi spariti, con la partecipazione (nella prima parte) del capo dei 5 stelle, di un conduttore simpatizzante dei 5 stelle, del fondatore del giornale dei 5 stelle e basta. E nella seconda parte con l’intervento di altri due giornalisti decisamente simpatizzanti dei 5 stelle (o comunque molto ostili al Pd e a Forza Italia) e di un terzo bravo e giovane giornalista, indipendente, al quale però non si concede, o quasi, di esprimere il suo punto di vista.
I protagonisti della trasmissione ai quali mi riferisco sono, nell’ordine, lo stesso Enrico Mentana, Antonio Padellaro (che, paradossalmente, è stato sicuramente il più serio e anche il più critico verso il movimento di Grillo), Mario Sechi ( tifoso oltre ogni immaginazione dei 5 stelle, a sorpresa per me che lo avevo lasciato tempo fa berlusconiano e poi sapevo che era diventato montiano), Alessandro De Angelis, dell’Huffington Post (il quale ha il merito di avere rivolto a Di Maio l’unica domanda ragionevole, e però il demerito di non avere preteso una risposta) e infine, isolatissimo e, giustamente, un po’ intimidito, Ilario Lombardo, della Stampa. Il risultato di tutto questo è stato paradossale. Diciamo che tutti si aspettavano una specie di processo ai 5 stelle (come sarebbe capitato a qualunque altro partito nelle stesse condizioni), beccati dalle jene con le mani nel sacco e messi di fronte all’evidenza che il loro grado di trasparenza e di onestà non è superiore a quello degli altri partiti. Invece è successo esattamente il contrario. A parte Padellaro (che ha provato a illustrare alcune critiche anche abbastanza graffianti ai ragazzi di Di Maio e a Di Maio), per il resto la trasmissione ha affermato le seguenti verità indiscutibili.
Prima, che i 5 stelle sono e restano il primo partito e che tocca a loro lo scettro del principe e palazzo Chigi.
Seconda, che gli altri partiti sono molto peggio dei 5 stelle e devono solo starsene zitti ed eventualmente garantire in parlamento ai 5 stelle i voti per governare.
Terza, che i parlamentari a 5 Stelle sono gli unici che restituiscono parte dei loro stipendi anche se non proprio tutti lo fanno. (In realtà verso la fine della trasmissione è stato mandato in onda un servizio che dimostrava il contrario, ma nessuno si è sentito in dovere di dire: “ohibò, ma allora stavamo sbagliando tutto…”).
Quarta, che le liste elettorali di tutti i partiti che non siano i 5 Stelle sono piene di inquisiti, cioè di impresentabili.
Quinto, che di conseguenza i 5 Stelle restano il partito dell’onestà, anche se fanno sparire un po’ di quattrini, e che questa caratteristica non viene per niente intaccata dal fatto che un bel gruppetto di parlamentari ha falsificato i bonifici e un altro bel gruppetto di dirigenti del movimento (ma di questo neanche se ne è parlato) ha falsificato le firme. Personalmente penso che nessuna di queste cinque verità sia vera. Si tratta delle classiche verità non vere.
1) Che i 5 Stelle siano e restino il primo partito è un ottimo slogan elettorale, ma è circostanza tutta da verificare. Chi ha vinto si stabilisce dopo le elezioni, non prima. Oltretutto si tratterà di vedere come si calcola la consistenza delle forze politiche: per coalizione o per liste? Per percentuali o per seggi? Per risultati all’uninominale o al proporzionale? Mi chiedo: è compito di un talk show sostituire le analisi politiche con uno slogan a favore di un partito? Può darsi di sì, però è una novità nell’etica giornalistica.
2) Perché mai gli altri partiti sono peggio dei 5 Stelle? E’ una verità rivelata, un teorema che non ha bisogno di dimostrazione? E poi, a nessuno viene il sospetto che se gli altri partiti non hanno linciato i 5 Stelle dopo il pasticcio rimborsi è perché sono più civili e hanno un rispetto maggiore dello Stato di diritto? Certo, è facile immaginare cosa sarebbe successo se le parti fossero state invertite, e se a finire sotto accusa fossero stati il Pd o Forza Italia. Ci sarebbe stata l’ordalia. E’ una colpa – e non un merito – evitare l’ordalia?
3) Non è assolutamente vero che i 5 Stelle sono gli unici a donare. Lo fanno quasi tutti i partiti. Alcuni, come Sinistra Italiana, in misura molto maggiore ai 5 Stelle. Loro però dicono: ma noi li doniamo alle imprese, voi ai partiti. Non ho capito dove sia scritto che donare i soldi a una impresa (senza nessun controllo) sia moralmente più nobile che donarli al proprio partito (nelle cui idee, si suppone, uno crede; e del quale si fida ed è in grado di controllare democraticamente l’amministrazione). Ci siamo tutti convinti che Dio ha stabilito che un imprenditore è un sant’uomo, un missionario, e un partito politico (tranne il proprio) è letame?
4) Inquisiti e colpevoli non sono parole intercambiabili. Possibile che Mentana e Sechi e De Angelis non lo sappiano? Possibile che non conoscano la Costituzione italiana? Un inquisito non è impresentabile. Ognuno poi stabilirà nell’urna se lo considera meritevole o no e se considera meritevole o no un candidato che ammette di avere contraffatto un bonifico e di essersi gloriato di avere donato soldi che ha intascato. Cioè: lo stabiliranno gli elettori, perché tocca a loro questo compito.
5) Può un partito con una percentuale abbastanza alta di disonestà accertata nel suo gruppo dirigente presentarsi con la parola d’ordine (unica): onestà? Devo dire che questa domanda – l’unica vera domanda politica – l’ha posta con una certa insistenza Padellaro, ma non molto ascoltato. Ha chiesto: sicuri che un elettore possa fidarsi del rigore di un partito che non è capace neppure di controllare il suo gruppo parlamentare? Infine vorrei raccontarvi della domanda (a cui accennavo all’inizio) di De Angelis a Di Maio. Gli ha chiesto se accetterà il duello con Renzi in Tv. Di Maio ha preso tempo e ha iniziato a dire che a lui non è chiaro chi sarà il candidato premier del Pd e neanche quello della destra, e dunque finché non saprà questi nomi non può fare nessun duello. Qualunque giornalista un po’ scafato, e in particolare un giornalista “drastico” e bravo come Mentana, avrebbe commentato: «Ho capito, lei non vuole partecipare a nessun duello». Un giornalista un po’ più cattivo avrebbe detto: «Ho capito, lei ha paura di Renzi». Mentana ha detto: «Ho capito, tutto dipende dalla soluzione dei problemi negli altri schieramenti». Beh.
Dire che Grillo è un evasore per i giudici non è reato. Assolto Barbareschi che chiese controlli fiscali sui compensi del comico. Le toghe: "Notizie mai smentite dall'interessato", scrive Luca Fazzo, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Finora erano voci insistenti, chiacchiere dell'ambiente, interviste giornalistiche: che ronzavano tutte intorno allo stesso tema, ovvero l'insofferenza di Beppe Grillo verso i suoi doveri di contribuente. Ma ora si scopre che nel febbraio 2015 del singolare rapporto tra Grillo e le tasse si sono dovuti occupare anche i carabinieri. In una caserma di Santa Margherita Ligure, i militari interrogano un signore che con il leader dei 5 Stelle ha avuto a lungo rapporti d'affari. Il testimone mette nero su bianco: Beppe Grillo prendeva i soldi in nero. Un'evasione fiscale in piena regola, da parte del comico trasformatosi nell'alfiere dell'onestà-onestà-onestà. Grazie a quel verbale, d'ora in avanti chiunque potrà dare a Grillo dell'evasore senza venire condannato per diffamazione. Lo ha stabilito, con una sentenza riportata ieri dal Foglio, il giudice per le indagini preliminari di Genova, Massimo Cusatti, assolvendo con formula piena l'attore Luca Barbareschi, che da Grillo era stato querelato. Legittimo diritto di critica, scrive il gip, basato su fatti reali come la testimonianza raccolta dai carabinieri. A sollevare le ire di Grillo era stata una dichiarazione a Radiodue, in cui Barbareschi diceva: «Faremo la verifica fiscale a Grillo dove ci racconterà tutte le volte che è stato pagato in nero, per vent'anni della sua vita». Querela immediata, con l'avvocato di Grillo (ovvero suo nipote Enrico) che accusa l'attore di avere usato un «tono gratuitamente offensivo». Per difendersi, Barbareschi aveva depositato le interviste pubblicate nel 2011 dal Secolo XIX e nel 2014 dal Giornale al re della Milano by night degli anni Ottanta, l'impresario Lello Liguori, creatore anche del Covo di Nord Est a Santa Margherita. «Detesto Beppe Grillo perché va in giro a fare il politico, a sputtanare tutti quanti, ma quando veniva da me, carte alla mano, si faceva dare 70 milioni: dieci in assegno e 60 in nero». Episodi di questo tipo, spiegava Liguori, si erano ripetuti varie volte, sia in Liguria che a Milano. Quasi una prassi costante. Forse sarebbero bastati quei ritagli a fare assolvere Barbareschi. Ma il pm sul cui tavolo è approdata la querela di Grillo, il sostituto procuratore Francesco Cardona Albini, decide di vederci ancora più chiaro. I giornali potrebbero avere forzato le dichiarazioni di Liguori. E così il pm incarica i carabinieri di Santa Margherita di convocare l'uomo: e quello non si tira indietro. È un personaggione, il vecchio Liguori. Per anni nei suoi locali notturni si incrociava di tutto, dai politici ai boss della criminalità organizzata. Lui stesso è stato arrestato per le dichiarazioni del pentito Angelo Epaminonda, processato e infine assolto. Un'autorità nel suo campo: astuto, navigato, e abituato a non parlare a vanvera. Il 21 febbraio 2015, davanti ai carabinieri, mette a verbale: «Beppe Grillo in quegli anni non era molto famoso e io avevo organizzato circa 4/5 serate nei miei locali, sia al Covo di Nord Est che allo Studio 54 di Milano. Per le serate gli accordi erano che io personalmente pagavo nelle mani del comico Beppe Grillo un assegno di dieci milioni delle vecchie lire e i 60 milioni in nero e in cotanti. Ribadisco che tutto ciò avveniva tra me e il comico». Nelle interviste, Liguori era stato ancora più dettagliato e colorito: «Una sera al 54 c'era molto più afflusso del previsto, c'era gente fuori. A un certo momento Grillo mi ha preso da una parte e mi ha detto: guarda che voglio 10 milioni in più altrimenti non lavoro. Naturalmente io non sono l'ultimo arrivato, l'ho preso per le orecchie, l'ho portato in camerino e ha fatto la serata». Ma basta la dichiarazione messa a verbale perché il pm Cardona Albini chieda il proscioglimento di Barbareschi. Grillo viene avvisato, e presenta atto formale di opposizione all'archiviazione. Si tiene l'udienza preliminare. Ma il giudice dà ragione al pm, torto al leader pentastellato e assolve Barbareschi: vista «la circostanza già riferita dal Liguori, confermata direttamente dalla fonte della notizia», e considerati «la dimensione pubblica del personaggio e l'obiettivo interesse che può riconoscersi a tali fatti», va riconosciuto all'indagato il diritto di critica, «essendosi questi limitato al riferimento di circostanze che erano già state rese pubbliche, di obiettiva rilevanza sociale e mai smentite direttamente dall'interessato».
Grillini e "Fatto" da boia a ghigliottinati. Nei Cinquestelle è gara a scaricare Lanzalone. E Marco Travaglio, megafono grillino, parla di sfiga e si arrampica sugli specchi, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 18/06/2018, su "Il Giornale". Adesso si va da «Luca Lanzalone chi?» a «l'ho incontrato una volta al ristorante ma per caso» fino al paradossale «Grillo e Casaleggio non sapevano neppure chi fosse». Nei Cinquestelle è gara a scaricare quello che fino a ieri era l'uomo più potente del Movimento e che ora si trova agli arresti per corruzione e associazione a delinquere. Marco Travaglio, megafono grillino, non si dà pace e firma senza vergognarsi uno dei suoi capolavori. La cui sintesi è: il caso Lanzalone è solo sfiga, era un grande con un curriculum da premio Nobel e nessuno poteva immaginare che fosse un furbacchione probabilmente corrotto. Avete presente quando un genitore si ritrova con un figlio delinquente o drogato e invece che a se stesso dà la colpa alla società: era un bravo ragazzo, me l'hanno rovinato. Già, meglio arrampicarsi sugli specchi che guardarsi allo specchio e ammettere i propri limiti e fallimenti. Soprattutto se l'immagine che vedi riflessa è la negazione di tutto ciò che pensavi di essere e che invece non sei, se scopri sul volto i segni dei mali da cui pensavi di esser immune. Luca Lanzalone non è un caso di sfiga, è un caso dei Cinquestelle probabilmente più diffuso di quanto possiamo immaginare. Tempo al tempo: fino a che non guadagni non puoi evadere le tasse, fino a che non sei sposato tradire la moglie. Ora i grillini tengono lavoro e famiglia: fine del moralismo e della virtù facile perché obbligata dalle condizioni. Il loro mondo è inquinato come tutti gli altri e da inquisitori i Travaglio d'Italia si ritrovano a fare gli agnellini che al confronto Emilio Fede con Berlusconi appare oggi come uno con le palle. Si stanno rimangiando tutti gli escrementi che per anni ci hanno tirato addosso, hanno paura di fare la fine di Robespierre, da boia a ghigliottinati. Essere giustizialisti con i nemici e garantisti con gli amici è cosa da gente senza nerbo e valori. Quel principio «non poteva non sapere» con cui è stato massacrato (e condannato) Silvio Berlusconi ora improvvisamente non vale più. Grillo, Casaleggio, Di Maio e tutta la combriccola potevano non sapere. Anzi, a leggere Travaglio «dovevano» non sapere. Altrimenti casca l'asino. Da «onestà, onestà» a «omertà, omertà».
Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co. Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà, scrive Giulio Cavalli il 16 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”
Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo
In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.
Propaganda La7, scrive il 16 giugno 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". In Italia l’unica opposizione tangibile, l’unica coalizione che ha fatto immantinente quadrato contro il governo… è l’informazione. Da che ho l’età per recarmi alle urne non ricordo un fuoco di fila così fitto nei confronti di un esecutivo appena nato. Ma se ci sono gli audaci che cercano sempre lo scontro risolutivo con manovre di sfondamento – fra i quali anche qualche illustre rappresentante della stampa di destra – in questa miserabile guerra di trincea si segnala chi, come il canale televisivo La7, ha scelto la strategia del logoramento. A poco più di cinque anni dall’arrivo di Urbano Cairo a capo della rete e dall’articolo de L’Espresso a firme Di Feo-Gilioli in cui lo stesso imprenditore veniva affrescato come un rampante parvenu, un buffo Berlusconi wanna be, oggi La7 sembra essere la fanteria da prima linea e prima serata della Weltanschauung Gedi, tanto sono manifeste l’interconnessione giornalistica e la profonda affinità ideologica; superando in zelo militante i pusillanimi soldatini di Rai Tre – che vedono la sola Lucia Annunziata ancora bellicosa – e gli scatenati, benché ancora abborracciati, incursori multimediali de il Post. I programmi del canale Cairo Communication (Otto e mezzo, Piazza Pulita, Di Martedì, L’Aria che tira, Tagadà, financo Atlantide…) rispecchiano un pluralismo di ghigne che si dannano quotidianamente per riaffermare il monismo di fondo del pensiero. Abbiamo analizzato tante volte i monotoni comportamenti dei moderatori-insinuatori/istigatori (a seconda della cifra stilistica: Floris insinua, Formigli istiga etc.) come degli ospiti fintamente super partes e grossolanamente partigiani. L’umore stantio che ne fuoriesce è quello della conventicola di affiliati, connotata da un forte accento di provincialismo capitolino, che si raduna una sera a casa di un ospite, una sera a casa dell’altro, manipolandosi reciprocamente le convinzioni fino all’orgasmo di gruppo, senza la reale volontà di un contradditorio. Anche le tiepide voci iconoclaste sono sempre messe in chiara posizione di minoranza, e invitate a comportarsi con i dovuti riguardi. Difficile vedere una coppia Bagnai-Blondet affrontare l’impositivo argomentare di Cerasa; o anche solo Foa-Rossi dialogare con l’integrità intellettuale di Calabresi. L’unico a non essersi fatto ammaestrare, se non nell’orrida abitudine della button-down con giacchetta délavé, è Marco Travaglio, di cui mi occuperò monograficamente in futuro. Lo stesso telegiornale di Enrico Mentana e le relative edizioni straordinarie sulla distanza sono poli magnetici per questa temperie. Mentana è un conduttore straordinario, la cui abilità è persino sottovalutata, malgrado goda di una status da Comizi Curiati fra gli addetti ai lavori e da Osho Rajneesh fra le schiere dei webeti. Ha la presenza di spirito del killer e una naturalezza nell’estrarre la parola assassina anche nel guazzabuglio della pugna davvero rimarchevole. Quando dialoga, poi, mostra i tempi giusti: sa aspettare, ha senso drammaturgico, tiene in mano il proscenio senza dare la sensazione di protagonismo. Persino il suo gigioneggiare, perfettamente ricreato da Crozza, è potabile e non degenera mai in macchietta come in Giletti, forse per un fisico del ruolo più da impiegato pubblico che da play-boy di Viale Ceccarini. Ciò riconosciuto, è palesemente allineato. E poco incline a ribaltamenti di immaginario, poiché intellettualmente permaloso, come sa chiunque sia transitato anche solo una volta sulla sua pagina Facebook. Un’inclinazione evidente anche nell’incedere ancillare dei suoi inviati, Sardone e Celata. Ma la trasmissione che forse più di ogni altra definisce tale ostinata propaganda è appunto Propaganda Live. La pasquinata alla romana di Bianchi e Dambrosio – da sempre molto più divertita che divertente – si compiace nel grufolare in quella disinvoltura da birrazza con gli amici, baloccandosi in un’estetica che definirei “abbrutta” o “da pezze ar culo” per pertinenza regionale. Il programma si sforza di persuadere avvalendosi dell’argumentum ad verecundiam, ovvero di essere eloquente buttandola in caciara… perché loro sono gente schietta, genuina, che dichiara le proprie intenzioni con sincerità, e nel frattempo caca una satira sciolta e ruffianamente popolana. Si direbbe populismo anti-populista, ma definirò meglio più avanti la schiatta di riferimento. Emblematico di questo modo di essere ossimorico un intervento di “Zoro” durante la puntata di Otto e mezzo dell’altrieri, che ha sottolineato come Matteo Salvini, nel suo agire così affermativo e sprezzante, insulti tutta quella parte d’Italia che non la pensa come lui. Risibile rampogna se fatta da chi dipinge esplicitamente – non si capisce bene da quale atelier di Calle de La Plata – la maggioranza degli italiani come cretinoidi-fascisti nei feriali grillini… e cretinisti-fascistoidi durante i festivi leghisti. Proprio ieri sera si è chiusa la stagione 2018 di Propaganda Live con un coraggioso monito: “Non siate razzisti!”. E il razzismo è la vera ossessione di questa gente, come reduplicato dalla patetica copertina de L’Espresso oggi in edicola: “Uomini e no”, con un ragazzo di colore affiancato a Salvini. Titolo che si dà un tono citando Vittorini, ma che è tetro manifesto di vile divulgazione. Epperò tale fissazione deve avere una causa, un’origine i cui significati superino l’interesse tattico del momento. Mi sono sempre interrogato, soffermato sulla questione… e alfine ho maturato un’opinione. Il razzismo di cui loro blaterano (“sporco negro!”) è talmente fuori dai tempi – in cui piuttosto le nuove generazioni vivono idolatrando-scimmiottando sub-culture afroamericane, fra hip hop, cinema gangsta, basket Nba e ossequiando l’esotismo terzomondista tarato sul mito del buon selvaggio – da meritare solo pernacchie. Eppure c’è un timore sublimato in filigrana: la paura della discriminazione. Come abbiamo scritto in passato la discriminazione è elemento costitutivo dell’esistenza umana, prerequisito di ogni scelta, dalle mele al supermercato alla compagna/o con cui vivere. Loro tuttavia la temono, forse perché furono atavicamente discriminati, e ancora ne hanno panico; magari non erano i più simpatici della classe… erano un po’ catenacci e nella squadra di pallone finivano in panchina… plausibilmente da ragazzi interpretavano l’ingrato ruolo degli scaldafighe o, nel caso delle donne, parti ancor più ingrate. Così oggi, pur cresciuti e affermati, in un remoto stanzino di tremarella dell’inconscio ancora paventano una discriminazione verso la loro razza. Perché epidermicamente si riconoscono intimamente della stessa natura, per cui si cercano, si difendono l’un l’altra e tutti insieme corrono a nascondersi dietro la sottana del Potere. Per il quale, in genere, combattono le guerre, difendendone gli interessi con spirito mercenario, senza eroismo alcuno, sul sempre più sterminato campo di battaglia dell’opinione. Sono tipi umani opposti, ma strategicamente complementari alle anime molto ben acconciate con cestino di vimini e pomate bio alla calendula fra cui vivo in Mario Pagano, perché cooptati dalla stessa consorteria: i primi dolosi, i secondi colposi, entrambi arnesi. Arnesi di quel Potere, neppure più tanto occulto e soverchiante, che ha ritenuto necessario mettere in scena una declamatoria mimesi di carità laicista servendosi di suggestioni proletarie e umanitarie, al fine di proseguire il saccheggio senza venir disturbato da un’eventuale presa di coscienza dei più, che sempre di più sono. A questo punto vorrei sottoporre alle vostre teste post-convenzionali una speculazione, forse un po’ oziosa, ma ai miei occhi accertabile. Come avevo già scritto in passato, se in fisiognomica già da Aristotele si rifletteva sulla possibilità di leggere in un volto alcune peculiarità caratteriali, io mi sono sempre ritenuto in grado di inferire dall’aspetto le simpatie politiche. Anche se il soggetto fosse impegnato a dibattere sulle code alla vaccinara. «Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l’aspetto proclama il cuore e le inclinazioni, basta l’osservazione ad istruirti sui fondamenti della fisiognomica; spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni simili e hanno simili pensieri». Ovviamente non vengo ad affermare che ci siano parametri antropometrici per intercettare un elettore PD, ma una “faccia sinistra” (tradotto dal dialetto piacentino) indubitabilmente c’è e l’uomo coltivato può intercettarla, anche quando è un poco meno manifesta di quelle che portano in giro Orfini, Saviano o Bertazzoni. La7 è un distillato di facce sinistre e la disinformazione che ne segue rappresenta la bio-logica conseguenza di tali fisionomie. Naturalmente ci sono eccezioni al tratto comune: Lilli Gruber somiglia più a una senatrice di Forza Italia, eppure non credo lo sia mai stata. Cionondimeno, guardando i programmi a volume spento, sarebbe sufficiente osservare le smorfie e gli abiti, per immaginare il tenore delle idee. Ma come hanno inoppugnabilmente certificato gli ultimi rivolgimenti domestici e internazionali – ben più indicativi delle valutazioni di una trascurabile figura come la mia – questa strategia di logoramento sta logorando chi se ne serve: perché il “razzista-populista” sente, nasa questa “razza” di propaganda e inizia a schifarla.
Rom e “razza ebraica”, scrive il 19 giugno 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". Molto di ciò che avevo scritto pochi giorni fa a proposito di La7 e del suo telegiornale è stato confermato ieri sera con eloquente tempestività. L’esternazione di Enrico Mentana durante il notiziario delle 20 sul censimento rom ha addirittura rilanciato in bluff sul tavolo da gioco della manipolazione. Se nel pezzo precedente ero stato analitico, qui sarò sintetico. Il parallelismo fra la proposta di anagrafe avanzata da Matteo Salvini e la schedatura della razza ebraica paventato da Mentana è un volgare accozzo di fallacie logiche. Si parte con un argumentum ad populum (ma populista non era proprio il leader leghista?), che fa subdolamente leva sui sentimenti di orrore suscitati dal ricordo delle leggi razziali e sulla universale commozione che ispira la vicenda della famiglia Segre e dell’allora piccola Liliana. Si prosegue con una grossolana fallacia di pertinenza, postulando un’affinità fra la registrazione di individui che vivono entro i confini di uno Stato, ma al di fuori delle sue leggi (le comunità rom) e la schedatura degli ebrei italiani. E si finisce con un doppio errore di ragionamento, formale e di rilevanza, noti in logica come falsa argomentazione a catena e non sequitur: «Si inizia sempre con una schedatura e non si sa mai dove si va a finire», ha affermato Mentana. Il Direttore insinua cioè che da un censimento dei rom, a successivi arresti, alle conseguenti deportazioni, ai campi di sterminio… il passo non sia poi così impervio, anche perché è già successo in passato per gli ebrei. Fregnacce che possono essere persuasive solo per quegli stessi analfawebeti funzionali della cui dabbenaggine si affligge quotidianamente. In questo maldestro tentativo di avvelenamento del pozzo – che vogliamo generosamente giustificare per il forte trasporto emotivo suscitato da una tragedia assoluta ancora viva nel ricordo – vi è infine un effetto collaterale, che folgora come nemesi la propaganda farisaica: suscitare in chi ascolta un’associazione mnemonica fra le abitudini sociali dei rom contemporanei e quelle degli ebrei italiani di allora, vittime delle leggi fasciste. Associazione che trovo disturbante. Perché la famiglia Segre ha il diritto di essere discriminata, separata, distinta, anche solo nell’immaginario, da una famiglia zingara. E non per razza, ma per civiltà.
Così il "monoideismo" ha intossicato anche la democrazia. Un estratto, tratto da Democrazie Mafiose di Panfilo Gentile, scrive Panfilo Gentile, Martedì 19/06/2018, su "Il Giornale". Accanto agli elettori irreggimentati esiste poi quella che gli inglesi chiamano «the floating opinion», la quale non può essere indrappellata e portata a votare a plotoni. Questa opinione deve essere persuasa e può essere raggiunta solo dalla propaganda. In questo campo nell'ultimo ventennio le democrazie hanno mostrato di avere bene imparato dalle dittature l'arte del-l'«imbottimento dei crani o del lavaggio dei cervello». La propaganda diretta, o esaltazione retorica dei meriti del partito, la demagogia delle promesse, l'appello ai temi presuntivamente più popolari, tutte queste che potremmo chiamare le vecchie «armi convenzionali» della lotta politica, sono ancora in uso ma non sono considerate più sufficienti. Gli uffici specializzati dei grandi partiti hanno segnalato concordemente che i comizi, i manifesti, la stampa di partito, gli altoparlanti motorizzati non rendono più come vent'anni or sono, quando la rinata democrazia affrontava i primi cimenti elettorali. Adesso si aggiungono i metodi meno diretti e più perfidi, che sono stati elaborati dai regimi totalitari. Il monoideismo paranoico, che è proprio di codesti regimi è che tutto sempre e dovunque deve essere propaganda. Nessuna attività umana deve essere sottratta alla regola: servire la causa in ogni circostanza e con ogni mezzo, al di sopra anche di ogni norma morale. Soprattutto i sovietici si sono fatti maestri di questo odioso machiavellismo, che ha cancellato secoli di civiltà politica ed ha contagiato non solo i partiti comunisti d'obbedienza al califfato di Mosca, ma anche almeno parzialmente partiti non comunisti. Il monoideismo ha asservito arte, scienza, filosofia, spettacolo, attività ricreativa. Tutto ciò che era ricerca disinteressata, autonoma, politicamente neutrale è stato asservito alla finalità politica ed è diventato mezzo di propaganda. La propaganda poi preferita dal monoideismo non è quella aperta della polemica orale e scritta, ma è la propaganda subdolamente mascherata e clandestinamente somministrata. In questa materia la televisione supera tutti: ad opera delle cellule clericocomuniste che vi sono annidate intossica con veleni nascosti le informazioni, le inchieste, i documentari, le trasmissioni didattiche e scientifiche. Se si occupa dei poliomielitici, dei subnormali, degli illegittimi o dei sordomuti con l'aria di un interessamento caritatevole, non trascura di insinuare che la responsabilità di tutte queste sventure risale alla società capitalistica. Se si occupa del duro lavoro dei minatori o dei pescatori con l'apparente intenzione di segnalare i disagi di queste categorie, non manca di arrangiare le cose in modo che se ne attribuisca la colpa agli intraprenditori. Una buona metà delle trasmissioni televisive è una astiosa istigazione all'dio di classe. Se viene un'alluvione, un terremoto, un'epidemia, si trova sempre la maniera di seminare il sospetto che ciò sia avvenuto per l'ingordigia dei capitalisti, che avrebbero costruito le dighe con la ricotta, le case con la sabbia e le condutture d'acqua col fango. Finanche il maestro elementare clericocomunista, che dovrebbe insegnare il sillabario e la grammatica, riesce ad infilare nelle sue lezioni sobillazioni sociali, magari falsificando la storia con tendenziose mutilazioni dei testi di Mazzini o con la celebrazione del 20 settembre come una data memorabile per il miglioramento della classe operaia, tacendo del tutto il particolare insignificante della caduta del potere temporale dei papi. Questa propaganda non ordina espressamente di votare per un partito anzi che per un altro, ma tende a creare nell'elettore i presupposti psicologici che indirizzeranno l'elettore a votare per il partito desiderato. Ed è chiaro che la captazione dell'elettore attraverso la persuasione occulta non si esercita solo nei periodi elettorali ma è permanente, perché solo la insistenza monotona di un motivo lo fa entrare nell'orecchio del pubblico e inavvertitamente lo conquista come una certezza indubitabile. Ed è chiaro altresì che essa esige l'accesso ai grandi mezzi di propaganda: televisione, editori, giornali, preferibilmente rotocalchi, teatri, cinema, festival, premi letterari, discografici (canzoni di protesta). Ed allora si arriva alla conclusione che una propaganda di questo genere non è possibile senza grandissime disponibilità finanziarie, non è alla portata di tutti ma solo di quei gruppi privilegiati che possono attingere a fonti di finanziamento eccezionali, non essendo sufficienti le risorse normali e lecite dei partiti, nemmeno di quelli più numerosi. Ed a questo punto le democrazie moderne non assicurano più la libera circolazione delle «élites», non garantiscono ai concorrenti che partecipano alla gara eguali punti di partenza ed eguali condizioni di corsa. Nelle «élites» si verifica una distinzione e una graduatoria; «élites» povere ed «élites» ricche. Superfluo dire che la distinzione non si identifica con quella tra classi povere e classi ricche, avvenendo spesso che i partiti che hanno le simpatie dei ricchi sono i più poveri mentre quelli che hanno le simpatie dei poveri sono i più ricchi. Così le moderne democrazie sono tanto poco democratiche che assicurano i suffragi e danno la vittoria solo ai partiti ricchi, trasformando le democrazie in timocrazie.
Ecco la carica dei faziosi L'armata rossa è in tv. Garimberti bacchetta il Tg3, ma è tutta Raitre a tirare colpi bassi al Cav. Per non parlare di La7. A Sky le inviate giocano alla rivoluzione, scrive il 29 Ottobre 2011 Giampaolo Pansa su "Liberoquotidiano.it". Mi ha molto stupito che Paolo Garimberti, il presidente della Rai, abbia preso cappello per la faziosità del Tg3 diretto da Bianca Berlinguer. “Garimba” è un mio vecchio amico, abbiamo lavorato insieme alla Stampa e poi a Repubblica. L’ho sempre considerato un tipo sveglio, tanto che mi ha sorpreso vederlo accettare di presiedere la Rai: un dinosauro senza speranze e un ambiente nel quale non vorrei vivere neppure da deportato. Tuttavia, il “Garimba” dovrebbe sapere come è fatta la Rai. Da anni è un rudere lottizzato, ossia diviso in lotti di partito. Nella Prima Repubblica, un pezzo apparteneva alla Dc, un secondo ai socialisti del Psi, un terzo ai comunisti del Pci. Nel proprio orto ciascun partito era sovrano, poteva disporne come gli pareva e piaceva, senza che nessuno dicesse né hai né bai. Nella Seconda Repubblica la spartizione per lotti è rimasta. Sono cambiati soltanto i partiti proprietari. La prima Rete con il relativo telegiornale è roba del Pdl e dunque del cavalier Berlusconi. La seconda in teoria spetterebbe alla Lega, ma un provinciale come il sottoscritto non ha ancora capito se sia o no così. La terza con il Tg3 è sotto l’imperio del Partito democratico e dei suoi presunti alleati. Con il passare degli anni, i direttori del Tg3 sono sempre stati rossi, a cominciare dal mitico Kojak, ossia Sandro Curzi, oggi scomparso. Kojak era un comunista collaudato, tanto d’aver persino lavorato a Radio Praga. Contava più di molte eminenze delle Botteghe oscure. Da vero paraculo (uso il termine con ammirazione) faceva quel voleva, in barba a tutto.
ARRIVA LA DIRETTORA. I direttori venuti dopo di lui si sono comportati all’incirca nello stesso modo. Gli unici sfortunati sono stati due signore. La prima, Daniela Brancati, durata appena un anno, dal 1994 al 1995, fu segata dalle liti interne al tigì e dagli scioperi. La seconda, Lucia Annunziata, venne messa al Tg3 da Massimo D’Alema dopo la prima vittoria elettorale del centro-sinistra, quella del 1996. Ma anche lei ci rimase poco. A suo giudizio, i tre quarti della redazione del tigì rosso non lavoravano abbastanza. E questo giudizio, diventato pubblico, la obbligò ad andarsene. Chi sta da anni al Tg3 è l’attuale direttora, Bianca Berlinguer, arrivata nel 1991. Ad assumerla era stato Curzi che la stimava come giornalista: brava, bella e lavoratrice. L’unico difetto di Bianca era di essere figlia di Enrico, il segretario del Pci. Il leader comunista chiamò Curzi e osservò che l’assunzione della figlia non gli sembrava elegante né opportuna. Mezzo mondo avrebbe pensato che la ragazza era stata raccomandata dal padre, pur non essendo così… Sembra che l’episodio sia vero, roba impensabile ai giorni nostri. Bianca Berlinguer dirige il Tg3 dall’ottobre 2009. E da quel momento ha fatto un tigì che più rosso non si può. Sempre molto accanito contro Berlusconi. Prima del “Garimba”, qualcuno se ne era adontato. Il sottoscritto no. Ho smesso da un pezzo di guardare il suo telegiornale delle sette di sera, perché è noioso come tutti i mezzi di propaganda. La canzone che canta è sempre la stessa. Il taglio dei servizi idem. I commenti, spesso affidati alla mimica facciale di Bianca, non sono mai sorprendenti. Perché dovrei buttare il mio tempo? Tuttavia so bene che la direttora Berlinguer non viola nessuna legge. È la lottizzazione, bellezza! Qualche ingenuo seguiterà a pensare che la spartizione politica della Rai, un bene pubblico, sia un’anomalia italiana. Ma è un difetto congenito. Per questo, la rossa Bianca stravincerà sempre. Ha il diritto di farlo e lo farà. Aspettate la campagna elettorale e vedrete. Del resto, essere contro il Caimano di Arcore non è uno sport soltanto del Tg3. La maggioranza dei talk show pubblici e privati sta allineata e coperta sulla linea anti-Cav. La 7 si è buttata tutta a sinistra. Il tigì di Enrico Mentana, detto “Mitraglia”, un ultracinquantenne ingrigito, ormai è pronto per trasferirsi nella squadra di Repubblica. Agli ordini di Ezio Mauro, un dittatore freddo che l’ha sempre saputa più lunga di lui. Corrado Formigli, con la sua Piazza pulita, mette in mostra un fanatismo da Santoro dei poveri, privo della geniale cattiveria del vero Michele. Lilli Gruber spasima di fare su Otto e mezzo la diretta del funerale di Berlusconi. Il panciuto Luca Telese vuol dimostrare di essere l’unico comunista rimasto in Europa. E tratta la sua foglia di fico, Nicola Porro, come un fastidioso destrone, erede della Luisella Costamagna, epurata con stile neo-sovietico. Dell’Infedele di Gad Lerner meglio non parlare. I lettori di Libero sanno che non sono mai stato un tifoso di Silvio. Ho predetto per tempo la sua crisi. E l’ho invitato a ritirarsi dalla politica. Ma questo non mi impedisce di staccare la mia spina personale ai programmi troppo faziosi e dunque noiosi. Decidendo che per me sono inguardabili. L’ho fatto da un pezzo con il Ballarò del compagno Floris. La sera dell’incidente di Fini che straparla sulla signora Bossi mi sono goduto la partita Juventus-Fiorentina. E solo da Libero ho appreso il trattamento di super favore riservato da Floris a Fini: venticinque minuti di concione, il doppio del tempo complessivo concesso al ministro Gelmini e al sinistro Vendola. Ma la faccenda non mi scandalizza. Anche Floris coltiva come meglio crede il proprio orto lottizzato. Pagando il canone Rai con la puntualità dei fessi, pago anche il diritto del compagno Giovanni a condursi come un militante. Il vero scandalo è Fini: un presidente della Camera, terza carica istituzionale della Repubblica, che va in diretta tivù a fare propaganda politica. Ma questa è una questione che riguarda la Casta. Un verminaio dal quale non mi aspetto più nulla. Mi aspetterei, invece, qualcosa da un’emittente televisiva che si regge sugli abbonamenti dei privati. Sto parlando di Sky e del suo telegiornale, SkyTg24. Un po’ di giorni fa, il ramo italiano dell’impero di Rupert Murdoch ha festeggiato un evento importante per la sua cassa: l’aver conquistato cinque milioni di clienti. Uno di questi sono io, e da molto tempo: un abbonato storico che versa il costoso gettone allo Squalo soprattutto per le partite di calcio e il telegiornale continuo. Quali diritti hanno gli abbonati di Sky? Soltanto due: pagare o disdire il contratto. Anche il criticare è possibile, ma come succede in molte grandi aziende i clienti contano come il due di picche. Nessuno risponde mai ai rilievi, il vertice e i piani sottostanti se ne fottono. Del resto, che cosa pesa il singolo rispetto a cinque milioni di baionette? Nulla. Tuttavia, poiché fin da piccolo ho imparato a non starmene mai zitto, voglio fare una domanda alla redazione del tigì di Sky. E in particolare alla nuova direttora, Sarah Varetto. Guardo questo telegiornale almeno cinque o sei volte al giorno. Notando un mutamento rispetto al tono di un anno fa. Quello che avevo descritto in un libro dedicato ai media italiani e ai giornalisti che ci lavorano. Sotto la direzione di Emilio Carelli, SkyTg24 era già diventato uno strumento di battaglia politica contro il centro-destra. Un po’ mi stupiva, sapendo che Carelli era un cattolico cresciuto dai salesiani e addestrato come televisionista nelle reti del Berlusca. Ma la brava e bella Varetto ha fatto un passo in più. La mia impressione è che l’equilibrio e l’imparzialità del suo tigì siano diventati un foglio di cartavelina, dietro il quale si nasconde un gioco allo sfascio che non mi piace per niente.
PIANETA SKY. Anche la signora Varetto ha un’attenuante. Mi dicono che il tigì di Sky lo vedano quattro gatti. Ovvero, oltre a me, poche migliaia di spettatori. Un ascolto persino più basso di quello raccolto da Rai News, il telegiornale rosso di Corradino Mineo, figlio malvisto dagli alti comandi di viale Mazzini. Ma si può essere piccoli e, al tempo stesso, brutti. Vale a dire, troppo enfatici nel dipingere con gioia il disastro italiano, la nostra ridicola debolezza in Europa, gli scioperi proclamati dal sindacato, le piazze ribelli con le molotov. Ci sono giornaliste di Sky tragicamente buffe nella loro convinzione di fare le inviate di guerra sul fronte di una rivoluzione proletaria: unica luce nella notte nera del berlusconismo. Questo ammazza la credibilità di un telegiornale che, per di più, appartiene a un capitalista con la dentatura da squalo. Forse la direttora Varetto dovrebbe proporsi una domanda. Se l’Italia sparisse nella voragine della crisi economica, quanti dei suoi cinque milioni di abbonati rimarrebbero in grado di pagare il costoso gettone che tiene in piedi Sky? Toccando ferro, le rispondo così: pochi, davvero molto pochi. Giampaolo Pansa
«Ha vinto il M5S, dateci il reddito di cittadinanza». L'assalto ai Caf del barese. Succede nel piccolo comune di Giovinazzo. Cittadini in fila per ottenere i moduli, centralini tempestati dalle telefonate al servizio di Comune e Regione, scrive l'8 marzo 2018 “L’Espresso. "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per Reddito di Cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone fra ieri e oggi si sono presentate ai Caf locali e, nel capoluogo, anche a Porta Futuro, il centro servizi per l'occupazione. Gli episodi, già resi noti dal sindaco di Giovinazzo (Bari), Tommaso Depalma, che ha parlato di file davanti ai Caf della città, si stanno verificando anche in queste ore. A Porta futuro a Bari, racconta il responsabile, Franco Lacarra, "sono una cinquantina le persone che tra ieri e oggi hanno chiesto i moduli per ottenere il reddito di cittadinanza, si tratta soprattutto di giovani". "A noi sindaci - afferma Depalma - piacerebbe poter comunicare ai cittadini che il problema della disoccupazione è risolto e che per tutti quelli che non hanno lavoro c'è un Reddito di Cittadinanza, ma credo che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali". «Ovviamente - aggiunge Franco Lacarra - non si tratta di folle oceaniche, ma comunque è certo che molta gente è alla ricerca dei moduli per ottenere il reddito di cittadinanza e ci chiede informazioni». «Sono soprattutto i giovani - aggiunge - che ci chiedono informazioni, naturalmente anche i Caf potranno dare una descrizione su quello che sta accadendo».
"Ha vinto M5S, dateci i moduli per il reddito di cittadinanza". Numerose richieste ai Caf da Bari e Palermo. A Giovinazzo e nel capoluogo pugliese decine di richieste. A Palermo un Caf costretto a mettere un avviso all'esterno. Ma i Cinque Stelle della Puglia attaccano: "Una mistificazione", scrive l'8 marzo 2018 "La Repubblica". "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per il reddito di cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone dopo l'esito del voto si sono presentate ai Caf locali. A Bari e a Giovinazzo - ma anche a Palermo dove gira anche un falso formulario - decine di cittadini hanno chiesto informazioni sulla modulistica per accedere al reddito di cittadinanza promesso in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle. Nel job center di Porta Futuro a Bari, per esempio, in tre giorni sono pervenute da persone di età compresa tra i 30 e i 45 anni una cinquantina di richieste di accesso alla modulistica. "A chi si è affacciato chiedendo se fossero già disponibili i moduli per richiedere il reddito di cittadinanza, abbiamo dato una risposta tecnica, dicendo che non c'è al momento nessun provvedimento che codifica questo strumento", ha chiarito Giovanni Mezzina, responsabile dei servizi di orientamento di Porta Futuro Bari. Anche a Palermo le richieste iniziano ad arrivare. Una decina di persone si sono presentate al Caf Asia di Piazza Marina. E al patronato dell'Ente nazionale di assistenza sociale ai cittadini (Enasc), per frenare il via vai di chi chiedeva informazione hanno affisso un foglio con la scritta in italiano e in arabo: "In questo Caf non si fanno pratiche per il reddito di cittadinanza". In Puglia, dal Comune di Giovinazzo, l'assessore alle Politiche Sociali, Michele Sollecito, racconta che le domande su questo specifico provvedimento si aggiungono, ma in termini di curiosità, a quelle che da tempo i cittadini pongono per accedere al Reddito di dignità (Red) della Regione Puglia e al Reddito di Inclusione (Rei) del Governo. "Non c'è nessuna nuova frenesia per il reddito di cittadinanza proposto dai 5Stelle, ma curiosità sì. Ma nessun pugno sul tavolo o nessuna rivendicazione animata. Perché Giovinazzo non è una città di indolenti parassiti". Dal canto suo il sindaco di Giovinazzo, Tommaso Depalma (lista civica), ritiene "che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali. La vittoria del M5S c'è stata, netta e inconfutabile, ma per il reddito di cittadinanza la vedo dura". Ma in Cinque Stella della Puglia parlano di mistificazione della realtà. E raccontano che anche il direttore di Porta Futuro, Franco Lacarra, "che per dovere di cronaca è il fratello del neoeletto deputato renziano Marco Lacarra del Pd ha confermato in maniera molto schietta che non vi era stato alcun assalto". Il comunicato di Porta Futuro, però, non smentisce: "Alcuni cittadini sono passati dal nostro sportello per chiederci informazioni e approfondimenti su questo tema. Vogliamo chiarire che tutto ciò è normale nel nostro Paese: succede ogni volta che vengono divulgate notizie rilevanti per le politiche del lavoro e per la vita dei cittadini, come è avvenuto per altre proposte legislative promosse negli ultimi mesi".
La Fake news contro il Movimento Cinque Stelle delle richieste di massa di reddito di cittadinanza, scrive il 9 marzo 2018 "Positano News". Da questa mattina in Puglia politici e giornali hanno lanciato una nuova bufala: FIUMI di persone avrebbero preso d’assalto alcuni CAF e centri per l’impiego per richiedere il reddito di cittadinanza. A lanciare l’allarme per primo il sindaco di Giovinazzo (BA) (che ha appoggiato il PD in campagna elettorale) che, commentando un articolo di una testata locale, ha parlato di “file davanti ai Caf della città”. La notizia è stata poi ripresa da “La Repubblica” che ha raccontato di “RAFFICHE DI RICHIESTE” anche per “Porta Futuro” il centro per l’impiego di Bari. UNA FOLLIA GENERALE CHE CI E’ APPARSA QUANTOMENO “SOSPETTA” ad appena 4 giorni dal voto, con un Governo nemmeno insediatosi in attesa che si sblocchi la situazione tra le varie forze politiche e dunque nessuna possibilità di legiferare. ABBIAMO DUNQUE DECISO DI ANDARE CONTROLLARE LA SITUAZIONE IN PRIMA PERSONA. Dopo aver girato alcuni CAF senza scorgere neanche lontani tentativi di “assalti”, abbiamo deciso di recarci direttamente a “Porta futuro”. Ingresso vuoto. Corridoi vuoti. (Dell’assalto e delle file interminabili mattutine, neanche un superstite). All’ingresso alcuni addetti ci hanno subito spiegato che “in realtà noi non abbiamo visto quasi nessuno, questa notizia ha lasciato di stucco anche noi”. Ci hanno dunque fatto parlare con il direttore Franco Lacarra (per dovere di cronaca sottolineiamo essere il fratello del neoeletto deputato renziano MARCO LACARRA (PD)) che in maniera molto schietta e onesta ci ha confermato che rispetto agli articoli letti non vi era stato alcun “assalto” ma che è solo capitato, come gli capita sempre per qualsiasi provvedimento compresi quelli regionali, che alcune persone NEGLI ULTIMI 3 GIORNI si siano recate a chiedere informazioni generiche sul reddito di cittadinanza. Abbiamo dunque chiesto al direttore di riportare la realtà dei fatti specificando di come si sia trattato di un fenomeno assolutamente normale e quotidiano per loro. Il direttore, d’accordo con noi, ha dunque richiesto al suo ufficio comunicazione di scrivere una smentita sul canale Facebook di Porta Futuro. Non sappiamo bene come sia potuto accadere ma solo pochi minuti dopo lo stesso direttore è stato contattato telefonicamente, davanti a noi, dallo staff del sindaco renziano ANTONIO DECARO (PD). Abbiamo ascoltato dunque il direttore costretto a “giustificarsi” spiegando che con questa smentita avrebbe voluto solo raccontare la verità dei fatti (a suo parere, testualmente, “una cazzata”). Nel frattempo, mentre eravamo ancora in loco, sono arrivati altri giornalisti del TG RAI, di Repubblica e pare che il direttore sia stato contattato anche dalla CNN. Tutto quanto vi abbiamo raccontato sopra è cronaca, ora traete voi le vostre conclusioni. Dal canto nostro, vorremmo solo dirvi una cosa: è evidente che la lezione di queste elezioni politiche a qualcuno non sia bastata. A questo punto vi preghiamo: se davvero avete così poca considerazione per l’intelligenza dei cittadini italiani continuate pure a diffondere falsi “scandali” e fake news, vorrà dire che alle prossime consultazioni elettorali il Movimento 5 Stelle volerà, da solo, oltre il 41%. A riveder le stelle…
Putin è davvero colpevole? Qualcosa proprio non torna nel caso Skripal, scrive il 27 marzo 2018 Marcello Foa su "Il Giornale". Siamo proprio sicuri che ad avvelenare l’ex spia Skripal e sua figlia siano stati i russi? Permettetemi di avanzare più di un dubbio esaminando con attenzione le notizie uscite finora. I punti che non tornano sono questi:
Primo. Qual è il movente? Quale l’interesse per Putin? Mi spiego: tutti riconoscono al presidente russo grande sagacia nel calibrare le sue mosse. Eccelle sia nella strategia che nella tattica. Da tempo sappiamo che gli Stati Uniti (i quali trainano l’Europa) sono impegnati in un’operazione di logoramento del Cremlino volto a ottenerne un rialliniamento su posizioni filoamericane, che potrà essere ottenuto con certezza solo attraverso un cambio di regime ovvero con l’uscita di scena di Putin. Siccome una rivolta colorata è inattuabile, lo scenario è quello di rendere insostenibile il peso delle sanzioni e dell’isolamento internazionale, inducendo le élite russe a ribellarsi al presidente appena rieletto. In questo contesto, ogni pretesto viene sfruttato per innervosire o indebolire Putin. Conoscendo l’obiettivo finale, bisogna chiedersi: ma che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del pollonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso. Diplomaticamente sarebbe stato un suicidio, perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata, fino all’ultimo atto, l’espulsione coordinata dei diplomatici, a cui l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata, benchè avrebbe potuto – e proceduralmente dovuto – astenersi. No, Putin non è leader da commettere questi errori.
E veniamo al secondo punto, che riguarda il rumore mediatico e il furore delle accuse. Non dimentichiamolo, la comunicazione è uno strumento fondamentale nell’ambito delle guerre asimmetriche (tra l’altro è il tema che tratto nel mio ultimo saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”). Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”.
Se analizziamo attentamente le dichiarazioni del governo britannico, notiamo come la stessa premier May continui a dire che “è altamente probabile” che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi. E nel comunicato congiunto diffuso ieri da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma sviluppato non significa prodotto in Russia. Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come fabbricato – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa, che pertanto andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa. Non come un verdetto. Anche la semantica, in frammenti ad alta emotività come questi, è indicatrice e dovrebbe allertare la stampa, che invece non mostra esitazioni. Eppure di ragioni per mostrarsi più cauti ce ne sono molte. Vogliamo ricordare le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein? Ma esempi in tempi recenti non mancano. L’isteria accusatoria di queste ore ricorda quella delle “prove incontrovertibili” del 2013, secondo cui Assad aveva sterminato col gas 1300 civili, fa cui molti bambini. Scoprimmo in seguito che a usare il gas furono i ribelli per provocare un intervento nella Nato. O, sempre in Siria, nel 2107 quando Amnesty e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un formo crematorio in cui venivano bruciati i ribelli, rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano. Sia chiaro: nessuno sa chi abbia attentato alla vita di Skipal e di sua figlia e nessuna ipotesi può essere esclusa. Ma la propaganda è davvero assordante e i precedenti, nonché l’esperienza, suggeriscono maggior cautela. E un sano scetticismo: perché Putin sarà, per la grande stampa, “cattivo” ma di certo stupido non è.
Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare. Dall'onnipotenza del Mossad alla lobby ebraica e all'idea di "Due popoli due Stati". La complessità del conflitto israelo-palestinese negli anni ha generato una serie di convinzioni che non si basano sui fatti. Il dizionario del conflitto dalla A alla Z, scrivono Anna Mazzone e Paolo Papi su "Panorama". Israele ha avvertito i palestinesi della Striscia di Gaza di abbandonare le loro abitazioni. La pseudo-tregua è durata un batter di ciglia. I razzi di Hamas continuano a piovere in Israele e lo Stato ebraico ha ripreso i bombardamenti su Gaza e si prepara (forse) a un'operazione terrestre. Compresso tra i suoi falchi, Netanyahu sembra non avere chiara la rotta da seguire e intanto il numero dei morti aumenta di ora in ora. Si parla di più di 200 persone, tutti palestinesi e 1 israeliano. Il conflitto israelo-palestinese affonda la sua storia nella notte dei tempi. Difficile districarsi nelle fitte trame degli eventi, dei passi fatti in avanti e di quelli (tanti) fatti indietro. E, soprattutto, difficile non ascoltare le sirene dei "falsi miti". Idee preconcette, spesso frutto di propaganda da una parte e dall'altra, che a forza di essere ripetute sono diventate realtà. Abbiamo provato a smontarli uno per uno.
Il mito dei Paesi arabi "fratelli". Non è vero, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, che i palestinesi siano vittime esclusivamente delle rappresaglie israeliane. I Paesi arabi che confinano con Israele, Gaza e Cisgiordania sono stati, nonostante la retorica antisionista dei governi arabi strumentalmente usata in chiave interna, tra i più feroci nemici degli oltre 5 milioni di profughi palestinesi della diaspora, considerati - ovunque siano stati ospitati - come dei paria senza diritti, degli inguaribili attaccabrighe da confinare in campi sovraffollati, senza servizi né diritti e controllati a vista dalle onnipotenti polizie locali. Dalla Giordania - dove durante il settembre nero del 1970 la polizia giordana lanciò una sanguinosa operazione contro i gruppi palestinesi nei campi - al Libano - dove i 500 mila profughi che vivono nei campi sono considerati tuttora senza diritti politici e sociali - fino al Kuwait - dove i lavoratori palestinesi furono espulsi durante la prima guerra del Golfo per il sostegno che l’Olp ricevette dal regime di Saddam - non c’è Paese arabo che - al di là delle magniloquenti dichiarazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi - abbia mai offerto un concreto aiuto ai palestinesi fuggiti dalle loro case. Sempre in Giordania (e anche in Libano) un palestinese non può studiare Legge o Medicina e non può essere proprietario di un immobile. Se questi sono "fratelli", allora forse è il caso di parlare di "parenti serpenti".
Il mito dei negoziati. Non è vero, o meglio: è estremamente improbabile, visto anche il disimpegno americano - che una soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere frutto di un negoziato tra i leader dei due campi, come dimostrano i fallimenti di tutti gli accordi di pace degli anni '90 e 2000. È assai più probabile che le tendenze demografiche di lungo periodo dei due gruppi etnici possano mutare, irrimediabilmente, nei prossimi decenni, la natura politica dello Stato di Israele. E questo per una ragione molto semplice: se guardiamo alle proiezioni statistiche scopriamo che al momento in Terra Santa vivono 6.1 milioni di ebrei e 5.8 milioni di arabi. La demografia dice che gli arabi fanno molti più figli degli ebrei. E' inevitabile pensare che nel giro dei prossimi dieci anni, qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione "Due popoli due Stati", Israele potrebbe perdere progressivamente il suo carattere di Stato ebraico. Insomma, quello che non si riesce a raggiungere da più di mezzo secolo al tavolo dei negoziati, potrebbe realizzarlo la Natura.
Il mito degli insediamenti congelati. Nonostante il governo israeliano abbia più volte dichiarato l'intenzione di congelare i nuovi piani di insediamento nella West Bank, questo non è accaduto. L'ultimo esempio è molto recente. Ai primi di giugno di quest'anno l'esecutivo israeliano ha annunciato uno stop nella costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. In realtà, però, su un piano che prevedeva 1.800 nuovi insediamenti ne sono state costruite 381. Forte la pressione da parte di cinque Paesi dell'Unione europea affinché Israele congelasse i suoi piani sui nuovi insediamenti. Ma il governo Netanyahu ha fatto sapere che lo stop è arrivato per motivi "tecnici" e non in seguito alle pressioni europee.
Il mito della lobby ebraica. E' sicuramente il mito più gettonato. Quello dell'esistenza di una lobby ebraica in grado di influenzare qualsiasi avvenimento socio-economico-politico nel mondo è il cavallo di battaglia dell'esercito dei complottisti. Il mito della lobby "giudaica" affonda le sue radici nell'antisemitismo e, come tutti i miti, si fonda su idee fantasiose ripetute a oltranza, nei secoli dei secoli, fino a diventare - almeno per alcuni - delle verità inviolabili. E' il mito che ha gettato le fondamenta dello sterminio nazista e che ha motivato nei secoli l'odio nei confronti degli ebrei, accusati - dopo la Seconda guerra mondiale - di fare "marketing dell'Olocausto" per poter mantenere una situazione di potere nel mondo. In realtà, basterebbe una sola domanda per smontare il mito della lobby ebraica: perché - se la lobby esiste sul serio - Israele non riesce a modificare l'immagine che passa sulla maggior parte dei media nel mondo e che assegna allo Stato ebraico la maglia nera del carnefice a fronte di una Palestina presentata largamente come vittima indiscussa? Il vecchio adagio che la verità sta nel mezzo in realtà vale sia per Israele che per la Palestina, ed è troppo semplice e superficiale credere che esista una struttura monolitica e unica come la potente lobby ebraica, in grado di modificare i destini del mondo.
Il mito di "Due popoli, due Stati". La soluzione "Due popoli due Stati" è l'idea di creare uno Stato palestinese indipendente, che possa esistere "assieme" a Israele. Negli anni è diventata una sorta di "mito", perché sarebbe sicuramente la soluzione migliore per risolvere un conflitto così complesso, ma è pur vero che al momento le parti in causa sono troppo distanti. La creazione di creare uno Stato binazionale non ottiene ugualmente supporto e i sondaggi dimostrano che sia gli israeliani che i palestinesi preferirebbero la "mitica" soluzione "Due popoli due Stati". E allora perché questa soluzione non viene raggiunta? La risposta affonda le sue radici in anni e anni di conflitto israelo-palestinese per la terra, la legittimazione, il potere. Un tema molto sentito dai palestinesi è il controllo delle frontiere e la libertà di movimento. Movimento che Israele restringe e controlla ai check-point e all'ingresso della città di Gerusalemme. E' molto difficile negoziare una soluzione "Due popoli due Stati" se non ci si riesce a mettere d'accordo sui confini come punto di partenza. Un ulteriore motivo di conflitto è la disputa sul controllo di Gerusalemme, casa di molti siti sacri per gli ebrei, ma anche per i palestinesi (e i cristiani). C'è poi la questione degli insediamenti israeliani nella West Bank, che fa parte dei territori palestinesi. L'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank è vista da molti come il principale ostacolo alla costruzione di una pace stabile e duratura. Infine c'è Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla Gaza, che non vuole l'esistenza di Israele e si batte per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa mediorientale. Di fronte a queste considerazioni, è evidente come la soluzione "Due popoli due Stati", pur essendo la migliore da praticare, è anche un falso mito da sfatare. Almeno finché le parti non muoveranno passi in una direzione diversa da quella presa finora.
Il mito dell'estremismo "solo" arabo. Per chi crede che nel conflitto israelo-palestinese il "terrorismo" si esprima solo sul fronte islamico, questo è un altro mito da sfatare. In Terra Santa gli estremisti sono anche ebrei e rappresentano un serio problema per il governo israeliano. Ultra ortodossi, gli estremisti ebraici si sono spesso distinti per attacchi di gruppo a donne. Come nel caso della ragazza presa a sassate a Beit Shemesh (nei pressi di Gerusalemme) perché stava attaccando dei poster della lotteria nazionale per le strade del villaggio. In occasione della recente visita di Papa Francesco in Terra Santa, le autorità israeliane hanno vietato a cinque noti estremisti di mettere piede nella città di Gerusalemme. Considerano lo Stato israeliano "un nemico" e attaccano con bombe e attentati, esattamente come gli omologhi della controparte palestinese. Un nome su tutti è quello di Yigal Amir, il terrorista ultranazionalista che nel 1995 ha ucciso Yitzhak Rabin, perché non accettava l'iniziativa di pace sposata dal premier israeliano e la sua firma sugli accordi di Oslo.
Il mito dell'onnipotenza del Mossad. I servizi segreti israeliani vengono spesso portati a esempio di infallibilità, ma non è così. Anche perché è umanamente impossibile. Tuttavia, il mito dell'onnipotenza del Mossad è uno delle fondamenta su cui si articola il mito della lobby ebraica, e pertanto resiste tenacemente nel tempo. Eppure, i flop del Mossad (e dello Shin Bet, l'intelligence israeliana per gli affari interni) sono sotto gli occhi di tutti. Cominciano nell'ottobre del 1973, quando Aman, i servizi militari israeliani, giudica "Poco probabile" lo scoppio di una guerra con i Paesi arabi, Qualche giorno dopo l'esercito sirio-egiziano attacca Israele, cogliendo il Paese del tutto impreparato. Il capo di Aman fu costretto a dimettersi. Poco prima, a luglio dello stesso anno, gli agenti del Mossad danno la caccia ai leader di Settembre Nero, l'organizzazione terroristica islamica responsabile dell'uccisione di 11 atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del '72. Gli 007 israeliani credono di avere individuato Hassan Salamé (uno dei leader) in Norvegia. Lo colpiscono, ma poi scoprono di avere ucciso per sbaglio un cameriere di origine marocchina. In tempi più recenti, a gennaio del 2010 in un hotel di Dubai viene ucciso Mahmoud al Mabhouh, uno dei comandanti di Hamas. Le foto dei killer (agenti del Mossad) fanno il giro del mondo con i loro passaporti, su operazione della polizia locale. Infine, a giugno 2011 i siti dell'IDF, di Shin Bet e del Mossad vengono violati da un gruppo di hackers di Anonymous, che minaccia un attacco cibernetico contro Israele. Per due ore i siti non sono accessibili.
Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la 'Grande marcia del ritorno' che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, scrive il 30 marzo 2018 "La Repubblica". Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi.
L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.
L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane". L'esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira "i principali istigatori" delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l'esercito è intervenuto perché ha "identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti". Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell'arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas,Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che "è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi". Fonti dell'esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: "Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".
L'esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata "mandata verso Israele per superare la barriera difensiva". "Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l'esercito - l'hanno presa e si sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori". Secondo l'esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che "cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite". La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l'obiettivo di realizzare il "diritto al ritorno", la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell'esercito per monitorare la situazione. L'esercito ha dichiarato la zona "area militare interdetta". Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l'attenzione dal pantano politico all'interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. "Condanniamo in modo forte l'uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza", ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. "È necessario che Israele ponga fine rapidamente all'uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione", afferma Ankara, lanciando un invito "alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile".
Israele spara sulla marcia palestinese: 15 morti a Gaza. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti, scrive Michele Giorgio il 30.3.2018 su "Il Manifesto". Manifesto Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. Gli ospedali già in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al torace. «I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci diceva Aziz Kahlout, un giornalista.
Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di tiratori scelti.
Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato lanci di pietre e di molotov, ha parlato di «manifestazioni di massa volte a coprire attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima di essere uccisi da una cannonata.
La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla marcia e che si unirà alle prossime proteste «perché la vita è difficile a Gaza e non abbiamo nulla da perdere». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta «porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza».
Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.
Si rischia la Pasqua di rappresaglia. In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia, scrive Fiamma Nirenstein, Sabato 31/03/2018 su "Il Giornale". C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas. 15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati. La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba. Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.
Il silenzio assordante sul massacro dei curdi, scrive Marco Rovelli il 29 marzo 2018 su Left. Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali. Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante. Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.
Le prove non ci sono, ma Trump spara lo stesso: orrore! Scrive Marcello Foa il 14 aprile 2018 su "Il Giornale". L’attacco di questa notte rappresenta un grave errore e una svolta nella politica estera americana. E’ un gesto di intimidazione nei confronti del regime di Assad, ma anche – e forse soprattutto – nei confronti della Russia e dell’Iran. Non ci sono prove sull’uso di armi chimiche alla Douma. Giovedì Macron assicurava di avere riscontri sulle responsabilità di Assad, riscontri che però non ha esibito. Infatti nelle stesse ore il segretario alla Difesa degli Usa James Mattis, in audizione al Congresso, dichiarava che non ci sono vere prove ma solamente indizi forniti da media e social media. Ciò nonostante l’attacco è stato lanciato lo stesso. Il messaggio, pertanto, è chiaro e grave: l’America torna ad essere il gendarme del mondo. E Trump rinnega se stesso. L’ho già scritto e lo ribadisco: Il Trump di queste ore non ha più nulla a che vedere con quello che è stato eletto 18 mesi fa. La nomina di un supefalco come John Bolton a Consigliere della sicurezza nazionale, segna la conversione del presidente americano sulle posizioni che egli stesso condannava con forza. Lo dimostrano i suoi tweet, lo dimostra il suo discorso di insediamento, in cui disegnava un’altra America, meno interventista, più equilibrata, mèiù saggia. Il Trump di oggi è irriconoscibile. E’ diventato un neoconservatore ovvero ha fatto proprio lo spirito aberrante che ha guidato la mano di Bush, in buona parte quella di Obama, e che ispirava quella di Hillary Clinton. Bolton è alla Casa Bianca da poche settimane e gli effetti si vedono. Fino a pochi giorni fa l’America sembrava sul punto di ritirarsi dalla Siria, ora, a suon di missili, dice: noi ci siamo e continueremo a farci sentire. Questo nuovo corso della politica estera americana non promette nulla di buono. Esaspera ancor di più i rapporti con la Russia di Putin, ma questo non è nel nostro interesse di europei ed espone il mondo a crisi ancor più gravi e dalle conseguenze imprevedibili. Che errore, che orrore, Trump.
Siria: l’attacco chimico, tragico pretesto, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Un altro attacco chimico in Siria scatena la reazione internazionale. “Ora l’America di Trump dovrà colpire. Dovrà rispondere alle immagini spaventose che giungono dalla Siria”, scrive Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi. Si potrebbe concordare. Ma difficilmente Washington bombarderà Ryad, che sostiene i jihadisti di Jaysh al-Islam, l’organizzazione jihadista che ha lanciato l’attacco. Perché, con ritornello ripetitivo quanto stantio, i politici e i media dell’Occidente accusano Damasco e Putin. E si preparano a colpire la Siria.
Un attacco chimico annunciato. Solo che stavolta Mosca non starà a guardare. Ha allertato le difese schierate in Siria, e sono tante. Sarà la terza guerra mondiale? Washington dovrebbe riflettere prima di compiere passi fatali. L’escalation è una possibilità, anche se ad oggi remota. Sull’attacco chimico è inutile spiegare che Assad non ha alcun interesse a usare i gas contro i suoi nemici, anzi, sui quali sta avendo la meglio usando armi convenzionali. Per un beffardo incrocio di destini, proprio oggi sembra si sia chiuso l’accordo con gli assassini di Jaish al islam che controllano Douma, il quartiere nel quale sono stati sganciati i gas. Dovrebbero andarsene altrove, liberando l’area dalla loro nefasta occupazione. Ma al di là, degli sviluppi, resta che non interessa a nessuno accertare i fatti. La responsabilità di Assad è dogma inderogabile. Come furono le armi di distruzione di massa di Saddam. E anche se gli interventisti palesano qualche dubbio, restano fermi nell’asserire che Assad va colpito. Come fa Venturini con quel cenno col quale abbiamo iniziato questa nota. Nel proseguo dell’articolo, infatti, ammette che la responsabilità del governo siriano è dubbia…A fine marzo avevamo riportato che “i ribelli siriani che combattono nel Ghouta avrebbero simulato un attacco chimico contro i civili come pretesto per un attacco americano”. Una constatazione non nostra, ma del sito Debkafile, collegato ai più che informati servizi segreti israeliani, che pure non hanno in grande simpatia Assad, anzi. E da giorni media russi e iraniani avevano allertato su un attacco chimico imminente ad opera dei cosiddetti ribelli per incolpare i siriani. Sempre Debkafile, oggi riporta: “Alcune fonti a Washington sospettano che alcuni gruppi dell’opposizione siriana stiano innescando l’escalation nella speranza di provocare un’azione militare USA in Siria, ribaltando l’intenzione annunciata dal presidente Trump di riportare a casa le truppe statunitensi”.
Trump e il ritiro dalla Siria. Trump, obnubilato dai fumi dell’incendio che ieri è divampato alla Trump Tower, (funesto presagio), si è scagliato lancia in resta per un’azione militare. La sua idea di ritirare le truppe dalla Siria sembra dunque appartenere al passato. Oggi le difese siriane danno notizia di aver abbattuto alcuni missili Tomahawk lanciati contro una loro base aerea, un attacco che Mosca attribuisce a Israele. Gli autori della strage di Douma sembrano dunque aver conseguito i risultati sperati. Resta la perplessità per un complesso mediatico unidirezionale, come riscontrato durante la guerra in Iraq e quella in Libia. L’Unione sovietica aveva la Pravda, parola russa che significa verità. Ai media occidentali è consentita certa libertà su temi secondari, ma, quando il sistema si compatta su una decisione che riguarda il suo stesso destino, hanno anche loro una Pravda alla quale attenersi, pena l’esclusione dal sistema stesso. Una Pravda più sofisticata, certo, ma non meno perniciosa. Pericolosa deriva. Totalitaria.
Attacco chimico a Douma: se gli jihadisti scagionano Assad, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Strano strano: l’Osservatorio siriano per i diritti umani, totalmente consegnato alla causa del regime-change in Siria, quindi non certo uno strumento in mano ad Assad, non dà alcuna notizie dell’asserito attacco chimico che sarebbe avvenuto a Douma, presso Ghouta orientale. Attacco che l’Occidente attribuisce ad Assad. L’Osservatorio è dedito alla propaganda contro il governo siriano. I suoi oppositori lo accusano di Inventarsi o distorcere notizie alla bisogna; un po’ come quando si narrava che i comunisti mangiavano i bambini. Allo scopo si avvale di fonti sul campo, fonti jihadiste, ovvio, e terroriste. Ha quindi un rapporto diretto con gli attori presenti nel teatro di guerra. Nel caso specifico, la banda Jaysh al-Islam, finanziata e armata dall’Arabia Saudita, che controllava Douma.
Il resoconto dell’Osservatorio siriano dei diritti umani. Bene, l’Osservatorio dedica alle interna corporis di Douma tantissimi articoli, di cui cinque solo oggi (almeno fino al momento in cui abbiamo realizzato questa piccola nota), dettagliando cosa è successo nel quartiere assediato di Damasco. Note in cui si narra che ci sono stati pesanti bombardamenti da parte delle forze russo-siriane, e che in seguito a queste la popolazione civile si è ribellata agli jihadisti e gli ha chiesto di accettare l’accordo proposto dai loro nemici e di abbandonare il quartiere. Hanno persino manifestato sotto la casa del capo della milizia, per fargli capire che doveva sloggiare. Magnanimamente, i jihadisti alla fine hanno accettato, spiegando in un comunicato che lo facevano per il bene della popolazione civile. E ora pare che stiano andando via, sotto la “pressione popolare”, imbarcati su 26 autobus messi a disposizione da Damasco. Saranno destinati ad un’altra zona della Siria controllata da altri jihadisti. Bene, in nessuno di questi articoli si parla di gas tossico, attacco chimico o quanto altro. Solo in un articolo del 7 aprile si accenna a “11 persone, tra cui almeno 5 bambini, soffocate, dopo il bombardamento di un aereo da guerra”. Al di là della veridicità o meno della notizia (l’Osservatorio non è molto attendibile, per usare un eufemismo), resta che non parla di gas, ma di generici sintomi di soffocamento di 11 persone. Va da sé che se si lancia un attacco chimico i sintomi sono ben più gravi e le persone colpite risulterebbero in numero ben maggiore. Inoltre, di solito, le notizie riguardanti gli asseriti attacchi chimici del passato erano corredate con foto raccapriccianti. In questo caso di foto ne sono circolate pochine e tutte molto più che generiche: potrebbero essere state scattate ovunque. Quella che circola di più l’abbiamo messa in esergo al nostro articolo e inquadra un bambino con un respiratore, mentre la sua compagnetta non ha nulla, se non legittima paura. Foto che non provano nulla insomma, se non l’innocenza violata dei bambini in questa sporca guerra. Una sporca guerra che si alimenta di menzogne. I siti russi rilanciano le dichiarazioni della Croce rossa siriana, che dice di non aver trovato tracce di gas a Douma. E in realtà, non si capisce perché i jihadisti incistati nel quartiere non hanno denunciato quell’attacco nel comunicato rivolto ai cittadini di Douma che l’Osservatorio siriano per i diritti umani riporta tutto nel dettaglio: non una riga sull’asserito attacco chimico. Perché tacere? Si poteva ben denunciare che a seguito dell’attacco chimico avevano deciso di andar via… Si noti che questo articolo, e soprattutto il comunicato degli jihadisti, è successivo all’attacco in cui L’Osservatorio denuncia i presunti sintomi di soffocamento. Non una riga su gas e attacchi chimici. Nemmeno una… Vuoi vedere che si sono inventati tutto?
Ps. Ovvio che da oggi tutto può cambiare e magari anche sul sito dell’Osservatorio scorreranno fiumi di inchiostro su gas e quanto altro. Ma il dato rilevato resta. E conferma quanto scritto stamane: la storia dell’attacco chimico è una messinscena costruita ad arte per attaccare Assad.
Armi chimiche ad orologeria, scrive Sebastiano Caputo il 9 aprile 2018 su “Il Giornale”. Presunte armi chimiche, ancora. Il governo siriano è sotto inchiesta dal potere mediatico internazionale per aver colpito la città di Duma, dove è in corso una battaglia contro Jaish al Islam, con gas tossici. In poche ore i video dal campo diffusi sono diventati virali e senza alcuna verifica tutti i mezzi d’informazione occidentale gli hanno rilanciati sui loro siti web e ritrattati in forma cartacea sulle prime pagine. E’ evidente però che siamo di fronte ad un’evidente operazione di “spin” giornalistico, vale a dire di una notizia che è stata fabbricata, confezionata o per lo meno riadattata, per poi essere gettata in mondovisione in un contesto geopolitico, militare e diplomatico molto preciso. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni e quando vengono organizzate queste campagne mediatiche così corali non è mai per caso per cui occorre inserirle in un quadro molto più ampio altrimenti diventa solo becera e lacrimevole propaganda. Per capire quanto siano davvero autorevoli tali accuse è necessario analizzare le fonti della notizia, poi la campagna mediatica che ne è seguita, e infine tracciare le conseguenze dirette. Il presunto uso di armi chimiche è stato diffuso da due organi. Prima dai canali informativi legati a Jaish al Islam, poi dai White Helmets, un’organizzazione che è stata più volte denunciata per connivenza con i gruppi terroristici in Siria e di fornire un racconto parziale e mai obiettivo del conflitto. Eppure nonostante questa mancanza di obiettività i media occidentali hanno riportato ciecamente la notizia facendosi portavoce di una fazione creata coi soldi sauditi nel settembre 2013 per intercessione della famiglia Allouche – che oggi vive comodamente a Londra facendo fare il lavoro sporco allo sceicco Isaam Buwaydani, detto “Abu Hamam”, succeduto a Zahrane Allouche ucciso da un raid siriano – e che per anni ha comandato Duma con metodi mafiosi, imponendo la propria legge ai commercianti della Ghouta e giustiziando pubblicamente, senza esitare, chi ne ha contestato il potere (per credere è sufficiente ascoltare le testimonianze dei civili fuggiti dai corridoi umanitari aperti dalla Mezzaluna Rossa in collaborazione con l’Esercito Arabo Siriano). La campagna mediatica che ha seguito questi fatti è stata perfettamente sincronizzata in un lasso di tempo cortissimo. Tutti i giornali e i telegiornali hanno aperto con le stesse fotografie, gli stessi titoli, gli stessi slogan, e così anche gli intellettuali, uno fra tutti Roberto Saviano, che sulla scia di quel monologo fazioso di qualche settimana fa su Rai 1 che avevo commentato con un video, si è accodato a questa narrativa a senso unico inventandosi persino un gesto virale – la mano che tappa bocca e naso – per denunciare, senza prove, il governo siriano. Questa traiettoria informativa con l’intento di trascinare emotivamente l’opinione pubblica, si iscrive come detto sopra in un contesto geopolitico molto preciso. Siamo di fronte ad una vittoria militare di Bashar Al Assad e dei suoi alleati russi, iraniani, e libanesi, allora a rigor di logica è quanto mai legittimo domandarsi che interessi avrebbe il presidente siriano, sapendo di avere gli occhi puntati della comunità internazionale e dei media, per lo più in una posizione di forza, di utilizzare le armi chimiche nella battaglia di Duma? Sarebbe un errore da principiante e Assad un principiante non lo è affatto per come ha condotto la guerra mediatica e militare. La verità è che questa campagna arriva una settimana dopo le dichiarazioni di Donald Trump sul ritiro delle truppe dal nord della Siria (circa 2mila soldati), mentre all’interno della sua amministrazione c’è una componente legata al complesso militare-industriale che vuole continuare a seguire un’agenda alternativa a quella della Casa Bianca, con degli obiettivi molto chiari: difendere i pozzi petroliferi, coordinare i curdi sempre più propensi ad un riavvicinamento con il governo di Damasco e controllare zone altamente strategiche nella parte settentrionale del Paese. Per ultimo e non meno importante, è da ricordare che pochi giorni fa Erdogan, Rohani e Putin si sono riuniti per dare seguito ai colloqui di pace, perseguendo il processo di Astana, dove gli americani non sono invitati a prendere parte, ed è evidente che tutto questo servirà a spostare l’attenzione diplomatica sulle Nazioni Unite dove gli Stati Uniti, insieme a Francia e Inghilterra, la fanno da padroni.
Cosa c'è da sapere sulla guerra in Siria. Assad punta a riconquistare i pozzi petroliferi dell'Est, la Turchia a controllare il Nord. Mentre la Russia gestisce la situazione e gli Stati Uniti vogliono rafforzare il ruolo regionale di Israele. Ecco cosa sta succedendo, scrive Alberto Negri il 16 aprile 2018 su "L'Espresso". Nel pieno di una nuova guerra fredda ci avviciniamo a grandi passi alla balcanizzazione della Siria. A Nord la Turchia punta a cacciare dai suoi confini i curdi siriani e gli Stati Uniti non sembrano impegnati a difendere coloro che hanno utilizzato per sconfiggere l’Isis nell’assedio di Raqqa, ex capitale del latitante “califfo” Al Baghdadi. L’eroismo dei curdi di Kobane contro i jihadisti dell’Isis, così esaltato in Occidente, è stato presto dimenticato di fronte alla realpolitik. Nei villaggi curdi che non cadranno in mano ai turchi e alle loro milizie arabe resteranno i ritratti dei martiri. Chi scrive ha visto morire i curdi iracheni nel 1988 ad Halabja, asfissiati dai gas di Saddam Hussein nella più completa indifferenza internazionale; li ha visti fuggire dall’Iraq nel 1991, quando Bush padre fece appello a loro e agli sciiti per insorgere contro Baghdad - e anche allora furono abbandonati al loro destino - poi li ha visti tornare nel 2003 dopo la caduta del raìs, quindi combattere a Kobane quando occupavano soltanto il 20 per cento della città e i jihadisti li attaccavano alle spalle con la complicità di Erdogan: pagano oggi l’ennesimo tradimento delle loro speranze, forse illusorie, di irredentismo. Al centro, lungo l’asse vitale della Siria “utile” Aleppo-Hama-Homs-Damasco, il regime sta consolidando le sue posizioni con il sostegno della Russia e dell’Iran. Bashar Al Assad sta espellendo le ultime sacche di resistenza intorno a Damasco, poi, con l’aiuto dei russi e dei pasdaran iraniani, punterà decisamente a Est verso i campi petroliferi di Deir ez Zhor, essenziali per ricostruire un paese i cui danni di guerra sono stimati almeno 400 miliardi di dollari. Per Assad - come per Erdogan al Nord - l’obiettivo è sostituire la popolazione ostile, in questo caso i sunniti e coloro che hanno appoggiato la rivolta, con quote di minoranze più fedeli al regime come i cristiani, gli sciiti e gli alauiti. In poche parole andiamo verso la pulizia etnica e settaria che ha caratterizzato molte epoche della storia del Medio Oriente. Anche il ritorno dei profughi siriani - tre milioni in Turchia dove rappresentano l’arma di ricatto di Erdogan nei confronti dell’Europa - verrà gestito in questa direzione: distribuire la popolazione non secondo le esigenze di un ritorno a casa ma in accordo con le nuove linee di separazione etnica e religiosa. Dal 2011 a oggi quasi otto milioni di siriani hanno dovuto cambiare indirizzo e molti di loro non lo ritroveranno. Idlib, al Nord, non lontano da Aleppo e dal confine con la Turchia, intanto sta diventando la “discarica” dei jihadisti sconfitti. Qui le donne sole, rimaste single o vedove, vengono radunate dagli islamisti in appositi campi di concentramento. Qui si spengono, in un’atmosfera cupa e carica di presagi inquietanti, le ultime speranze della rivoluzione siriana cominciata con la rivolta di Daraa nel 2011. Quale sarà il loro destino? È un interrogativo di non poco conto, tenendo presente che tra loro ci sono molti dei settemila combattenti con passaporto europeo che imboccarono anni fa l’“autostrada del Jihad” aperta da Erdogan con l’appoggio degli Stati Unti e delle monarchie del Golfo. Nella sedicente pax syriana è il Cremlino che taglia le fette di torta, bisogna quindi sapersi accontentare e inghiottire qualche boccone amaro. Con il vertice di Ankara tra Erdogan, Putin e Hassan Rohani si è definito il nuovo triangolo mediorientale, una sorta di Sikes-Picot dei nostri giorni: si tratta dell’evoluzione più paradossale della guerra di Siria. Un membro della Nato dagli anni Cinquanta, bastione dell’Alleanza contro Mosca, si è messo d’accordo con la Russia e con l’Iran, bestia nera degli Stati Uniti e di Israele. In sintesi un Paese dello schieramento atlantico è sceso a patti contro gli avversari, veri o presunti, dell’Occidente per spartire la Siria in zone di influenza. Non è neppure secondario che Erdogan, incline a presentarsi come paladino dei sunniti, abbia stretto intese con gli ayatollah sciiti, nemici dei jihadisti e del mondo islamico salafita. Se il progetto troverà riscontri nel prossimo futuro, significa che Russia e Iran hanno vinto la guerra di Siria due volte: la prima tenendo in piedi Assad, la seconda portando nel loro campo un pilastro della Nato. La Turchia ospita, oltre alle basi, anche i missili americani puntati contro Mosca e Teheran. Quale è il piano americano da contrapporre al triangolo Russia-Turchia-Iran? Pur mantenendo le basi in Turchia e nel Golfo, lasciare che se la sbrighino sul campo potenze esterne e regionali: in realtà gli Usa contano sulla disponibilità di Israele - che dal Golan siriano occupato nel 1967 scatta con i suoi raid aerei - a fare il poliziotto della regione. Ma la partita non è finita. L’Arabia Saudita, con le dichiarazioni del principe ereditario Mohammed bin Salman sul diritto di Israele ad avere un suo Stato, segnala che vuole trascinare le monarchie del Golfo dal lato di Tel Aviv pur di contenere la Mezzaluna sciita. Le prossime mosse ci daranno le sfaccettature di quello che sarà nei mesi a venire il prisma del conflitto mediorientale. Trump, sulla spinta dei neo-con della Casa Bianca, Mike Pompeo e Bolton, rispettivamente segretario di Stato e consigliere della sicurezza nazionale, intende cancellare l’accordo di Obama con Teheran sul nucleare. Si aspettano nuove sanzioni e ulteriori difficoltà per Paesi europei in affari con gli iraniani, tra cui anche l’Italia. Nonostante le indicazioni di un disimpegno americano, in realtà il Medio Oriente “allargato” resterà nel mirino Usa: la partita è strategica ma anche economica, dalle rotte del gas nel Mediterraneo orientale alle nuove “vie della Seta”, ferroviarie, autostradali, marittime e portuali, in mano agli investimenti cinesi. Da queste parti forse non sarà più America First, ma Israel First, che per altro tiene sempre aperta la linea rossa con il Cremlino. La guerra per procura contro l’Iran ha balcanizzato in un massacro infinito la Siria ma non è ancora finita.
Cara Botteri, sulla Siria sbagli e ti spiego perché, scrive il 17 aprile Marcello Foa su "Il Giornale". Il mio intervento di giovedì scorso a TG 3 Linea notte è diventato virale sui social media. Decine di migliaia di condivisioni per aver detto – in un estratto di due minuti – che, come dimostra la Siria e come già avvenuto in Iraq, i giornalisti abboccano troppo facilmente alla propaganda e non imparano dai propri errori. In collegamento, purtroppo solo nei minuti finali, c’era da New York Giovanna Botteri, corrispondente dalla Rai, che naturalmente, dalla mimica facciale, pareva non essere molto d’accordo con me. Diversi lettori mi hanno chiesto: ma com’è andata a finire? Cos’ha detto la Botteri? Potete giudicare voi stessi, seguendo la sequenza completa (sono appena cinque minuti). Io mi auguro di avere presto l’occasione di confrontarmi nuovamente con lei, però non posso rimanere indifferente riascoltando l’ultima affermazione della mia nota collega, secondo cui la differenza è che “nell’Iraq del 2003 i giornalisti erano sul campo e potevano testimoniare, mentre oggi in Siria non ci sono giornalisti sul posto”. Avrei voluto replicare subito ma purtroppo eravamo alla fine della trasmissione. Rimedio adesso. No, cara Giovanna, non ci siamo. Io non ho mai citato l’Iraq come esempio positivo per la stampa ma – e lo dimostro nel mio saggio, uscito da poco, Gli stregoni della notizia. Atto secondo – ma, al contrario, come precedente molto negativo, in cui proprio la grande stampa internazionale, a cominciare dal New York Times e dalla Cnn, fecero da volano a tutte le bufale istituzionali, appiattendosi totalmente sulla posizione del presidente Bush. Allora le poche voci critiche venivano intimidite ed emarginate, fino alla criminalizzazione morale. Avevano ragione ma dovevano sentirsi soli, dovevano discolparsi, fino a dubitare delle proprie isolate convinzioni. In Siria la grande stampa mainstream sta commettendo lo stesso errore, come spiego nel mio intervento a Tg3 Linea Notte, ma la Botteri non può sostenere che in Siria mancano i giornalisti sul campo. Ci sono stati eccome, pensiamo al giovane Sebastiano Caputo, a Gian Micalessin, a Fausto Biloslavo. Talvolta basterebbe ascoltare le testimonianze dei preti che vivono in Siria, anziché quelle, tuitt’altro che neutrali, di molte Ong. Le voci alternative non mancano, per chi vuole ascoltarle. Il problema, è che la maggior parte dei media le ignora, preferendo affidarsi ciecamente alla voce dei governi, senza mai dubitare, senza mai interrogarsi, senza mai cogliere le incongruenze e le contraddizioni, nemmeno quando sono palesi. Ovvero muovendosi come docili greggi al seguito del solito Pastore. Il giornalismo, cara Giovanna Botteri, è un’altra cosa: significa coraggio, significa indipendenza, significa capacità di critica e di sana autocritica. Significa riscoprire virtù che la stampa occidentale mainstream smarrisce di giorno in giorno.
Douma: non fu attacco chimico. Parola di Robert Fisk, scrive il 17 aprile 2018 Giampaolo Rossi su "Il Giornale".
IL PRIMO AD ENTRARE. “Questa è la storia di una città chiamata Douma, un luogo devastato e maleodorante di palazzi distrutti – e di una clinica sotterranea le cui immagini di sofferenza hanno permesso a tre delle nazioni più potenti del mondo occidentale di bombardare la Siria la scorsa settimana”. Inizia così, sul quotidiano britannico The Indipendent, il racconto di Robert Fisk, uno dei più famosi giornalisti al mondo, direttamente da Douma. Fisk, reporter di fama internazionale, è stato il primo ad entrare nei giorni scorsi nella città liberata dall’esercito siriano; ha visitato il famoso ospedale dove sono state girate le immagini dei bambini con le maschere di ossigeno, prova fondamentale che l’Occidente ha preteso per accusare Assad di aver usato armi chimiche e scatenare il bombardamento su Damasco e Homs. Fisk ha parlato con Assim Rahaibani, il medico che era presente quel giorno quando i feriti giunsero nell’ospedale. E ciò che viene raccontato è sconvolgente: il video è vero ma la verità è un’altra: “quei civili erano sopraffatti non dal gas ma dalla carenza di ossigeno dentro i tunnel e negli scantinati in cui vivevano, in una notte di vento e bombardamenti pesanti che hanno scatenato una tempesta di polvere”. Quella notte, continua il testimone, “ci furono molti bombardamenti [da parte delle forze governative]” ma c’era anche “molto vento e le nuvole di polvere cominciarono a invadere gli scantinati e le cantine dove vivevano le persone”. Il video di dei bambini di Douma con le maschere d’ossigeno è vero… ma la verità è un’altra. Quelle persone furono colpite da ipossia (cioè da mancanza di ossigeno) non da gas nervini. Ecco il perché delle immagini di quei bambini con le maschere sul volto; sarin e agenti nervini non c’entravano nulla. Poi, continua l’anziano medico siriano, “qualcuno alla porta, un «Casco bianco», gridò “Gas!”, ed è cominciato il panico. La gente ha iniziato a gettare acqua l’una sull’altra. Sì, il video che è stato girato qui, è autentico, ma quelle che vedi sono persone che soffrono di ipossia – non di intossicazione da gas“. Robert Fisk afferma anche che quella del dott. Rahaibani non è l’unica testimonianza. A Douma: “ci sono molte persone con cui ho parlato tra le rovine della città che hanno detto di non aver mai creduto a storie di gas, che di solito venivano messe in giro dai gruppi armati islamici”; quelli che l’Occidente chiama Ribelli e che gli abitanti di Douma chiamano jihadisti o “terroristi”, perché “il termine che usa il Regime è un termine usato da molte persone in tutta la Siria”. Fisk afferma nel suo reportage di aver “attraversato la città abbastanza liberamente ieri senza soldati, poliziotti o agenti di sicurezza a seguire i miei passi, solo due amici siriani, una macchina fotografica e un taccuino”. Eppure nessuna traccia di gas e nessuna testimonianza che ne comprovasse l’esistenza.
SMENTITI GOVERNI OCCIDENTALI. Il reportage di Fisk smentisce categoricamente la versione di Usa, Gran Bretagna e Francia, secondo i cui governi vi era “un alto grado di fiducia” (non la certezza) che il regime siriano avesse bombardato con armi chimiche. Secondo l’intelligence occidentale la fiducia proveniva da rapporti di “Organizzazioni mediche non governative attive nella regione come la Syrian American Medical Society” composta da medici americani di origine siriana che operano in Turchia e nei territori sotto il controllo dei ribelli, e poi da “testimonianze, foto e video apparsi spontaneamente su siti Web specializzati, sulla stampa e sui social media”. In altre parole i governi occidentali hanno deciso di sferrare un attacco contro la Siria sulla base di un’accusa provata da video su You Tube e dai “sentito dire” di profughi fuggiti da Douma con i ribelli e che lo avrebbero raccontato ad organizzazioni anti-Assad. Nessun prova confermata da esperti internazionali, dall’OPCW o da organismi preposti. Fisk si chiede: “com’è possibile che i profughi di Douma che avevano raggiunto campi in Turchia abbiano descritto un attacco di gas che nessuno oggi a Douma ricorda?” Bella domanda. Forse perché l’attacco chimico non c’è mai stato.
VERITÀ NASCOSTE. D’altronde lo stesso bombardamento occidentale presenta strane verità nascoste. Come abbiamo raccontato in questo articolo, il laboratorio di Barzah a Damasco, distrutto da ben 70 missili americani, non era un Centro di produzione di armi chimiche, e lo confermò un mese fa l’OPCW dopo aver effettuato due ispezioni senza riscontrare la benché minima attività illegale, né presenza di sostanza vietate. Fisk è stato il primo giornalista arrivato a Douma a testimoniare una possibile manipolazione della verità su ciò che è accaduto; ma non il solo. Il reporter Pearson Sherp ha documentato per il canale OAN (One American News Network, emittente conservatrice filo-Trump) che secondo le testimonianze raccolte nella città, sono stati i ribelli ad inscenare l’attacco chimico allo scopo di generare il caos necessario ad fuggire dalla città. Insomma, il caso Douma è l’ennesima messa in crisi della verità su cui si è costruita tutta la guerra in Siria. Rimane l’assurdità di un bombardamento occidentale al di fuori del Diritto internazionale, voluto per ragioni che non hanno nulla a che fare con i motivi umanitari e, se il reportage di Fisk fosse confermato, anche fondato su una colossale bugia. Se il reportage di Fisk fosse confermato ci troveremmo davanti ad una colossale fake news della quale i governi occidentali, i media e gli “intellettuali umanitari” potrebbero dover rispondere al mondo.
Siria 1957: False Flag e la storia che si ripete, scrive il 13 aprile 2018 Giampaolo Rossi su “Il Giornale”.
SIRIA: IL PRECEDENTE. È il 1957; il Presidente americano Eisenhower e il Primo Ministro britannico Mcmillan decidono che è arrivato il momento di un “regime change” in Siria. Shukri al-Quwatli il presidente siriano che aveva vinto le prime elezioni democratiche, l’eroe dell’indipendenza non era più affidabile; si stava avvicinando troppo all’Unione Sovietica e Washington e Londra non potevano correre il rischio di perdere il controllo del petrolio siriano, né che la Siria diventasse un caposaldo comunista in Medio Oriente. E così furono messi in campo Cia e Sis per studiare la soluzione migliore. E fu trovata: scatenare una serie di attentati terroristici a Damasco facendo finta che ci fosse una rivolta in corso; compiere alcuni omicidi mirati sulle figure più influenti del governo e una serie di provocazioni alle frontiere turca, irachena e giordana che spingesse quelle nazioni ad intervenire. CIA e SIS avrebbero dovuto usare “le loro capacità sia nel campo psicologico che in quello dell’azione”. Tra gli uomini del governo siriano da uccidere, il primo era Afif al-Bizri il capo di Stato Maggiore accusato di essere un uomo di Mosca.
Il piano per il “regime change” prevedeva il finanziamento ad un “Comitato Siriano Libero” e armi a “fazioni politiche paramilitari”; gli antesignani degli attuali “Ribelli moderati”. L’operazione, ormai approvata ed esecutiva, si arenò per la rinuncia di Iraq e Giordania a scatenare una guerra disastrosa in Medio Oriente. La storia del tentato golpe in Siria emerse qualche anno fa dai documenti privati di Duncan Sandys, Segretario alla Difesa del Premier britannico e pubblicati dal Guardian. È impressionante la similitudine con ciò che sta accadendo oggi; ma in fondo non c’è nulla di nuovo né in Siria né altrove.
FALSE FLAG: MANIPOLARE E DESTABILIZZARE. Quello che allora non si realizzò, si è realizzato molte altre volte. Si chiama False Flag ed è una delle tecniche con cui scatenare guerre, regime change o perseguire disegni geopolitici senza incorrere in apparenti violazioni del Diritto internazionale o in pressioni contrarie dell’opinione pubblica. I False Flag sono operazioni segrete attraverso le quali un Governo o un’Agenzia d’Intelligence commettono atti di terrorismo, assassinii mirati, destabilizzazioni per far ricadere la colpa sui nemici o avversari e così legittimare una propria azione aggressiva. Nel secolo scorso l’adottarono un po’ tutti: i giapponesi per annettere la Manciuria cinese, i sovietici per invadere la Finlandia), i nazisti per preparare l’invasione in Polonia. Ma da dopo la Seconda Guerra Mondiale sono state le potenze occidentali quelle che hanno fatto il maggior uso di False Flag. Britannici, israeliani e americani ne sono diventati i maestri. Dagli attentati nel 1946 del M16 contro le navi che trasportavano gli ebrei in Palestina, attribuendoli ad una fantomatica organizzazione palestinese; all’Operazione Susannah, con cui nel 1954 Israele compì una serie di attentati in Egitto per far ricadere la colpa sui Fratelli Mussulmani e bloccare l’avvicinamento americano a Nasser. Il colpo di Stato della Cia in Iran del 1953, per sostituire il Primo Ministro nazionalista Mossadeq con lo Scià, fu preceduto da una serie di attentati contro leader religiosi organizzati dagli americani e attribuiti a fazioni comuniste per destabilizzare il Paese. Molti piani approvati dai governi rimasero poi sulla carta, come il Piano Northwoods con cui nel 1962 gli Usa cercarono il casus belli per invadere Cuba progettando attentati contro esuli cubani da parte di finti terroristi castristi. Con la «Guerra preventiva» di Bush e Obama, i false flag sono diventati narrazione, storytelling, pura fiction ad uso del mainstream globale.
FALSE FLAG DI BUSH E OBAMA. Nel nuovo secolo, i False Flag sono diventati lo strumento preferito di Washington per manipolare l’opinione pubblica e legittimare false guerre umanitarie. Anzi di più. Con la teoria della “Guerra Preventiva” di Bush continuata da Obama, i False Flag si sono trasformati in narrazione, storytelling, pura fiction ad uso del mainstream globale. E così è bastato andare all’Onu a mostrare in mondovisione una fialetta di antrace preparata dalla Cia dicendo che era stata trovata in Iraq, per legittimare l’invasione di quel Paese. Oppure consegnare ai media finti report su presunti crimini di Gheddafi commessi (o addirittura da commettere) contro innocenti “ribelli moderati” finanziati dall’Occidente per creare lo sdegno internazionale affinché la Nato potesse radere al suolo la Libia ed eliminare lo scomodo dittatore che faceva affari con tutto l’Occidente. La Siria è oggi il teatro della grande manipolazione con cui l’Occidente e i suoi alleati sunniti cercano di abbattere un governo non allineato. E i leggendari “bombardamenti chimici” di Assad sono i più straordinari False Flag degli ultimi anni.
IL PRECEDENTE DI KHAN SHAYKHUN. Già a Khan Shaykhun un anno fa, la storia della armi chimiche di Assad fu utilizzata in un’operazione mediatica senza precedenti; un’operazione a cui l’Onu, alla fine, ha dato legittimità producendo un rapporto incredibile per incongruenze e inaffidabilità; un rapporto redatto dal JIM (il Joint Investigative Mechanism) nel quale si ammette per esempio che gli esperti “non hanno mai visitato il luogo dell’incidente avendo deciso di soppesare i rischi per la sicurezza contro i possibili vantaggi per l’inchiesta”. In cui si dichiara che l’intero documento è stato costruito sulla base di relazioni, immagini redatte da “fonti aperte” in un’area che ricordiamolo, era sotto il controllo dei ribelli di Al Nusra e dei miliziani di Al Qaeda. Un rapporto che riconosce (ma decide di non indagare) incongruenze come quella delle molte vittime ricoverate negli ospedali in orari precedenti a quello del presunto bombardamento (p. 28-29). Un rapporto che decide di non tenere conto di una serie di studi di esperti indipendenti che sono giunti a conclusioni completamente diverse come quello clamoroso di uno scienziato del Mit di Boston che abbiamo pubblicato qui. Un rapporto che si dice “sicuro” che la Siria sia responsabile di un attacco chimico ma che per esempio alla pagina 22, ammette che ad oggi il JIM “non ha trovato informazioni specifiche che confermino che un SAA Su-22 operante dalla base aerea di Al Shayrat (quella che poi bombardò Trump per rappresaglia) abbia lanciato un attacco aereo contro Khan Shaykhun il 4 aprile 2017″. Il bombardamento di Douma sembra far parte della stessa identica narrazione: ci sono alcuni video che girano in rete e sul mainstream terribili di bambini morti ma senza alcuna reale elemento di identificazione e per chi volesse approfondire la questione lasciamo l’articolo di Sebastiano Caputo che da quella regione è tornato pochi giorni fa. È curioso che in entrambi i casi, l’attacco chimico di Assad avvenga quando l’esercito siriano sta per vincere la battaglia contro i ribelli e quindi non avrebbe alcun motivo di utilizzare armi che in termini tattici sono del tutto inutili (un retaggio della Prima Guerra Mondiale) ed in termini mediatici disastrose per chi le usa (mentre al contrario utilissime per chi le subisce). Ed è curioso anche che ogni volta, l’attacco si materializzi subito dopo che Trump ha annunciato cambi di politica in Siria: un anno fa, 4 giorni dopo dopo aver dichiarato che Washington non era più interessato all’allontanamento di Assad e ora 6 giorni dopo aver annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria. Ed ogni volta, puntualmente, un oscuro e inspiegabile attacco chimico del regime impone a Washington e all’Occidente di riaprire la crisi con Assad.
GIÙ LE MANI DALLA SIRIA. Assad sta vincendo la guerra, Putin sta scombussolando i piani del nuovo Medio Oriente progettato da Occidente, Arabia Saudita e Turchia. L’America rischia di uscire a pezzi dai 20 anni di errori, guerre criminali e arroganti tentativi di ridisegnare la regione compiuti da Bush e Obama su ordine dell’élite neo-con che ha dominato Washington in questi anni. Trump, nonostante i toni bellicosi da cowboy di frontiera, sta forse provando ad arginare la pressione dell’élite globalista e del Partito della guerra che imperversa nei media e dentro il Deep State. Ma non è detto che ce la faccia. Ed è proprio nella lotta interna alla democrazia Usa che si gioca la partita della Siria e il futuro equilibrio del mondo.
ALL’1% GLI UTILI IDIOTI DELL’UCCIDENTE. La Siria di Ghouta e la Ghouta di Amnesty, Palmira e Babilonia, i nazifascisti in agguato, il gender e i migranti: quando i “sinistri” condividono distruzioni e distrazioni di massa, scrive Fulvio Grimaldi sul suo blogspot, riportato da Davide il 10 marzo 2018 su ComeDonChisciotte.
Quelli “del popolo”. Quelli che risultano più nauseabondi sono sempre gli ipocriti. A partire dal “manifesto” e da tutta la combriccola pseudosinistra dell’imperialismo di complemento, che volteggia nel vuoto dell’interesse e del consenso di un elettorato italiano che, per quanto disinformato o male informato sulle cose del mondo, ha dimostrato di badare più alla sostanza che alle formulette di palingenesi sociale incise sulle lapidi della sinistra che fu. E la sostanza ci dice che mettere tutti sullo stesso piano, 5Stelle e ologrammi nazifascisti, Putin e Trump, opposti imperialismi, migranti in fuga da bombe Nato e migranti attivati dalle Ong di Soros, jihadisti a Ghouta Est e truppe governative, a dispetto dell’immane e unanimistica potenza di fuoco mediatica, poi produce al massimo l’1 virgola qualcosina per cento. Brave persone, certo (esclusi i paraculi fessi dei GuE), ma fuori dal mondo, da chi è il nemico e da come si muove l’1% finanzcapitalista e tecno-bio-fascista nell’era del mondialismo e dell’high-tech. E, permettetemi una risatina, neanche bravi, ma di un narcisismo solipsista che rivela tratti patologici per quanto è dissociato dal reale, quelli della Lista del Popolo (Chiesa, Ingroia, bislacchi e farlocconi vari), trionfalmente giunti allo 0,02%. Ma si può!
Di Maio tra omaggi a San Gennaro e Mattarella e rifiuto degli F35. Sebbene questo unanimismo di fondo in fatto di geopolitica tra gli ambiguoni o catafratti della sinistra ausiliaria del sistema e del sistema i militanti in divisa, possa aver confuso le idee a molti sulla partita che si gioca in Medioriente, o nei trasferimenti via Ong di popolazioni, o a proposito dello “Zar Putin” e dei suoi maneggi per non far vincere Hillary, basta a volte una piccola crepa e la luce passa e illumina quanto si voleva restasse al buio. Possiamo dire tutto e il contrario di tutto su Di Maio, ma credo che siano davvero pochini gli italiani che condividono l’idea che spendere 80 milioni al giorno per muovere guerre a chi non si sogna di disturbarci e che quindi non abbiano apprezzato il voto 5 Stelle contro ogni missione militare e contro l’acquisto degli F35. Questo al netto delle promesse di “normalizzazione” profferite ora a tutto spiano dal leader 5Stelle e che lo fanno apparire come il pifferaio di Hamelin le cui liete marcette si trascinano dietro tutti i ratti della prima e seconda repubblica. Pensano di salire sul carro del vincitore, ma nella storia il pifferaio i ratti li porta a precipitare nell’abisso. Di Maio se lo ricorda? Non vorremmo che si finisse come la fiaba: che poi quelli trascinati via sono i bambini.
La Siria si riprende anche Ghouta: pacifisti e diritto umanisti a stracciarsi le vesti. Prendiamo la Siria, insieme a tutte le altre guerre, una dopo l’altra, che con ripetitività parossistica ci vendono come difesa dei diritti umani di un popolo massacrato dal proprio governante. Ci hanno seppellito in un bunker di menzogne: i tondini li forniscono le Ong tipo Amnesty International, HRW, MSF, la malta che li tiene insieme sono i media. Date un’occhiata a questo osceno appello di Amnesty perché si costringa Damasco a levare l’assedio alla Ghouta. Ancora una volta questo sempre più lurido arnese del bellicismo imperiale si fa riconoscere. Non una parola sul golem terrorista che da 7 anni sbrana la Siria e tiene ostaggi, ogni tanto massacrandoli, gli abitanti delle zone occupate. Mille parole perfide e lacrimose su Aleppo in corso di liberazione, non una parola su Raqqa polverizzata dai bombardamenti Usa, con tutti i suoi abitanti, mentre elicotteri prelevavano quelli dell’Isis per reimpiegarli, insieme agli ascari curdi, in altri crimini contro il popolo siriano.
Bimbi a Damasco. Ma poi nel calcestruzzo si apre una crepa. Ed è la pigrizia degli stereotipi. C’è sempre un dittatore che bombarda il proprio popolo, una massa sterminata di bambini uccisi, come se, per esempio, Ghouta, fosse tutta una scuola materna, ci sono sempre gli Elmetti Bianchi e i Medici senza Frontiere, grazie ai soldi di Soros, che stanno inevitabilmente dalla parte dei “ribelli” e che poi vengono esaltati e premiati dagli strumenti di comunicazione di coloro che le guerre le promuovono. Non mancano mai le “armi chimiche di Assad”, linea rossa che poi regolarmente sfuma, cancellata da prove e testimonianze (grazie russi!), come sono insostituibili i sanguinari jihadisti di Al Qaida e Isis contro cui gli imperiali dicono di combattere, ma dopo averli addestrati, armati e poi salvati dalle offensive dell’esercito siriano e suoi alleati. Qualcuno rovistando nel web si accorge, a dispetto della furia anti-fake news della Boldrini, che l’attacco siriano alla provincia di Ghouta avviene dopo sei anni che da lì i terroristi hanno ininterrottamente bombardato con razzi e mortai i 7 milioni di civili della capitale Damasco; che le centinaia di vittime dell’offensiva governativa su Ghouta, “soprattutto bambini”, sono il dato inventato dall’Osservatorio che i servizi britannici e i jihadisti gestiscono a Londra; che, se il governo spedisce colonne di autobus a evacuare la gente di Ghouta, o la Croce Rossa siriana prova a creare corridoi umanitari per rifornire di cibo e medicinali, a bombardare queste colonne e questi corridoi, voluti dal governo, saranno difficilmente gli stessi governativi. Nel documentario “Armageddon sulla via di Damasco” ho illustrato alcuni effetti del martellamento su Damasco, fino a 90 missili in una settimana. Dal mercato Al Hamidiyya, il più antico e bello del Medioriente, colpito nel momento di maggiore affollamento, alla stazione di autobus disintegrata nell’ora di punta, con schizzi di sangue e parti di corpo spiaccicati fin sul cavalcavia alto 20 metri. Immagini mie e di canali siriani che nessuno in Occidente ha mai ripreso. E’ successo mille volte, come centinaia sono state le incursioni aeree dei pirati israeliani. Avete sentito qualche sussurro di disapprovazione da Amnesty e compari?
Il “manifesto”: tutti uguali ma uno più uguale. Così, un po’ per volta, si aprono crepe, delle quali la più grossa è il dubbio che il “manifesto” e affini, quelli che si precipitano a fornire palchi e ghirlande ad Amnesty, non te la raccontino giusta quando mettono sullo stesso piano chi spara da Ghouta e chi avanza da Damasco e, anzi, trovano che i più cattivi siano coloro che “assediano” il sobborgo della capitale per eliminare uno degli ultimi bubboni tumorali incistati nel proprio territorio dai gangster imperialsionisti e mica quelli, sicari e mandanti, che vogliono mantenere, ai costi più inenarrabili, un presidio che tenga sotto tiro Damasco e impedisca la pacificazione e la vittoria dei giusti. Che sono poi anche le forze popolari siriane precipitatesi in soccorso ai curdi sotto attacco turco ad Afrin, a dispetto delle pugnalate alle spalle che questo mercenariato di Usa, Israele e sauditi, ha inflitto a chi ne aveva accolto, con tanto di cittadinanza, le centinaia di migliaia di fuggitivi dalle persecuzioni di Ankara.
Quando parla il popolo, non gli gnomi da giardino, il re buonista resta nudo. Le ambiguità e distorsioni dei media, a qualsiasi obbedienza politica pretendano di rifarsi, hanno iniziato a frantumarsi contro il muro della realtà. Elezioni politiche che mozzano gli arti alla principale forza di dominio e relegano nell’irrilevanza chi gli opponeva formule di rito anni ‘50, del tutto avulse da quanto una chiara percezione dello stato di cose reale richiederebbe, dimostrano che il re è nudo e nudi sono anche principi, duchi, baroni, paggi, nani e ballerine. La menzogna ha esaurito la sua capacità mistificatrice. Da fuffa e nebbia, demagogia presidenziale e pontificale, sono scaturiti irresistibili gli abusi inflitti dai dominanti ai dominati sul piano sociale, economico, ambientale, di lavoro, scuola, salute. Ma forse anche i crimini dei quali ci hanno voluto partecipi, anche a spese nostre, compiuti contro altri popoli. Non sarà un caso che gli unici vincitori di questa contesa elettorale siano coloro che a spese e avventure guerresche, come alle sanzioni che a queste si accompagnano, si sono sempre opposti. E se questa barra la manterranno dritta, sarà già molto.
Al potere via decostruzione e migrazione. Che sono poi anche quelli che, in un modo o nell’altro, quale corretto ed equo, quale rozzo e falsamente motivato, hanno messo in dubbio la sacralità dei facilitatori delle migrazioni “per fame, guerra, persecuzioni”. Il che ci porta a un’altra considerazione. Invasori e terrorismo jihadista ha posto particolare accanimento nella distruzione delle vestigia storiche delle nazioni che sono stati mandati ad assaltare. Ong, umanitaristi, sinistre, Don Ciotti e missionari nelle colonie, Soros, briciole sinistre, sostengono l’accoglienza dei rifugiati senza se e senza ma. Ci sono punti di contatto, affinità di obiettivi, tra queste forze e le campagne che condividono? Non penso al semplicistico discorso che individua causa ed effetto nelle bombe e nelle conseguenti fughe. Lo stereotipo del “fuggono da guerre, fame e persecuzioni”. Penso a una manovra a tenaglia che cancella corpi e spirito di comunità formatesi nel sangue, nei progetti, nelle sconfitte e nelle rinascite, nella lingua e nei costumi, su una comune terra, in rapporto con lo stesso ambiente ed è così che ha acquisito conoscenza e coscienza di sé, identità, autostima, volontà di perpetuarsi e crescere. Un fiore nell’infinita ricchezza della varietà dei fiori. Prima di manipolazioni e ibridazioni. Se, io élite di infima minoranza, perseguo un progetto di dominio mondiale assoluto che solo a me e ai miei subalterni obbedienti convenga, delle forze così formatesi e così composte, altrettante negazioni al mio disegno, devo liberarmi. E’ conditio sine qua non per l’affermazione del progetto mondialista. La mia operazione a tenaglia consiste, primo, nel cancellarne i segni della storia, delle opere compiute, le fondamenta dell’edificio che una comunità, un popolo, una nazione, devono avere sempre in corso d’opera se intendono avere un futuro. Del resto, senza queste tessere del mosaico, l’umanità si estingue. L’élite regnerà sul deserto o su un altro pianeta. E, secondo, nello sradicarli, spostare quelli che non ho decimato con guerre militari o economiche, tagliare radici, staccare il fogliame dal tronco, disperderlo, alienarlo da se stesso, confondendolo in quello che chiamano “meticciato”. Erano le mie ultime ore nella Baghdad che ho illustrato in “IRAQ: un deserto chiamato pace”, aprile 2003. I carri Usa, penetrati in città avevano sparato i primi colpi contro l’Hotel Palestine, dove stavamo noi giornalisti che non avevamo seguito l’ordine di Bush di far parlare solo gli embedded al seguito degli invasori. Morirono un mio amico di Al Jazeera e un reporter spagnolo. Uscendo dalla città in taxi passai accanto al Museo Nazionale: Protetta da reparti angloamericani, manovalanza importata dal Kuweit stava già saccheggiando la più ricca testimonianza della storia araba e irachena, dai sumeri agli Abbassidi, anche a beneficio dei predatori dei caveau occidentali. Subito dopo avrebbero disperso e bruciato i testi, resi sacri dal tempo e dall’amore dei loro lettori, della Biblioteca Nazionale, dalle tavolette cuneiformi della prima scrittura, alla magnificenza letteraria delle Mille e una notte e ai traduttori arabi di Aristotele. Intanto i carri americani si preparavano a travolgere sotto i propri cingoli Babilonia, Ur, Niniveh, Samarra, Nimrud, Ctesifonte, Hatra. Quattromila anni di creatività umana, di civiltà, di culla della civiltà. Meticolosamente, sistematicamente polverizzati o predati. E poi stessa procedura in Siria, Aleppo, Palmira, Libia, Gaza, ovunque la pianta umana fosse più antica, robusta, rigogliosa, degli stenti arbusti, delle misere gramigne di chi a una cultura annegata nel sangue ha sostituito centri commerciali, tecnologie decerebranti e arsenali atomici.
Mosul. In parallelo i migranti, pezzi interi di popoli, 6 milioni di siriani spodestati, un milione a disposizione dei minijob di Angela Merkel. E, logicamente, afghani, iracheni, libici, pachistani e, soprattutto africani: basta seccare con una megadiga Impregilo un fiume come l’Omo in Etiopia e 60mila perdono l’acqua, i coltivi, la sussistenza, diventano foglie secche al vento che qualche Ong seduce a farsi schiavi “meticciati” in un bengodi di sfruttati europei. Come si vede in ogni sequenza che ci induce a impietosirci e a condividere “l’accoglienza”, sono in stragrande maggioranza giovani con i tempi e le forze capaci di futuro. Un futuro abbandonato alle multinazionali a casa propria, ma per il quale fornire braccia e saperi In Occidente. Sono giovani, in grado di affrontare i pericoli della filiera del traffico di carne umana, ma non procreeranno più per la continuità di una comunità arrivata fin ad oggi a dispetto di prove di ogni genere, procreeranno per il “meticciato”. A compensare ciò che da noi, nell’esaltazione dei generi e transgeneri della sterilità, non nasce più. E se crediamo che da tutto ciò noi siamo esenti, proviamo a gettare uno sguardo fuori dalla finestra, tra un asilo nido che non c’è e una famiglia che il precariato di sistema rinserra in sogni frustrati. Diamo un’occhiata ai territori terremotati, banco di prova e cartina di tornasole di un altro fronte della stessa guerra. Credete che, a quasi due anni dal sisma con migliaia ancora nei campeggi al mare, in alloggi di fortuna lontani, con attività produttive sparite per sempre, con la ricostruzione neanche di una stalla, si tratti solo di inefficienza, ritardi, risse per appalti? Ho girato per quelle terre palmo a palmo (“O la Troika o la vita – Non si uccidono così anche le nazioni”). Paesi con le radici nell’impero romano e le chiese del Medioevo, dove hanno lasciato segni Arnolfo da Cambio, Mantegna, Leopardi, Piero della Francesca: tesori inenarrabili. I terremotati li vogliono scoraggiati, esportati, migranti anche loro, i territori privati di una economia nativa, sorta dal genius loci, anacronisticamente non sovranazionale, ma legata ai bisogni locali, ai biotopi naturali e umani. Spopolare per nuove destinazioni d’uso. Sovranazionali. Come quando sradicano con gli ulivi l’anima della Puglia, per far posto a gasdotti e resort di Briatore. Rifugiati nostrani di cui nessuno tiene conto e né Soros, né alcuna Ong dei diritti umani reclamano un’accoglienza senza se e senza ma. Tutto questo Pippo non lo sa. Tutto questo quelli dell’1% “rosso”, PaP (Potere al Popolo), i PC (le scissioni dell’atomo), o LuE (i neoliberisti, NATOisti, Bruxellisti, insofferenti di Renzi), non lo sanno. Sepolti nell’altroieri, del progetto capitalista e della relativa strategia non studiano e non vedono neanche la più abbagliante evidenza. Nanetti da giardino occupati a strappare erbacce, mentre fuori cresce una giungla di piante carnivore. E non si accorgono che, ignorando quella strategia, ogni lotta contro il precariato di vite e lavoro è già persa, mentre sono del tutto compatibili quelle contro le molestie, per i matrimoni e le adozioni gay, per ogni più fantasiosa invenzione di genere come fieramente esibite in quelle manifestazioni d buongusto e di cultura popolare che sono i Gay Pride, contro la minaccia dell’Onda Nera nazifascista. Minaccia eroicamente combattuta, da Macerata a Milano a Roma a Palermo, con l’illusione di ricavarne dividendi boldriniani e poi spassosamente risultata pulviscolo littorio allo 0,9%, Casa Pound, e allo 0,37% Forza Nuova. Tocca scioglierli per salvarci dall’orrore di nuovi Farinacci e Himmler, era l’invocazione tonitruante della Boldrini, grande specialista di armi di distrazione di massa. Intanto, però, il mondo reale scioglieva lei e i suoi scioglitori. E senza neanche un sorso di olio di ricino. Ma più compatibile, anzi, più gradita di tutte, è la campagna per l’accoglienza dei migranti. Roba di sinistra, ca va sans dire.
I non detti di Ghouta, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2018 su "Il Giornale". Tutto ciò che accade in queste ore nella periferia di Damasco, di preciso a Ghouta, è filtrato da una sconcertante quanto irresponsabile narrativa. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni eppure i grandi e autorevoli mezzi d’informazione sembrano accorgersene solo ora perché gli ingredienti per la mistificazione della realtà non mancano affatto. La meccanica comunicativa è più o meno sempre la stessa: una produzione di notizie scollegate fra loro e confezionate dentro un frame, cioè la cornice giornalistica da cui è impossibile sfuggire, in questo caso “la mattanza di Ghouta perpetuata dall’aviazione del governo siriano”. Seguono immagini scioccanti – in larga parte riportate dai “White Helmets”, il braccio umanitario e mediatico dei gruppi terroristici- che mostrano le tragiche conseguenze “dell’offensiva”, intere abitazioni rase al suolo, cadaveri sulla strada, donne in lacrime, ambulanze, soccorritori in cerca di cadaveri tra le macerie. Le riprese sono di qualità, il logo con l’elmetto bianco appare di continuo, le fotografie vengono scattate con cura. Nell’album emerge un’istantanea che diventa il simbolo di un assedio: una bambina col pigiama rosa – la scelta del pigiama non è casuale e richiama di riflesso i campi di concentramento nazista – che viene tratta in salva da casa sua. Esattamente come ad Aleppo, quando il piccolo Omran Daqneesh fu immortalato coperto di sangue e polvere nell’ambulanza, peccato che poco tempo dopo il padre svelò la tecnica dei White Helmets i quali presero il bambino ancora sporco e scosso dai bombardamenti e lo gettarono in mondovisione sul loro profilo Twitter certi che le agenzie occidentali lo avrebbero alzato come trofeo. Alla sequenza di immagini trasmesse a ripetizione – peraltro sempre le stesse – seguono i dati. A contare i morti ci pensa il generatore di notizie diretto da un solo uomo che vive in Inghilterra: l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Ad accodarsi a questo macabro spettacolo del dolore sono le organizzazioni non governative occidentali – Unicef, Save The Children, Médecins Sans Frontières – che mentre mettono in primo piano i cadaveri putrefatti di donne e bambini raccolgono donazioni – tramite squallidi banner pubblicitari – dai lettori distratti e travolti da un flusso ininterrotto di lacrime. Nessuno vuole negare le conseguenze immonde della guerra, il problema, ancora una volta, sono i non detti dell’offensiva di Ghouta. Chi vive nel sobborgo di Damasco? Chi sono questi ribelli (che se ci fate caso non vengono più nemmeno definiti “moderati”)? Come agiscono? E come fa un’enclave, senza sbocchi autostradali, a fornirsi di armi e munizioni? Questo spazio geografico si è ritagliato nella contorta mappa militare nel lontano 2012 e si colloca sul lato nord-orientale, alle porte della capitale. Quasi 400mila civili sono tenuti praticamente in ostaggio da tre fazioni jihadiste legate a doppio filo con Al Qaeda - Faylaq al Rahman, Tahrir al Sham e Jaysh al Islam – che da anni attaccano i quartieri centrali di Damasco – non lontani dal Suk – a colpi di mortai. L’offensiva dell’esercito siriano è stata rafforzata per rispondere agli attacchi contro i damasceni che si sono intensificati proprio in questi giorni. Molti di loro hanno perso la vita ma se ne parla poco perché la narrativa occidentale è monodirezionale e classifica i civili siriani in due categorie: alcuni sono più vittime di altri. Ghouta è anche quel luogo in cui vengono fabbricate e utilizzate armi chimiche come dimostrò l’attacco del 21 giugno del 2013 in cui inizialmente furono lanciate accuse contro il governo di Bashar al Assad, poi smentite dal premio Pulitzer Seymour Hersh e rispedite al mittente fornendo le prove che invece incolparono proprio quei ribelli “angelizzati” dalla stampa occidentale, i quali le utilizzarono per trascinare l’amministrazione Obama in guerra. Ecco, fin quando i grandi esperti con i loro look confortevoli o i commentatori isterici non vi risponderanno a queste domande precise vorrà dire che sono alimentatori inconsapevoli di questa grande macchina della disinformazione, o furbetti che coprono per chissà quali interessi veri e propri gruppi terroristici complici dei peggior crimini che loro stessi denunciano.
Erdogan tuona sui civili di Ghouta, ma quelli di Afrin sono “terroristi”, scrive il 27 febbraio 2018 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". In questa guerra di Siria tutto assume connotati incredibili, anche Erdogan che si erge a paladino del diritto internazionale e umanitario. Parlando della tragedia umanitaria della Ghouta orientale, il portavoce del presidente turco ha scritto che “il regime sta commettendo massacri” e che “il mondo dovrebbe dire stop a questo massacro insieme”. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, venerdì scorso ha invitato la Russia e l’Iran, alleati della Siria di Assad, a “fermare” le bombe su Ghouta Est, parlando del bombardamento del sobborgo damasceno come qualcosa che passerà alla storia come la “Srebrenica siriana”. Il presidente turco ha deciso di sposare, in questi giorni, una linea fortemente negativa nei confronti dell’avanzata di Damasco nel sobborgo della Ghouta orientale. Rompendo quasi definitivamente il patto di Astana con Putin e Rohani, Erdogan ha deciso di intraprendere una campagna assolutamente contraria al governo facendo tornare indietro le lancette dell’orologio ai tempi delle prime rivolte contro Assad, quando Ankara sosteneva il rovesciamento del leader siriano e le milizie che si ergevano in tutta la Siria. E ovviamente sfrutta la questione della Ghouta orientale per colpire il governo siriano e imporre la propria linea nello scacchiere settentrionale siriano. Erdogan è così: chi lo tutela ha la sua collaborazione e chi non lo tutela diventa nemico. E sono sempre i curdi dell’Ypg l’ago della bilancia. Quando gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere le milizie del Rojava e del nord dell Siria, il presidente turco ha abbandonato nella sostanza l’alleanza con Washington schierandosi con Mosca e sostenendo il piano delle de-escalation zones con l’Iran e la Russia. Adesso che ha intrapreso l’operazione “Ramoscello d’ulivo” e ha scatenato le forze armate contro i curdi di Siria, ottenendo il confronto diretto con la Siria, eccolo di nuovo andare contro il governo di Damasco e provare a riallacciare i rapporti con gli Usa. Nel frattempo, ha intrapreso contro i curdi una campagna militare cruenta, che sta tenendo sotto scacco intere città e dove ci sono già le prime accuse di uso di gas contro i villaggi. Soltanto che, secondo Ankara, c’è una differenza. Mentre per Erdogan la risoluzione Onu sulla tregua è giusta per fermare il massacro della Ghouta orientale, la stessa cosa non vale per Afrin, Manbij. La Turchia ha accolto positivamente l’approvazione della tregua umanitaria in Siria, ma ha subito messo le mani avanti, dicendo che questo non avrà alcuna conseguenza su Afrin e l’offensiva di terra nel nord della Siria perché “resterà risoluta nella battaglia contro le organizzazioni terroristiche che minacciano l’integrità territoriale e l’unità politica della Siria”. Non c’è discussione sul fatto che questa decisione” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu “non abbia alcun effetto sulla operazione che la Turchia sta portando avanti”, ha confermato il vice premier turco, Bekir Bozdag, mentre Erdogan ha sottolineato che l’offensiva “continuerà fino a che l’ultimo terrorista sarà distrutto”. “Sembra che sarà una estate dura e calda per i terroristi e per i loro sostenitori. Prima ripuliremo Manbij, poi tutta l’area a ovest dell’Eufrate”, così si è espresso Erdogan. Parole non troppo dissimili da quelle rivolte dal blocco a sostegno di Assad nei riguardi dell’offensiva contro Ghouta Est e altre sacche. Eppure, se per Erdogan questi sono massacri sui civili, quella che ha intrapreso la Turchia è solo un’offensiva contro il terrorismo. Un interessante punto di vista che fa riflettere su quanto sia importante l’uso del linguaggio in un conflitto che si svolge anche con le definizioni.
Ghouta Est: quando i ribelli mettevano i civili in gabbie, scrive "Piccole note" il 27 febbraio 2018 su "Il Giornale". La Russia ha stabilito che da oggi, ogni giorno, ci sarà una tregua umanitaria per Ghouta Est, dalle 9 alle 14 e chiesto l’apertura di vie di fuga per i civili che vi abitano. La pressione internazionale per fermare l’attacco dell’esercito siriano diretto all’enclave di Damasco controllata dai cosiddetti ribelli ha sortito un primo effetto. Vedremo gli sviluppi: anche la campagna per la riconquista di Aleppo Est fu uno stillicidio di stop and go, a causa da una pressione internazionale diretta a contrastare le operazioni dell’esercito siriano.
La Caritas siriana denuncia lo squilibrio dell’informazione. Esattamente quanto accade adesso, grazie una fortissima campagna mediatica che dipinge l’operazione contro Ghouta Est come brutale e i ribelli come eroi in lotta contro il sanguinario regime di Assad. La guerra è brutta, anche quelle giuste (quella di liberazione dal nazifascismo, ad esempio, conobbe ombre terribili: Dresda, Cassino, Hiroshima e Nagasaki…). Ma questa sembra più brutta di altre. E i ribelli che la combattono più umanitari di altri: ecco che foto e video li immortalano mentre, premurosi, soccorrono i feriti e altro e più stucchevole. Nessuna notizia di quanto da essi perpetrato a Damasco in questi giorni. Tanto che anche la Charitas siriana, in un raro comunicato, ha sbottato: «La maggior parte dei reportage giornalistici si concentra sui bombardamenti effettuati dalla Siria e dalla Russia su Ghouta Est». Nulla si dice invece di quanto avviene a Damasco, martellata ogni giorno «dall’inizio del 2018» da «colpi di mortaio» sparati da quel quartiere (vedi anche Piccolenote). Come anche nessuna notizia sul raid degli Stati Uniti a Deir Ezzor compiuto in questi stessi giorni: 25 i civili uccisi (Xinhua). D’altronde tale silenzio è in linea con quanto accaduto a Raqqa, città coventrizzata dagli Stati Uniti per scacciarne l’Isis (questa la narrazione ufficiale).
Le gabbie umanitarie degli eroi di Ghouta Est. Resta che se il quartiere di Ghouta Est non viene liberato, gli altri quartieri di Damasco resteranno preda dei bombardamenti dei ribelli cari ai circoli che stanno perpetrando il regime-change siriano. A meno che i loro sponsor internazionali non li fermino, cosa che non hanno alcuna intenzione di fare. Gli servono perché sono fonte di destabilizzazione permanente della capitale siriana. Così anche le campagne umanitarie servono a uno scopo prettamente bellico: a evitare che Ghouta Est cada ed essi perdano un tassello prezioso nella prospettiva di portare al collasso il governo di Damasco, logorandone la resistenza.
Ma chi sono gli eroi di Ghouta Est? Si tratta di alcune milizie jihadiste, subordinate ad al Nusra (al Qaeda), la più forte e organizzata. Istruttivo un report di Human Rights Watch, organizzazione non certo filo-Assad, del 2015: «I gruppi armati siriani mettono in pericolo i civili, incluse le donne» che espongono «in gabbie di metallo in tutta Ghouta orientale». Un crimine di guerra, spiega HRW, che i miliziani hanno usato per evitare gli attacchi del governo siriano. Importante quel cenno a «tutta Ghouta orientale» contenuto nel testo: indica che le gabbie dell’orrore sono state usate da tutte le milizie presenti a Ghouta, non dalla sola al Nusra. Nel report di HRW un cenno a un altro video che immortala «camion che trasportano gabbie, ciascuna contenente da quattro a otto uomini o donne». I «ribelli di Ghouta hanno distribuito 100 gabbie, ogni gabbia contiene circa sette persone e il piano è quello di produrre 1.000 gabbie da distribuire nella Ghouta orientale». Il bello è che lo sanno anche loro: anche la Cnn, infatti, aveva ripreso quel video (cliccare qui). Allora, quelle terribili immagini servivano per denunciare la brutalità dell’estremismo islamico. E così giustificare un intervento americano in loco. Oggi non servono più, anzi. Così sono semplicemente obliate. La guerra siriana, come anche altre (Yemen ad esempio), è «disumana», come ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica. Quelle immagini lo documentano nella maniera più agghiacciante. Come disumana è la cortina fumogena che intossica le informazioni su quanto realmente sta avvenendo in quel martoriato Paese.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Mulè: «De Benedetti e Silvio? Due pesi e due misure», scrive Paola Sacchi il 16 gennaio 2018 su "Il Dubbio". «La notizia della non-inchiesta di Milano data dalla Stampa e rilanciata in tv ne è la prova. Moralisti contro Berlusconi, partigiani col loro editore, che è tutto tranne che libero e liberale». «Ormai siamo oltre il circolo vizioso, ma in presenza di un circolo davvero inquinato di un’informazione che non è più informazione». Parla il direttore del settimanale Panorama Giorgio Mulè.
Direttore Mulè, la notizia data da “La Stampa” su presunte irregolarità di Silvio Berlusconi nella vendita del Milan, nonostante il Procuratore capo di Milano Francesco Greco abbia nettamente smentito che ci sia un’indagine, è entrata a far parte di fatto del lungo rosario di vicende attribuite dai media al leader di Forza Italia e questo in piena campagna elettorale. Che opinione si è fatto?
«Siamo ormai oltre la stranezza. E’ grave la notizia della non- inchiesta di Milano. Ci troviamo davanti a un giornale che decide di aprire la sua edizione con una notizia che è totalmente falsa a sentire il Procuratore di Milano che è l’unico titolato a dare il marchio di veridicità o no. La cosa peggiore è che La Stampa poi ribadisce la bontà della notizia sulla base di due fonti che sono anonime e che evidentemente presuppongono che il Procuratore di Milano non sappia quello che accade nel suo ufficio. Siccome questa è un’ipotesi che va esclusa in radice, è a tutto tondo, secondo me, una forma di par condicio di tipo politico».
Sarebbe?
«Avendo dato La Stampa rilievo alla notizia delle intercettazioni di De Benedetti, il quale riferiva dei contatti con Renzi, c’è stato dopo pochi giorni questo attacco nei confronti del Cavaliere. Attacco che va ricondotto nel solco dell’interpretazione di una notizia che non c’è. Ci troviamo di fronte a non notizia, che viene pervicacemente ribadita nonostante le smentite».
Con tanto di conferenza stampa di Greco.
«Certo, ma la cosa grave è che nei telegiornali viene data una non notizia come se fosse una notizia. E cioè i telegiornali della Rai danno conto di un articolo della Stampa che è stato smentito. Quindi nel divulgare una non notizia non fanno altro che fare da megafono a una notizia che è destinata alla pattumiera. Provocando così un danno e cioè l’impressione in chi non ha l’attrezzatura per discernere cosa è vero e cosa è falso che ci sia qualcosa di giudiziario nella vendita del Milan. Quindi, io mi sarei aspettato da parte dei telegiornali nazionali un atteggiamento diverso».
Cova avrebbero dovuto fare?
«Non si doveva parlare di un’inchiesta che non c’è, ma di un clamoroso inciampo, di una clamorosa non notizia data da La Stampa, non di una notizia su un’inchiesta smentita proprio perché non c’è. C’è un problema anche da un punto di vista semantico. Perché per il modo in cui si ascolta spesso la televisione. Chi sta in cucina, chi mangia non sta attento alle sfumature, sente solo delle parole chiare: inchiesta, indagine, Berlusconi. E quelle parole restano in testa. Quindi, alla fine siccome La Stampa, anche se è un grande giornale, ha un numero limitato di lettori, il vero megafono lo hanno fatto i telegiornali che hanno presentato la cosa in una maniera distorta. Perché, ripeto, bisognava parlare di un clamoroso incidente giornalistico. Il titolo doveva essere: l’inchiesta che non c’è, inventata da La Stampa».
E perché non è stato fatto?
«Questo avrebbe fatto gridare chiunque a uno schieramento di favore nei confronti del Cavaliere. Visto che tutto si può dire tranne che lui non sia coinvolto in qualche indagine, si sarebbero tutti alzati e avrebbero gridato: ecco, sono schierati con il Cavaliere. E così facendo è stato fatto un doppio disservizio alla verità: prima da parte della Stampa poi da parte di chi l’ha rilanciata in maniera distorta».
Sta dicendo che ormai si rischia che in questo clima venga fuori una campagna elettorale direttamente a base di quelle che si configurerebbero come fake news?
«Il problema, volgarizzando, è che si ciurla nel manico. Siccome un principio banale ci dice che una notizia falsa smentita è una notizia data due volte, si gioca su questo equivoco. E l’equivoco è continuare a pensare che davanti alla tv ci siano dei fini giuristi o delle persone che abbiano strumenti per decriptare un linguaggio che è inevitabilmente ostico. Invece arriva solo un messaggio, cioè che c’è un’inchiesta della Procura di Milano, nonostante la smentita dello stesso Procuratore, perché La Stampa ribadisce che c’è l’inchiesta. Siamo ormai oltre al circolo vizioso, ma in presenza di un circolo veramente inquinato di un’informazione che non è più informazione ma diventa partigianeria o menzogna e falsità».
Lei vede dietro tutto ciò, come ha scritto il direttore del “Giornale” Sallusti, anche la mano dell’Ingegner De Benedetti, editore della “Stampa” oltre che di “Repubblica”?
«L’Ingegner De Benedetti è assai divertente quando dichiara agli ispettori della Consob di essere un king maker che viene chiamato una sera dal ministro Boschi, un’altra da Renzi e da Padoan. E rivendica addirittura la paternità del jobs act. Quindi, l’Ingegnere sfrutta in maniera evidente il ruolo che ha all’interno del sistema editoriale italiano, facendo quello che Repubblica e i suoi moralisti hanno sempre rifuggito. E cioè lui non è un editore puro ma è il massimo dell’impurità dal punto di vista editoriale perché contamina il suo ruolo con frequentazioni politiche interessate. Tanto da essere un soggetto che a tutto tondo diventa politico, definendosi egli stesso scherzando “il grande vecchio” che si permette di dare a Renzi anche del “cazzone” con grande facilità. Ma è poi l’uomo al quale si perdona di avere in capo una condanna in primo grado per omicidio plurimo nella vicenda dell’amianto dell’Olivetti, al quale si perdonano le scorribande finanziarie del passato, al quale si perdona questo straordinario tempismo per il quale c’è una modica quantità di guadagno dopo la vicenda delle banche popolari. E quello se non è un insider trading è certamente l’utilizzo di una informazione privilegiata».
Insomma, emergono sempre più nettamente due pesi e due misure per l’Ingegnere da un lato e per il Cavaliere dall’altro?
«Il moralismo di Repubblica conosce la sua Caporetto laddove dimostra di essere stato volgarmente partigiano nelle vicende che riguardavano il Cavaliere, nelle quali da Giannini in giù erano tutti schierati a dare lezioni di moralismo, e di bendarsi, invece, poi gli occhi per la vergogna quando il proprio editore finisce in vicende che a tutto tondo danno l’idea di quello che De Benedetti è: tutto tranne che un editore libero e liberale».
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
FAKE NEWS, OSSIA BUFALE E DISINFORMAZIONE DI STAMPA E REGIME.
"Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Proverbio Arabo
In Italia - Fabri Fibra
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Pistole in macchine in Italia
Machiavelli e Foscolo in Italia
I campioni del mondo sono in Italia
Benvenuto in Italia
Fatti una vacanza al mare in Italia
Meglio non farsi operare in Italia
Non andare all'ospedale in Italia
La bella vita in Italia
Le grandi serate e i gala in Italia
Fai affari con la mala in Italia
Il vicino che ti spara in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
I veri mafiosi sono in Italia
I più pericolosi sono in Italia
Le ragazze nella strada in Italia
Mangi pasta fatta in casa in Italia
Poi ti entrano i ladri in casa in Italia
Non trovi un lavoro fisso in Italia
Ma baci il crocifisso in Italia
I monumenti in Italia
Le chiese con i dipinti in Italia
Gente con dei sentimenti in Italia
La campagna e i rapimenti in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Le ragazze corteggiate in Italia
Le donne fotografate in Italia
Le modelle ricattate in Italia
Impara l'arte in Italia
Gente che legge le carte in Italia
Assassini mai scoperti in Italia
Volti persi e voti certi in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi…Dove fuggi...
La bandiera neonazista, scrive il 4 Dicembre 2017 maicolengel su "Butac". Durante il weekend mi avete chiesto in tanti di trattare la storia della bandiera definita neonazista dalle tante testate che hanno riportato il fatto. BUTAC, come sa la maggioranza de lettori abituali, da sempre, se non per qualche commento da moderare, durante il weekend va in vacanza. Nel frattempo si era già adoperato l’amico e collega David Puente, con l’aggiornato articolo che potete trovare qui. Per quelli che non hanno la più pallida idea di cosa si stia parlando facciamo un passo indietro. Sabato su moltissime testate appare la notizia che a Firenze, nella caserma Baldissera, sarebbe stata trovata una bandiera neonazista. La notizia non è sbagliata, non è una bufala come tanti sembrano sostenere, è corretto definire la bandiera imperiale del Reich una bandiera neonazista visto che è usata abitualmente nei cortei xenofobi e neonazisti tedeschi. Non sono io a dirlo, e neppure il buon David, ce lo racconta la stessa NATO, che nel suo articolo sulla propaganda e la disinformazione online pubblica la foto qui sopra con questa didascalia: Supporters of anti-immigration rightwing movement PEGIDA (Patriotic Europeans Against the Islamisation of the West) carry various versions of the Imperial War Flag during a march in Cologne, Germany, in January 2016. © Reuters. La Ministra della difesa Roberta Pinotti si è subito espressa in merito tramite la sua pagina Facebook: La Repubblica Italiana e la sua Costituzione si fondano sui valori della Resistenza, sulla lotta al fascismo e al nazifascismo. Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle Forze Armate essendo venuto meno a quel giuramento. I Carabinieri sono un simbolo della sicurezza della nostra comunità, l’Italia, che si basa su questi valori. Per questo è ancora più grave l’esposizione della bandiera neonazista all’interno di una caserma dei Carabinieri. Ho già chiesto al Comandante generale chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso. È un’offesa a tutte le donne e gli uomini dei Carabinieri e delle Forze Armate che quotidianamente condividono i valori della democrazia. Ho trovato gente in giro accusarla di aver detto una bufala visto che quella non è la bandiera del Terzo Reich, ma lei non aveva minimamente menzionato un Reich preciso, e quella è la bandiera del Secondo Reich. L’errore che aveva fatto era nella prima versione di quel post, in cui aveva scritto: Per questo è ancora più grave l’esposizione della bandiera nazifascista all’interno di una caserma dei Carabinieri. Ma il testo è rimasto così per soli sei minuti, venendo subito corretto con quel “neonazista” che avete visto sopra. Sia chiaro, è vero che storicamente parlando non rappresenta l’ideologia nazista, ma poco importa, la bandiera viene usata oggi perlopiù in quel contesto. Ci sono altre curiosità che vanno raccontate, nel video de Il Sito di Firenze, che per primo lanciava la storia, viene mostrata meglio la parete in questione, a fianco della bandiera imperiale appare anche un poster, quello di Call of Salveenee. Per chi non l'avesse mai sentito nominare si tratta di un gioco dove il personaggio da interpretare è Salvini che va al salvataggio dei Marò. Non è una mitizzazione del personaggio ma nella testa dell'autore si tratta di una presa in giro, peccato non tutti se ne rendano conto. La Lega stessa si sentì offesa dal videogioco. Nei commenti al post di Roberta Pinotti troviamo: Signora Pinotti, tutto bello, ma quella NON é una bandiera nazista, ma la bandiera di guerra del paese con il quale eravamo alleati nella Terza Guerra di Indipendenza, paese senza il quale il Veneto non sarebbe mai tornato sotto il tricolore, ed il poster é il poster di un videogame. Cosí, tanto per dire che ha preso una cantonata pazzesca e dovrebbe quanto meno chiedere scusa ai Carabinieri che sta mettendo in croce totalmente a caso con accuse addirittura di nazismo. Ma il meglio viene dall’articolo de Il Giornale, dove viene esposto in maniera corretta cosa sia quella bandiera e come venga usata oggi, ma nei commenti chi si è limitato a leggere il titolo o poco più si è espresso così: Solo qualche demente (persona priva di senno) poteva confondere la bandiera della Marina da guerra tedesca con una bandiera nazista. Che poi questa bandiera venga usata da degli imbecilli (persone con scarsa capacità di discernimento) negli stadi per sostenere la propria squadra non significa nulla se non la loro insipienza. Io utilizzo sempre la bandiera rossa, avendola posta nel mio bagno privato, per detergermi le terga dopo avere espletato le mie funzioni fisiologiche mattutine, mentre le bandiere della R.S.I. e della X MAS hanno il loro posto d’onore, sopra il camino nel mio soggiorno, ai lati del busto del Duce. Camerateschi saluti! La domanda che sorge spontanea è: chi ha attaccato quel poster l’ha fatto conscio della presa in giro? O l’ha attaccato convinto si tratti di mitizzazione del populismo Salviniano? E la bandiera? Il ragazzo colpevole dei fatti si è così giustificato in tarda serata come riportano il Corriere e altre testate: «Mi sono iscritto alla facoltà di Storia dell’università La Sapienza di Roma e voglio laurearmi lavorando. Quella bandiera per me rappresenta solo un periodo storico al quale mi sono appassionato, niente di più. Chiedo scusa se ho violato i regolamenti”. Ognuno a mio avviso può avere quello che gli pare appeso in camera propria (se di quella si tratta), basta che dimostri coi fatti di essere una persona al di sopra d’ogni sospetto di ideologie estremiste. Io ho un poster di un convegno delle scie chimiche nel BUTACbunker, ma questo vi posso assicurare che non significa che creda nell’esistenza delle stesse. Però il cielo è sempre più striato, non trovate?
Firenze, bandiera neonazista nella caserma dei Carabinieri. Una bandiera usata dai gruppi neonazisti appesa in un alloggio della caserma dei carabinieri, a Firenze e visibile dalla strada con una sciarpa della Roma e un fotomontaggio del leader della Lega Matteo Salvini. Il video, pubblicato da Matteo Calì de "Il sito di Firenze", ha subito fatto nascere un'indagine interna nella caserma Baldissera. Il giovane militare proprietario della bandiera ora rischia pesanti sanzioni disciplinari ed eventuali conseguenze penali. Sulla vicenda è intervenuta, durissima, anche la ministra della difesa Pinotti: "La Repubblica Italiana e la sua Costituzione si fondano sui valori della Resistenza, sulla lotta al fascismo e al nazifascismo. Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle Forze Armate essendo venuto meno a quel giuramento. I Carabinieri sono un simbolo della sicurezza della nostra comunità, l'Italia, che si basa su questi valori. Per questo è ancora più grave l'esposizione della bandiera neonazista all'interno di una caserma dei Carabinieri. Ho già chiesto al Comandante generale chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso". Video pubblicato su “Repubblica Tv del 2 dicembre 2017
Bandiere naziste o bandiere delle Marina imperiale tedesca, quando l’ignoranza vince e diventa una bufala, scrive Simone Spiga il 3 dicembre 2017. Un giornale online di Firenze ha accusato l’arma dei Carabinieri che all’interno di una caserma, la Baldissera, vi sia una bandiera utilizzata dai gruppi neonazisti di tutta Europa e subito è scoppiato in caos in tutta Italia. Interventi di ministri, intellettuali, giornalisti e opinionisti di ogni genere. Peccato, però, che la bandiera in questione era dell’Impero Tedesco: una monarchia costituzionale e potenza economica nata nella seconda metà del XIX secolo ed opera del cancelliere Bismarck. La Kaiserliche Marine o Marina imperiale fu la marina militare creata alla formazione dell’Impero tedesco. Esistette fra il 1871 ed il 1919, prendendo avvio dall’unificazione fra marina prussiana e marina della Confederazione Tedesca del Nord (Norddeutsche Bundesmarine). Ovviamente ci si chiede che ci facesse una bandiera del genere in una caserma dei Carabinieri, ma questa è una domanda che ha una sola risposta, l’ignoranza, anche questa volta sovrana.
Come ti creo una fake news: la “bandiera nazista” nella caserma dei Carabinieri, scrive il 3 dicembre 2017 "Primato nazionale". Non bastasse la spiaggia fascista di Chioggia – che nonostante la cagnara mediatica sollevata la scorsa estate ha visto il titolare venire assolto con formula piena – ora arriva il nuovo allarme: la bandiera nazista (o neonazista a seconda delle interpretazioni) in una caserma dei Carabinieri. Siamo a Firenze, la caserma (in realtà l’alloggio di un militare) è la Baldissera sul lungarno Guglielmo Pecori Giraldi e il video di questa presunta bandiera, diffuso dalla pagina Il Sito di Firenze, è immediatamente ripreso e amplificato da tutti i quotidiani italiani. “Firenze, bandiera neonazista dentro la caserma dei carabinieri”, titola Repubblica. “Bandiera nazista in una caserma dei carabinieri di Firenze”, rilancia La Stampa. “Firenze, “bandiera nazista appesa nella caserma dei carabinieri”. La Pinotti: “Chiarimenti rapidi e misure rigorose””, chiosa Il Fatto Quotidiano. Ed ecco che la fake news targata repubblica è bell’e confezionata. Con codazzo di polemiche e vesti stracciate: da Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana che reputa “indecente che una bandiera neonazista sia esposta in una caserma dei carabinieri a Firenze”, al ministro della Difesa Pinotti che definisce “grave l’esposizione della bandiera nazifascista all’interno di una caserma dei carabinieri”, chiedendo “chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso”. Peccato che la bandiera nazista – o neonazista, o addirittura “simbolo – si legge – di gruppi neonazisti antisemiti” – sia tutto tranne che una bandiera nazista. A meno di non voler retrodatare – ma dalle parti delle redazioni e non solo devono avere qualche problema con la cronologia storica – l’ascesa del partito nazionalsocialista fino ad inizio secolo. Perché quella bandiera, in realtà, è la bandiera della Kaiserliche Marine, la marina imperiale tedesca, creata dal kaiser Guglielmo II e in servizio dal 1871 fino alla sconfitta nella prima guerra mondiale. Siamo dunque ben lontani sia dal 1933 che, a voler essere generosi, anche dal Putsch di Monaco del 1923 quando Hitler si affacciò per la prima volta sulla scena politica di Germania. Un po’ troppo per associare la bandiera incriminata al nazismo o al neonazismo. Ma in tempi di fake news e di ministero della Verità, sembra bastino tre colori – un nero un bianco e un rosso – disposti in un qualche ordine per montare subito il caso. Anche se questo fa a pugni con la storia.
Fake news della Pinotti: "Bandiera neonazista". Ma è stemma prussiano. Il ministro contro il carabiniere di Firenze che espone il vessillo. Ma il caso si sgonfia, scrive Massimo Malpica, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". Una bandiera tedesca della prima guerra mondiale appesa al muro. Subito sopra, una sciarpa della Roma. Lì accanto il poster di un videogame ironico ispirato al leader leghista Salvini (Call of Salveenee) che tra l'altro prende per i fondelli proprio il politico lombardo. Si può certamente discutere sulle scelte d'arredamento, sulla coerenza stilistica, sull'intelligenza e sul senso dell'opportunità del giovane carabiniere che vive in quella stanza della caserma Baldissera di Firenze, ma forse evocare il pericolo dell'«onda nera» per una bandiera di cent'anni fa appesa sopra al letto può risultare ridicolo, in un mondo dove - in molte curve di stadi, per dirne una - fanno bella mostra di sé svastiche e simboli nazisti propriamente detti. E invece quel video girato dalla strada e pubblicato da un sito fiorentino ha scatenato un putiferio. È arrivata a scomodarsi persino il ministro Pinotti, attaccando il militare sbandieratore con notevole violenza verbale: «Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle forze armate essendo venuto meno a quel giuramento». Non è scontato che alla Pinotti sia chiaro di quale Reich sia quel simbolo. Probabilmente pensa che sia il Terzo, perché il ministro insiste e definisce «grave» l'esposizione in una caserma dei carabinieri di una «bandiera nazifascista». Ma quello immortalato è in realtà il vessillo di guerra del Secondo Reich, dunque non certamente un simbolo della Germania nazista: niente svastiche, ma l'aquila prussiana al centro di una croce nera su fondo bianco, con la croce nordica con il tricolore rosso bianco-nero imperiale tedesco nel quarto superiore sinistro. Più coerente, insomma, accusare il carabiniere di «tradimento» del giuramento di fedeltà alla Nazione. «Quella» Germania, in effetti, era nostra nemica sui campi di battaglia della prima guerra mondiale. Dunque di intelligenza col nemico (passato) il ministro può certamente parlare. Fake news, dunque? Dipende dai punti di vista. Perché anche se col regime nazista quel simbolo c'entra poco, è anche vero che da tempo i gruppi neonazisti non disdegnano di accostare la Reichskriegsflagge alle bandiere con la svastica, visto che già negli anni della Repubblica di Weimar il vecchio vessillo era usato con entusiasmo da revisionisti e ultra-destra contro il governo in carica. Tanto che, oggi, non è difficile vedere anche quella bandiera tra le svastiche appese in curva, per esempio in quella dei tifosi romanisti. Probabilmente perché in Germania ancora oggi le bandiere con la svastica sono proibite, mentre quella non lo è, ed è dunque tra le preferite anche dai gruppi neonazisti tedeschi. Guarda caso, proprio la sciarpa giallorossa appesa su quel muro potrebbe spiegare dove il carabiniere abbia trovato ispirazione per decorarsi l'alloggio. Più che sui libri di storia, all'Olimpico. Certo, un simbolo come quello non dovrebbe trovare spazio all'interno di una caserma. Ma utilizzare il caso per rilanciare lo spauracchio dell'«onda nera» appare strumentale. Se invece della Kriegsflagge imperiale il militare avesse appeso la bandiera Confederata, che pure negli Usa è al centro di dibattiti e polemiche, la Pinotti avrebbe accusato il carabiniere di suprematismo bianco? E quella foto «rubata» dalla finestra avrebbe fatto tanto rumore?
Una bandiera del Kaiser fa impazzire la sinistra, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". In una caserma dei carabinieri di Firenze «è spuntata» una bandiera con croce nera in campo bianco, al centro aquila imperiale. Nel quarto alto una croce (...) (...) ferrea si sovrappone ai colori dell'Impero tedesco (quelli in uso dal 1867 al 1918). È subito partita una polemica al vetriolo, tutta incentrata sul fatto che sia un simbolo neonazista. Tolto l'ovvio assunto che in una caserma italiana è meglio che ci sia solo il vessillo italiano, quello europeo - se e quando previsto - e poco altro, va però detto che una bandiera è un sacco di cose, molte delle quali stanno solo negli occhi di chi guarda. Per rendersene conto basterebbe dare una sfogliata ad un recente e bel saggio di Bruno Cianci intitolato La stoffa delle nazioni: storie di bandiere (Odoya, 2016). Limitandoci al contingente, però, la prima cosa da dire è la seguente: quella bandiera è la bandiera da guerra dell'Impero tedesco (sembrerebbe nel formato utilizzato dalla Kaiserliche Marine, la marina militare del Kaiser) che l'ultima volta sventolò, ufficialmente, nel corso della Prima guerra mondiale. L'aquila è quella che campeggiava sulla bandiera Prussiana, la croce nordica riprende i colori e la tradizione dei cavalieri teutonici, così come l'altra piccola croce posta in alto sui colori imperiali. È considerabile, di per sé, un simbolo neonazista? No, esisteva quando il nazismo non era nemmeno un'idea. Sì, certo, qualche gruppo di estrema destra l'ha utilizzata per aggirare i vari divieti all'utilizzo di veri simboli del Terzo Reich. Insomma, in mancanza di meglio si sono aggrappati al Secondo Reich (incuranti del fatto che un qualunque junker prussiano li considererebbe, con tutta probabilità, solo plebaglia rumoreggiante). Questa però è solo la prova di quanto siano inutili le norme, sempre aggirabili, di cui la proposta legislativa di Emanuele Fiano vorrebbe condensare i rigorismi più inutili. Nulla ci dice sulle intenzioni di chi quel vessillo, che nazista automaticamente non è e nemmeno automaticamente è considerabile di ultradestra, ha appeso. Se al posto di quella fosse stata esposta la bandiera gigliata della Marine Royale (che, per quanto più elegante, sarebbe sempre meglio non esporre in una caserma italiana) si potrebbe accusare, senza altra prova, chi la espone di essere un fanatico dell'antico regime e di Luigi XVI? Di complottare contro la democrazia? La risposta è probabilmente no, in questo caso come nel precedente. Si è insomma costretti a dover indovinare cos'è quella bandiera per chi la guarda. Un esercizio spesso faticoso e inutile. Allora forse meglio insistere senza troppi isterismi sul fatto che nei luoghi pubblici il nostro tricolorino (qui scritto con lo stesso diminutivo affettivo che usava Cavour) basta e avanza. Per il resto la caccia ai simboli lascia il tempo che trova. Se espongo un fascio littorio in campo verde magari sono un neofascista daltonico (o pusillanime) ma magari amo solo il cantone di San Gallo (Svizzera) che lo ha come simbolo. E non può deciderlo nessuno.
Bandiera prussiana, il carabiniere: "Non sapevo fosse neonazista". Il carabiniere si difende. Avviata un'indagine interna e una dalla procura militare. Inviata una relazione alla magistratura ordinaria, scrive Luca Romano, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". La bandiera della marina militare prussiana affissa in una stanza della caserma Baldissera a Firenze ha fatto parecchio discutere in questi giorni. Dopo le polemiche, parla il carabiniere che ha deciso di esporla e prova a spiegare il motivo della sua scelta: "Non sapevo che fosse un simbolo neonazista". Questa la giustificazione fornita ai suoi superiori. Il militare è un carabiniere in ferma breve ed è originario di Rieti. Il militare avrebbe anche chiesto scusa per quel gesto e ha anche rivelato di essere un appassionato della storia della prima guerra mondiale e di avere così acquistato sul web il vessillo contestato. Il carabiniere frequenterebbe anche l'università La Sapienza e l'interesse per quel periodo storico potrebbe essere nato proprio durante i suoi studi. Intanto a quanto pare sarebbero già scattati alcuni accertamenti interni per valutare l'ipotesi di una sanzione disciplinare. Il comandante del sesto battaglione, il tenente colonnello Alessandro Parisi ha definito "grave il comportamento posto in essere dal militare". Anche la procura militare ha predisposto l'avvio di un'indagine. Infine è stata anche inviata una relazione alla magistratura.
Roberta Pinotti: Fake News dal Ministero della Difesa, scrive Nicolò Gebbia il 4 dicembre 2017. Voyerismo di Stato e Fake News, altro non è l’accanimento a cui stiamo assistendo in queste ore da parte di media e politica per la bandiera esposta nella caserma Baldisserra, sul lungarno a Firenze. Dodici euro e 37 centesimi. Questa la somma pagata su ebay per acquistare e farsi spedire dall’Inghilterra, Epic Outdoor il venditore, la bandiera nazista che un carabiniere ventenne aveva appeso sopra la sua branda, nella stanzetta che condivideva con altri 3 giovani colleghi, effettivi come lui al Sesto Battaglione Carabinieri, di stanza a Firenze. Le vendono su internet solo dall’Inghilterra, notoriamente paese d’origine del nazismo. Peccato che non si tratti di una bandiera nazista, ma del vessillo della marina militare prussiana fino al 1919. Quella Prussia con la quale combattemmo come alleati la terza guerra d’indipendenza, contro l’impero austroungarico. Noi fummo sconfitti sul campo, mentre i nostri alleati, vittoriosi, ci cedettero il Veneto, che l’Austria rifiutò di concedere direttamente ad un nemico che aveva vinto militarmente, soprattutto con la sua flotta, nella battaglia di Lissa, al termine della quale l’ammiraglio Teghetoff, rivolgendosi al suo equipaggio dal ponte di comando, gridò “FIOI, GHAVEMO VINTO.” Ed i marinai lanciarono in aria il loro berretto, urlando VIVA SAN MARCO. Infatti la flotta austriaca era tutta formata da veneziani e triestini. Che diffusione ha questa bandiera in Germania? Su ogni nave militare ce ne è in dotazione una, che viene issata una volta l’anno, in occasione dell’anniversario della più grande battaglia navale della storia, quella dello Jutland, nella quale la flotta prussiana, grande la metà di quella inglese, inflisse ad essa perdite pari al doppio di quelle che subì. La stessa bandiera è molto presente anche all’annuale festival musicale di Bayereuth, sventolata dagli appassionati wagneriani. Ora che la cappellata è stata commessa, si cerca di accreditare quella bandiera come simbolo criptico del neonazismo, ma è una fake new. Sfugge a tutti, comunque, la cosa più grave, il voyeurismo di stato. Quello che ha avallato uno scatto carpito di nascosto per chiedere a quel povero ventenne contezza dei suoi gusti più privati. Arrivati a questo punto mi sembra doveroso completare l’indagine, chiedendogli delle sue tendenze sessuali. Perché è evidente che se preferisce gli uomini, questo è un ulteriore indizio del suo neonazismo, atteso che, a partire da Hitler stesso, i nazisti puri e duri erano tutti gay. Quale sarà’ la conseguenza indesiderata di ciò? Quel carabiniere si affitterà una stanza fuori dalla caserma, dentro la quale non resterà a dormire più nessuno. In caso d’emergenza lui e tutti gli altri bisognerà’ cercarli a casa propria, come si faceva ai miei tempi con il Piano di recupero ammogliati, visto che i celibi avevano l’obbligo di pernottare in caserma. Ministra Pinotti, ora che ti abbiamo scoperta voyer, noi carabinieri d’Italia ti preghiamo di completare l’opera con un sopralluogo in viale Romania, al nostro Comando Generale, nei cui corridoi vedrai campeggiare una bandiera dell’Italia fascista. E’ quella del Primo Gruppo Carabinieri Mobilitato, sterminato in Etiopia nel 1941 dalle truppe del Commonwealth. Quando fu fatto prigioniero il Duca D’Aosta, gli inglesi gli chiesero di consegnare loro l’unica bandiera britannica mai caduta in mano nostra, quella del governatorato di Berbera, preda bellica del generale Nasi. In cambio gli fecero scegliere una delle tante dei nostri reparti sconfitti. Lui volle quella dei carabinieri perchè considerava il loro sacrificio un gesto di eroismo collettivo irripetibile. Ma quando il Duca morì in Kenia, della bandiera non si trovò traccia. Solo trent’anni dopo, una distinta signora sudafricana, adempiendo alle volontà’ testamentarie del marito, il maggiore Grey, ce la restituì’. Appredemmo così che Gray l’aveva rubata al Duca perchè, scaramanticamente, riteneva che finche’ essa fosse rimasta in mano britannica, l’Inghilterra nulla avrebbe avuto più a temere dall’Italia. Ricordo che al comandante del battaglione, il maggiore Serranti, il soldato keniota che lo trucidò, strappò il cuore dal petto e se lo mangiò, nel convincimento tribale che in tal modo il coraggio del nemico sarebbe transitato a lui. Anche dalla parte di noi carabinieri, una buona metà era rappresentata da soldati di colore, che andavano all’assalto gridando PER IL DUCE E PER ALLAH. Onorevole Fiano, quando lo chiuderemo questo covo di pericolosi fascisti? A quando la riunificazione sotto il nome di POFICA, polizia finanza e carabinieri?
La bufala della bandiera prussiana dimostra la morte della stampa di centrodestra, scrive Augusto Grandi il 4 dicembre 2017 su "Il Secolo Trentino". Tutti indignati, sui social, contro l’ignobile bufala della bandiera prussiana spacciata per vessillo nazista dai media di servizio. Peccato che la disinformazione di regime se ne freghi dell’indignazione popolare e insista con le bufale dell’antifascismo militante. Con in testa il ministro Pinotti. E fa benissimo. Il regime dispone dei media ed è sacrosanto che li utilizzi per difendersi, per garantirsi il potere. L’unica arma rimasta, di fronte alla rabbia popolare per i disastri del governo, è rappresentata dall’antifascismo e, dunque, la utilizza in ogni occasione. Approfittando di tutti i media a disposizione. D’altronde chi ha impedito all’opposizione di dotarsi di giornali, radio, tv di successo? Nessuno, se non la totale stupidità e ignoranza di questa opposizione che ha preferito utilizzare i denari in modo diverso. Quando il centro destra era al governo non è stato capace di occupare la Rai con direttori e dirigenti di area, intelligenti e competenti. Non ha occupato le redazioni con i propri giornalisti. Non ha fatto crescere quotidiani di successo perché i giornali di centro destra puntavano solo al risparmio e non assumevano i migliori ma solo i più disperati che accettavano retribuzioni più basse. La qualità ne risentiva ed i giornali perdevano lettori. Nel frattempo Berlusconi puntava sull’ammiraglia di Canale 5 riempiendola di conduttori politicamente corretti e di giornalisti che oggi sostengono in modo indecente il governo Gentiloni dopo aver tifato spudoratamente per il bugiardissimo e prima ancora per Monti e Fornero. E più a destra? Spariti dalle edicole Il Secolo d’Italia e la Padania, niente radio e tv mentre i quotidiani online sono organi di partito e non di informazione. Però, di fronte alle proprie scelte ed alla propria incapacità, si attaccano gli avversari colpevoli di far bene il lavoro di disinformazione. Perché mai Repubblica, il Corriere o il Fatto quotidiano dovrebbero tutelare il centro destra se sono schierati su posizioni opposte? Se la bufala della bandiera nazista viene riproposta dal Tg5 senza che gli alleati protestino con Berlusconi significa che dell’informazione continuano a fregarsene, colpevolmente. Dunque dovremo rassegnarci a bufale continue per alzare il livello della tensione. Dovremo sorbirci le chiacchiere inutili di Mattarella a favore dell’invasione ed il suo silenzio sulle violenze compiute dagli allogeni a danno degli italiani, donne e bambini compresi. Ma si eviti di accusare i media di servizio perché svolgono il loro lavoro, appunto di servizio. E invece di dedicarsi all’onanismo intellettuale sulla modifica di un simbolo di partito, il centro destra si interroghi sulla propria incapacità di informare.
L’ignoranza degli italiani inizia sui giornali, scrive il 16.01.15 Massimiliano Calì su "La Voce.info". L’Italia ha il dubbio primato di paese peggio informato. Un risultato preoccupante perché il grado di informazione sulla realtà circostante è un elemento vitale per stabilire le priorità e aiutare i cittadini a valutare l’efficacia delle politiche pubbliche. Le “colpe” dei media poco indipendenti.
GLI ITALIANI E L’INDICE DI IGNORANZA. Diceva lo scrittore e medico umanista François Rabelais che l’ignoranza è la madre di tutti i mali. Se credessimo ai ricercatori britannici di Ipsos Mori, secondo il cui sondaggio internazionale gli italiani risultano i peggio informati sulle caratteristiche di base del proprio paese, avremmo ottime ragioni per preoccuparci ulteriormente. L’indagine si basa su interviste a un campione di oltre 11mila individui in quattordici nazioni ad alto reddito per misurare le percezioni su caratteristiche sociali, demografiche ed economiche del proprio paese, quali la percentuale di immigrati, il tasso di disoccupazione, la percentuale di musulmani e di cristiani e l’affluenza elettorale alle ultime elezioni. I risultati mostrano come le percezioni degli individui siano in genere piuttosto lontane dalla realtà in cui essi vivono. Per esempio, in tutti i paesi, gli intervistati ritengono in media che la percentuale di immigrati sia molto più alta di quella reale. Si va dagli australiani che pensano che gli immigrati siano il 35 per cento contro il 28 per cento effettivo, agli italiani che li valutano il 30 per cento della popolazione quando il dato reale è solo il 7 per cento. Allo stesso modo in tutti i paesi il campione sottovaluta il tasso effettivo di partecipazione elettorale. Gli americani sono quelli più informati (indicano il 57 per cento invece che il reale 58 per cento), mentre i francesi hanno la percezione più distorta (57 per cento contro l’80 per cento reale). Una delle aeree in cui l’opinione del pubblico è più lontana dalla realtà è il tasso di disoccupazione. Gli italiani sono di nuovo i meno informati, ritenendo in media che un concittadino su due sia disoccupato, quando invece il tasso di disoccupazione è del 12 per cento. Ma anche i tedeschi, che hanno la percezione più precisa, sbagliano di molto: 20 per cento contro il 6 per cento effettivo. Aggregando le discrepanze tra percezione e realtà tra tutte le domande, i ricercatori hanno creato un indice – chiamato “indice di ignoranza” – che classifica i paesi dal meno al più informato sulle propria situazione sociale, demografica e politica. L’Italia conquista il dubbio primato di paese peggio informato, seguito dagli Stati Uniti e dalla Corea del Sud. I più informati (o meglio i meno "ignoranti") sono tedeschi e svedesi. Il risultato è preoccupante visto che nelle democrazie il grado di informazione sulla realtà circostante è un elemento vitale per stabilire le priorità di politica pubblica e aiutare i cittadini a valutare l’efficacia delle politiche pubbliche.
IL REDDITO NON C’ENTRA. Per cominciare a capire da che cosa sia determinato questo grado di "ignoranza" si possono calcolare delle semplici correlazioni tra la classifica dell’indice Ipsos e quella ottenuta sulla base di alcune possibili variabili esplicative. La figura 1a mostra la correlazione con la classifica sulla base del reddito pro-capite nel 2013. L’ipotesi è che il livello e la qualità dell’informazione dei cittadini vadano di pari passo con il reddito. La relazione tra le due classifiche è negativa (come ci si aspetterebbe), ma debole e non statisticamente significativa. La relazione rimane debole anche quando si utilizza il valore in dollari del reddito pro capite invece che la classifica dei paesi (figura 1b). Fonte: World Bank (World Development Indicators)
LA QUALITÀ DELL’INFORMAZIONE. Un’altra possibile ipotesi è che sia la qualità dell’informazione a determinare quanto il pubblico sia informato sulla realtà nazionale. In mancanza di una misura diretta, è possibile utilizzare l’indice della libertà dell’informazione giornalistica prodotto annualmente dall’associazione Reporters Without Borders. Oltre a misurare la libertà e l’indipendenza delle testate e dei giornalisti, l’indice prende in considerazione anche la trasparenza della regolamentazione dei media da parte del legislatore e dell’esecutivo e il grado di concentrazione della proprietà dei mezzi di informazione. Al contrario di quanto avviene con il reddito, la figura 2 mostra una relazione con il grado di "ignoranza" negativa e statisticamente molto significativa. L’Italia, la Polonia e la Corea hanno indici di libertà di informazione tra i più bassi e livelli di "ignoranza" tra i più alti del campione. Esattamente il contrario di Svezia, Germania e Giappone. Quasi due terzi della variazione nella classifica di "ignoranza" sono spiegati solamente dalla variazione nella classifica della libertà dell’informazione. E aggiungendo il livello di reddito pro-capite si raggiunge un potere esplicativo dell’80 per cento (con il coefficiente della libertà di informazione che rimane altamente significativo). I nuovi media dovrebbero permettere ai cittadini di informarsi direttamente attraverso una molteplicità di fonti anche estere, bypassando l’informazione tradizionale. In effetti, paesi con più alta percentuale di utenti internet tendono in genere ad avere più bassi indici di "ignoranza"’ . Per esempio, l’Italia ha la più bassa penetrazione di internet del campione, mentre la Svezia, ultima nell’indice di ‘ignoranza’, ha quella più alta. Tuttavia, la classifica di penetrazione di internet smette di essere correlata con quella dell’indice di ignoranza una volta che si include nell’analisi statistica anche la classifica della libertà di informazione. Un’ulteriore ipotesi è che sia la qualità del sistema educativo a formare cittadini informati fornendo loro gli strumenti per essere aggiornati sulla propria realtà. La blanda correlazione (e statisticamente non significativa) tra la classifica dell’Ipsos e la classifica delle competenze di lettura nel test Pisa (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse non corrobora questa ipotesi. E l’assenza di correlazione persiste anche quando nell’analisi si inserisce questa variabile assieme a quelle precedenti. Questi risultati sono da prendere con molta cautela visto il basso numero di paesi considerati e la mancanza di un’analisi causale. Tuttavia forniscono una prima ipotesi su cosa determina il grado di informazione dei cittadini nei paesi ad alto reddito. Quando il giornalismo non è pienamente indipendente dal potere politico ed economico e la legislazione che regola i mezzi di informazione non è trasparente, stampa, tg e nuovi media non informano i cittadini adeguatamente anche su temi sociali e politici di centrale importanza per la società. E visto che gran parte dei cittadini attingono queste informazioni principalmente dai media (tradizionali), finiscono per essere male informati. Suona familiare?
DEMOCRAZIA POLITICA, DITTATURA SOCIALE. Scrive Valerio Passeri. Fonte: visto su Ecco Cosa Vedo del 3 gennaio 2011. Siamo in democrazia. Sentiamo costantemente questa affermazione come risposta a qualsiasi questione che possa mettere in discussione il governo eletto dal popolo e il suo operato. Essa è una certezza imperturbabile, nulla la può minare. Nonostante ciò può risultare arduo dare una definizione generale al termine democrazia, poiché ne esistono molti tipi in tutto il mondo. Possiamo però trovare dei caratteri generali comuni a tutte: sovranità popolare, suffragio universale, pacifiche elezioni, principio di maggioranza, cambiamento dei governi, responsabilità dei governanti davanti ai governati. La storia insegna che il maggior pericolo per una democrazia è il tramutarsi nel suo esatto opposto, ovvero in uno stato totalitario, una dittatura. La dittatura è una forma di governo in cui tutti i poteri sono incentrati nelle mani di un solo uomo e degli uomini a lui fedeli. A differenza delle monarchie e tirannie del passato però, la dittatura è fondata come la democrazia sul consenso popolare, prima di passare, e solo se si è “costretti”, alla repressione con la forza. Troviamo quindi al centro di due forme di governo opposte, che sono accomunate solo dall’esser nate assieme alla società di massa, un carattere comune, l’opinione pubblica. Quando tutto il popolo, o la gran parte, vuole cacciare il dittatore, in un modo o nell’altro esso viene spodestato, quando un governo non ha più i consensi della maggioranza esso viene rimpiazzato. Ovvio che i meccanismi sono molto diversi, ma il risultato generale possiamo dire esser molto simile. Tutto questo discorso può sembrar avere solo aspetti positivi, il popolo è sempre sovrano, la maggioranza vince sempre. Eppure va considerata un’altra forma di governo che pur mantenendo gli stessi caratteri descritti prima di democrazia ne ha degli altri comuni alla dittatura. E’ definita da alcuni “post-democrazia” o addirittura “contro-democrazia”. In essa l’opinione pubblica è solo un canale di consensi, non serve a moderare l’attività politica dei suoi rappresentanti. Il campo d’azione dell’individuo e della società intera è una scelta tra opzioni definite da chi detiene il potere, non può proporre nulla di nuovo. Il cittadino elettore non è parte attiva della politica, ma solo un consumatore, ha l’unico potere di scegliere cosa “acquistare” dal cesto della politica mettendo una croce sulla scheda, il suo campo d’azione termina uscito dalle urne. Lo stato non detiene più le sovranità che gli spetterebbero come quella monetaria o sui mezzi di comunicazione. “Pubblico sovrano” diventano parole vuote adatte solo a talk o reality show. In uno stato come questo, chi detiene il controllo sul maggior numero di media, può facilmente manipolare l’opinione pubblica, quindi il consenso ed il voto. Teorici della democrazia come Tocqueville avevano, già due secoli fa, compreso lucidamente molto di tutto questo. Egli stesso scrive a riguardo: “…vedo una folla innumerevole di individui simili ed eguali, che incessantemente si ripiegano su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri, di cui riempiono la propria anima. Ognuno di essi, ritratto in disparte, è come estraneo al destino di tutti gli altri… Al di sopra di costoro si eleva un potere immenso e tutelare, che, da solo si incarica di assicurare loro piaceri e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, capillare, regolare, previdente e dolce… gli piace che i cittadini siano contenti, a condizione che pensino solo ad essere contenti… prevede ed assicura la soddisfazione dei loro bisogni…”. Tutto questo è quindi definibile come una sorta di “dittatura sociale” che è assai più temibile di quella politica almeno per quanto riguarda l’aspetto temporale. Se nella mente della maggioranza delle persone si creano nuovi stereotipi e mode che fanno sì da mantenere un consenso “semi-libero”, poiché indotto, a favore del governo in questione, esso diventerà molto più duraturo di quello imposto con la forza e più difficilmente spodestabile. Anche se siamo in democrazia, non pensiamo che questo da solo assicuri la nostra libertà, la democrazia è una condizione indispensabile ma non sufficiente. E’ essenziale informarsi, diventare persone consapevoli e diffondere questa conoscenza, non tenerla per se’ per magari sentirsi superiori. Che qualcosa abbia il consenso della maggioranza non vuol dire sia la migliore, ma se la maggioranza è consapevole, è più facile che lo sia.
LA TELEVISIONE È LA DETENTRICE DELLA VERITÀ? Scrive Rolando Tavolieri. Fonte da Più Che Puoi del 14 novembre 2012. In tanti anni di televisione, di programmi seguiti, di talk show, di approfondimenti ed altro, possiamo notare come tutto ciò che viene detto, commentato e scandito dai programmi televisivi viene accettato per vero, viene recepito come reale, senza però accertarci se questa o quella notizia sia vera. In pratica da tanti anni ciò che ascoltiamo in televisione attraverso vari programmi televisivi, nei talk show, nei programmi di intrattenimento, nei telegiornali, nei programmi di informazione o di approfondimento, tutte le informazioni che ci vengono date, tutto ciò che viene detto o riferito, i dibattiti che ne seguono e le interpretazioni di ciò che accade da parte di presentatori, giornalisti, politici, persone coinvolte ed altri, viene accettato in modo passivo come reale, come vero. Ad esempio ti è mai capitato di sentire diverse persone affermare:
– “questa cosa è vera, l’hanno detta in tv!”
– “dobbiamo comprare quel farmaco, l’ha detto un medico in tv”
– “dobbiamo mangiare quel cibo, l’ho sentito dire in quel programma”
– “domani piove, l’ho ascoltato in tv!”
– “hai seguito il caso di quell’omicidio? Sicuramente è stata la tal persona, perché l’hanno detto in televisione”. Potrei andare avanti facendo centinaia di altri esempi in cui puoi constatare come la televisione è diventata ERRONEAMENTE la detentrice della verità, questo fenomeno di percepire le notizie e le interpretazioni che vengono fatte come reali, spesso è un fenomeno inconscio, ad esempio quando un personaggio famoso, politico, sportivo o del mondo del cinema viene “indagato”, la prima impressione che possiamo avere è che sia “colpevole”, in pratica scambiamo le indagini in corso fatte su una persona per sapere se è realmente colpevole o se è innocente, per colpevolezza prima ancora che le indagini vengano fatte o approfondite. Certo lo facciamo inconsciamente, inconsapevolmente, ma una volta che questo processo viene innescato, è difficile controllarlo, perché il messaggio che viene assorbito dalla mente inconscia è quello in cui crederemo dopo, quindi se il messaggio che la parola “indagato” equivale per noi a “colpevole”, quel messaggio sarà per noi la realtà, quindi il “Messaggio” che la parola usata in tv o la notizia data ha per noi diventa la nostra verità e la nostra realtà. La cosa importante che possiamo fare è quella di “Prenderne Coscienza”, cioè di prenderne atto a livello cosciente e riflettere bene su cosa stiamo pensando, perché una cosa è avere un’impressione su una persona e un’altra è essere certi della sua innocenza o della sua colpevolezza, la differenza la può fare il fatto di informarsi a 360 gradi, verificare tramite altre persone, tramite il web, seguire da vicino le indagini, avere più notizie ed informazioni e verificarle tutte, solo dopo tante verifiche, le informazioni ricevute e la capacità di “discernere” (separare) le informazioni vere da quelle false, solo allora possiamo pian piano affermare con attenzione e sempre con un margine di potenziale errore se quella notizia è vera o falsa o se quella persona è innocente o colpevole. Il fatto che molte persone credano immediatamente a questa o a quella notizia, il fatto di dare subito un’interpretazione o di giudicare quella situazione di cui si parla, o addirittura di criticare o giudicare immediatamente quella persona di cui si parla senza approfondire o verificare se quelle notizie su di lui sono reali, dipende da vari fattori, vediamo assieme quali sono:
– Intanto i programmi televisivi vengono seguiti da milioni di persone, sia nel nostro paese che in altri stati, grazie alle potenzialità tecnologiche come il decoder, internet, ed altro ancora, e tutto ciò che viene visto, ascoltato e seguito da tantissime persone, è come se ci “unisse” un poco, è come se vedendo gli stessi programmi ed ascoltando gli stessi discorsi o dialoghi di approfondimento in tempo reale, tutti noi telespettatori avessimo qualcosa in comune, qualcosa che ci unisce , come una condivisione mediatica del mondo.
– Quando i riflettori della tv vengono puntati su questa o quella persona, è come se mettesse noi spettatori nella posizione di diventare i “critici” o i “giudici” dei soggetti in questione, di ciò che accade e di ciò di cui si parla.
– La notizia data in tv viene spesso amplificata in quanto qualcosa che è vista e sentita da milioni di persone assume in un certo qual modo un potere forte, in positivo o in negativo, dipende dalla connotazione che le viene data, mettere l’accento su questa o su quella notizia le conferisce potere ed anche per questo viene amplificata. Ecco perché il fatto di parlare tanto e per tanto tempo di qualcuno, gli porta potere se se ne parla bene o può infangarlo se se ne parla male.
– La tv ha il potere di “dirigere” l’attenzione del telespettatore passivo, verso questo o quel fatto, verso questo o quel personaggio, ed ovviamente dirigendo l’attenzione verso una situazione, la distoglie da un’altra notizia che magari è più importante o che non si vuole approfondire in quel momento per vari motivi. In questo modo la tv può monopolizzare l’attenzione delle persone a piacimento, e questo è un grande potere, che però noi possiamo imparare a gestire e controllare attraverso un po’ di riflessione e di analisi.
– Anche la “Ripetitività” di una notizia le conferisce potere, perché più una notizia viene ripetuta e approfondita e più se ne parla, più questo circolo vizioso tende ad aumentare e ad amplificarsi. Ecco perché una notizia di cronaca nera sembra non finire mai, viene data e ripetuta anche per anni, addirittura si sono inventate trasmissioni apposite per approfondirne ancora di più i contenuti come se i tg non bastassero, questo perché l’audience aumenta gli introiti, è le notizie sono dunque legate anche ai soldi che si possono ricavare da esse.
– Il fatto di ascoltare una notizia ci mette nella posizione di assumere il ruolo di “critico” o di “giudice”, e quindi di sentenziare, di accusare o di dare clemenza al personaggio di turno, in questo modo possiamo “liberarci” inconsciamente delle nostre azioni sbagliate, delle nostre “colpevolezze”, del fango che c’è dentro di noi proiettandolo sugli altri, in questo caso sui soggetti protagonisti di questa o quella situazione del momento. Infatti scagliare accuse su una persona è come se ci liberasse o ci distogliesse dalle accuse che dovremo a volte dirigere su noi stessi, anche questo fenomeno è inconscio (ma forse non sempre).
Come puoi notare le implicazioni su ciò che accade a livello psicologico e sociale quando diventiamo spettatori spesso “passivi” di una notizia raccontata in tv, sono implicazioni “sottili” ma potentissime ed a volte “inconsce”, di cui cioè non ci rendiamo conto a livello cosciente, ma che seguono una direzione ben precisa e raggiungono l’obiettivo. Come possiamo dunque “Controllare” tutto questo? Come possiamo “Gestire” noi telespettatori questi fenomeni complessi al fine di non venirne trasportati come da un fiume in piena? Ecco alcuni consigli Pratici ed Utili che puoi seguire prima di accingerti ad assumere il ruolo di spettatore:
– Intanto diventa giorno dopo giorno uno spettatore “Attivo”, come? Avendo la mente aperta, evitando cioè di credere ciecamente ad una notizia senza averla prima approfondita, verificata ed assorbita a 360 gradi, osserva la notizia da più punti di vista, soprattutto mi riferisco ai fatti importanti, tralasciando il gossip, o le notizie inutili che parlano di pettegolezzi su questo o quel personaggio.
– Ascolta le “parole” che vengono usate per dare una notizia, infatti anche “Come” viene data una notizia è importante, a volte più del contenuto, perché “Come” viene data una notizia può amplificarla o ridurla, mettere l’accento sulla notizia o lasciarla sfuggire nel dimenticatoio, “Trasmettere Emozioni” o renderla insignificante.
– Chiediti perché viene dato risalto ad una notizia e viene tralasciata un’altra notizia più importante. Ogni tanto le notizie vengono pilotate in una direzione particolare, alcune possono aumentare gli ascolti, altre meno, così il metro di misura diventa l’audience, il denaro che si può ricavare attraverso le pubblicità associate a notizie forse poco importanti ma che, se producono altissimi ascolti arricchiscono chi sta dietro le quinte, anziché privilegiare l’importanza di alcuni fatti, o l’impatto sociale che possono avere sulla popolazione, anziché stimolare l’interesse degli ascoltatori verso notizie di pubblica utilità o innovative in campo scientifico, nella fisica, nella medicina, nella psicologia, ed altro ancora.
– Ascolta le notizie che ti vengono date in modo “neutrale”, senza far pendere la bilancia delle tue credenze da una parte o dall’altra, cerca di essere il più obiettivo possibile, anche quando ti sembra che quella notizia particolare sia vera, reale, o difficile da confutare, lasciati sempre un margine di “possibilità contraria”, cioè la tua mente deve essere sempre aperta ai colpi di scena, alle sorprese, al fatto che puoi sbagliarti, ok?
– Cambia l’Atteggiamento con cui segui le trasmissioni ed ascolti le notizie. Con questo intendo dire che se il tuo atteggiamento con cui sei abituato ad ascoltare le notizie, le informazioni, gli approfondimenti è quello di credere subito in ciò che ti viene detto solo perché lo sta facendo la televisione, se la tua prima impressione sui fatti raccontati è quella di darne subito un giudizio a priori, fermati un attimo, rifletti e poniti delle “domande Costruttive” come ad esempio:
“cosa mi fa pensare che quella notizia sia vera?”
“cosa mi porta a dare subito un giudizio su ciò che ho ascoltato?”
“cosa mi porta a giudicare questa o quella persona?”
“cosa mi fa dire che quel personaggio sia colpevole o innocente?”
“ho approfondito la notizia?”
“ho verificato ciò che ho appreso dalla tv?”
Ecco, rispondi a domande come queste e poi Sicuramente il tuo Atteggiamento nei confronti di ciò che ascolti e di ciò vedi in tv Cambierà. Spero di averti dato alcuni argomenti di Riflessione per analizzare cosa accade quando ascoltiamo la tv e quando ci facciamo un’idea riguardo a ciò che ascoltiamo ed alle persone coinvolte in una situazione particolare.
Ricorda quindi i seguenti punti Importanti:
– Sii una persona con la mente Aperta
– Cambia Atteggiamento nel modo di ascoltare o credere alle notizie
– Cerca di avere un “Ascolto Neutrale”, il più obiettivo possibile
– Verifica ed Approfondisci le notizie in 1000 modi diversi
– Percepisci una situazione da più punti di vista per averne una visione a 360 gradi
– Chiediti se il tuo giudizio o le tue credenze hanno dei riferimenti validi
– Ascolta “Come” vengono date le notizie
– Sii una persona Attiva nell’ascolto
– Dirigi tu la tua attenzione sui vari fatti, e non lasciare che sia la tv a farlo.
COME GLI SPIN DOCTOR MANIPOLANO I GIORNALISTI USANDO IL “FRAME”. Scrive Marcello Foa. Fonte: visto su BYOBLU il 22 marzo 2013. Sono Marcello Foa e sono un giornalista di scuola montanelliana. Oggi dirigo il gruppo editoriale del Corriere il Ticino, in Svizzera, insegno anche giornalismo e comunicazione sia all’USI di Lugano sia in Cattolica e ho incentrato le mie ricerche e la mia analisi, anche quotidiana, sul modo in cui i governi e le istituzioni riescono ad orientare i media, spesso all’insaputa sia dei giornalisti e sia dell’opinione pubblica. Sulla base di queste analisi, mi sono accorto di un’anomalia molto frequente, ovvero che i giornali e i media in generale ripetono tutti gli stessi errori, hanno la stessa visione della realtà, dei fatti. Senza mai differenziarsi, indipendentemente dal loro colore politico. Quando scoppia una grande crisi, quando c’è un grande evento, voi prendete il Corriere, il Giornale, la Repubblica, ma anche grandi giornali stranieri come la Neue Zürcher Zeitung, la Frankfurter Allgemeine, il New York Times, il Times, eccetera, e vi accorgerete come i fatti che vengono riportati siano quasi sempre gli stessi. Allora a metà degli anni 2000 mi sono chiesto: ma com’è possibile che i giornalisti, in democrazia, si comportino sempre tutti allo stesso modo? E ho trovato la risposta in una parola che negli ultimi tempi è diventata di moda, ma che fino a poco tempo fa non lo era affatto, ovvero negli spin doctor.
GLI SPIN DOCTOR. Gli spin doctor cosa sono, per la maggior parte del pubblico? Sono coloro che organizzano le campagne elettorali, e questo è tecnicamente giusto. Però c’è un passaggio che sfugge a quasi tutti i giornalisti e che è fondamentale: quando la campagna elettorale finisce, lo spin doctor in democrazia dovrebbe riconsegnare le chiavi dell’ufficio elettorale al suo leader e dirgli “ci vediamo tra quattro o cinque anni”. Questo non accade. Invece, lo spin doctor cosa fa? Entra nel palazzo con il politico. E questa è una sottigliezza. La maggior parte del pubblico dice “va beh, cosa cambia?”. Cambia tantissimo perché lo spin doctor è di fatto un manipolatore, colui che deve in una certa misura convincere l’elettore e il pubblico a votare per un candidato dandogli in pasto quel che il pubblico vuole sentirsi dire. Quando sei al governo però tu devi avere un approccio e un rispetto della verità istituzionale – la credibilità delle istituzioni di cui tanti si riempiono le bocche, spesso a sproposito – che lo spin doctor non rispetta. Lo spin doctor adotta dentro le istituzioni le stesse logiche della campagna elettorale. Ovvero è parziale, tende a manipolare, non rispetta l’oggettività dell’informazione e questo ha degli effetti devastanti, soprattutto se si considera un elemento che ancora una volta sfugge, quasi sempre, alla coscienza pubblica e anche dei giornalisti. Oggi se voi andate ad analizzare quali sono le fonti a cui attingono i giornalisti, sono le agenzie di stampa, i comunicati stampa. Il che è formalmente corretto, però c’è qualcosa di più. Il 70, l’80, talvolta anche il 90% delle volte l’origine di una notizia è dentro alle istituzioni, anche per gli episodi più banali. Esempio: incidente a Milano. Il giornalista va sul posto, vede le due macchine che si sono scontrate. Poi chi gli dice che cosa è accaduto? Sono i vigili, sono gli infermieri degli ospedali, sono i carabinieri e, sulla base dei report che ottiene da queste persone, che sono rappresentanti delle istituzioni, scrive l’articolo e l’opinione pubblica viene informata. Questo è un esempio banale, ma viene applicato su larga scala anche a temi nazionali e internazionali. Abbinando il tutto a tecniche sia di conoscenza del modo in cui giornalisti operano, sia di psicologia sociale, ottieni un fenomeno di condizionamento esplicito delle masse che è abbastanza preoccupante e a cui i giornalisti stessi molto spesso non si sottraggono. Prendiamo il mito delle donne che fumano. La donna che fuma è il simbolo di ribellione femminile. In origine, negli anni ’50, ma anche oggi nei paesi in via di sviluppo, quando volevi rompere gli schemi delle società conservatrici, le donne iniziavano a fumare e a portare i pantaloni e questo rappresentava un segnale molto forte di ribellione sociale. Io ero convinto fino a poco tempo fa che fosse un fenomeno sociale, che poi ad esempio i media, soprattutto il cinema, hanno propagato. Il fumo ha anche un ruolo sensuale. Ma dagli studi che ho fatto emerge che il fumo come simbolo di emancipazione femminile non è affatto un fenomeno spontaneo, ma fu impiantato ad arte dal padre degli spin doctor, Barneys, nel 1918. Se non ricordo male, su mandato di una grande fabbrica di sigarette che aveva voglia all’epoca di propagare e diffondere l’uso delle sigarette. All’epoca non c’era televisione e nemmeno il cinema: era agli esordi. Allora questo Barneys cosa fece? Poteva fare una campagna tradizionale, che all’epoca significava qualche articolo sui giornali e un po’ di cartellonistica, oppure inventarsi qualcosa di nuovo. Così, attese il giorno di Pasqua, perché c’era la sfilata delle varie comunità a New York, un po’ come accade ancora oggi in molti paesi da noi e in molti villaggi. Alla fiaccolata della brigata della libertà iscrisse e fece sfilare delle modelle bellissime, vestite in maniera molto provocatoria per l’epoca, cioè con dei pantaloni, camicetta, bretelle, un basco in testa reclinato. Bellissime, altezzose, affascinanti, e le fece sfilare fumando ostentatamente. Guardate anche il significato delle parole: la brigata ha una valenza positiva, la libertà nella società americana è un valore positivo, la fiaccolata evoca la sigaretta. Risultato: polemiche infinite, articoli infuriati sulla stampa, “è il decadimento dei tempi”, “dove andremo a finire?”, eccetera. Risultato immediato: quadruplicate le vendite delle sigarette e questa idea di ribellione associata al fumo che è entrata nella coscienza collettiva. Siamo nel 2013, è passato quasi un secolo e questo concetto è ancora molto forte. Perché vi dico racconto questo aneddoto, che è conosciuto agli esperti di comunicazione? Perché quando voi abbinate la conoscenza delle tecniche del giornalismo e della comunicazione con le tecniche della psicologia, create un’arma che è un’autentica arma di distruzione di massa, perché riesce a manipolare le masse senza che le masse stesse se ne rendano conto e provocando degli effetti a breve termine che sono devastanti sulla verità, e nel lungo periodo ti creano delle idee e degli stereotipi che difficilmente riesci ad estirpare.
LA PIRAMIDE DELL’INFORMAZIONE. Oggi un esempio molto importante per far capire come funzionano i media, è appunto la piramide dell’informazione. Le notizie non sono tutte uguali. Se la notizia viene data da un grande media, mettiamo in Italia il Corriere della Sera piuttosto che il TG5, oppure in America il New York Times, ha un peso molto diverso rispetto al caso in cui la stessa notizia venga data da un giornale locale o da un piccolo sito sconosciuto. Perché questo? Un po’ è implicito, perché ovviamente c’è la credibilità di un’istituzione, di un giornale che fa premio. Ma non è solo questo. I giornalisti hanno un atteggiamento tendenzialmente conformista, cioè sono pochi i giornalisti che tendono a pensare con la propria testa. La maggior parte tende invece a replicare quella che ritengono l’opinione condivisa o l’opinione legittima istituzionale. Allora quando tu fai passare un concetto molto forte su un media riconosciuto, provochi quello che è un effetto a cascata nella piramide dell’informazione, ovvero più il media è in alto nella piramide, più la notizia è sensazionale, più tutti i media simultaneamente parleranno di quell’argomento. È la stessa tecnica che viene usata, ad esempio, per le grandi crisi internazionali. Prendete la suina, l’aviaria, la guerra in Iraq, le crisi per il gas, il nucleare, l’ambiente, la capacità di fare aprire i cancelli dell’informazione e far sì che tutto il mondo dell’informazione parli simultaneamente di questo argomento è talvolta spontanea: scoppia la centrale di Fukushima e ne parliamo tutti, c’è un terremoto a L’Aquila e ne parliamo tutti. Ma quanti sono gli eventi che meritano un’attenzione così forte? Pochissimi. Se tu hai uno spin doctor che è dentro al governo, ovvero che è in cima alla piramide dell’informazione, tu hai qualcuno che conosce le tecniche per far sì che i media parlino simultaneamente, col taglio che vuoi tu, della notizia che lui ha scelto molto spesso arbitrariamente. E questo è pericolosissimo, perché l’effetto ultimo è che la nostra percezione molto spesso è falsata, è deviata addirittura. Tu parli molto spesso di argomenti che pensi siano molto importanti, su basi che pensi i tuoi governi ti diano in modo credibile, e in realtà alla fonte c’è qualcuno che sta giocando con la tua buonafede. L’effetto ultimo di queste tecniche è un fenomeno che io vedo da molto tempo, che ho denunciato in coda a un libro che ho scritto su questa tematica e che sta in questo momento rivelandosi molto fondato, ovvero: a forza di manipolare le masse, le masse tendono a non credere più alle istituzioni, che invece dovrebbero essere il collante del nostro convivere civile. Dunque si formano dei movimenti di protesta molto forti, che se indirizzati in modo virtuoso possono rappresentare un fenomeno di rigenerazione della democrazia, ma se vengono usati in maniera arbitraria o finiscono con dei leader che non sono rispettabili o comunque credibili, il rischio è che poi lo sbocco ultimo possa essere anche una dittatura. La nostra storia recente è ricca di questi episodi. Hitler e Mussolini sono nati su onde di disgusto. Negli ultimi tempi la capacità di persuasione di queste tecniche è un po’ diminuita, nel senso che è aumentato a dismisura il numero di persone che oggi non crede più all’informazione ufficiale. A volte lo fa razionalmente perché si è documentata, a volte istintivamente. Questo è secondo me positivo, perché sta rimettendo in gioco le dinamiche più autentiche della democrazia. Io, che sono di matrice di studio montanelliano e sono un liberale, ma sono fondamentalmente, innanzitutto, un democratico, credo che la volontà del popolo debba sempre essere rispettata. Per me il concetto di sovranità è fondamentale.
IL FRAME. Noi viviamo in una società in cui si è creato un nuovo frame, e questo è un concetto molto importante, che pochi osano sfidare. Cos’è il frame? Il frame è una cornice, un concetto molto forte che automaticamente si impianta nella mia psicologia, nei miei valori. Una volta creato questo meccanismo, tutto quello che rientra dentro la cornice rafforza la mia percezione del mondo e mi rassicura. Le notizie, anche vere, che escono dalla cornice, automaticamente tendo a scartarle o minimizzarle o ignorarle. Quando tu crei un frame molto forte, ad esempio il frame dell’euro, quando dicono cioè che “l’euro è fondamentale per il nostro benessere” (lo dissero quando venne adottato in Europa e ancora oggi chi lo mette in dubbio viene considerato come un destabilizzatore che mette a repentaglio il futuro dell’Europa), tu vai a toccare un frame molto forte, una parte molto ampia della popolazione. Se tu vai a toccare questo frame, il riflesso condizionato delle maggior parte delle persone è: io rifiuto o comunque mi spavento di fronte a questa critica perché va a mettere in dubbio l’esistenza stessa. Vale anche per la religione. Se tu vai a mettere in dubbio alcuni dogmi di qualunque religione, cattolica, ebraica, musulmana, chi crede molto le rifiuta automaticamente, anche se l’evidenza dovrebbe portarlo perlomeno a farsi qualche domanda. Lo stesso vale per la politica, vale per il nostro convivere sociale.
L’UOMO-HITLER. Tutto questo, tornando ai media, fa sì che la maggior parte dei media tenda ad assecondare, a rafforzare questo frame anziché dare ai cittadini gli strumenti per valutare autonomamente e indipendentemente quello che accade loro intorno. Ed è questa la ragione per cui, ad esempio, è molto facile orientare le masse in occasione delle grandi crisi internazionali. Quando vuoi demonizzare qualcuno, la cosa che puoi fare è dirgli che è un nemico della libertà, è un nemico delle istituzioni, oppure, in casi estremi, un uomo-Hitler. Quando attribuisci a qualcuno un’etichetta, automaticamente screditi questa persona, screditando automaticamente anche le tesi che porta con sé. Sono tecniche che sono state usate molto, e che vengono usate ancora oggi molto frequentemente. Gli spin doctor sono delle persone estremamente intelligenti, molto spesso sono degli ex giornalisti o dei comunicatori professionali di grandissima intelligenza e hanno delle squadre di psicologi, fanno studi di psicologia che permettono loro di affinare l’approccio. Queste stesse persone si rendono conto oggi che le tecniche che in larga misura sono ancora valide e applicate, non bastano più per procedere a un condizionamento delle masse che fino a qualche tempo aveva un risultato quasi perfetto. Prima era un procedimento quasi matematico. Ovviamente a provocare questo turbamento, questo scombussolamento, è internet.
RIVOLUZIONI PROVOCATE AD ARTE. Internet è un’esperienza molto positiva. Il blog dal quale io in questo momento sto parlando ne è testimone. Questo blog, qualche anno fa, sarebbe stato inimmaginabile. Il blog di Beppe Grillo… tante esperienze belle… una buona informazione su internet la trovi. Però attenzione: su internet gli spin doctor stanno applicando nuove tecniche per raggiungere i loro scopi, dissimulando le loro intenzioni. In questo momento ci sono tante esperienze positive, ma ci sono anche delle tecniche che ti permettono di orientare le masse e spaccarle. Ci sono tecniche per le quali a volte tu pensi che qualcuno che ti è amico lo sia davvero, e invece non lo è affatto, ma viene lì per cercare di distogliere l’attenzione da alcuni obiettivi. Esempio: che fine ha fatto il movimento Occupy Wall Street? Per questo movimento io ho avuto molta simpatia, perché portava alla luce del sole un sentimento molto giusto, di disgusto e di ingiustizia. È successo che l’hanno spaccato usando due metodi. Io diffido sempre quando un personaggio di estrema intelligenza ma di grande cinismo, come Soros, si interessa di certi movimenti. Soros passa per essere un filantropo. Secondo me invece è uno che usa la filantropia per fini non sempre dichiarati. Faccio una piccola parentesi sulle rivoluzioni che hanno scosso l’Est Europa negli anni ’90-2000, in particolare il movimento che ha fatto cadere Milosevich: la Rivoluzione Arancione. In Ucraina, vi ricorderete l’appassionante Natale in cui noi tutti parteggiammo per gli arancioni contro i russi, la rivoluzione spontanea in Georgia. La finta primavera araba non è stata un movimento di massa spontaneo, assolutamente no! Questi movimenti hanno tratto origine dalle teorie di un professore americano che le ha applicate per la prima volta nell’ex Jugoslavia, col fortissimo appoggio dei gruppi di Soros. Lì hanno messo per la prima volta a punto una tecnica per rovesciare i regimi usando le piazze. Per cui di fatto, in parole povere, è come se fossero dei colpi di stato senza l’uso tradizionale del colpo di Stato, cioè l’occupazione. E ha avuto molto successo. La Rivoluzione Arancione fu una rivoluzione pianificata ad arte, pianificata dai movimenti che erano legati a Soros (ma non solo), e che insieme costituivano la think tank che ha finanziato e pianificato quella rivoluzione, che era una messa in scena. Ci sono alcuni dettagli dai quali tu puoi decriptare quando ci sono delle messe in scena e quando i movimenti sono autentici. Se c’è un movimento di piazza spontaneo, noi scendiamo in piazza così come siamo vestiti in quel momento: io ho la mia maglia blu, c’è chi ha la maglia verde eccetera… Anche se fai un passaparola del tipo “andiamo tutti con la maglia arancione”, uno arriverà con l’arancione chiaro, un altro con l’arancione dell’Olanda, un altro ancora con l’arancione della maglietta che ha preso al mare… Per cui sarà un caleidoscopio di arancioni: non saranno tutti uguali. Alla Rivoluzione Arancione, invece, se andate a riprendere su internet le immagini, vi accorgerete che l’arancione era uniforme, che c’erano le sciarpe, che c’erano le tende: c’era tutto! In quel caso tu devi drizzare un po’ le orecchie e dire “ma com’è possibile che una protesta di piazza abbia questo impatto scenografico che televisivamente renderà moltissimo, se è davvero spontanea? Infatti non era spontanea: era una cosa pianificata. Pochi mesi dopo ci fu una protesta spontanea analoga a Minsk, in Bielorussia, contro il dittatore Lukashenko. Non c’erano dietro degli spin doctor. Di quella protesta nessuno ha memoria oggi, durò pochi giorni e finì come quasi tutte le proteste, ovvero con l’arresto e la detenzione di chi l’aveva organizzata. Tornando a Occupy Wall Street, quando Soros ha cominciato a interessarsi e a portare finanziamenti alle persone dentro al movimento, per me quello era il segnale chiarissimo che c’era in corso un tentativo di destabilizzare il movimento dall’interno. Quando c’è un movimento di massa che ti preoccupa, puoi spaccarlo in due maniere: attaccarlo per distruggerlo frontalmente oppure – Sun Tzu in “L’arte della guerra” lo insegna molto bene, parliamo di un manuale di oltre 2000 anni fa – puoi cercare di infiltrarlo per spaccarlo dall’interno. Una volta che l’hai spaccato dall’interno, il movimento perde la sua funzione vitale e quasi sempre, se è basato sulla spontaneità, muore di morte naturale. Esattamente quello che è successo con Occupy Wall Street. Con un’aggravante: articoli usciti sulla stampa americana, e ripresi anche dalla stampa italiana, dimostrano come le grandi banche d’affari americane chiesero e ottennero l’intervento dell’FBI per usare quei metodi tipici non dello scontro frontale, ma insomma con la destabilizzazione che può fare una grande polizia, un grande servizio segreto. Il movimento Occupy Wall Street infatti si inaridì spontaneamente, quasi per inerzia: in realtà è stato spento in maniera che sembrasse un’inerzia.
TECNICHE DI CONDIZIONAMENTO IMPLICITO. Perché dico tutto questo? Perché oggi si può leggere l’attualità nazionale e internazionale in due modi possibili. Il primo è quello del filtro classico dei giornali, i quali ragionano secondo il concetto del frame, ovvero hanno una visione della realtà e tendono a riconfermarla costantemente. Attenzione, non è che i giornalisti ricevono una telefonata da qualcuno che gli dice “devi scrivere così”. Talvolta capita (a me, devo dire, in venti anni di carriera non è mai capitato), ma non è necessario. Una volta che tu, spin doctor, hai stabilito la cornice, gli scopi, e hai stabilito una visione che è legittimamente corretta mentre tutte le altre non lo sono, tutto il resto viene automaticamente: i giornalisti vanno in modo inerziale nella direzione che crea consenso intorno a loro, consenso nei confronti del pubblico, nei confronti del proprio elettorato e nei confronti dei propri colleghi. Accade in quasi tutti i giornali del mondo. Questo meccanismo poi si alimenta da solo: se compri tanti giornali o guardi molti telegiornali, sei colpito dal fatto che la scelta delle notizie sia quasi sempre la stessa, e trattata nella stessa maniera. Prendete le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali: hanno sempre gli stessi titoli e sempre gli stessi argomenti. Ma voi sapete quanti lanci di agenzia arrivano in un giornale ogni giorno? Tra i sei e i diecimila (per un giornale di media grandezza). Hanno diecimila notizie a cui attingere eppure la scelta cade sempre su quelle dieci che finiscono in prima pagina e vengono trattate sempre alla stessa maniera. Questo non è possibile condizionando i giornalisti: è possibile applicando queste tecniche di condizionamento implicito che hanno un effetto straordinario.
BEPPE GRILLO. Un esempio secondo me classico, da cui la stampa non esce bene (alcuni lo dicono, oggi, ma bisognava dirlo qualche tempo fa), è il modo in cui il fenomeno di Beppe Grillo è stato trattato. Non mi riferisco né alla campagna elettorale né a quel che sta accadendo in queste ore, ma prima. Cioè Beppe Grillo è stato un fenomeno sociale giornalistico interessantissimo: ha dato voce, ha interpretato un malessere diffuso della società italiana. Non era difficile, non era un mistero interpretare quel malessere. Però, se andate a vedere gli archivi dei quotidiani, magari facendo una ricerca online, non troverete se non occasionalmente articoli in cui i giornalisti hanno cercato di spiegare chi era Beppe Grillo davvero, così come il perché della sua evoluzione da comico a capopopolo, o che cosa lui dicesse nei suoi comizi, quale fosse il pubblico che andava a trovarlo, quali erano le aspettative, un’analisi anche economica scientifica delle sue teorie, giuste o sbagliate che fossero, ovvero un meccanismo di buon giornalismo di inchiesta. Non è stato fatto. Di tanto in tanto, quando lui fece il Vaffaday a Bologna qualche tempo fa, dove ci fu una folla immensa, i giornali e i media con grande fastidio, con grande ritrosia si occuparono dell’argomento, ma solo per liquidarlo in poche righe come populista e poi non occuparsene più. Perché questo? Perché Beppe Grillo non rientrava in nessun frame: non poteva essere considerato berlusconiano, non poteva essere considerato tipico della sinistra antiberlusconiana, non poteva essere considerato leghista, non era rifondarolo, non era vendoliano, non era dipietrista. Era una cosa strana, ibrida, che usciva sia dagli schemi classici del giornalismo e sia dalla politica. Qual è stato il riflesso condizionato dell’insieme dei giornali? Una cosa strana, anomala: non parlarne. Sentivano che questo fenomeno rompeva il loro schema, rompeva il loro mondo, rompeva il loro frame, non era gradito ai partiti politici. Hanno cercato di applicare una tecnica, riprendendo un libro molto azzeccato in America il cui titolo era “La peggior punizione che tu puoi fare a qualcuno è il silenzio”. Ecco, nel caso di Beppe Grillo è stata applicata la tecnica del silenzio. Non parlavano di Beppe Grillo e pensavano che se nessuno ne avesse parlato lui sarebbe stato destinato – secondo le vecchie regole – ad afflosciarsi. In realtà questo era vero finché i giornalisti – questa è un’altra grandissima rivoluzione – avevano il monopolio di quel che si poteva denunciare o meno sulla stampa….
ECCO TUTTE LE TATTICHE CHE MEDIA, GIORNALI E TV USANO PER MANIPOLARE L’OPINIONE PUBBLICA. Fonte Salto Quantico. Manipolare l’opinione pubblica. Ecco tutte le tattiche di disinformazione che media, giornali e tv usano per manipolare l’opinione pubblica, inducendo le persone a pensarla in modo surreale. Ci sono tattiche precise che i maestri della disinformazione tendono ad applicare, ve ne sveleremo 25 in questo articolo. Le persone possono essere comprate, intimorite, o addirittura ricattate con lo scopo di diffondere disinformazione, così anche le “persone perbene” in molti casi, possono diventare sospette. E’ compito di un professionista della disinformazione è interferire con queste valutazioni, perlomeno per indurre le persone a pensare che i collegamenti siano deboli o spezzati quando, in realtà, non lo sono… O presentare soluzioni alternative che allontanino dalla verità. Molto spesso la verità viene “rallentata” attraverso tattiche di disinformazione, un risultato assicurato perché l’apatia cresce con il passare del tempo e con la retorica.
Le accuse non dovrebbero essere “abusate” tienile per i colpevoli recidivi e per quelli che usano tattiche multiple.
Le repliche non devono mai cadere nelle trappole dell’emozione o deviare dalle informazioni, a parte che non ci sia qualche osservatore venga facilmente distratto dall’inganno.
ECCO QUI DI SEGUITO LE VENTICINQUE REGOLE DELLA DISINFORMAZIONE.
1) Elusione: Non Vedo, Non Sento, Non Parlo. Indipendentemente da quello che sai, evita di parlarne in particolar modo se sei un personaggio pubblico, un conduttore televisivo, ecc. Se non viene riportato, non è accaduto, e tu non devi mai parlarne e mai affrontare il problema.
2) Diventa Incredulo e Indignato: Non discutere questioni chiave, al contrario concentrati su notizie marginali che possano essere usate per dimostrare come l’argomento di altri gruppi o temi, altrimenti ritenute veritiere diventato invece criticabili. Questa mossa è chiamata: “Come ti permetti!”.
3) Crea Persone Che Diffondono Pettegolezzi: Evita di parlare dei problemi entrando in merito alle accuse, non considerare il luogo o le prove, falli passare come semplici pettegolezzi e accuse fantasiose. Questi metodi funzionano in modo particolare con una stampa imbavagliata, perché l’unico modo in cui il pubblico viene a conoscenza dei fatti è attraverso “dicerie discutibili”. Se hai la possibilità di associare il materiale con Internet, sfrutta il web per dichiarare che si tratta di un “pettegolezzo infondato” proveniente da un “gruppo” di ragazzini che giocano su internet” che non può avere nessun fondamento su fatti concreti.
4) La Logica di Alice Nel Paese Delle Meraviglie: Evita la discussione dei problemi ragionando a ritroso o con un’apparente logica deduttiva; tralascia tutti i fatti concreti.
5) Confondi: Invoca, reclama la tua autorità o chiama in causa qualcuno che la abbia e presenta la tua tesi con “linguaggio tecnico” e “sottigliezze” sufficienti per mostrare che sei “uno persona che sa”, e dì semplicemente che le cose non stanno così senza parlare dei problemi o dimostrando concretamente il perché oppure citando fonti.
6) Fai Finta di Non Sapere: Non preoccuparti di fornire prove o argomenti logici, evita di discuterne tranne che con la negazione che tali questioni abbiano qualche credibilità, qualche scopo, forniscano qualche prova, contengano o diano un senso, abbiano una logica. “Impasta” bene per il massimo effetto!
7) Gli Enigmi Non Hanno Soluzioni: Facendo riferimento all’insieme di scenari che fanno parte del crimine ed al gran numero di protagonisti e di eventi, traccia un quadro della situazione tale da farla apparire troppo complessa per essere risolta. Questo fa sì che quelli che altrimenti seguirebbero la questione inizino a disinteressarsene più rapidamente senza aver affrontato concretamente la questione.
8) Cambia il Soggetto: In connessione con una delle altre tattiche elencate qui, trova un modo di deviare la discussione con commenti caustici o controversi, cerca di spostare l’attenzione su un argomento nuovo e più gestibile. Questa tecnica funziona particolarmente bene con complici che riescano a “litigare” con te sul nuovo argomento e polarizzare lo spazio di discussione con lo scopo di evitare che si affrontino i problemi chiave.
9) Non dar retta alle Prove Presentate, Chiedi Prove Impossibili: Questa è forse una variante della regola “Fai finta di non sapere”. Ignora il materiale presentato da un antagonista nei forum pubblici, dichiara che il materiale fornito è irrilevante e richiedi prove impossibili da ottenere per l’avversario (possono esistere ma non essere a sua disposizione, o può trattarsi di qualcosa che, si sa con certezza, è andata distrutta o è nascosta in luogo sicuro, ad esempio l’arma usata per un delitto). Per evitare completamente di discutere dei problemi, potrebbe essere necessario che tu debba criticare e negare che i media e libri siano fonti attendibili, negare che i testimoni siano degni di fiducia, o anche negare che dichiarazioni fatte dal governo o altre autorità abbiano qualche significato o rilevanza.
10) Inventa Distrazioni Più Grandi: Per distogliere l’attenzione da problemi delicati, o per prevenire coperture mediatiche indesiderate di eventi inarrestabili come i processi, crea notizie di cronaca più importanti (o presentale come se lo fossero) per distrarre la gente.
11) Attacca: Puoi utilizzare un Fantoccio trova o crea un elemento credibile della tesi dei tuoi avversari che puoi facilmente buttare giù per farti sembrare dalla parte della ragione e mettere in cattiva luce l’informatore. Oppure tira fuori una questione della quale puoi con sicurezza insinuare l’esistenza basata sulla tua interpretazione dell’informatore, dei sui argomenti, della situazione, oppure seleziona l’aspetto più debole delle accuse più deboli. Amplifica il loro significato e distruggile in un modo che sembri ridicolizzare, allo stesso modo, tutte le accuse reali e costruite, evitando inoltre che la discussione si sposti effettivamente su problemi concreti.
12) Distrai Gli Avversari con Insulti e Ridicolizzandoli: Viene chiamata: “attacca il messaggero”. Associa gli avversari a titoli impopolari come “pazzi”, “conservatori”, “liberali”, “di sinistra”, “terroristi”, “fanatici della cospirazione”, “radicali”, “fascisti”, “razzisti”, “fanatici religiosi”, “maniaci sessuali” e così via. Questo spinge gli altri a ritirarsi dal sostenerli per paura di venire etichettati allo stesso modo, e tu eviti di confrontarti con i problemi.
13) Colpisci e Scappa: In ogni forum pubblico, e social, fai un breve attacco ai tuoi avversari o alla posizione avversa e poi scappa via prima che ti rispondano o più semplicemente ignora ogni risposta. Questa tattica funziona benissimo su Internet nelle lettere alle redazioni dove un flusso regolare di nuove identità può essere utilizzato senza dover spiegare critiche, ragionamenti – semplicemente lanciando accuse o altri attacchi, senza mai discutere problemi, e senza mai rispondere ad ogni replica successiva, perché quello darebbe dignità al punto di vista degli avversari.
14) Associa le Accuse Degli Avversari Con Vecchi Avvenimenti: Una tattica derivata da quella del fantoccio, va bene in qualunque situazione dove si abbia grande visibilità, qualcuno all’inizio farà accuse sulle quali si può discutere o si è già probabilmente discusso un tipo di investimento per il futuro qualora la situazione non fosse facilmente controllabile. Dove puoi prevederlo, crea un problema “fantoccio” e trattalo come una parte contingente del piano iniziale. Le accuse successive, indipendentemente dalla loro validità o dalla scoperta di nuovi elementi, possono poi di solito essere associate con l’accusa originale e liquidate come un rimaneggiamento della stessa senza bisogno di affrontare problemi attuali – ancora meglio se l’avversario è, o è stato coinvolto, con la fonte originale.
15) Richiedi Soluzioni Complete: Evita le questioni chiedendo agli avversari di risolvere totalmente il problema, tale strategia funziona meglio trattando temi del tipo “Associa alle accuse agli avversari vecchie notizie”.
16) Impressiona, Contrasta e Pungola Gli Avversari: Se non puoi fare nient’altro, rimprovera e schernisci i tuoi avversari e trascinali a risposte emotive che tenderanno a farli sembrare stupidi ed eccessivamente motivati, e generalmente rendono il loro materiale in qualche modo meno coerente. Non solo eviterai di dover discutere i problemi in prima istanza, ma inoltre se la loro risposta emotiva riguarda la questione, puoi evitare ulteriormente i problemi focalizzandoti su quanto “siano suscettibili alle critiche”.
17) Falsifica: Metti in dubbio tutto; distorci o amplifica ogni fatto che può essere utilizzato per insinuare che l’avversario agisce in base a secondi fini nascosti o altre faziosità. Questo evita che si discuta dei problemi e costringe l’avversario sulla difensiva.
18) Crea e Fai Affidamento su Una Via d’Uscita: Utilizzando un aspetto o un elemento secondario della notizia segui la “retta via” e “confessa” con candore che qualche errore in buona fede, col senno del poi, in realtà è stato commesso, ma gli avversari ne hanno approfittato per ingrandirlo in modo esagerato ed insinuare il dubbio di un notizia più grave, solo che “non è così”. Altri in seguito possono rafforzare questa tesi a nome tuo, ed anche chiedere pubblicamente che “si ponga fine a certe dicerie” perché tu hai già “fatto la cosa giusta”. Eseguita in modo corretto, questa tattica può farti ottenere comprensione e rispetto per aver “detto la verità” e “confessato” i tuoi errori senza dover affrontare problemi più seri.
19) Adatta i Fatti a Conclusioni Alternative: E’ richiesto di pensare in modo “creativo” a meno che il “crimine” non sia stato pianificato con idonee previsioni dei possibili sviluppi.
20) Crea Prove False: Dove puoi presenta fatti nuovi o indizi progettati e creati per essere in contrasto con quelli presentati dagli “avversari” come strumenti utili per neutralizzare problemi delicati oppure impedirne la soluzione. Questo funziona meglio quando il crimine è stato progettato tenendo conto delle peculiarità adatte allo scopo, e i fatti non possono essere separati facilmente dalle menzogne.
21) Costruisci Una Nuova Verità: Crea i tuoi esperti, i tuoi promotori, i tuoi leader o condiziona qualcuno già esistente disposto a forgiare una nuova verità tramite ricerche scientifiche, investigative o sociali o una testimonianza che si concluda a tuo favore. In questo modo, se devi effettivamente affrontare i problemi, puoi farlo con autorevolezza.
22) Nascondi le Prove: Fai Sparire Prove e Testimonianze. Se non esiste, non è un fatto e tu non dovrai affrontare il problema.
23) Fai Appello a un Grand Jury, a un Procuratore Speciale, o ad un Altro Corpo Investigativo Autorizzato: Sovverti (il processo) a tuo favore e neutralizza efficacemente tutti i problemi più delicati senza una discussione aperta. E’ necessario che le prove e le testimonianze, se trattate correttamente, restino segrete una volta che sono state raccolte. Per esempio, se controlli il procuratore, questo può assicurarti che il Grand Jury non prenderà in esame le prove più utili ed anche il loro occultamento in modo che non siano disponibili per gli investigatori. Una volta che hai ottenuto un verdetto favorevole, la questione può essere considerata ufficialmente chiusa. Di solito questa tecnica è applicata per far assolvere un colpevole, ma può essere utilizzata anche per acquisire accuse quando si cerca di incastrare un innocente.
24) Fai Tacere i Critici: Se i metodi descritti non funzionano, valuta la possibilità di togliere gli avversari dalla circolazione con qualche soluzione definitiva in modo che non ci sia più bisogno di affrontare i problemi. Questa soluzione può essere la loro morte, l’arresto e la detenzione, il ricatto o la rovina della loro reputazione con la diffusione di informazioni compromettenti, o semplicemente puoi distruggerli dal punto di vista finanziario, psicologico o danneggiare gravemente la loro salute.
25) Sparisci: Se custodisci segreti chiave o sei comunque al corrente di dettagli non noti.
Cinque fantastiche fake-news…scrive Piero Sansonetti l'1 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Ius soli, Salvini, Caridi, Ruby, Spada, casi diversi accomunati dallo stesso metodo: il totale travisamento della realtà. Si dice così: fake news. Cioè notizie false, disinformazia, come la chiamavano una volta i sovietici. Fake news però non sono solo le notizie false ma è anche quel genere di informazione, molto diffuso, costruito su presupposti di non verità. Talvolta questa non verità è prodotta da apparati che vivono esattamente con questo scopo (appunto come erano i centri organizzati dallo spionaggio e dal controspionaggio sovietico, ma anche americano e di altri), talvolta invece è prodotta dai partiti e dalle loro macchine della propaganda. Fantastiche fake: Ius soli, Salvini, Caridi, Ruby…Talvolta viene direttamente dalle istituzioni o dai giornali o dalla Tv.
In genere le notizie false – trattate in un certo modo dal sistema dell’informazione e dai partiti – finiscono per avere un valore sociale esattamente uguale a quello delle notizie vere. Perché vengono ripetute, e ripetute, e ripetute, in barba a qualunque smentita, finché l’opinione pubblica non si convince che se una cosa è detta così tante volte deve essere necessariamente almeno un po’ vera. (Questo meccanismo massmediologico fu studiato e definito molto bene, negli anni trenta, da un giornalista e politico tedesco di grande ingegno, Joseph Goebbels, che fu il braccio destro di Adolf Hitler). Vogliamo vedere qualche caso, recente, di informazione fondata sulla non verità? Casi molto diversi tra loro ma tutti saldamente ancorati all’idea che la verità è quella che un apparato informativo o politico riesce a imporre, non è la realtà delle cose.
IUS SOLI. E’ diffusissima l’idea che il Pd voglia lo Ius soli per ottenere il voto di migliaia di immigrati. Ma è del tutto falso. Lo Ius soli concede la cittadinanza ai bambini che sono nati qui, che sono ancora piccoli, che non si sognano nemmeno di votare, e che quando saranno grandi, e avranno l’età per votare, comunque potranno avere la cittadinanza, anche con la legge attuale, senza Ius soli, perché dopo dieci anni di residenza regolare tutti possono avere la cittadinanza. Così come è diffusa l’idea che lo Ius soli possa attirare in Italia orde di africani. Nessun africano prende un gommone e mette a rischio la sua vita (i dati statistici dicono che ha il 3 per cento di possibilità di morire affogato in quel viaggio) per un calcolo sulla futura cittadinanza di bambini che ancora non sono nati e neppure concepiti. Nessuno. Eppure per rendere chiara l’idea che non esiste alcuna ragione plausibile per opporsi allo Ius soli è stato necessario l’impegno di un uomo dello spettacolo come Fabio Volo. Che è andato da Berlusconi e da Renzi (cioè da due dei leader politici più moderati e meno ostili a politiche di accoglienza, ma entrambi timorosi della potenza di fuoco della propaganda leghista e grillina e populista) e ha chiesto loro perché non riescono a capire una cosa così facile da capire che l’ha capita anche suo figlio di quattro anni. E cioè che i bambini neri sono bambini come i bambini bianchi e vanno trattati con umanità. Berlusconi e Renzi non hanno risposto. Perché non hanno risposto? Perché tutti e due sanno che Volo ha ragione, ma tutti e due sanno che lus soli è un principio che è stato abbattuto da una raffica di fake news, e che è molto difficile da difendere senza perdere voti. E la raffica di fake news è stata possibile perché nessun giornalista, finora, ha posto a Berlusconi e Renzi la domanda semplice e quasi ingenua che ha posto Volo.
CARIDI. Ne ho parlato e scritto molte altre volte di questo senatore della Repubblica che da un anno e mezzo vive, disperato, in una cella di Rebibbia. Non mi è mai tornata indietro neppure una eco flebile flebile delle mie proteste. Nessuno le ha riprese e nessuno ha avuto la faccia tosta di respingerle. Su Antonio Caridi si son abbattute le fake news guidate dalla magistratura. Che è giunta a immaginarlo come il capo di una supercupola inter-mafiosa. Cioè, in parole povere, il capo dei capi di tutta la criminalità organizzata. Altro che Riina! Altro che Liggio! Poi l’accusa è scivolata un po’, hanno capito che era troppo grossa la balla, e hanno ammesso che forse non è proprio il capo, ma insomma qualcosa c’entra… Prove d’accusa? Le parole di un pentito, cose vecchie di 14 anni, già prese in esame e scartate come infondate da vari magistrati, ma che ora sono tornate a galla e sono state sufficienti ad arrestarlo. Col beneplacito di un Senato fifone e infingardo, che si è lavato le mani e ha detto ai giudici: «Prendetelo pure e fatene quel che volete». E sebbene la Corte di Cassazione abbia definito non motivato l’arresto, nessuno ha avuto il coraggio di sollevare un’obiezione, di fare una domanda. Chissà, forse lo farà di nuovo Fabio Volo… E Caridi, il senatore Caridi, resta in galera, per via delle fake news istituzionalizzate. In occidente – inteso nel senso più ampio – non ci sono molti casi di parlamentari in galera. Non vorrei sbagliarmi ma credo che ci siano situazioni simili solo in Venezuela e in Turchia.
IMMIGRAZIONE. Ancora ieri il capo della Lega, Matteo Salvini, per giustificare l’irruzione dei naziskin in un circolo lombardo che aiuta i profughi, ha detto che il problema non sono i naziskin ma il problema è Renzi e che nessuno può negare che i naziskin dicano una cosa vera quando parlano di una invasione degli africani. Mi interessano poco le simpatie naziste di Salvini, sono sempre stato contro i reati di opinione e per la più assoluta e completa libertà di idee e di pensiero e di parola e di scrittura. Sono contro le leggi che condannano l’apologia. Anche l’apologia di fascismo e di razzismo, eccetera eccetera. Mi limito a osservare che Salvini di nuovo costruisce il suo ragionamento su una fake news, e che nessuno gliela contesta, perché è stata ripetuta talmente tante volte, questa fake news, che ormai è vera anche se non corrisponde alla realtà. La fake news sull’invasione in atto. Sul continuo aumento degli arrivi dall’Africa. La realtà sono i dati. Ecco i dati: nel 2016 gli sbarchi sulle coste italiane furono 173 mila (da gennaio a novembre) quest’anno, nello stesso periodo, sono stati 117.000. Oltre il 30 per cento in meno. Di questi, più della metà non si ferma in Italia. Circa 50 mila, forse meno, si fermano da noi. Cioè meno dello 0,09% della popolazione italiana.
SPADA. L’altro giorno un ragazzone di 29 anni che aveva staccato a morsi l’orecchio a un tassista, e poi gli aveva spaccato il naso e la clavicola, è stato mandato agli arresti domiciliari. Qualche settimana fa un certo Roberto Spada, che aveva spaccato il naso a un giornalista (ma solo il naso, risparmiandogli l’orecchio e la clavicola) è stato mandato al carcere duro di massima sicurezza. Perché? Perché, hanno detto i magistrati, il primo delitto è stato commesso in modalità semplice, il secondo in modalità mafiosa. Roberto Spada è un mafioso? Ha precedenti per mafia? No. Ecco, la mafiosità del delitto di Spada è una fake news. Messa in giro dalla stampa, che ha preteso l’arresto di Spada anche se impossibile a rigor di legge, e lo ha ottenuto. Perché anche la magistratura, intimidita dalla stampa, ha accettato la fake news.
RUBY. La fake news originaria durò pochi minuti ma diventò famosissima. Era quella detta da Berlusconi che sostenne che Ruby fosse nipote di Mubarak. Fu subito smentita e svanì, trasformandosi in argomento di scherzi e lazzi. Poi prevalse la fake news del decennio. Quella che Berlusconi avrebbe commesso un reato molto grave invitando a casa sua un po’ di ragazze. Fu processato e condannato a una lunga pena detentiva per concussione e prostituzione minorile. Le giudici che emisero la condanna aumentarono la pena rispetto a quella richiesta dalla terribile Boccassini. Poi la Corte d’Appello, sorridendo, annullò la condanna per assenza evidente del reato. E la Cassazione fece lo stesso. Ma la fake news restò viva. Non solo sui giornali e nell’opinione pubblica ma in molti palazzi di giustizia. Nacque il processo Ruby- bis e il processo Ruby- ter. E successivamente il processo Ruby- ter si spezzò in tanti filoni, il Rubiter propriamente detto, il Ruby- ter- bis, il Ruby- terter, il ter-quater, eccetera eccetera fino al ter- septies. Nessuno sa quanti soldi siano stati buttati al vento per questa scemenza. Nessuno sa quanto durerà ancora. Si sa solamente che alcuni di questi processi si svolgeranno in campagna elettorale e qualcuno, malizioso, pensa che si tratti di giustizia ad orologeria. Ad orologeria o meno, il fatto è che è accertato (e certificato dalla Cassazione) che il reato era un fake-reato. Ma se dici reato, reato, reato, alla fine il reato, comunque, c’è.
Skinhead a Como, Meloni: «Intimidazione, ma la violenza è dei centri sociali», scrive Mariano Folgori giovedì 30 novembre 2017 su "Il Secolo D’Italia". «Secondo me quello è un atto di intimidazione e per me l’intimidazione è inaccettabile. Mi consenta però di dire che trovo abbastanza ridicolo l’appello di Matteo Renzi, perché la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como: è un atto di intimidazione ma non è un atto di violenza». Giorgia Meloni invita a vedere nella giusta dimensione, senza strumentalizzazioni politiche e forzature ideologiche, l’irruzione di un gruppo di naziskin venetia Como in un centro pro migranti. «La violenza – afferma la Meloni a L’Aria che tira – noi l’abbiamo invece vista un sacco di volte dai compagni dei centri sociali, quelli che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani, e nessuno ha mai fatto gli appelli per la condanna delle violenze dei centri sociali. Quello si può fare. Perché è gente di sinistra e le città si possono distruggere, si può dare fuoco alle macchine della gente, si può dare fuoco alle edicole». La leader di FdI risponde a Renzi che ha tentato di rilanciare l’ennesima mobilitazione antifascista. «Qualsiasi gesto di violenza – ha detto il leader del Pd va condannato senza se e senza ma. Intimidazioni e provocazioni di segno fascistoide vanno respinti non solo dalla sinistra ma da tutta la comunità politica nazionale, senza eccezione alcuna. Su questi temi non si scherza». Salvini: «Il problema è Renzi non i presunti fascisti». Sulla la stessa linea della Meloni è Matteo Salvini: «Il problema dell’Italia è solo Renzi, non i presunti fascisti. Lui – dice Salvini – si occupa di fake news e del ritorno del fascismo che non esiste». «Certo che entrare in casa di altri non invitati non è elegante – ma il tema dell’invasione dei migranti sottolineato dai skinheads è evidente».
Appello Renzi, Meloni: e Centri sociali? Scrive il 30 novembre 2017 "Rai News". "Secondo me è un atto di intimidazione e per me l'intimidazione è inaccettabile. Ma trovo abbastanza ridicolo l'appello di Renzi, perchè la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como". Così la leader di FdI. Il blitz dei naziskin in un circolo Pd di sostegno ai migranti "è un atto di intimidazione, non di violenza. La violenza noi invece l'abbiamo vista un sacco di volte dai compagni dei Centri sociali che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani e nessuno ha mai fatto appelli...".
Bologna, raid dei centri sociali: uova e minacce su sede di destra. Il blitz dei centri sociali del Collettivo Polvere Rossa contro la sede di Azione Universitaria a Bologna, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Un raid notturno dei centri sociali. Mentre a sinistra si sgolano per "l'irruzione" di Veneto Fronte Skinheads all’assemblea di Como Senza Frontiere, nella rossa Bologna la sede di Azione Universitaria in via Turati viene presa d'assalto dal Collettivo Polvere Rossa. Questa mattina i militanti dell'associazione universitaria di destra si sono ritrovati la porta imbrattata dalle uova con annesso volantino minaccioso, già rimosso dalla Digos. "Non è che un pretesto per concedervi dieci minuti di riflessione - si legge nel proclama - Perché mentre pulirete questa vetrina, anche solo per dieci secondi, vi sentirete disprezzati e non tollerati, proprio nello stesso modo in cui voi fate sentire chi diverge dalla vostra idiozia. Non ci aspettiamo che voi capiate e tantomeno che cambiate. Ci basta lasciarvi questo messaggio con la coscienza di chi anche di giorno vi affronta a viso aperto, con il divertimento di chi vi mette alla berlina in una fredda notte d'autunno. Italiano è chi ha fede nella Costituzione. Italiano è che ha memoria degli ideali della Resistenza. Italiano è chi lotta per il progresso della Patria. Fuori i fascisti da Bologna". La sede di via Turati 25 a Bologna è un luogo storico di aggregazione della destra. Soprattutto in ambito universitario. Dibattiti, discussioni politiche, volantini da stampare, colla e bandiere. Poi la foto di Almirante rivolta verso i presenti e la scritta: "Noi possiamo guardarti negli occhi". Niente di pericoloso insomma, chi scrive lo sa per esperienza. Nessun "rigurgito fascista", onde nere, nazismi alle porte. Anzi: tutto democratico, visto che AU da anni partecipa alle elezioni studentesche, eleggendo pure propri rappresentanti. "Due mesi fa abbiamo subìto un'intimidazione ad un nostro convegno sulla Siria e nessuno è stato punito - racconta Dalila Ansalone, Responsabile Azione Universitaria Bologna - A quanto ci risulta, nessuna Istituzione ha preso provvedimenti seri nei confronti di questi soggetti che vivono nell'illegalità permanente. Visto che nessuno gli si oppone, si sentono onnipotenti e tranquilli nel compiere atti di violenza senza subire alcun tipo di sanzione". Il timore è che le azioni degli antagonisti possano degenerare. "Se non la pensi come loro, usano la violenza - attacca Stefano Cavedagna, Dirigente Nazionale Azione Universitaria - Esattamente come facevano i partigiani in queste zone rosse dopo la guerra. Se non eri con loro, facevi una brutta fine. Non abbiamo timore, rimaniamo solo molto tristi nel vedere fino a dove si possono spingere certi soggetti che fanno della libertà di pensiero il loro mantra, ma poi con la violenza cercano di reprimere idee differenti dalle loro". E mentre sugli skinhead i quotidiani discettano da giorni e Matteo Renzi chiede addirittura "condanna unanime" del gesto, difficilmente il raid degli antagonisti scatenerà pari indignazione e preoccupazione. Si sa: alcune uova e minacce risultano meno aggressive di altre. Sono politicamente corrette. "La Repubblica dice che con acqua e sapone si rimedia, come se il gesto intimidatorio non esistesse e non ci fosse nulla da condannare - attacca Galeazzo Bignami, capogruppo in Regione di Forza Italia - Chissà cosa sarebbe successo se degli estremisti di Destra avessero lanciato delle uova marce contro Repubblica. Avremmo già i manifesti firmati dagli intellettuali radical chic, girotondi arcobaleno, manifestazioni antifasciste e così via". Per la senatrice Anna Maria Bernini (FI) si tratta di "un grave atto intimidatorio, che meriterebbe un'indignazione profonda" e invece "viene curiosamente minimizzato, declinato ad 'una ragazzata'". Solito doppiopesismo della sinistra. "Le forme di intimidazione e violenza - dice infatti Maurizio Gasparri - vanno condannate in egual misura dalle istituzioni e da tutti coloro che credono nei valori della democrazia e della legalità". Duro anche il deputato di Forza Italia Elio Massimo Palmizio, che definisce il raid degli antagonisti "inaccettabile" tanto da costituire "una grave compressione della liberta' di espressione individuale e collettiva garantita dalla nostra Costituzione".
EIA EIA, MA VA' LA. Il Duce unisce più di Renzi: bastano quattro cretini per fare gridare la sinistra al nuovo Ventennio. Ma è silenzio sulle violenze dei centri sociali, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Ogni tanto, ma sempre più spesso, scatta l'allarme dell'«all'armi son fascisti». Questa estate la goliardia canaglia di un bagnino di Chioggia che aveva tappezzato il suo lido con frasi mussoliniane era stata spacciata come l'inizio di un nuovo Ventennio. Il malcapitato ha perso il lavoro e si è riciclato come opinionista di avanspettacolo destrorso nelle radio e tv venete dopo essere stato completamente scagionato dai magistrati che avevano aperto un'inchiesta. Nessun tentativo di ricostituire il Partito fascista - hanno concluso i saggi pm - ma solo una gigantesca burla. Adesso ci risiamo con la storia dei quattro ragazzotti di destra che hanno fatto irruzione in un circolo pacifista di Como per leggere ai presenti un comunicato sulla «patria minacciata dagli immigrati». Deplorevole (la violazione di domicilio privato), ridicolo (il gesto), a tratti delirante (il testo), ma comunque fatto anche questo ascrivibile più all'idiozia giovanile che alla fascistizzazione dell'Italia. Il codice penale attuale mi sembra attrezzato a punire eventuali reati che questi ragazzotti possano avere commesso, con i fatti e con le parole, e la cosa dovrebbe finire lì. E invece no, puntuale come la morte arriva da Repubblica il grido di allarme sul pericolo destre. E la panna monta, manco stessimo parlando di un attentato dell'Isis. Facendo una ricerca con Google si scopre che dall'inizio dell'anno i giornali del gruppo Espresso hanno fatto scattare «l'allarme fascismo» 492 volte. Siamo cioè all'antifascismo militante che amplifica ed esalta stupidi episodi e persone ignoranti che sono numericamente, politicamente e socialmente più che marginali. Certamente meno significativi dell'allarme che dovrebbero destare le occupazioni, gli abusi e a volte le devastazioni urbane di quei simpatici ragazzi dei centri sociali; sicuramente meno preoccupanti delle milizie di estrema sinistra che impediscono con la forza la presentazione dei libri di Giampaolo Pansa sul revisionismo della Resistenza, di Magdi Allam sull'islam o una conferenza di Angelo Panebianco all'università di Bologna perché «professore non abbastanza pacifista». Più stupidi dei neofascistelli ci sono solo i tromboni dell'antifascismo a tempo pieno, i quali non si indignano che il leader della Lega Matteo Salvini - democraticamente eletto - possa apparire in pubblico solo se scortato, a volte blindato. A questi tromboni andrebbe ricordato - ironia della sorte - che ancora oggi il nostro codice penale a pagina uno porta in grassetto la firma di chi l'ha promulgato, cioè «Sua Eccellenza Benito Mussolini», come ben sanno studenti di giurisprudenza e addetti ai lavori. Che facciamo, chiudiamo i tribunali, mettiamo al rogo in piazza la tavola delle leggi e proclamiamo la mobilitazione generale? La verità è che il Duce riesce dove ha fallito Matteo Renzi. Cioè unire la sinistra, che - non avendo né presente né futuro - per dare l'impressione di esistere deve per forza attaccarsi ai fantasmi del passato. Diciamolo, i veri nostalgici sono proprio loro.
Assalti, censure e violenze in università. I blitz dei centri sociali non scandalizzano. Da Pansa zittito a Panebianco contestato, le vittime dell'intolleranza rossa, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 1/12/2017, su "Il Giornale". Clima da Repubblica di Weimar, nazismo alle porte, l'ombra nera sull'Italia. Il blitz degli skinhead ha svariati precedenti, ma a sinistra. La sinistra unita solo con la caccia al fascista. Aggressioni, minacce, lanci di uova, però più politicamente corretti rispetto a quattro teste rasate, e quindi non meritevoli di allarme per la democrazia in pericolo. Eppure a lungo, per un giornalista come Giampaolo Pansa colpevole di aver messo in discussione la vulgata partigiana sulla guerra civile italiana dopo l'8 settembre, è stato quasi impossibile presentare un semplice libro, considerato negazionista dall'estremismo rosso che accoglieva le presentazioni con insulti, minacce, propaganda a pugni chiusi. Qualche cenno di solidarietà in privato dai leader di sinistra, ma mai pubblico, perché Pansa è un diffamatore della Resistenza, un nemico del popolo. Identica sorte toccata ad Angelo Panebianco, editorialista del Corriere e docente all'Università di Bologna: «Fuori i baroni dalla guerra», gli hanno urlato i collettivi lo scorso febbraio, durante la sua lezione. «Panebianco cuore nero», la scritta lasciata dai centri sociali sulla porta del suo ufficio anni fa. Imbarazzo, silenzio e poco altro anche per Salvini, nel mirino dei centri sociali, più violenti degli skin head, ma col lasciapassare politico. Il leader della Lega è stato aggredito più di una volta, a Bologna gli hanno sfasciato il vetro dell'auto, in Umbria gli antagonisti lo hanno accolto a sputi e cori «stronzo», a Napoli hanno scatenato una guerriglia con sassi e molotov, violenze annunciate con la massima tranquillità alla vigilia («Non assicuriamo un corteo pacifico») senza creare indignazione, anzi (il sindaco de Magistris è con i centri sociali). A Milano sempre i centri sociali hanno distrutto un gazebo della Lega e malmenato due militanti. Scene che si ripetono, senza che mai si parli di un «allarme centri sociali», mentre quattro skin bastano per mobilitare le massime istituzioni. A Daniela Santanchè, donna di destra quindi meno rispettabile, ha raccontato in diretta, mentre discuteva di ius soli con Fiano del Pd (il deputato che vuol mettere in carcere chi ha una immagine di Mussolini in casa) di aver ricevuto un tremendo insulto più minaccia di morte come se niente fosse («Mi è appena arrivato su Twitter Sei una put... da uccidere»). Ancora a Napoli l'ex candidato sindaco di centrodestra, Gianni Lettieri, denunciò un'aggressione per strada da parte degli attivisti di una casa occupata. Ne sanno qualcosa gli ex ministri Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, bersaglio prediletto degli attivisti e centri sociali per le battaglie sui furbetti della pubblica amministrazione e sulla scuola, feudo della contestazione di sinistra. Brunetta, durante un convegno, fu vittima di un blitz della «Rete dei precari» fischi, insulti, striscioni a cui replicò definendoli «l'Italia peggiore». Non l'avesse mai fatto: «Diecimila post di insulti, minacce, addirittura pallottole, sul mio profilo Facebook. Molti legati anche alla mia statura fisica» calcolò l'allora ministro, sempre preciso anche nella contabilità degli insulti ricevuti. Per la Gelmini, si inventò persino un No Gelmini Day, con i collettivi studenteschi in piazza, al grido «Ci vogliono ignoranti, ci avranno ribelli», ma pure senza un chiaro nesso logico «Siamo tutti antirazzisti e antifascisti». Coi fumogeni e i lanci di uova. Tanto i fascisti sono solo a destra.
Ecco il dossier "centri sociali": quelli pericolosi sono 200. Dal Veneto alla Sicilia la mappa delle occupazioni pubbliche e private. E i delinquenti napoletani fermati dopo gli scontri sono già liberi, scrive Luca Rocca su "Il Tempo” il 14 Marzo 2017. Anacronistici ma violenti. Devastano le città, le vetrine dei negozi e quelle delle banche. Picchiano duro, infieriscono sui "nemici", impediscono di parlare. Scendono in piazza rabbiosi, lanciano molotov e bombe-carta. Imbracciano mazze e danno fuoco alle auto. Picchiano i poliziotti nascondendo il volto dietro il passamontagna. Finiscono spesso sotto processo, ma non mollano. Riscendendo per le vie con la loro brutalità. Sono i "centri sociali" più pericolosi sparsi in tutta Italia che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di inaudite violenze. Circa 200 strutture autogestite, quelle monitorate dall’Antiterrorismo. Ma sono migliaia i luoghi dove nasce l’odio e cresce la violenza. Negli ultimi tempi a far parlare prepotentemente di sé sono stati quelli di Milano (Conchetta, Cantiere, Soy Mendel, Mandragola), Cremona (Dordoni), Napoli (Insurgencia, Ex Opg Occupato-Je so pazzo), Roma (Macchia Rossa innanzitutto, ma nella Capitale ce ne sono 65, 27 dei quali controllati più da vicino da polizia e carabinieri), Torino (Askatasuna), Palermo (Spazio Anomalia-Ex Karcere), Padova (Pedro), Rimini (Casa Madiba), Brescia (Magazzino 47) e molti altri ancora sparsi in tutta la Penisola. Sono dappertutto e vogliono comandare. Al di là della legge, al di là delle regole. Dei 200 della black list l’Antiterrorismo evidenzia 11 centri in Lombardia, 7 in Piemonte, 4 nelle Marche, 12 in Veneto e altrettanti in Emilia, 10 in Toscana, 4 in Puglia, 8 in Liguria, 4 in Trentino, oltre 20 in Campania, 6 in Calabria e 3 in Sicilia.
CENTRI (POCO) SOCIALI. Solo rifacendoci agli ultimi due anni e mezzo, ad esempio, gli "antagonisti" si sono resi protagonisti di scorribande devastanti. Due anni fa a Cremona gli appartenenti al centro sociale "Dordoni" si scontrano con quelli di CasaPound. Molti sono i feriti. Gravissimo un antagonista, Emilio Visigalli (che poi verrà arrestato poco prima della sua rappresaglia). Otto persone finiscono indagate (e un militante bresciano del collettivo "Magazzino 47" arrestato). Pochi giorni dopo oltre 2mila persone, in testa i "black bloc", scendono in strada per solidarizzare coi loro "compagni", lanciando pietre, bottiglie e bombe-carta contro le forze dell’ordine. Nelle stesse settimane, stavolta a Padova, alcuni componenti del centro sociale «Pedro», nell’ambito di un’inchiesta sull’aggressione a un dirigente della Squadra Mobile, subiscono l’obbligo di dimora (uno finisce ai domiciliari). Nel corso delle perquisizioni nelle loro abitazioni la polizia trova fumogeni, una maglia metallica anti-coltello, fionde e un’arma giapponese usata nelle arti marziali. Stesso dicasi per l’operazioni nei confronti di 17 componenti del movimento antagonista "Spazio Anomalia/Ex Karcere" che ricevono l’obbligo di firma (poi annullata dal giudice) per aver devastato alcuni esercizi commerciali a Palermo (ferendo alcuni poliziotti). I reati contestati: associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie di delitti contro l’ordine pubblico, violenza, minaccia, lesioni personali.
VIOLENZA "ANTAGONISTA". Nello stesso periodo otto componenti del centro sociale "Cantiere" di Milano vengono condannati per gli scontri scoppiati nel dicembre del 2010 durante una manifestazione in occasione della "prima" della Scala, mentre alcuni esponenti milanesi di Forza Italia subiscono delle intimidazioni subito dopo lo sgombero del "Soy Mendel". A rendersi protagonista, per anni, di scontri violentissimi, è il centro sociale di Torino "Askatasuna", che nell’ultimo biennio non ha cambiato abitudini. Sempre in prima linea nei cortei No-Tav, uno dei suoi militanti, nel dicembre scorso, finisce in carcere per aver violato i domiciliari ottenuti per gli scontri con la polizia in Val di Susa. Pochi mesi prima sette manifestanti legati alla sinistra antagonista No-Tav vengono identificati durante una protesta e fra essi ancora militanti di Askatasuna. Che di violenti ne sforna a iosa, tanto da subire arresti, fermi, indagini, condanne. Quando poi il leader della Lega Nord Matteo Salvini si reca a Macerata per una visita elettorale, gli appartenenti al centro sociale "Sisma" lo accolgono com’è loro tradizione. Lo scontro con la polizia è inevitabile. Il maggio 2015 è segnato dalle manifestazioni No-Expo alle quali partecipano i membri del "Mandragola". Bastoni in mano, passamontagna in testa e la devastazione di Milano è assicurata.
RABBIA "COLLETTIVA". Nell’agosto del 2015 la Digos di Bologna notifica un divieto di dimora per Gianmarco De Pieri, leader del centro sociale "Tpo", che nel corso degli scontri con le forze dell’ordine, avvenuti in seguito allo sgombero di una villa occupata, aveva aggredito un sostituto commissario e lanciato una grossa trave contro un agente. Poche settimane dopo cinque giovani di Askatasuna vengono raggiunti da misure cautelari per le violenze messe in atto durante un comizio di Salvini a Torino, mentre la procura di Bologna punterà i fari su15 appartenenti al centro sociale "Tpo", protagonisti di violenze scatenate durante la manifestazione degli "Indignati". Passa poco tempo e sono ancora i militanti di "Askatasuna" a mettere in atto scontri violentissimi nell’Università di Torino. Di sé fa parlare anche l’"Ex Opg Occupato-Je so pazzo" di Napoli (fra i movimenti antagonisti anti-Salvini dei giorni scorsi), che mesi fa ha portato in piazza i "suoi" per lanciare uova e pietre verso la Mostra d’Oltremare dove l’allora premier Matteo Renzi stava per recarsi. Gli stessi militanti si sono scontrati e pestati con quelli di CasaPound. Rissa violenta, anche quella scatenata, nell’aprile scorso, dai membri del centro sociale "Casa Madiba" di Rimini contro gli esponenti di Forza Nuova.
"MACCHIA" FURIOSA. E proteste rabbiose anche da parte degli appartenenti a "Insurgencia" di Napoli e dei membri di "Macchia Rossa" a Roma, che nel novembre scorso, armati di mazze, spranghe e bombe-carta, si sono scontrati con quelli di Forza Nuova. Nel gennaio tati condannati due appartenenti al centro sociale "Kavarna" di Cremona. A febbraio scorso, infine, i militanti del centro sociale "Zam" e "Cantiere" di Milano si sono azzuffati con la polizia all’esterno del Municipio 4, dove era in corso un incontro sul Giorno del ricordo delle Foibe. Stesso episodio, ma con protagonisti da una parte CasaPound e dall’altra militanti del centro sociale "Bruno", anche a Trento. Ancora una volta per infangare i morti delle Foibe.
Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più. (Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017). In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso. Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue. Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente. Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.
(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).
Il Sole24ore smentisce ItaliaOggi: Trieste nella top10 per qualità della vita. Dal 70esimo al sesto posto: una differenza enorme tra le due classifiche. Per Il Sole24ore il capoluogo giuliano è tra le migliori città d'Italia: anche qui però male in termini di sicurezza e criminalità, scrive Emanuele Esposito il 27 novembre 2017 su "Trieste Prima". Una differenza enorme, una classifica la pone al 70esimo posto, l'altra in sesta posizione. Questo il divario tra le classifiche della qualità della vita relative alle 110 province italiane pubblicate da ItaliaOggi e Il Sole 24 ore. Se ieri avevamo dato la notizia infausta della settantesima piazza, oggi il bicchiere è decisamente mezzo pieno. Infatti il quotidiano economico vede anche un miglioramento, dal 10° al 6° posto in classifica del capoluogo giuliano, prima provincia dell'ottimo Friuli Venezia Giulia (Gorizia 9, Udine 10 e Pordenone 13).
Le classifiche delle università? Sono “fake news”, scrive la Redazione ROARS il 10 giugno 2017. Le classifiche delle università? «Dal punto di vista delle scienze sociali sono spazzatura». A dichiararlo nel 2013 era stata Simon Marginson, intervistata da The Australian a proposito della classifica QS. La stessa classifica che il Corriere non esita a indicare come “la più importante a livello internazionale”, forse per compiacere il Rettore del Politecnico di Milano che primeggia tra gli atenei italiani. Un primato che non deriva da particolari meriti ma da un cambio delle regole, favorevole agli atenei tecnici, operato da QS nel 2015. Risultato? La Nanyang Technological University di Singapore, da 39-esima nel 2014 era salita fino al 13-esimo posto, sorpassando Yale, John Hopkins and Cornell. Su quell’onda, il Politecnico di Milano, 229-esimo nella classifica 2014, risalì magicamente al 189-esimo posto, mentre perdevano oltre 100 posizioni Pisa, Tor Vergata, Federico II di Napoli, Cattolica di Milano, Genova, Perugia e Bicocca. Clamoroso il caso di Siena che dal 2014 al 2015 si trovò ad arretrare di ben 220 (duecentoventi) posizioni in un anno. Il suo rettore Angelo Riccaboni, giusto un anno prima, aveva assicurato che «il ranking QS, redatto da Quacquarelli Symonds, è tra i più autorevoli al mondo». Più saggio il Rettore di Roma Tor Vergata: «È impossibile in ogni classifica anche sportive perdere centinaia di posizioni in pochi mesi se non cambiano gli indicatori». Una grande verità che viene troppo spesso rimossa quando si guadagna qualche manciata di posizioni e fa più comodo attribuirsene il merito. Oltre che per la volatilità dei criteri, la classifica QS è stata messa in discussione per il peso sproporzionato (50% del punteggio totale) che assegna a sondaggi reputazionali la cui aleatorietà e manipolabilità sono da sempre oggetto di discussione. Basta consultare Wikipedia per scoprire che furono proprio queste debolezze metodologiche ad indurre Times Higher Education a divorziare da QS (fino al 2009 esisteva un ranking THE-QS): The rankings of the world’s top universities that my magazine has been publishing for the past six years, and which have attracted enormous global attention, are not good enough. In fact, the surveys of reputation, which made up 40 percent of scores and which Times Higher Education until recently defended, had serious weaknesses. And it’s clear that our research measures favored the sciences over the humanities. Phil Baty (THE World University Rankings Editor): Ranking confession, Inside Higher Ed.
A titolo di cronaca, va detto che, nonostante i buoni propositi, nemmeno la classifica di THE ha mai brillato per scientificità. Basti pensare all’exploit di Alessandria di Egitto, collocata da THE davanti a Stanford e Harvard nella classifica 2010 dell’impatto citazionale. QS è anche nota per le spregiudicate pratiche commerciali: la vendita di consulenze alle università valutate e il suo “infamous star system“, che permette di pagare per veder comparire “stelle di qualità” accanto al nome dell’ateneo. “Valutazioni a pagamento per le università più piccole” (Ratings at a Price for Smaller Universities) aveva intitolato il New York Times. Inutile dire che non pochi atenei italiani pagano i servizi di QS. Se speravano che questo li aiutasse a salire nelle classifiche, il tonfo del 2015 dimostra che hanno fatto male i loro conti. Insomma, in termini di scientificità e imparzialità, le classifiche degli atenei godono di una reputazione immeritata. Poco male, penserà qualcuno: tra le tante “fake news” in circolazione le classifiche degli atenei non sono probabilmente tra le più dannose. In realtà, grazie alla loro pervasività mediatica contribuiscono a plasmare le agende dei governi perché ricacciano sullo sfondo tutti quegli obiettivi che non vengono contabilizzati nei ranking. Sono queste le considerazioni che Stephen Curry, Professore di Structural Biology all’Imperial College, London, ha riportato nell’articolo “University rankings are fake news. How do we fix them?” che ripubblichiamo di seguito per i nostri lettori.
Falsi servizi per Striscia. Mingo rinviato a giudizio, scrive il 28 Novembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il gup del Tribunale di Bari Annachiara Mastrorilli ha rinviato a giudizio Domenico De Pasquale (in arte Mingo) e Corinna Martino (amministratore unico della Mec Produzioni Srl di cui il marito Mingo era socio), per i reati di truffa, simulazione di reato, falso, calunnia e diffamazione. Stando all’ipotesi accusatoria, Mingo, ex inviato barese di Striscia la Notizia, avrebbe truffato Mediaset con la complicità di sua moglie, facendosi pagare 10 servizi relativi a fatti inventati e invece spacciati per veri, e facendosi anche rimborsare costi non dovuti per figuranti e attori. L’importo complessivo delle due truffe ipotizzate dalla magistratura barese ammonta a oltre 170 mila euro. Nel procedimento Mediaset si è costituita parte civile. La prima presunta truffa, quantificata in 21 mila euro (percepiti come compensi aggiuntivi rispetto al forfettario di 160 mila euro previsti dal contratto fra Mec e Mediaset) e relativa al periodo compreso fra dicembre 2012 e dicembre 2013, è contestata a De Pasquale e Martino e riguarda dieci servizi "risultati artefatti, simulando fatti, personaggi, circostanze e condizioni, frutto della fantasia degli indagati» secondo il pm Isabella Ginefra. Dal falso avvocato al falso agente interinale, dalla sedicente maga sudamericana capace di guarire malattie in cambio di denaro al falso assicuratore, al falso medico, al falso manager aziendale che assumeva giovani lavoratori in cambio di prestazioni sessuali: per la Procura di Bari si sarebbe trattato in tutti questi casi di attori ingaggiati per simulare eventi e in alcuni casi percosse in danno di Mingo e della troupe. La seconda truffa, dell’importo di 151 mila euro, è contestata alla sola Martino e fa riferimento a presunte false prestazioni lavorative di figuranti/attori rimborsate da Mediaset. Al termine dell’udienza preliminare il giudice ha prosciolto un’altra imputata, ritenuta la segretaria della società Mec, che era accusata di favoreggiamento. Il processo nei confronti di Mingo e sua moglie inizierà il 3 aprile 2018 dinanzi al Tribunale Monocratico di Bari. «Siamo certi che le ipotesi accusatorie saranno smentite nel corso del dibattimento». In una nota a firma del difensore Francesco Maria Colonna Venisti, gli imputati commentano la notizia del loro rinvio a giudizio. «Saranno contrastate efficacemente le notizie diffuse nel corso di questi mesi - prosegue la nota - che non sono riuscite ad infangare la reputazione di un professionista le cui qualità, non solo artistiche, ultra ventennali, non sono state mai discusse. Un professionista che continua a trovare apprezzamento e stima in Italia e all’estero. La fase delle indagini preliminari, e l’udienza preliminare stessa, non possono essere valutate con presunzione di colpevolezza e fungere così da gogna mediatica. Nel corso dell’udienza preliminare, attraverso la produzione di una copiosa memoria difensiva, documentata, e di una lunga discussione, sono state prospettate ricostruzioni diverse da quelle effettuate dalla pubblica accusa che troveranno il loro riscontro nel corso del dibattimento. Il confronto in aula - concludono - consentirà di citare tutti coloro che potranno attestare la correttezza dei comportamenti e delle persone».
La fabbrica delle notizie gonfiate: come nella Corea del Nord. (Marcello Veneziani, “La fabbrica delle notizie gonfiate”, da “Il Tempo” del 13 novembre 2017, articolo ripreso dal blog di Veneziani). Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne. Non ci sono in queste vicende né morti né stragi, deportazioni di popoli, violenze di massa, minacce alla sicurezza; sono fatti di cronaca che avrebbero meritato un titolo sui giornali ma non il lutto nazionale e l’allarme generale. Ma servono tutti per tenere vivo e dominante il Grande Racconto Ideologico, per alimentare la religione del politically correct. Dove i fatti spariscono e restano le “narrazioni” che aspirano a dimostrare una sola cosa: mafia, fascismo, razzismo, fanatismo, violenza anche sportiva, sono la stessa cosa. A nulla vale obbiettare che “il testa” è un sinti e non un fascio italiano, che simpatizzava per Grillo e magari pure per il Pd, e comunque è irrilevante la sua opinione politica, ha reagito violentemente perché non voleva la troupe addosso e non per motivazione “politica”. E a nulla vale aggiungere che Ostia è come un migliaio di comuni italiani sotto attacco o infiltrazione della malavita, tra mafia, camorra, ‘ndrangheta, simili e derivati. Nel resto dei comuni non comandano i puffi, sono ben inseriti i ladri comuni, i corrotti comuni, i comitati d’affari di ogni giorno. Ma a Ostia si vota, CasaPound ha preso un sacco di voti, è in gara un candidato di destra; ergo la vigilanza democratica e antifascista deve raggiungere il massimo grado di attenzione. E a proposito di mafia & fascismo a nulla vale ricordare per la verità storica che l’unico momento in cui la mafia fu cacciata dall’Italia e poi tornò nel ’43 con gli americani fu – ma guarda un po’ – durante il fascismo. Ora mi chiedo: ma che messaggio diamo ai cittadini, ai lettori, agli ascoltatori se i fatti principali sono questi e servono tutti a una pedagogia ideologica di massa? Poi vi lamentate delle fake news, ma è già la fabbrica delle notizie gonfiate e manipolate a drogare i fatti per veicolare l’opinione pubblica e distorcere la realtà. In uno stupro il colpevole dovrebbe essere lo stupratore, quindi in seconda battuta è complice la leggerezza delle ragazze che si sballano e si accompagnano a gente così. Invece per i media il colpevole è il prete che ha usato un linguaggio troppo aspro per dire una cosa sensata e vera. Ma la verità non esiste nel panorama balengo della disinformazione di massa. Se la prendono coi titoli urlati di “Libero” ma la realtà, la verità, la priorità delle notizie è stuprata ogni giorno anche dall’informazione di Stato. I nostri notiziari sembrano la versione occidentale di quelli coreani. Solo che da noi la dittatura non è nelle mani di Kim ma del politically correct. E giù censure a chi non la pensa così. Poi vi lamentate se la gente trova un alibi per disertare l’informazione, per non comprare i giornali, per barricarsi con le cuffie e i telefonini nella propria egoistica privacy. (Marcello Veneziani, “La fabbrica delle notizie gonfiate”, da “Il Tempo” del 13 novembre 2017, articolo ripreso dal blog di Veneziani).
Quando vengono colpiti esponenti della maggioranza scatta la richiesta di una legge che blocchi le «storie false». In realtà basta applicare le norme attuali, senza pensare a provvedimenti liberticidi, scrive su "Libero Quotidiano" Filippo Facci il 28 Novembre 2017. Facciamo un esempio serio e uno meno serio. Il primo: ieri Repubblica titolava in apertura di prima pagina: «Una legge contro le fake news». Sottotitolo: «Renzi: M5S e Lega, vi abbiamo sgamati». Qualsiasi persona normale capisce che il governo sta facendo una legge sulle fake news e che c’è lo zampino di Renzi. Invece basta voltare pagina e la notizia diventa «Fake news, legge del Pd» (titolo) e si legge che Renzi ha detto: «Non pensiamo a nuove leggi, figuriamoci» e che semmai sta valutando di pubblicare un report quindicinale sulle schifezze in rete. Quindi domanda - quella di Repubblica è una fake news? Risposta: sì e no, dipende, anche perché nello stesso articolo, effettivamente, si parla anche di una legge sulle fake news che altri piddini stanno preparando. Insomma, è anche una questione di opinioni, roba che non si può incasellare banalmente in fake news sì/fake news no, perché significherebbe sindacare il modo personale di interpretare la realtà, e, in questo caso, di interpretare un articolo di giornale. Per casi più gravi o manifesti, in compenso, in Italia la legge punisce già chi pubblichi il falso o il diffamatorio o il manifestamente ingannevole. Di che stiamo parlando, allora? Non lo si capisce neanche dal secondo esempio, quello meno serio: c’è una frase di ieri tratta del blog di Grillo, l’inchiesta sulle fake news è una bufala», che in concreto significa che «l’inchiesta sulle fake news è una fake news», il che trasforma in potenziale fake news anche il contraddirla come fa l’articolo che state leggendo (questo) in cui sosteniamo che la frase del blog di Grillo, «l’inchiesta sulle fake news è una fake news», in pratica è una fake news. Nota: non stiamo facendo gli spiritosi. Per complicare un po’ le cose, ieri, il presidente del Pd Matteo Orfini ha detto che, sul tema, ignora se lo strumento più adeguato sia una legge: però, poi, ne è spuntata subito una chiamata Disegno Zanda-Filippin, anche se non è stata ancora depositata. La norma parla di «delitti contro la Repubblica» e si rivolge principalmente ai social network affinché raccolgano reclami sulle «fake news» e decidano entro 24 ore (o una settimana, nei casi più controversi) se rimuovere uno scritto e «bloccare» l’autore. Se impropriamente non lo faranno, le sanzioni varieranno da mezzo milione a cinque milioni di euro. Le rimozioni potranno essere chieste anche da un pubblico ministero. Una struttura come Facebook, per dire, secondo questa legge dovrebbe vagliare i contenuti di due miliardi di persone, ogni santo giorno, quindi soppesarli, valutarli, ergo decidere entro poche ore ciò che un processo per falso o diffamazione impiega qualche anno a sentenziare, almeno da noi. Limitiamoci a dire questo: per una parte dei contenuti, che si limitano a riprendere articoli o video già pubblicati, la legge esiste già, ed è appunto quella che punisce la diffamazione o il falso a mezzo stampa; per tutti gli altri contenuti, pubblicati da privati, il sistema di vigilanza dei social network non potrebbe che essere - moltiplicato - quello che in parte esiste già: un algoritmo-filtro che blocchi automaticamente testi e immagini basandosi su parole o icone chiave. Ciò che oggi, per dire, già blocca quasi simultaneamente ogni titolo di post privato che contenga la parola «Boldrini» oppure ogni immagine di nudo che appartenesse a notissime opere d’arte. Allo scrittore di questo articolo o ad altri colleghi - che pure sono professionisti dello scrivere - è capitato spesso, come pure non c’è singolo articolo su argomenti nevralgici che non trovi un balordo disposto a denunciare una «fake news» e che, in generale, veda fake news dappertutto. I social sarebbero sommersi dai reclami di milioni di rompicoglioni giustizieri, neo leoni da tastiera. Insomma, il rischio che dall’anarchia della rete si passi a un liberticidio non è fantascienza, anche se certo lo scenario è cambiato e i vecchi strumenti legislativi probabilmente non bastano più, o intervengono quando l’effetto o il danno di ogni fake news è sortito. Se, com’è successo, circola una foto che ritrae Maria Elena Boschi e Laura Boldrini al funerale di Totò Riina, chiaramente un falso, c’è da capire se sia stata una fake news professionale, una satira anonima o solo il cretinismo di un grillino - com’era vero - che però non apparteneva strettamente al Partito. Se ci sono dei siti che danneggiano o promuovono forze politiche pubblicando dei falsi smaccati, pure, c’è da capire il ruolo delle forze politiche in tutto questo. La magistratura ce l’abbiamo, una legge aggiornata no: ma certamente non sembra quella che il Pd ha abborracciato in questi giorni. Così assurda che, se fosse una fake news, per una volta non dispiacerebbe.
Fake news, le principali sono quelle istituzionali, scrive Riccardo Ruggeri, il 28 Novembre 2017 sul blog di Nicola Porro. “Pd: pronta una legge anti fake news”. Mi sfugge perché l’establishment voglia fare una legge anti fake news. Un cittadino comune non crede certamente ad alcune delle balle che ci sono sulla rete, sono talmente eccessive da apparire ridicole, anche a una prima lettura. La storia insegna che dalla notte dei tempi le principali fake news sono quelle istituzionali, ma da sempre non vengono considerate tali dai potenti. Dal mazzo ne estraggo cinque storiche (poi hanno figliato in modo impressionante):
1 Le armi di distruzione di massa di Saddam; 2 Il processo comunicazionale di Obama, Sarkozy, Cameron (e relative consorti) per arrivare all’assassinio di Gheddafi e al disastro che ne è seguito; 3 L’ente Onu IPCC con i dati sul clima manipolati; 4 Motivazioni dei premi Nobel a Al Gore e a Obama; 5 Presunto esodo biblico dall’Africa di 100 milioni di neri, una balla talmente colossale che per fortuna si è subito sgonfiata quando, con 3 mld di euro dati da Merkel a Erdogan, l’esodo biblico in un paio di settimane si è bloccato in Turchia.
2 “Will done girls”. Per questo “Ben fatto, ragazze”, il professor Sutcliffe, docente nell’Oxfordshire, è stato sospeso perché si è dimenticato di contare fino a 10 prima di tacere, come previsto dai protocolli del mondo politicamente corretto. Pur sapendo che fra le allieve c’era una affetta da disforia di genere (lei si percepiva maschio) ha usato questa frase. Le immediate scuse, appena gli hanno fatto notare la scivolata, non sono bastate. Out.
3 “Al Black Friday, il Piemonte risponde con il Bagna Cauda Day 2017“. È stato festeggiato in tutto il mondo, cito solo Mara e Rocco che, lasciata Cavour, si sono trasferiti a Tonga e Helene Solomom e suo marito Bill Stein che nella loro grande villa di Boston hanno chiamato il celebre cuoco (Chef sarebbe offensivo) Matteo Morra di Barolo a prepararla e Sonia Speroni per l’abbinamento con i vini.
4 “Scientific articles pubblished, 2016”. Questo dato numerico, non avrà un valore assoluto, perché i contenuti possono fare la differenza, pensiamo solo che l’articolo sulla “teoria dei giochi” secondo questa classifica sarebbe valso 1, però è un indicatore. Al vertice, in solitudine, troviamo a 25.000 articoli gli Stati Uniti, Cina 10.000, Germania e UK 9.000, Francia e Giappone 5.000, a 3.000 Italia, Spagna, Canada, Svizzera, Australia, Olanda. Alcune curiosità: rispetto agli abitanti la Svizzera sarebbe la prima, l’Europa unita sarebbe il leader mondiale, gli scandinavi, decaduti, non entrano neppure in classifica.
5 “Volkswagen: Maggiolino elettrico a trazione posteriore”. L’articolo più intelligente e ironico, sulle auto tedesche, sulle elettriche, su Tesla, lo trovate sul Blog di Francesco Paternò “Carblogger.it”. Gli dedico lo spazio che avevo riservato al dibattito alla Leopolda: non c’è stato, erano tutti d’accordo.
1 L’ultima generazione del Maggiolino non va granché, tanto che si sussurra di un fine carriera.
2 Ecco allora un Maggiolino elettrico a trazione posteriore (per molti di noi la trazione mito) che verrà affiancato da un Minibus a batteria (il Bulli) entro il 2022.
3 Maggiolino e Bulli alla nascita (1938) hanno avuto un padre prestigioso: Adolf Hitler. Copiò Benito Mussolini, noto come il padre della Topolino (nel 1930 convocò Agnelli, gli impose le specifiche dell’auto e un target prezzo di 5.000 lire: un successo planetario). Furono i primi markettari passati dall’auto alla politica.
4 Maggiolino e Bulli saranno amate alla follia dai californiani hippies. L’importatore per motivare la rete di vendita disse: “Ragazzi, dobbiamo vendere auto naziste in una città di ebrei”. Ci riuscirono. Riccardo Ruggeri, 28 Novembre 2017
Così Dante spiegava le «fake news». Già Dante rimproverava agli italiani il vizio di rincorrere le lingue degli altri: a quel tempo il francese, scrive il 27 novembre 2017 Paolo Di Stefano su "Il Corriere della Sera". Si parla di «fake news» e si potrebbe parlare più semplicemente di «notizie false» o di «bufale». Già Dante rimproverava agli italiani il vizio di rincorrere le lingue degli altri: a quel tempo il francese. Nel Convivio innalzò una delle sue invettive «a perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano». Ciò accadeva, secondo l’Alighieri, per cinque «abominevoli cagioni».
1. La «cechità di discrezione», ovvero l’incapacità di distinguere;
2. la «maliziata escusatione» di chi si ritiene maestro e aggira la propria ignoranza adducendo scuse ingannevoli;
3. la «cupidità di vanagloria» di coloro che, sapendo parlare la lingua straniera, la lodano per essere più ammirati; 4. l’«argomento di invidia» di quelli che, essendo incapaci di usare il proprio volgare, lo disprezzano per infangare chi lo possiede;
5. la «pusillanimità», ovvero la viltà d’animo di quelli che snobbano le cose domestiche per esaltare quelle degli altri.
Lascio al lettore il giudizio su quante di queste «abominevoli cagioni» siano ancora ben vive nell’antropologia italiana anche al di là della questione linguistica. Ma insomma, Renzi e Di Maio preferiscono parlare di «fake news» e raramente di «bufala», parola italianissima, efficacemente utilizzata nell’accezione metaforica della panzana: «menata per il naso come una bufala», come mostra il linguista Massimo Arcangeli, compare già in una commedia secentesca. Dante avverte che se qualcosa di vile ha la lingua italiana è il dover risuonare sulla «bocca meretrice» degli «adulteri» che la odiano. Mica male. Tornando al punto 1, l’Alighieri vide ben prima di noi non solo le «fake news» ma il conformismo e la mancanza di spirito critico di tanti ciechi privi del «lume de la discrezione»: sono coloro che si lasciano attrarre dal primo «gridatore» di passaggio, non importa se cieco a sua volta o «mentitore». Il quale urlando raccoglierà eserciti di «pecore». Perché, aggiunge Dante, «questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché, se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro…». E se una pecora salta, le altre saltano pur in assenza di ostacoli da saltare: «E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò». Ne sappiamo qualcosa. Passati sette secoli, siamo sempre lì.
"La storia è fatta di fake. Dalla mano di Scevola alle bugie dei sovietici". Il giornalista: "Manipolazioni sempre esistite e la sinistra ne ha abusato. Una legge? Follia", scrive Matteo Sacchi, Martedì 28/11/2017, su "Il Giornale". Il dibattito politico di questi giorni diventa al calor bianco quando si parla di fake news: il Pd vorrebbe addirittura far approvare una legge in materia. Però le fake news sono tutt'altro che una novità, come spiega a il Giornale Lorenzo Del Boca da poco in libreria con un volume che fa le pulci alle molte false notizie che hanno costellato la storia italiana (Il maledetto libro di Storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere, Piemme).
Del Boca, le fake news sono un fenomeno antico o moderno?
«Esistono dalla notte dei tempi, la Storia ne è piena, solo che una volta le chiamavamo balle. Sono, spesso, generate dal potere che può usarle o per vezzeggiarsi o per difendersi. Faccio un esempio: Tito Livio ci descrive un Muzio Scevola che mette una mano su un braciere ardente senza fare una piega... Ovviamente è una cosa senza senso, è solo il modo di glorificare la forza di Roma. Altre volte invece la falsa notizia è funzionale a uno scopo immediato. Amplificare l'irredentismo lo era, altro esempio, all'entrare nella Prima guerra mondiale. Esistono poi fake news che si basano sostanzialmente sull'omissione. Come quando Togliatti impose al partito di silenziare i crimini di Stalin anche se Kruscev li stava rendendo pubblici...».
Ma ha senso immaginare una legge contro le fake news come stanno facendo alcuni esponenti del Pd?
«L'idea di una legge mi fa morire dal ridere. Si creano fake news sul pericolo delle fake news e il potere le usa per mantenere se stesso. Una volta fatta la legge, poi, chi controllerà i controllori? E poi ragioniamo, ma davvero non esistono in questo Paese problemi più gravi? Si suicidano per debiti due persone al giorno e noi ci preoccupiamo di notizie inquinate e ius soli? Davvero non c'è altro su cui legiferare? O come al solito è una legge che serve a distrarre?».
Del resto leggendo il suo libro si capisce che quanto a fake news la sinistra italiana non ha affatto la coscienza pulita...
«Tutta la storia del comunismo sovietico ha prosperato su notizie false. Il Pci sposò in pieno la metodica e la mise in pratica nel caso dell'invasione dell'Ungheria nel 1956 e poi dell'invasione della Cecoslovacchia. Come dicevo prima, Togliatti con Stalin la applicò alla perfezione... Il Pd a sua volta l'ha applicata quando gli è servito».
Resta il fatto che il Movimento 5 stelle con una serie bufale figlie della rete, dall'antivaccinismo alle scie chimiche flirta...
«Il Movimento di Grillo è nato in rapporto strettissimo con la Rete partendo dall'assioma che le nuove tecnologie fossero una panacea. E ora paga il prezzo di quella scelta. La Rete è piena di fake news, e ovviamente distinguere il vero dal verosimile è difficile».
Soluzioni?
«Alla fine era più difficile smascherare una fake news pubblicata da un giornale dei primi del '900, per come la vedo io. Ora la Rete consente molteplici controlli. Però bisogna essere disposti a farli. Un campanello d'allarme è sempre la notizia troppo netta, troppo bianca o nera. Se poi non vuol fermarsi a ragionare sul fatto che in 5mila anni certe malattie ci hanno massacrato e da quando esistono i vaccini invece no...».
Ma quali sono le fake news più pericolose?
«Quelle economiche. Sono difficili da individuare. Ce ne furono al tempo dello scandalo della Banca di Roma e ce ne sono state nei recenti scandali bancari. Ci sono un sacco di similitudini, dalle omissioni di informazione agli strani suicidi su cui è difficile sapere la verità».
Le peggiori fake news della storia italiana?
«Quelle usate per portarci in guerra, come l'irredentismo. Le faccio solo un esempio: il Ce lo chiede l'Europa inizia quando c'era ancora il regno di Sardegna. Lo usò Cavour per trascinarci nella Guerra di Crimea. Una guerra lontanissima e senza senso per noi. Solo per poter presenziare al congresso delle potenze europee, nel 1856, e dichiararci oppressi. Tutto per un ruolo di terza fila come quelli recitati oggi da Gentiloni o Renzi. Era ed è sudditanza allo straniero, nient'altro».
Fake news: cinquecento anni fa si scoprì la più grande bugia storica. Nel 1517 veniva dato alle stampe il testo che smascherava la Donazione di Costantino. Da Napoleone ucciso dai cosacchi ai Savi di Sion, la lunga tradizione dei falsi storici, scrive Gian Antonio Stella il 28 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Non c’è gara: la bufala più grande di tutti i tempi, per quanto si sforzino i russi e tutti gli altri fabbricanti di menzogne stranieri e nostrani, è già stata pubblicata. Tredici secoli fa. E cambiò la storia del mondo. Finché non sbucò fuori Lorenzo Valla che nel 1440, mettendo a frutto gli studi di filologia e di retorica ma più ancora esercitando lo spirito di uomo libero, scrisse Il Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino. Il documento, scrive Carlo Ginzburg, aveva avuto una «circolazione larghissima» per tutto il Medioevo. E «certificava che l’imperatore Costantino, in segno di gratitudine verso papa Silvestro che lo aveva guarito miracolosamente dalla lebbra, si era convertito al cristianesimo, donando alla Chiesa di Roma un terzo dell’impero». In realtà, continua lo storico, è opinione oggi condivisa «che il constitutum sia stato redatto verso la metà del secolo VIII per fornire una base pseudo-legale alle pretese papali al potere temporale», ma per molto tempo la donazione «non venne assolutamente messa in dubbio». Nemmeno da Dante, convinto che quel potere temporale avesse gettato le premesse della corruzione della Chiesa: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre». Certo è che quando Valla provò in modo inequivocabile e con parole aspre l’impossibilità che il testo fosse autentico («si può parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando ancora non era né patriarcale né una sede né una città cristiana né si chiamava così, né era stata fondata, né la sua fondazione era stata decisa?»), questa prova del falso, per quanto preceduta da opinioni simili come quella del filosofo Nicolò Cusano, sollevò uno scandalo. Sopito per decenni dalla difficoltà con cui circolavano venticinque manoscritti. Ma esploso quando il tedesco Ulrich von Hutten, nella scia di Lutero e delle tesi affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg, riprese il testo e decise di stamparlo. Era il 1517: esattamente mezzo millennio fa. Eppure, come ricorda Luciano Canfora nel suo La storia falsa, la donazione di Costantino non è la bufala più antica. Ben prima, infatti, sarebbe falsa una lettera attribuita a Pausania, nella quale l’allora potentissimo «reggente» spartano avrebbe scritto a Serse, il re dei Persiani appena sconfitto: «Ti restituisco questi prigionieri catturati in battaglia volendoti fare cosa gradita e ti propongo, se piace anche a te, di sposare tua figlia e di sottomettere al tuo potere Sparta e tutta la Grecia. Ritengo di essere in grado di realizzare questo piano se mi metto d’accordo con te. Se dunque qualcosa di questa proposta ti piace, manda qualcuno fidato con cui possa proseguire la trattativa». Un’offerta di tradimento da prender con le pinze, scrive Erodoto («Sempre che sia vero ciò che si dice…»), ma che Pausania pagò cara: condannato a morte, si rifugiò in un tempio dove non potevano toccarlo. E lì, senza toccarlo, lo murarono vivo. A morire di fame e di sete. Per un messaggio probabilmente falso scritto da altri. La lettera del resto, insiste Canfora, «è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza». E racconta di «una lettera di Cicerone che descrive, con accenti quasi trionfali, come egli avesse smascherato, per semplice analisi “interna”, un dispaccio giunto in Senato mentre si era in seduta, e falsamente attribuito a Bruto, il cesaricida, allora impegnato a organizzare le forze repubblicane in Oriente». Per non dire della misteriosissima missiva che nel 1165, secondo il cronista Alberico delle Tre Fontane, arrivò a papa Alessandro III, all’imperatore bizantino Manuele I Comneno e a Federico Barbarossa da «Gianni il Presbitero, per la grazia di Dio e la potenza di nostro Signore Gesù Cristo, re dei re e sovrano dei sovrani». Il quale si offriva di mettere le sue ricchezze e i suoi eserciti a disposizione per muover guerra agli islamici e difendere la Terra Santa. Era il mitico «Prete Gianni», inventato a quanto pare da un monaco tedesco, ma destinato a diventare una leggenda e spasmodicamente atteso per decenni e decenni…E come dimenticare la clamorosa notizia arrivata a Londra il 21 febbraio 1814? La portò, fingendo d’esser appena sbarcato a Dover, uno spossato «ufficiale» in divisa rossa: «Napoleone è stato ucciso dai cosacchi! L’hanno fatto a pezzi. Letteralmente». La Borsa schizzò all’insù. E poi più su, su, su… Finché scoppiò il panico: era tutto falso! L’inchiesta puntò diritto su Thomas Cochrane, ammiraglio, politico, finanziere: arrestato, condannato, degradato per aggiotaggio. E destinato a fornire lo spunto ad Alexandre Dumas per una delle vendette del conte di Montecristo. Ancora più sensazionale, per la sua diffusione, fu la news sparata dai principali giornali del mondo il 23 maggio 1871: i difensori della Comune di Parigi, e più precisamente le pétroleuses, le donne incendiarie, avevano «incenerito il Louvre». L’eco fu enorme: ecco cosa sono i comunardi! Barbari! Friedrich Nietzsche e Jacob Burckhardt, racconta lo storico Manfred Posani Loewenstein che sta lavorando al tema per farne un libro, «si incontrano e piangono insieme l’“autunno della civiltà”» e «in Italia, mentre in Parlamento si discute dei fatti di Parigi e un deputato ricorda che “una parte del suo patrimonio artistico (…) forse in questo momento è rovinata sotto le bombe a petrolio degli odiatori dell’umanità”, un articolo della “Gazzetta dell’università” (un giornale studentesco pisano) cerca di giustificare le ragioni degli incendiari». Il cattolico «Lo Trovatore» va oltre. E «celebra nella distruzione del Louvre una punizione divina per le conquiste (e i saccheggi) dell’era napoleonica». Troppo ghiotta, la notizia, per non sfruttarla. Al punto che, perfino dopo la smentita ufficiale (già il 24 maggio sui giornali inglesi), c’è chi insiste: «Ci sono quotidiani che riportano la falsa notizia ancora il 13 giugno, come l’italiano (e ultracattolico) “La frusta”, altri che mettono in discussione le smentite»…Un classico, il rifiuto delle smentite. Che si ripeterà ad esempio coi Protocolli dei Savi di Sion. Sono passati 97 anni dall’inchiesta del «Times» del 1921 che dimostrò come il fantomatico piano segreto ordito dagli ebrei nel cimitero di Praga per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo fosse un documento falso frutto di diverse scopiazzature e «prodotto» nel 1903 del Novecento dall’Okhrana, la polizia segreta zarista. Eppure ancora oggi, ricordava Umberto Eco, «il parere dominante è sempre quello dell’antisemita britannica Nesta Webster: “Sarà un falso, ma è un libro che dice esattamente ciò che gli ebrei pensano, quindi è vero”». I risultati sono noti: i lager, le camere a gas, la Shoah…E Orson Welles? La cronaca in diretta dello sbarco dei marziani sul suolo americano trasmessa il 30 ottobre 1938 dalla rete radiofonica Cbs resterà memorabile. Sembrò così «vera» che non solo il giorno dopo era su tutte le prime pagine, ma che un’ascoltatrice fece causa al geniale conduttore per aver fatto avere uno choc.
Più spiritosa era stata due anni prima la reazione di Stalin all’Associated Press che chiedeva conferme alla notizia che fosse morto: «Egregio signore, per quel che mi risulta dalle notizie della stampa estera, io ho già da tempo lasciato questa valle di lacrime (…). Poiché alle notizie della stampa estera non si può non accordare fiducia, a meno che non si voglia venir cancellati dal novero delle persone civili, La prego di credere a queste notizie e di non violare la mia pace nel silenzio dell’aldilà. Con stima I. Stalin».
"Da Moro al terrorismo Quante fake news negli intrighi politici". L'ex ministro dell'Interno Scotti: "Spesso la disinformatia è gestita da uomini di Stato", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 29/11/2017, su "Il Giornale". Le fake news come strumento di lotta politica. «Ci sono sempre state - attacca Enzo Scotti - anzi noto una certa analogia fra quello che capita oggi e quanto successe ai tempi del sequestro Moro. Certo quello fu un passaggio drammatico senza paragoni, ma allora come oggi c'era chi voleva intorbidare le acque. È la disinformatia, tecnica collaudatissima. E antichissima». Scotti sorride: a 84 anni l'ex ministro dell'Interno e sindaco di Napoli è presidente della Link Campus University. Ma quel che avviene nell'arena del potere è sempre il suo pane quotidiano. Come nel 1978. «Ero da pochi giorni ministro del Lavoro nel governo Andreotti. Qualcuno mise in giro la storia che Moro era tenuto prigioniero a Gradoli. La notizia era falsa ma era anche vera perché in realtà le Brigate rosse avevano un covo importantissimo in via Gradoli a Roma. In ogni caso quella voce era verosimile, credibile per un'opinione pubblica ipnotizzata e frastornata, incapace in quella fase di avanzare obiezioni critiche». Quel che colpisce è che quel nome, Gradoli, spuntò ufficialmente al termine di una seduta spiritica cui prese parte, nientemeno, Romano Prodi. «Sembra impossibile, ma quella spiegazione fu presa per buona nel clima di esasperazione e disperazione che attanagliava il Paese. Non solo - aggiunge Scotti che fu titolare del Viminale nei primi mesi cruciali del '92 - quella trama fini con il sovrapporsi ad un'altra macchinazione, quella che portò al falso comunicato numero 7 delle Brigate rosse e alla convinzione che il corpo di Moro fosse nel lago della Duchessa». Alla fine, le due storie si risolsero lo stesso giorno, il 18 aprile. Dopo ricerche estenuanti ed errori di ogni genere, le forze di polizia entrarono nel covo di via Gradoli negli stessi momenti in cui i sub si immergevano inutilmente sotto la superficie ghiacciata del lago. Difficile raccapezzarsi. «Io ero ministro del Lavoro, osservavo con sgomento quel che succedeva, era difficile tenere la rotta e non perdere i punti di riferimento in quel continuo alternarsi di indiscrezioni. Nebbia, nebbia, ancora nebbia: soggetti diversi conducevano quel gioco che poteva avere contemporaneamente più obiettivi». D'accordo, chi poteva avere interesse a confondere le carte, ma anche a far arrivare singoli messaggi a diversi destinatari? Scotti si fa prudente: «Non si può parlare di disinformatia di Stato, ma si può sostenere che in quel vespaio abbiano messo le mani uomini dello Stato». Distinzioni sottili. Ragionamenti complessi su crinali scivolosissimi. «Si può pensare - riprende il navigatissimo leader, fra i big della Dc - che il piattino di Prodi sia servito per nascondere una fonte ben accreditata ai confini della galassia terroristica, ma si può anche ipotizzare che qualcuno abbia manovrato per non far arrivare subito la mano delle istituzioni al cuore delle Br. Ancora si può sostenere che il depistaggio della Duchessa sia servito prima per testare le reazioni della gente all'eventuale morte di Moro, poi per rilanciare un filo di speranza nel Paese». Mistero. Fumo. Visioni. Sempre in bilico, come in molte storie italiane, fra banalità e dietrologia. «L'operazione Gradoli e quella della Duchessa - sostiene un brigatista di rango come Alberto Franceschini - vanno tenute insieme. E sono un messaggio ai terroristi: vi abbiamo in pugno». Chissà. Scotti non si pronuncia: «Ormai quella è storia. Le diverse interpretazioni coesistono. Noto - è la conclusione non proprio ottimistica - che anche oggi i pozzi sono avvelenati e nessuna legge può purificare le fonti inquinate. Ci vorrebbe la buona politica». Ma a 84 anni è arduo coltivare illusioni.
Le Fake News e la Pravda, scrive il 27 novembre 2017 "Il Giornale". La Repubblica di oggi annuncia trionfante la prossima nuova legge sulla Fake News. Non ci sarebbe che da felicitarsi per la realizzazione di una norma riguardante il selvaggio web, luogo in cui dilaga la diffamazione e la violenza verbale grazie all’anonimato e all’immunità garantita. Però, a questa giusta opera di legiferare sull’odio via etere, si affianca un’opera di contrasto alle notizie false, le cosiddette Fake News, le cui finalità restano dubbie. Anzi pare siano proprio queste ultime il punto cruciale della questione. I media spiegano che l’esigenza di avere una regolamentazione di internet nasce proprio dalla necessità di porre un freno a tali Fake news. Un’esigenza, spiegano tanti analisti, nata dopo la vittoria della Brexit, di Trump e in parte dalla vittoria del No al referendum italiano sulla riforma costituzionale. Quindi la legge ha una valenza politica molto stretta. Insomma, l’odio dilagante sul web non aveva mosso i fautori della “legislazione eterea”, mentre si muovono in conseguenza a inattesi rovesci politici. Detto questo, imputare alle Fake News tali rovesci appare alquanto offensivo per l’intelligenza dei cittadini, che hanno attinto dal web Fake dell’una e dell’altra parte. Ma più offensivo ancora per l’intelligenza dei cittadini è il quadro che va delineandosi, dove non si capisce chi garantisca che una notizia sia una Fake o meno. Un esempio su tutti: i media che oggi tuonano contro le Fake sono gli stessi che hanno propalato la balla dell’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Una balla che ha causato milioni di morti ammazzati. Nessun direttore di giornale si è dimesso dopo che è stata scoperta l’infondatezza dell’accusa. E nessun giornalista. Nessuno ha chiesto scusa o si è mortificato per le nefandezze di allora. Anzi tanti di loro oggi pontificano, dai loro scranni più o meno nuovi, sulla necessità di arginare le Fake news.
Altra considerazione: se allora qualcuno avesse messo in dubbio la notizia delle armi di distruzione di massa (come ho fatto io nel mio piccolo), sarebbe stato bollato come produttore di Fake News. E come tale censurato e sanzionato. Una cosa che può ripetersi, oggi come allora. Oggi che l’informazione vive di Fake News, di narrazioni più o meno congeniali a gruppi di potere, essere voce discorde è a rischio. Si pensi alla narrazione sulla Siria. Tutti i media mainstream hanno cantato la ballata della primavera araba. La “guerra civile” siriana nasce come repressione della rivolta dei cittadini siriani da parte del regime dittatoriale di Assad, che ha massacrato il suo popolo. Da qui la ballata, dove eroi della libertà hanno combattuto, con l’aiuto dell’Occidente, contro un regime sanguinario. Una ballata distonica con quanto abbiamo riportato sul nostro sito, riprendendo anche le osservazioni di tutti i patriarchi e vescovi siriani. Testimoni oculari del massacro quotidiano, essi hanno invece parlato di una “guerra incivile”, stante che i siriani armati contro Damasco erano davvero pochi rispetto alla legione straniera arruolata in tutto il mondo da sauditi e Occidente per essere scatenata in Siria. Una guerra nata per guadagnare ai nemici regionali e internazionali di Assad il regime-change, come fu per Saddam. Testimoni che hanno anche spiegato che c’è una indistinzione di fondo tra la cosiddetta opposizione moderata e le bande armate dichiaratamente terroriste. La voce dei patriarchi e vescovi siriani sarebbe stata quindi classificata tra le Fake News. E se non la loro, sicuramente altre meno autorevoli che, attingendo a fonti diverse da quelle mainstream, hanno spiegato la “guerra incivile” siriana in altro modo rispetto alla ballata dominante. Da notare anche l’altra trovata: chi sarà a decidere in maniera insindacabile chi ha prodotto Fake? Le aziende Facebook e Twitter che dovranno rimuovere tali notizie, pena sanzioni salatissime: da mezzo a cinque milioni di euro.
Insomma, lo Stato demanda a un privato il giudizio e la sanzione, proprie della sua potestà. Un privato deciderà quindi le sorti dell’informazione, pilastro fondante della democrazia. Si tratta di un mostro giuridico. In base a tale riforma, di quel che scriveremo sul nostro sito non dovremo rispondere ai lettori o, eventualmente, ai magistrati, ma a un privato. Che ha i suoi interessi privati. Per inciso, e per assurdo, da alcuni mesi circola la notizia che alle prossime elezioni presidenziali si presenterà mister Facebook, ovvero Mark Elliot Zuckerberg. Nel caso avvenisse, sarebbe lui (per interposta persona, stante che si dimetterebbe dalla carica) a vigilare su come verrà descritta la corsa alla Casa Bianca, competizione dove in genere abbondano le Fake incrociate…Un esempio di libera informazione notevole. Detto questo, al di là dell’allucinante e ancora aleatorio scenario Zuckerberg, è assurdo immaginare la privatizzazione del monitoraggio informativo e l’instaurazione di una pubblica censura. Un servizio peraltro che sarà attivato per delazione. Infatti a indicare le possibili Fake saranno (anche) gli utenti di Facebook e Twitter. Alimentare la delazione è proprio dei meccanismi totalitari, come da spiegazione di diversi storici.
Detto questo, il giudizio insindacabile resterà a un team di esperti di Facebook o Twitter. Esperti di cosa? Il fatto poi che tali esperti, nel caso fallissero, provocherebbero danni patrimoniali all’azienda, sarà un ulteriore incentivo a usare la mannaia. Perché infatti rischiare? Insomma, chi scrive è più che perplesso sulla bontà della legge e sulla sua applicazione. Ma il mondo va in questa direzione. Va cioè verso la sovietizzazione dell’informazione. Non è un’accusa o un allarme, semplicemente una banale constatazione. Se esiste un’informazione consegnata alle Fake esiste, necessariamente e di converso, un’informazione che produce Verità. Come l’organo ufficiale dell’Unione sovietica, che si chiamava appunto Pravda, ovvero Verità. Questo il bollino che avrà tutta la stampa mainstream, che appunto è, e sarà, depositaria della Verità. Altri organi di informazioni, quelli che sono nati e vivono nel web, non solo per esigenze di modernità, ma anche perché non hanno i soldi per produrre giornali cartacei o per creare una redazione, saranno monitorati. E, nel caso non rispettassero i criteri dettati dalla Pravda, censurati.
Gli apparati di regime e l'argomento "bufale": "Non sottovalutiamo la portata di questo attacco", scrive Mauro Gemma, Direttore di Marx 21, su “L’Antidiplomatico" il 02/01/2017. E' in atto la campagna per la creazione del "Ministero della verità" di orwelliana memoria. E in prima fila, come al solito, sono impegnati gli apparati di regime. Basta osservare l'accanimento (sull'argomento "bufale") che caratterizza i commenti di gerarchi e gerarchetti del PD in molti dei loro profili facebook. I veri propagatori di menzogne e bufale macroscopiche, funzionali a tutte le operazioni di destabilizzazione, guerra e aggressione, stanno cercando di imporre le loro regole a colpi di autentico fascismo mediatico, con l'introduzione di strumenti di controllo nei confronti di chi non si sottomette alla versione "ufficiale" di fatti e misfatti, che non deve più essere messa in discussione. E intendono agire anche attraverso l'utilizzo di misure censorie e repressive. I gerarchi dell'establishment, in Italia e in Europa, cercheranno di riparare in questo modo ai rovesci subiti dalla volontà popolare. Non sottovalutiamo la portata di questo attacco. Prepariamoci, nel 2017, a fronteggiare una micidiale offensiva contro la libertà di opinione sferrata nel tentativo di imporre come "verità rivelata", anche in nome della lotta alle cosiddette "bufale", le versioni menzognere che quotidianamente ci vengono propinate dal mainstream dominante.
Il Regime: “LE BUFALE SONO MIE”. Giù le mani dalla Rete! Scrive Giorgio Cremaschi su Micro Mega -L’Espresso il 3 gennaio 2017. La campagna contro le cosiddette bufale della Rete è la reazione in malafede di tutti i poteri politici, economici, militari, dell’informazione, che temono di perdere il loro “monopolio della Verità”. Certo sulla rete viaggia di tutto, anche invenzioni e fesserie, ma nessuna di queste “bufale” ha mai superato il controllo e la contestazione della rete stessa. Perché nella rete ci sono milioni di persone in carne ed ossa che contribuiscono alla sua funzione critica, a volte pagando di persona proprio per questo. Al contrario le falsità del palazzo sono sempre state sostenute ed amplificate dal sistema dei mass media e dagli intellettuali complici, con danni drammatici per tutti noi. Ricordate il Segretario di Stato di Bush, Colin Powell, mostrare all’ ONU la fiala che avrebbe dovuto contenere le prove delle armi chimiche di Saddam Hussein? Era un falso voluto dal governo USA per giustificare l’invasione dell’Iraq. Tutti i governi occidentali, tutti i mass media, tutti i commentatori dei grandi giornali, fecero propria questa colossale menzogna e gli USA scatenarono quella guerra che ancora oggi fa strage ovunque, da ultimo nelle discoteche di Istanbul. Per anni il regime della grande finanza internazionale ha potuto presentare i suoi più sfacciati interessi e affari come una necessità comune. E questo grazie alla stessa Propaganda, che esaltava la guerra come strumento di esportazione della democrazia. Mentre l’Unione Europea distruggeva ovunque lo stato sociale e sottoponeva la Grecia ad una dittatura coloniale, tutto il regime mediatico vantava la bellezza dell’europeismo. Le élites politico economiche hanno potuto nascondere il loro dominio sulle nostre vite presentando il loro potere come la più nuova e moderna delle democrazie. Per anni il dominio della bugia a reti unificate ha determinato i passaggi fondamentali delle nostre società, fino a che ad un certo punto la macchina del consenso si è inceppata. La crisi è nata dal divario enorme e crescente tra la propaganda ufficiale ed i risultati reali. La guerra che doveva liberarci dal terrorismo lo ha importato nelle nostre città, la crisi economica sempre più pesante e discriminatoria nei suoi effetti, ha mostrato la vacuità degli inni alla ripresa. La rete non ha prodotto nulla di proprio, ma ha registrato e diffuso la crescente insoddisfazione di massa e reso sempre più insopportabili e ridicole le bugie di regime. Il sistema di propaganda ufficiale è diventato meno credibile, e dal referendum greco a quello sulla Brexit, dall’ elezione di Trump alla vittoria del NO in Italia, ha potuto solo registrare pesanti sconfitte. I pronunciamenti popolari sono stati diversi, opposti anche, ma in comune hanno avuto il rifiuto e persino il dileggio delle bufale della propaganda dei governi e del mondo degli affari. È questa sconfitta che ha indotto i poteri forti, i signori della propaganda e i loro servi sciocchi a lanciare la campagna per il controllo della rete. Da noi il massimo della sfacciataggine lo ha toccato la presidente della Camera in piena campagna referendaria. Mentre tutte le TV e il 98% dei giornali sostenevano fanaticamente il SI, Boldrini ha convocato un convegno per denunciare i rischi per la democrazia provenienti dalla rete. Poi, dopo il presidente dell’antitrust che avrebbe ben altro da fare, anche il presidente Mattarella ha auspicato un controllo sulla comunicazione in internet. Vorrebbero che la rete funzionasse come la Rai, Mediaset, Sky, o come quasi tutti i quotidiani, vorrebbero che la rete fosse cosa loro. Tutti questi censori, da quelli di casa nostra a Obama al Parlamento Europeo, non vogliono capire che la loro verità è andata in crisi non per colpa della rete, ma perché troppo lontana dalla realtà. Cercando di imbrigliare nei loro giochi la rete, essi dimostrano soltanto di non aver capito nulla della crisi attuale e di voler continuare con le politiche disastrose sin qui seguite, cercando solo di silenziare il dissenso. Le élites hanno trasferito nella comunicazione la loro campagna contro il populismo. Per loro è populista tutto ciò che non accetta il loro potere ed è contrario ad una corretta informazione tutto ciò che smentisce le loro verità. La rete non è il paradiso della libertà, anzi anche lì bisogna lottare perché le verità nascoste emergano, ma il regime della bugia che ci ha finora governato non tollera neppure parziali spiragli di luce e vuole controllare tutto. Per questo bisogna dire a questi imbroglioni: giù le mani dalla rete!
I TELEGIORNALI DI PULCINELLA. La manipolazione dell'opinione pubblica nei Tg italiani, scrive Antonella Randazzo su disinformazione.it il 19 febbraio 2007. Autrice del libro: "DITTATURE: LA STORIA OCCULTA". I giornalisti dei nostri telegiornali sono diventati presentatori e pubblicitari. Altre competenze, ben diverse dall'informazione obiettiva e "sul campo". I servizi giornalistici sembrano creati ad arte per mostrare alcune cose e nasconderne altre. In un paese in cui sempre meno persone leggono i giornali, l'informazione televisiva rappresenta per la maggior parte della popolazione l'unica fonte d'informazione. Molte di queste persone credono che i telegiornali li informino su ciò che accade nel mondo, e si troverebbero increduli di fronte al solo pensiero che i Tg possano essere utilizzati per manipolare le loro opinioni. Eppure ciò appare sempre più evidente, dall'omissione di elementi indispensabili per capire i fatti, dall'alterazione di alcune notizie e dall'assenza di altre.
L'opinione pubblica è fondamentale per la stabilità di un sistema, e nel nostro sistema viene formata attraverso il bombardamento mediatico. Per mantenere la stabilità, nell'attuale assetto politico-economico, occorre che l'opinione pubblica sia piegata a ciò che è funzionale al sistema e non apprenda alcune verità. Ciò rende il potere mediatico notevolmente importante. Il controllo da parte del potere avviene oggi all'interno delle nostre case, attraverso la Tv. La manipolazione dell'informazione è sempre più sistematica, progettata per essere efficace e per rimanere nascosta agli occhi dei cittadini. Le agenzie internazionali (americane, europee o giapponesi) che forniscono le informazioni, sono supportate da agenzie di propaganda, soprattutto americane, che pianificano non soltanto cosa rendere noto ma soprattutto "come" dare informazione. La quantità di notizie viene sfoltita e ridotta al 5/10% del totale.
La verifica delle fonti e l'utilizzo del senso critico sono ormai capacità atrofizzate dall'assumere passivamente il punto di vista delle poche agenzie che informano centinaia di paesi, come la Adnkronos e l'Ansa. Considerando come assolute alcune fonti e ignorandone altre, l'informazione è già alterata in origine, derivando da un unico punto di vista, che nel contesto appare oggettivo. Di tanto in tanto, nei nostri Tg, appare qualche debole critica, ad esempio contro il governo statunitense. Si tratta delle cosiddette “fessure controllate”, cioè critiche fatte ad oc per generare fiducia nel Tg, ma che risultano vaghe e discordanti. Alcune notizie assumono nei Tg un certo rilievo, soprattutto quelle che evocano emozioni. Suscitare associazioni emotive e commozione è diventato uno degli scopi principali dei Tg. I fatti di cronaca, specie se si tratta di delitti contro bambini, si prestano a questo scopo, e quindi talvolta occupano uno spazio ampio dei telegiornali. Si tratta di un modo per distrarre l’attenzione pubblica da altri fatti assai più importanti per la vita dei cittadini. In altre parole, vengono amplificate notizie (di solito di cronaca o relative ad uno specifico problema) che non mettono in pericolo il sistema, per evitare di trattare altri argomenti "scottanti" e pericolosi per l'assetto che i politici hanno il compito di proteggere. Ad esempio, siamo stati indotti a parlare a lungo dei Pacs (una legge che sarebbe stato ovvio approvare senza tanti problemi), mentre si occultavano, tra le altre cose, le spese ingenti per la "difesa". Nessun telegiornale ha detto che parte del Tfr dei lavoratori andrà per spese belliche.
In questi ultimi tempi, un altro argomento, che viene utilizzato dai Tg per dirottare l'attenzione su fatti non pericolosi per il sistema, è quello dei malati gravi che chiedono l'eutanasia. Invece di approvare una legge che ponga fine al problema, il nostro sistema utilizza questi casi disperati (ieri quello di Welby, oggi quello di Nuvoli), per riempire spazi e suscitare angoscia e commozione. Si stimola la parte emotiva dei telespettatori, per coinvolgere in una questione umana drammatica, senza far capire che il potere di risolvere il problema è nelle mani proprio di chi sta strumentalizzando cinicamente il fatto.
Spesso alcune notizie sono oggetto di "sovrinformazione", cioè se ne parla in molti programmi e abbondantemente. Ciò avviene o per focalizzare l'attenzione soltanto su alcuni aspetti e fare in modo che i cittadini si sentano abbastanza informati e non vadano ad informarsi altrove (come nel caso della finanziaria o del Tfr), oppure per dare l'impressione che ci sia un'abbondante informazione. Ma si tratta di informazioni ripetitive, che non spiegano davvero la questione e talvolta la manipolano. Paradossalmente, il cittadino viene sommerso di "informazione" per fare in modo che rimanga disinformato. La sovrinformazionze può riguardare anche temi banali, come la separazione di una coppia nota, o l'uso di droga da parte di un personaggio famoso. In questi casi si tratta di distogliere l'attenzione da decisioni o eventi politici che stanno accadendo nel paese, e di cui occorrerebbe parlare, ma non risulta conveniente al sistema. Si sta affermando sempre più il metodo americano di creare trasmissioni giornalistiche o televisive organizzate da agenzie di Pubbliche Relazioni, per manipolare l'opinione pubblica su un determinato argomento. L'argomento di solito è emerso all'attenzione pubblica senza che il sistema potesse impedirlo (ad esempio, la Tv spazzatura o la violenza giovanile). A queste trasmissioni partecipano personaggi accuratamente selezionati, che in apparenza sembrano avere opinioni diverse, ma in realtà esprimono tutti un unico punto di vista, che si vuole far apparire come unica verità. Talvolta è l'assunto di base della conversazione ad essere errato, ma viene acquisito come vero da tutti i partecipanti. Spesso si utilizza la figura dell'"esperto" che è abbastanza persuasiva, rappresentando il mondo della "scienza", che si intende come fonte di verità oggettiva.
L'informazione dei Tg viene falsata in maniera sempre più sottile e manipolatoria. Quando vengono sollevate smentite, soltanto in pochi casi viene reso pubblico. Lo spazio e l'ordine dato ad un'informazione sono molto importanti per valorizzare la notizia o sminuirla. Alcune notizie passano inosservate perché vengono dette per ultime e frettolosamente, mentre ad altre si dedica molto tempo all'inizio del Tg. Si stabilisce quindi una gerarchia in ordine all'importanza e al rilievo che si vuole dare alla notizia. Si privilegiano alcune notizie, altre vengono emarginate e altre ancora occultate. L'informazione obiettiva è quella contestualizzata, verificata alla fonte e commentata da opinionisti di diverse tendenze. Sentire le opinioni dei politici di entrambi gli schieramenti serve a dare l'idea che si stanno sentendo più punti di vista, ma ciò spesso non è vero, perché la maggior parte dei politici non attua una vera critica al sistema, e si limita a spiegare le divergenze rispetto all'altro schieramento. Il sistema politico-economico attuale è sempre più intoccabile, e coloro che lo criticano appaiono sempre meno in televisione. Nei Tg, le notizie vengono date come fatti isolati dal contesto, per impedire una comprensione approfondita. Si tende ad esagerarne un aspetto, che è sempre quello più emotivo. Lo stesso titolo talvolta è già gran parte della mistificazione, perché da esso si inferisce se si tratta di una cosa giusta o sbagliata, da approvare o da disapprovare. Ad esempio, quando si danno notizie sull'Iran si tende a far apparire questo paese colpevole di qualcosa, e i titoli sono "L'Iran sfida la comunità internazionale", oppure "L'Iran si ostina sul programma nucleare". I paesi indicati dalle autorità Usa come nemici diventano automaticamente nemici anche per le nostre autorità, che li criminalizzano in modo impietoso, evitando di menzionare le continue minacce e la preparazione alla guerra contro l'Iran da parte degli Stati Uniti. Si manipola l'opinione pubblica italiana a pensarla come le autorità americane, e a ritenere che alcuni paesi debbano essere colpiti perché "pericolosi". Non si danno notizie sui numerosi crimini e attentati terroristici attuati dalle autorità Usa nel mondo, se non quando ciò risulta inevitabile. I nostri telegiornali si limitano a parlare di "attentati terroristici" in Iraq, Afghanistan o in altri paesi, senza raccontare la situazione vera. Ad esempio, non parlano mai della resistenza irachena e afghana, anche se ormai molti sanno che questi paesi sono occupati e che la popolazione cerca in tutti i modi di resistere (anche con metodi pacifici) all'invasore. Difficilmente le notizie su paesi in guerra vengono spiegate in maniera approfondita, fornendo gli antecedenti politici, economici, internazionali, ecc. che possano far capire i fatti e le situazioni attuali. La decontestualizzazione è quindi uno dei modi per disinformare dando l'impressione opposta. Il fatto viene slegato da altri fatti che lo renderebbero più comprensibile. Ad esempio la violenza negli stadi viene slegata dal fenomeno della violenza nei giovani e dalle pressioni mediatiche che incitano alla violenza. Il tono e il tipo di linguaggio utilizzato influiscono su come l'informazione viene percepita. Il tono può essere dispregiativo, di condanna, oppure enfatico ed entusiasta. Il tono dà un significato positivo o negativo alla notizia. La scelta delle parole è molto importante nel lavoro propagandistico, perché ogni parola è evocativa di significati o di emozioni e quindi deve essere scelta accuratamente per ottenere gli effetti voluti. Ad esempio, per trasmettere un senso di negatività, i gruppi considerati pericolosi per il sistema, come gli ambientalisti, i no-global o i comunisti, vengono definiti come "radicali", "fanatici" o "estremisti". La polizia viene chiamata "forza dell'ordine" anche quando reprime. Coloro che sono repressi vengono chiamati "ribelli" o "giovani estremisti". La violenza di Stato, anche quando uccide brutalmente, viene definita "sicurezza" o "difesa". I violenti sono sempre coloro che protestano contro il sistema e mai le autorità dello Stato, anche quando comandano una dura repressione, com'è accaduto al G8 di Genova.
Anche le immagini utilizzate hanno scopo manipolativo. Le immagini servono a dare un'impronta negativa o positiva a luoghi, situazioni o concetti. Ad esempio, quando si parla di cultura araba si mostrano le donne con il burqa oppure immagini di fanatismo e violenza, per indurre un'associazione negativa. Un altro mezzo efficace per manipolare l'informazione è l'uso di cifre. Le analisi statistiche sono relative al campione scelto e al modello utilizzato. Le statistiche possono essere utilizzate come un dato inoppugnabile e incontestabile. Ma basta selezionare un determinato campione che possa alterare i risultati, per dare l'informazione che si vuole. Le notizie sono spiegate dallo stesso punto di vista in tutti i telegiornali. I poteri al vertice del sistema, cioè le banche e le corporation, appaiono sempre più raramente, e soltanto nei casi in cui si annuncia una fusione, l'acquisto di un'azienda o la nomina di un direttore amministrativo. Quando una corporation viene denunciata per gravi reati come l'uccisione di sindacalisti, la schiavizzazione dei bambini o altri crimini contro i diritti umani, non viene quasi mai notificato dai nostri telegiornali.
Fino all'inizio degli anni Ottanta esisteva l'inchiesta televisiva obiettiva, che mostrava la società nella sua verità e complessità. Oggi, invece, la mistificazione mediatica riguarda anche la società stessa. Non appaiono quasi più i lavoratori mentre stanno faticando. Lo spazio dedicato alle proteste sindacali è ridotto al minimo. Alcune manifestazioni di protesta non vengono documentate. Si manipola persino l'immagine della società civile, che deve apparire accondiscendente anche quando non lo è. Non si va mai alla radice delle questioni lavorative o sindacali e non si fa comprendere abbastanza per poter giungere alla soluzione (che richiederebbe cambiamenti al sistema) del problema. Le notizie sul dissenso alla politica di governo sono pregne di accenti nefasti. Spesso vengono utilizzate categorie stereotipate o etichette per puntare il dito contro chi mette in dubbio l'operato politico del governo. I telegiornali fanno in modo che gli oppositori appaiano come poche persone che non vogliono la "modernizzazione", il "progresso" oppure come persone emarginate, fanatiche e "antiamericane". Ciò è accaduto nel caso della Tav in Val di Susa e della Base americana a Vicenza. Nei telegiornali si mostravano singole persone intervistate che esprimevano pareri contrapposti, per far capire che c'erano pareri discordanti e occultare che la stragrande maggioranza dei cittadini era contraria alle decisioni di governo. Si vuole nascondere che il potere dei cittadini è continuamente svilito dal sistema. E che quest'ultimo è distante da ciò che la gente vuole. Le questioni che stanno a cuore alla cittadinanza, come l'ambiente, la pace e la libertà di decidere sul proprio territorio, vengono denigrate dall'informazione tendenziosa e manipolatoria dei Tg. Ad esempio, i cittadini della Val di Susa che protestavano venivano mostrati come un gruppo sparuto di persone che avevano paura di avere il "treno che gli passa sotto casa". La verità che si cercava di occultare era che sotto al Musinè c'è l'amianto. Inoltre, nella Val di Susa esiste già una linea ferroviaria Torino-Lione, attualmente sottoutilizzata, in grado di poter reggere il traffico.
Un'altra tecnica, utilizzata dai Tg, per deviare l'attenzione sulla questione del dissenso e per semplificare i fatti (per non far emergere altri aspetti), è di connotare ideologicamente il problema con "destra" e "sinistra". Quando i cittadini si oppongono ad una questione lo fanno per motivi razionali, ma il telegiornale tende a far credere che siano motivi ideologici, oppure irrazionali e non accettabili. Nelle questioni in cui gli Usa impongono un severo diktat, come nel caso delle truppe in Afghanistan e della base militare a Vicenza, i giornalisti assumono un tono allarmato verso il dissenso. In particolare, nel caso di Vicenza, mettevano in evidenza che anche all'interno della maggioranza c'erano coloro che avversavano la scelta del governo. Il sistema dei due schieramenti è stato creato per impedire un vero esercizio di sovranità. I giornalisti reggono questo gioco e si mostrano stupiti che lo schieramento al potere possa avere persone che ragionano con la propria testa e non eseguono passivamente "l'ordine". I Tg colpevolizzano queste persone facendole sentire responsabili di "indebolire il governo" o di metterne in pericolo la stabilità. Ciò nasconde che i nostri politici non prendono scelte sulla base del benessere dei cittadini, ma per tutelare e rafforzare il sistema stesso. I nostri giornalisti hanno dimenticato che l'essenza della democrazia è proprio il pluralismo. Si sono allineati al sistema in cui tutti gli schieramenti politici sono obbligati ad obbedire ai veri padroni del paese: l'élite economico-finanziaria.
In questi giorni i Tg gridavano "allarme" per la manifestazione di protesta organizzata per il 17 febbraio contro la nuova base militare di Vicenza. Ma in quale democrazia i giornalisti mettono in allarme i cittadini per una manifestazione che esprime la volontà di quasi tutta la cittadinanza? Il 16 febbraio, annunciando la manifestazione di protesta del giorno successivo, i telegiornali dicevano "si temono violenze", come se chi protesta contro il militarismo è violento. Siamo al paradosso di definire violento chi è contro la guerra e il militarismo, e non chi vuole nuove basi per meglio fare la guerra. Un modo manipolatorio di dare notizie relative a proteste o a sgomberi violenti è quello di mettere vicina una notizia di criminalità, in modo da indurre l'associazione fra "delinquente" e chi protesta contro il sistema. Il 17 febbraio i telegiornali annunciavano: "Manifestazione di Vicenza... Imponenti misure di sicurezza". Trasmettevano anche un appello di Prodi: "Le manifestazioni sono il sale della democrazia ma siate pacifici". Il tono era quello del buon padre di famiglia, e non traspariva affatto che la realtà era esattamente l'opposto. Cioè coloro che stavano manifestando erano contro la violenza e il bellicismo americano, mentre Prodi era il politico che, lungi dall'avere a cuore il bene dei cittadini, stava sostenendo gli interessi bellici americani contro la volontà della maggior parte dei cittadini di Vicenza. Quindi, si trattava di scelte politiche non democratiche prese dal governo, ma i Tg facevano in modo da creare allarme attorno a coloro che stavano pacificamente, e giustamente, protestando. Qualche telegiornale osava un "Si temono infiltrazioni", ma non spiegava che soltanto il sistema difeso dai politici ha interesse ad infiltrare falsi manifestanti che creino disordine e violenza (com'è accaduto nel G8 di Genova), per poterli far apparire violenti ed estremisti, come cercavano di descriverli i Tg attraverso messaggi allarmanti. Il Tg3 precisava che le forze dell'ordine erano "a difesa del centro storico della città", come se i manifestanti fossero pericolosi e distruttivi. Poi aggiungeva: "c'è anche chi è preoccupato" e si intervistava una persona anziana che appariva confusa per le tante persone arrivate in città. Il porre l'accento sul "pericolo di violenze" serviva anche a distogliere l'attenzione dal valore che la protesta avrebbe avuto sulle scelte del governo, e a nascondere che la volontà dei cittadini non conta nulla di fronte alle imposizioni americane. Non essendoci state violenze, il giornalista del Tg2 ha messo in evidenza uno striscione che definiva di "solidarietà con i terroristi arrestati". Un altro modo per dirottare l'attenzione e per criminalizzare il dissenso. Impegnati com'erano a colpevolizzare chi protestava contro la nuova base americana, i giornalisti dei Tg hanno omesso la notizia che la nuova base sarà pagata da noi per il 41% delle spese di mantenimento (anche per le altre basi paghiamo parte delle spese). Chi è contrario alla guerra è diventato un "estremista radicale". Chi denuncia i crimini come la tortura è un "antiamericano". Viene messo sotto processo chi avversa le guerre, e non chi le organizza. Nello stesso telegiornale (Tg2, ma anche gli altri erano pressoché uguali) del 17 febbraio appariva Prodi in posa accanto al presidente afghano Hamid Karzai, come se quest'ultimo fosse un vero rappresentante politico del popolo afghano e non un personaggio foraggiato da Washington. Quando i telegiornali notificano gli attentati terroristici in Iraq, in Afghanistan, in Pakistan, in Turchia o in altri paesi, danno soltanto la stima dei morti e il luogo dov'è avvenuto lo scoppio, e non spiegano la situazione del paese. Talvolta menzionano al Qaeda associandola all'attentato, senza indicare le prove a sostegno di ciò.
Le notizie dall'Africa, dall'Asia o dal Sud America arrivano soltanto se c'è un problema che riguarda i nostri connazionali (rapimenti, uccisioni ecc.), oppure quando ci sono le elezioni politiche, che ormai nel nostro sistema sono diventate il simbolo stesso della "democrazia". Come a dire che se non documentassimo le elezioni (che si svolgono ovunque, persino in Iraq e in Afghanistan), non troveremmo altro modo per provare che la "democrazia" esista. Quelle poche volte che i telegiornali parlano delle guerre in Africa, lo fanno in modo confuso e impreciso, parlando di "conflitti etnici", e senza precisare chi organizza i gruppi in lotta e chi li arma. Non viene detto che nella maggior parte dei casi si tratta dei governi e dei servizi segreti europei e americani, che organizzano le guerre per controllare il territorio e saccheggiarne le risorse. Le grandi metropoli e periferie del sud Italia appaiono nei Tg nel loro degrado ambientale, appare anche la microcriminalità e la disperazione dei giovani disoccupati. Tutto questo è descritto in modo fatalistico, come se i governi si trovassero impotenti di fronte a questi problemi. Quando a Napoli c'era il problema dei rifiuti, i telegiornali mostravano la città sommersa dalla sporcizia e dall'immondizia, ma non dicevano che questo stava accadendo perché il servizio era stato privatizzato e si impediva ai vecchi impiegati di operare, negando loro i mezzi idonei alla raccolta dei rifiuti. Per avvantaggiare i privati si stava organizzando il servizio diversamente. I cittadini apparivano "colpevoli" di qualcosa, ma in realtà ricevevano le bollette da pagare senza ottenere alcun servizio. Nessun telegiornale trasmise la manifestazione degli operatori ecologici napoletani che protestavano perché non erano messi in grado di lavorare. I cartelli che essi mostravano avrebbero potuto far capire la vera situazione, mentre i telegiornali rendevano impossibile capirla alla radice. C'è una serie di argomenti "riservati", di cui i telegiornali non parlano. Ad esempio, delle stragi che l'Agip attua in Nigeria, oppure della produzione di armi (ad esempio le cluster bomb), in diverse fabbriche italiane. Armi che vengono esportate in molti paesi, compresi quelli in cui c'è guerra. I Tg non parlano mai di Signoraggio, che è il metodo utilizzato dalle banche per saccheggiare i paesi. Non si parla nemmeno degli statuti delle banche e del sistema bancario della Banca Europea, che ha sottratto all'Italia ben il 38% della finanziaria, impedendo al paese una crescita economica significativa. Sono state tagliate le spese per la scuola e la sanità ed è stata aumentata la pressione fiscale, per pagare le banche e sostenere gli Usa nelle guerre. Quando si è parlato della finanziaria, nonostante lo spazio dedicato a quest'argomento, i telegiornali hanno accuratamente evitato di notificare le ingenti risorse che le banche sottraggono al paese. La trasmissione Ballarò è stata l'unica a rivelare il fatto (ma senza metterlo in evidenza). Un altro argomento tabù è quello delle regole e dell'operato delle istituzioni come il Wto, la Banca mondiale (Bm) e Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Nessun telegiornale ha mai spiegato che a causa di queste organizzazioni, negli ultimi venti anni, la miseria e la fame sono aumentate, e che il collasso economico di molti paesi, compresa l'Argentina, è stato causato dalle misure imposte proprio dalla Bm e dal Fmi. Moltissimi altri argomenti non vengono trattati, ad esempio, la situazione di disuguaglianza degli immigrati, le gravi discriminazioni che essi subiscono, le persecuzioni di cittadini africani da parte dei governi fantoccio al soldo degli Usa, i massacri in Somalia, in Etiopia, in Nigeria, ad Haiti e in molti altri luoghi. Un altro argomento tabù è il denaro che lo Stato dà alle grandi aziende, somme spesso molto elevate.
Il telegiornale parla di droga soltanto quando comunica la notizia che le forze dell'ordine sono riuscite a sequestrare quantitativi di stupefacenti. Ma non parla mai delle implicazioni e connivenze delle corporation e dei governi nei commerci internazionali di droga. Si parla di mafia quando si arresta qualche presunto mafioso o quando avvengono delitti, ma non si spiega cos'è davvero la mafia, e come essa sia in espansione grazie alle liberalizzazioni finanziarie, che hanno spianato la strada al riciclaggio facile. I minuti di politica interna, nei Tg, si risolvono nelle brevi interviste ad esponenti di destra e sinistra, per mostrare come ci sia una questione, una disputa, e come i duellanti siano decisi e forti. Le differenti opinioni sembrano battute teatrali, in uno scenario sempre più avvilente e assurdo. Le questioni sono trattate sempre in modo marginale e superficiale, anche quando si tratta di questioni serie, come l'invio di soldati in Afghanistan. L'informazione si riduce all'opinione dei politici, la maggior parte dei quali non oserebbe sfidare il sistema nemmeno nelle questioni minime.
Alcune questioni interne non sono divulgate. Ad esempio, nel 2002, il Parlamento, quasi all'unanimità, approvò una legge che permette di abolire il tetto massimo di spesa per il "rimborso ai partiti". I cittadini italiani avevano espresso la loro volontà di non dare denaro pubblico ai partiti, attraverso il referendum del 1993, in cui oltre il 90% degli elettori votò contro. La gente crede che oggi questa volontà venga rispettata e non è stata informata quando, nel 1999 è stata approvata una legge che di fatto reintroduceva il finanziamento pubblico ai partiti chiamandolo "rimborso elettorale". Nel 2002 tutti gli schieramenti, ad eccezione dei radicali, votarono a favore di una nuova legge, la n. 156 del 26 luglio 2002, che titolava "Disposizioni in materia di Rimborsi Elettorali". La legge abbassava il quorum di accesso al rimborso dal 4% all'1% e aboliva il tetto di spesa, permettendo a quasi tutti i partiti di ricevere somme molto alte di denaro pubblico. Ad esempio, Berlusconi ha incassato, l'anno scorso, 41 milioni di euro per Forza Italia, la Margherita ne ha presi 20 milioni, l'Udc 15 milioni, i Ds 35 milioni, An 23 milioni, Rifondazione 10 milioni, ecc. Dato l'ingente costo pubblico che ci sarebbe stato, l'approvazione della legge era una questione molto importante per l'opinione pubblica, ma non è stata sottoposta all'attenzione di tutti noi. I Tg non ne hanno nemmeno fatto cenno. Le questioni spinose, come la malasanità o il costo pubblico di aziende privatizzate (come le ferrovie e le autostrade) vengono trattate come se il problema non fosse risolvibile e senza una sufficiente documentazione. Ad esempio, si parla superficialmente dei tagli alla sanità che stanno causando gravissimi problemi nella gestione delle strutture, oppure dei contratti truffaldini che importanti imprenditori (come Benetton) hanno stipulato con lo Stato. Questi contratti potrebbero essere rescissi se il governo volesse. Molti cittadini se lo aspettavano, dato che in precedenza erano stati duramente criticati dall'attuale maggioranza. La povertà o la precarietà lavorativa sono diventate nei telegiornali o nelle rubriche di approfondimento una specie di calamità naturale. I poveri ragazzi trentenni vengono intervistati per sapere quanto guadagnano e che tipo di contratto hanno nei call center, nelle fabbriche o addirittura negli uffici pubblici. Si mette in evidenza che queste persone sono spesso laureate e molto preparate, e alcune di esse svolgono funzioni essenziali nel settore pubblico. Ma non si parla delle leggi che permettono il lavoro precario. Di quando sono state approvate e da chi, e di come sono state peggiorate nel tempo.
Poi ci sono i servizi giornalistici che hanno il compito di prepararci ad accettare il peggio. Ad esempio, quelli che ci allarmano sulla "crisi energetica" (per prepararci all'aumento della bolletta), quelli che ci mostrano i giovani delle gang di Londra, o quelli che documentano gli strani fenomeni atmosferici. Anche in questi casi non si va alla radice e non si spiega come è stato creato il problema e da chi. In un servizio del 17 febbraio, il Tg3 informava sull'omicidio di un ragazzo ad opera delle gang giovanili dei sobborghi di Londra. Il giornalista diceva: "Il problema sono le condizioni sociali... le famiglie non sono in grado, a causa della povertà, di fronteggiare il problema, allora c'è l'alcol, la droga o le armi da fuoco". Nessun cenno alla situazione politico-economica, e al bombardamento mediatico che esalta sempre più la violenza. Anche l'allarme Sars rientrava nelle notizie che avevano l'obiettivo di preoccupare. Per alcuni mesi siamo stati bombardati da notizie allarmanti su presunti casi di questa malattia. Quello che non si diceva era che la Sars è nata da un esperimento avvenuto nell'aprile del 2003 a Toronto, ad opera di associazioni governative statunitensi e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, sostenuti finanziariamente dalla famiglia Rockefeller, dalla Carnegie Foundation, e da importanti produttori di farmaci. L'obiettivo era quello di ridurre la popolazione e far acquistare nuovi farmaci, come spiega il Dott. Leonard Horowitz: La SARS e l'attuale timore per l'influenza aviaria ricevono l'approvazione dei capitani delle industrie militar-medico-farmaceutico-petrolchimiche, che parimenti in molti casi documentati operano al di sopra delle leggi... consideriamo il fatto che il flusso delle informazioni date dai mezzi di comunicazione di massa è stato pesantemente influenzato, se non interamente controllato, dai garanti delle imprese multinazionali, che hanno protetto e fatto avanzare gli interessi di un gruppo relativamente ristretto di imprese globali... Avendo testimoniato di fronte al Congresso USA, ho personalmente verificato come le prime donne dell'industria farmaceutica dirigono dal punto di vista economico e politico i nostri rappresentanti al governo. Le malattie che stanno emergendo sono di complemento alla politica della "Guerra contro il Terrorismo" e alla nostra cultura influenzata dal bioterrorismo. Questa agenda serve per due obiettivi principali: il profitto e la riduzione della popolazione. Realtà politica contro i miti mass-mediologici. Quando è emerso che l'allarme aviaria in Europa aveva lo scopo di indurre ad acquistare il farmaco Tamiflu, e che la sicurezza e l'efficacia del farmaco non erano mai state provate, le notizie allarmanti sono sparite. In questi ultimi giorni stanno ritornando altre notizie sulla variante H5N1 dell'aviaria. Probabilmente è stato prodotto un nuovo farmaco. Nei nostri Tg, dopo pochi minuti di notizie di politica interna ed estera, arriva la parte più lunga della cronaca e dell'attualità. La scelta spesso cade su notizie riguardanti nuovi prodotti per la calvizie, la bellezza o tecnologici. Giuseppe Altamore, nel suo libro I padroni delle notizie, spiega che sempre più spesso i giornalisti televisivi presentano pubbliredazionali come fossero semplici notizie. Si tratta di presentare in modo enfatico prodotti che vanno dal nuovo tipo di telefonino a nuovi cosmetici, capi di abbigliamento e addirittura farmaci. Dopo l'impiccagione di Saddam, il Tg2 annunciò la creazione negli Stati Uniti di un nuovo giocattolo: il pupazzo Saddam corredato da cappio. Il giornalista si curò di precisare anche il prezzo e la possibilità di acquistarlo via Internet.
La cronaca rosa ha il suo spazio nei Tg, sempre più ampio: matrimoni o divorzi fra vip, se Madonna adotta un nuovo bimbo, oppure se un'attrice si è gonfiata di silicone o si droga. I servizi sulla moda, sull'elezione di Miss Italia o di Miss Universo non mancano. Talvolta i Tg riempiono spazio raccontando la storia di un animale o spiegando l'esecuzione di una ricetta. Viene documentato persino il "Raduno internazionale delle Mongolfiere", e ci informano anche sugli ultimi modelli dei vestitini per cani e gatti. Si tratta di modi per confondere su ciò che dovrebbe essere veramente la comunicazione giornalistica, che negli ultimi venti anni è stata declassata e fuorviata nel modo stesso di intenderla.
L'informazione dei Tg segue ormai il "pensiero unico" e anche la regia è unica. Si tratta delle grandi agenzie di propaganda americane, come la Heritage Foundation, l'American Enterprise Institute e il Manhattan Institute. Le agenzie di propaganda americane provvedono affinché l'opinione pubblica subisca pesanti manipolazioni, che rendano difficile una vera consapevolezza di quello che sta accadendo nel mondo di oggi. Per riuscire a capire occorre utilizzare Internet e leggere le notizie dal mondo. E' una cosa che soltanto pochi si possono permettere di fare; e di solito non si tratta di anziani, casalinghe o persone che lavorano per molte ore al giorno, e che non hanno tempo materiale di informarsi se non attraverso la Tv. Per queste persone c'è soltanto quell'informazione "emotiva" e distorta che serve a renderli docili e incapaci di difendere i propri diritti. Come osserva Sartori: "Sostenere che la cittadinanza dell'era elettronica è caratterizzata dalla possibilità di accedere a infinite informazioni... sarebbe come dire che la cittadinanza nel capitalismo consente a tutti di diventare capitalisti… È vero che un'immagine può valere più di mille parole. Ma è ancor più vero che un milione di immagini non danno un solo concetto".
I telegiornali sono ormai rotocalchi di una realtà che non è quella in cui viviamo. Sono sempre più orientati allo spettacolo, all'appiattimento e alla banalità. Come in un circo, ognuno fa il suo numero, con l'obiettivo di emozionare, catturare l'attenzione, intrattenere e persino fare divertire. Mentre gli eventi occultati diventano sempre più inaccettabili: quei due terzi del mondo ridotti in estrema miseria, quei milioni di bambini che per mangiare devono cercare nella spazzatura, le nostre regioni soggette al potere mafioso implacabile e crudele, le guerre contro i popoli, le dure persecuzioni contro chi lotta per la giustizia e i diritti umani... Finché il potere mediatico sarà quasi completamente nelle mani di chi vuole un sistema politico-economico basato sulla legge del più forte e sul controllo dei popoli, è ingenuo credere che le risorse umane, spirituali e culturali degli individui stiano ricevendo impulso alla loro libera realizzazione. Le sottili tecniche di coercizione, di diseducazione e di appiattimento culturale sono dirette contro ognuno di noi, come un ulteriore affronto alle nostre menti e alla nostra dignità di cittadini.
Antonella Randazzo ha scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943, (Kaos Edizioni, 2006); La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell'era dell'egemonia Usa (Zambon Editore 2007) e Dittatore. La Storia Occulta (Edizione Il Nuovo Mondo, 2007).
La proposta di Grillo contro le bufale di giornali e Tv. "Sono i primi fabbricatori notizie false, ma tutti contro il Web", scrive il 3 gennaio 2017 Askanews. “Tutti contro Internet. Prima Renzi, Gentiloni, Napolitano e Pitruzzella, poi il ministro della Giustizia Orlando e infine il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno. Tutti puntano il dito sulle balle che girano sul web, sull’esigenza di ristabilire la verità tramite il nuovo tribunale dell’inquisizione proposto dal presidente dell’Antitrust. Così il governo decide cosa è vero e cosa è falso su Internet. E alle balle propinate ogni giorno da tv e giornali chi ci pensa?” Lo scrive Beppe Grillo, in un post pubblicato sul suo blog. “I giornali e i tg – accusa il fondatore M5s – sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene. Sono le loro notizie che devono essere controllate. Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa”.
Grillo, nel post, cita anche due “esempi” di notizie non vere pubblicate. “Il quotidiano La Stampa – scrive – ha diffuso un articolo sulla fantomatica propaganda M5s capitanata da Beatrice Di Maio, notizia ripresa da tutti i giornali e i tg, poi si è scoperto che era tutto falso. La Stampa non ha chiesto neppure scusa e nessuna sanzione è stata applicata nei suoi confronti, nè degli altri giornali e telegiornali che hanno ripreso la bufala senza fare opportune verifiche. Poi fresca di oggi la bufala in prima pagina del Giornale di Berlusconi: ‘Affari a 5 stelle. Grillo vuole una banca’. Una falsità totale che stravolge un fatto vero, ossia che Davide Casaleggio ha accettato di incontrare l’Ad di una banca online che ha ricevuto vari premi per l’innovazione tecnologica utilizzando il web per scambiare esperienze e idee sula Rete e sulle sue possibilità, così come incontra decine di aziende innovative. Capite come lavorano i media? Aspettiamo ancora le scuse del direttore de La Stampa e di tutti coloro che hanno ripreso acriticamente un articolo provato falso”.
I cosiddetti siti “antibufala” non pubblicano mai nulla sulle bufale di regime, scrive Stefano Davidson domenica, 20 novembre 2016, su "Imola Oggi". È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla dei quotidiani nazionali che a dire il vero dovrebbero essere la loro maggior fonte. È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla di quanto asserisce il Leopolduce, fin troppo spesso palese menzogna in contrasto con evidenza e dati reali, che a dire il vero dovrebbe a sua volta essere una delle maggiori fonti di ispirazione. È altrettanto surreale che ci sia chi pensa che i siti antibufala non riportino invece bufale a loro volta, solo perché si autodefiniscono “anti”. È evidente e confermato, come sono solito affermare, che i coglioni sono molti più di due.
Le bufale di regime, scrive maicolengel su Butacmag il 23/11/2016. ImolaOggi e Byoblu in pochi giorni hanno deciso di sferrare un piccolo attacco mediatico ai siti antibufala. Un attacco che onestamente vale la pena discutere insieme, giusto per capire quanti di voi abbiano imparato a distinguere la rava dalla fava. Così titolava ImolaOggi il 20 novembre 2016: I cosiddetti siti “antibufala” non pubblicano mai nulla sulle bufale di regime. Onestamente non capisco esattamente quali siano le “bufale di regime”, e credo che anche Stefano Davidson, che firma l’articolo su ImolaOggi, non abbia le idee chiare, visto che invece che fare “fact checking” pubblica un articoletto dove evita attentamente qualsivoglia esempio. Vi riporto le sue parole per intero, perché credo vadano conservate a futura memoria: È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla dei quotidiani nazionali che a dire il vero dovrebbero essere la loro maggior fonte. È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla di quanto asserisce il Leopolduce, fin troppo spesso palese menzogna in contrasto con evidenza e dati reali, che a dire il vero dovrebbe a sua volta essere una delle maggiori fonti di ispirazione. È altrettanto surreale che ci sia chi pensa che i siti antibufala non riportino invece bufale a loro volta, solo perché si autodefiniscono “anti”. È evidente e confermato, come sono solito affermare, che i coglioni sono molti più di due. Quindi secondo Stefano i siti antibufala non trattano mai notizie pubblicate dai quotidiani nazionali. È davvero così? Non mi pare, ovviamente io parlo per BUTAC, ma credo che i colleghi possano dimostrare lo stesso sui loro portali. Facciamo una veloce ricerca su BUTAC con i nomi di alcune delle testate giornalistiche italiane più lette:
Il Giornale – ad oggi 66 articoli
La Repubblica – ad oggi 34 articoli
Il Corriere della sera – ad oggi 21 articoli
il Fatto Quotidiano – ad oggi 13 articoli
Libero – ad oggi 13 articoli
La Stampa – ad oggi 10 articoli
Il Messaggero – ad oggi 10 articoli
Purtroppo non tutti gli articoli che pubblichiamo hanno i tag corretti per cui è facile che gli articoli che trattano testate nazionali siano ancora di più. Quello che sarebbe importante capire, e che i veri lettori dei siti antibufale sanno, è che i nostri articoli vengono dalle vostre segnalazioni, quindi basterebbe per Stefano Davidson e i suoi amichetti di ImolaOggi cominciare a segnalare, usando i canali corretti per trovare (se ce ne fosse bisogno) sbufalate anche di altre testate, e altri articoli. Quello che è importante invece comprendere è che loro sanno benissimo come funzionano le cose e scrivono articoletti come quello che vi ho riportato qui sopra proprio per cercare di delegittimare quanto facciamo noi senza portare alcuna prova. Sanno bene che i loro lettori hanno solo bisogno di sentirsi rassicurati; sono lettori che hanno bisogno di leggere quello che già pensano, lettori incapaci di fare la benché minima verifica dei fatti, lettori che potremmo tranquillamente classificare come analfabeti funzionali. Ma passiamo oltre, perché dopo ImolaOggi abbiamo anche il sempre simpatico e affabile Claudio Messora, che pochi giorni fa, senza far nomi, ha pubblicato un video dove attacca a sua volta tutti i siti antibufala. Il video è lunghetto, e non ho granché voglia di dargli visibilità, l’accusa però è ben precisa: secondo Messora quasi tutti i siti antibufale italiani sono gestiti da soggetti fuoriusciti da partiti politici. Onestamente non conosco a sufficienza i miei colleghi per parlare di loro, ma vorrei che aveste tutti ben chiaro che Messora è supporter di un partito ben preciso (lo stesso – guardacaso – che supporta anche Stefano Davidson, che firmava l’articolo qui sopra); non ne fa segreto, sia chiaro, ma sentire accuse lanciate da chi da anni non fa altro che spargere fango su chiunque non la pensi come lui è quantomeno sospetto. Dopo il video di Messora, con l’amico e collega Maurizio Perrone abbiamo cercato di avere risposte da Claudio, capire a chi stesse rivolgendo le sue accuse, e capire anche quali fossero esattamente le accuse, ma pur essendo stato taggato nel post di Maurizio il buon Claudio ad oggi si è fatto di nebbia. Cosa strana se si considera che Messora è una star del web, e che usa i social network costantemente. Che abbia paura di venire sbugiardato pubblicamente? Che abbia il timore di aver cagato fuori dal vaso? Non lo so, e onestamente poco m’importa. Non sento il bisogno di difendermi, chi legge Butac dalla sua nascita (e chi mi conosce da prima) sa bene che non ho una fede politica da difendere. Come spiego da tempo ritengo che tutti i politicanti italiani siano soggetti incapaci, sia gli ultimi arrivati sia quelli che sono lì da decenni. Non vedo la luce in fondo al tunnel perché nel nostro Paese gli interessi nascosti difesi dai politici sono troppi, l’unica via sarebbe un sano commissariamento europeo del nostro Paese. Ma è un sogno che non vedrò mai realizzarsi. Purtroppo come i politici sono incapaci, non molto diversi sono quelli che dovrebbero mostrarvi le loro incapacità, quindi se siete lettori delle testate nazionali più note non troverete mai attacchi tout court, ma solo editoriali politici dove si attacca l’antagonista, difendendo spesso l’indifendibile, pur di portare acqua al proprio mulino. È triste ma è lo stato delle cose.
Boschi e Boldrini ai falsi funerali del boss Riina: bufala sui siti M5s, scrive martedì 28/11/2017 su "Il Giornale". Sicuramente è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La punta di un iceberg di bufale. La foto ritrae Laura Boldrini, presidente della Camera, Maria Elena Boschi (Pd), sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il senatore dem Francesco Verducci e l'eurodeputato David Sassoli (Pd) con una scritta che dice esplicitamente che i quattro politici si trovavano al funerale del boss mafioso Totò Riina. L'immagine viene condivisa su Facebook il 21 novembre e rapidamente fa il giro del web, ripresa anche dalla pagina «Virus 5 Stelle». In realtà la tumulazione della salma di Riina (senza funerali, erano stati vietati) è stata il giorno successivo alla prima pubblicazione della foto. Che invece è un'immagine scattata durante i funerali del giovane nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, morto a Fermo nel luglio scorso dopo una rissa. Dopo le segnalazioni e oltre 1600 condivisioni sui social network, è arrivata la reazione della Boschi che ha parlato di «schifezza» e «assurda vergogna». Poi la crociata di Matteo Renzi alla Leopolda.
Fake news, Salvini: “Mi difendo coi social dalle bufale di regime”, scrive il 27 novembre 2017 "Dire". “Mai presa una lira da Berlusconi, non vado a chiedere elemosine.” Ad affermarlo è Matteo Salvini (segretario della Lega) intervistato da Luca Telese e Oscar Giannino ai microfoni di 24Mattino su Radio 24. Parlando del sequestro dei conti della Lega, Telese gli chiede: “Lei non accetterebbe neanche un prestito? Ha paura di un condizionamento politico?”. E Salvini non ha dubbi: “No, da nessuno, da Renzi o da Berlusconi. I prestiti li chiedo alle banche se me li danno. Per principio”. “Renzi ha speso 400mila euro per andare in giro in treno. Si vede che a lui ci sono banche che fanno credito, si vede che ha un buon rapporto con alcune banche, mettiamola così”, aggiunge poi Salvini a proposito delle difficoltà finanziarie della Lega e delle accuse mosse da Renzi sugli introiti che la Lega avrebbe dalla diffusione di bufale online. “Noi non abbiamo mai incassato una lira dalla pubblicità. Provo a usare Facebook e social per avere un minimo di voce, per contrastare il Tg1 e il TG5 e le bufale di regime”, è invece la replica di Salvini, “bufale contro cui io non ho nessuna voce. Posso usare i due quattrini che ho in tasca per fare due post su Facebook e Twitter”.
Di Maio: fake news su di me da Severgnini. Attendo che si scusi. Crozza lo ha fatto, scrive Domenica 26 novembre 2017 Luigi Di Maio su beppegrillo.it. riportato da "Affari Italiani". Il gesto di Maurizio Crozza Official in questo video è bellissimo. Ha ammesso di aver creduto a una fake news sul mio conto diffusa da Beppe Severgnini e di aver fatto una gag prendendola per buona. Ma poi, quando se ne è reso conto, ha chiesto scusa in diretta tv. Scuse ovviamente accettate! È difficile distinguere il vero dal falso soprattutto quando delle fake news vengono diffuse da giornalisti accreditati. Grazie Maurizio! Spero che ora arrivino anche le scuse dei giornalisti che hanno diffuso la fake news sui giornali e in tv. Intanto diffondiamo il più possibile questo video che aiuta a ristabilire la verità!
M5S: "L'inchiesta sulle fake news è una bufala". Renzi: "Strani legami con la Lega, dimostrino trasparenza". Secondo il blog di Grillo, che prende di mira il renziano Marco Carrai per il legame con l'informatico che ha scoperto le connessioni tra i siti della Lega e quelli pro M5S, "si tratta di un giochino apparecchiato dal Pd". Ma Carrai ha già smentito: "Io non c'entro nulla". E Renzi in serata ribatte: "M5s grida al complotto? Stanno messi male. Serve trasparenza", scrive Annalisa Cuzzocrea il 27 novembre 2017 su "La Repubblica". I 5 stelle reagiscono alle accuse di fake news piovute dal Partito democratico. "E' una follia ritenerci coinvolti", scrivono sul blog di Beppe Grillo accusando anche New York Times e Buzzfeed: "L'inchiesta sulle fake news è una bufala". Frasi a cui in serata replica Matteo Renzi con un post sulla sua eNews: "Davanti alle prove del New York Times, il blog di Beppe Grillo ha reagito con il consueto stile gridando al complotto, ovviamente complotto “degli amici di Renzi”. Stanno messi male, non c'è dubbio". E lancia la sfida: "La battaglia politica acquisisce più significato dopo che è emerso uno strano rapporto che lega adepti del M5s a sostenitori di Salvini. A noi basta solo una riflessione: chi vuole inquinare il dibattito politico ci troverà fermamente dalla parte della verità. Se gli altri partiti politici vogliono fare altrettanto non importa che gridino al complotto: basta che dimostrino la propria trasparenza. Sono in grado di farla? Me lo auguro, glielo auguro". Nel post sul blog di Beppe Grillo, pubblicato in mattinata, si legge: "Si parla di siti web sensazionalistici, a sostegno di una o l'altra forza politica, che riporterebbero i medesimi codici di Analytics e di Adsense. E non ci vuole un genio a capire che questi siti nascono spontaneamente. Sul web ognuno, anche per mero scopo di guadagno attraverso la pubblicità, chiuso nella sua stanza può scegliere di aprire più di una piattaforma e pubblicare quel che vuole. Ma ciò non significa che ci debba essere un coinvolgimento della forza politica di riferimento". E ancora: "Se sono un tifoso di calcio e apro una pagina in cui diffondo notizie false sul Torino non significa che io sia a libro paga della Juventus. E' una follia solo pensarlo. Speriamo di esserci spiegati. E speriamo che il New York Times e Buzzfeed tornino finalmente ad occuparsi di vero giornalismo". "Le due inchieste - scrive il blog - arrivano alla vigilia della Leopolda di Matteo Renzi, quest'anno dedicata proprio alle fake news. Entrambi i pezzi, apparentemente indipendenti, nascono però da una ricerca condotta da un tecnico del web non strettamente indipendente, Andrea Stroppa, che di fatti viene citato nei due articoli". I 5 stelle accusano Stroppa di essere "arruolato nella Cys4, la società di sicurezza presieduta da Marco Carrai", "braccio destro di Renzi e sostenitore delle sue campagne elettorali". Ma è lo stesso Carrai oggi sul Corriere della Sera a chiarire: "Non c'entro niente con l'inchiesta del New York Times, questo è un esempio di fake news. Stroppa lo conosco e per un periodo ha collaborato con una mia società. Chiunque può andare al registro delle Camere di commercio e vedere che non ho mai avuto società con lui". E anche Andrea Stroppa, l'autore del report che ha provato come due siti pro M5S (News 5 stelle e Video a 5 Stelle) e il sito della Lega Noi con Salvini abbiano gli stessi Google id per il controllo del traffico e la pubblicità, aveva spiegato ieri in un lungo post su Facebook la sua posizione, rispondendo agli articoli del Fatto quotidiano e al suo direttore Marco Travaglio: "Vengo definito da una sua giornalista parte dei “Carrai boys”, “pupillo di Carrai”, e lo comprendo. Quando non si è liberi, si cerca di mettere le catene anche agli altri". Sulle fake news è intervenuto stamattina a Circo Massimo, su Radio Capital, anche Matteo Orfini: "La Lega e i 5 stelle devono dare spiegazioni sulle connessioni tra i loro siti - ha detto il presidente Pd - l'internet inquinato dalle bufale è un problema per la democrazia".
Chi controlla l’informazione? Scrive Alessandro Gazoia il 19 febbraio 2016 su "Prismomag.com". In anteprima per Prismo un estratto da Senza Filtro, il nuovo libro di Alessandro Gazoia dedicato a come il ricambio tecnologico, i social media e il web stanno modificando non solo le forme della comunicazione, ma il nostro stesso rapporto con l'informazione, la politica, la democrazia. In questi giorni minimum fax manda in libreria Senza Filtro – Chi controlla l’informazione, il nuovo saggio dello scrittore Alessandro Gazoia. Ringraziando autore ed editore, ne pubblichiamo un estratto che racconta come, in pochi anni e pur tra molti fraintendimenti e ritardi, l’uso invasivo dei social media sia diventato una costante anche nella politica italiana, da Monti a Salvini, da Grillo a Renzi.
Il 21 dicembre 2012, dopo aver guidato per oltre un anno un “governo tecnico”, Mario Monti si dimette da Presidente del Consiglio. Passati alcuni giorni sceglie Twitter e non l’Ansa, il Tg1 o il Corriere della Sera per rendere più chiaro il suo diretto impegno politico futuro: “Insieme abbiamo salvato l’Italia dal disastro. Ora va rinnovata la politica. Lamentarsi non serve, spendersi si [sic]. ‘Saliamo in politica!”. Il tweet viene lanciato il 25 dicembre 2012 alle 23.31, orario troppo tardivo per comparire (se non con una “ribattuta”) sui quotidiani del giorno successivo, che però non bucano la notizia, il 26 non sono infatti in edicola, mentre il giornalismo online e anche i mezzi tradizionali come radio e tv subito commentano il messaggio e il mezzo. Quell’elaborato tweet, in bilico tra un plurale maiestatico e una comunità elettorale in via di definizione, è in affannata e legnosa rincorsa sulla strategia web di Grillo (“va rinnovata la politica” ma “lamentarsi non serve”) e in diretta polemica con il declinante Berlusconi. “Insieme abbiamo salvato l’Italia dal disastro” allude all’opera di Monti, e viene contrapposto all’ultima fase del governo precedente, con il famigerato spread (la differenza in punti percentuali tra gli interessi di obbligazioni di stato tedesche e italiane) alle stelle. L’espressione inusuale, marcata pure dalle virgolette, salire in politica richiama in filigrana e per contrasto lo storico scendere in campo dell’imprenditore, nel messaggio registrato su videocassetta e inviato ai telegiornali nel 1994.
In Italia la comunicazione politica, senza o oltre il giornalismo professionale, l’ha fatta per vent’anni Silvio Berlusconi, in una forma estrema e paradossale: si manifestava per monologhi – espliciti, come la videocassetta per proporsi leader del centrodestra, o impliciti, come le tante interviste concesse a Porta a Porta e alle sue televisioni – e, nelle rare occasioni in cui si trovava esposto a domande non servite per la facile replica, preferiva dare le sue risposte, spesso con grande abilità e autorità. Berlusconi, al pari del comico Grillo dotato di un gusto per la battuta vivo, seppur non sempre felice, e molto attento alla comunione empatica con l’elettorato, faceva spettacolo coi suoi assoli, e disintermediava l’informazione dall’alto. La “calza” davanti alla telecamera del messaggio della discesa in campo, il filtro rozzo e analogico che rendeva il leader levigato e luminoso, era il correlativo oggettivo dell’immagine magnanima e imperiale che Berlusconi si proponeva di costruire, nei confronti della stampa e dei cittadini (telespettatori). Si doveva al tempo stesso marcare la distanza derivante dall’efficienza, competenza e ricchezza di quell’uomo eccezionale, e creare l’illusione dell’accesso diretto e non filtrato per ciascuno: Berlusconi toccava e rassicurava l’elettore, parlava al cuore della gente (utilizzo qui la retorica delle parole semplici e vere di tanti slogan pubblicitari di Forza Italia ed evoluzioni successive). Quando, verso l’inizio di questo decennio, sia per gli eccessi dovuti alla troppa sicurezza e alla cerchia di assoluto consenso (la “bolla” privata) dentro cui il leader viveva, sia per il logoramento degli schemi di narrazione e contenimento applicati a eventi (personali e collettivi) sempre più problematici, la calza si strappa e il filtro plebiscitario si rompe, un enorme spazio resta aperto per Beppe Grillo, Matteo Salvini e Mario Monti che presto scomparirà, lasciando a propria volta campo libero, ovvero facile salita, nel centro-sinistra a Matteo Renzi.
Col tweet di Monti del dicembre 2012, l’importanza dei social network e della relazione che offrono con l’elettore comincia a essere pienamente riconosciuta. In quella fine del 2012 Renzi è ancora sindaco di Firenze, e Monti all’apice della sua influenza intende disintermediare, ora che, conclusa l’esperienza del “governo tecnico”, si ritrova a dover conquistare i voti degli elettori. Non è certo la necessità a spingerlo verso Twitter, a partire dal basso, dato che ha a disposizione le colonne e il pieno sostegno del Corriere della Sera (del quale è da lungo tempo editorialista di grande peso) per esprimere la sua idea dell’Italia e convincere i millecinquecento lettori che contano di Forcella. Ma nel giorno di Natale e in apertura di campagna elettorale preferisce il social network, l’immediatezza e il tocco personale: vuole produrre quell’empatia che molti gli rimproverano di non saper neppure imitare (il tweet inizia con un significativo “insieme”). L’importanza delle nuove piattaforme digitali e della relazione che offrono con l’elettore comincia infatti a essere pienamente riconosciuta, i politici di primo piano comprendono la necessità di operare anche in questo ambiente e il nostro giornalismo parlamentare deve adattarsi a non considerarlo più una curiosità buona per un pezzo di colore, tra folklore grillino e moda americana. Giusto alcuni mesi prima Pierferdinando Casini aveva compiuto un piccolo ma significativo gesto: dimostrava l’unità della maggioranza governativa di cui faceva parte postando su Twitter una foto che lo ritraeva in una riunione ufficiale e privata con Monti, Alfano e Bersani. Il testo proclamava: “Siamo tutti qui! Nessuna defezione!”, in raddoppio sugli esclamativi e con un noi più ristretto rispetto al tweet di Monti. La foto non era chiaramente scattata dal politico, che sorrideva seduto a destra nell’inquadratura ma venne definita un selfie (parola che stava diventando allora popolarissima), sia perché inviata a Twitter dallo stesso Casini sia per il suo proporsi come testimonianza personale.
Il fantomatico “selfie” di Pierferdinando Casini. Per alcuni professionisti la disintermediazione del giornalista e del fotografo praticata da quel tweet è insieme un mistero, un pericolo e un oltraggio, come spiega, nel contesto di una più ampia riflessione, Michele Smargiassi: “Dirsi come fa Alessandro Di Meo dell’Ansa, forse uno tra i fotografi professionali che assediavano Palazzo Chigi l’altra sera, che è “uno scatto che funziona, ma perché non chiamare noi, che seguiamo notte e giorno i politici?”, è già avere la risposta: perché quello scatto funziona, e funziona proprio perché è un autoritratto del potere che si presenta in modo inconsueto, diverso dalle ingessature dei ritratti ufficiali. Questa fotografia “ufficiosa” che simula una familiarità da tag di Facebook (tipo “Ragazzi guardate, siamo qui, a Palazzo Chigiiii! Con Monti! Wow!”) è sicuramente un fatto nuovo nella comunicazione politica italiana. Ma questa fotografia è tutt’altro che innocente e spontanea, e lo capisce chiunque. Il potere rappresenta se stesso”. Monti e Casini decidono di comunicare attraverso Twitter oltre che con agenzie, giornali, radio e TV, perché è ormai sentita come un’esigenza non procrastinabile l’“orientamento della conversazione” che si sviluppa sui social network e da lì passa nei canali tradizionali. Il tweet ha preso il posto della breve d’agenzia e il post su Facebook del comunicato stampa, ma i politici disintermediano in piena continuità con quanto hanno sempre tentato di fare nell’era delle comunicazioni di massa. La familiarità e spontaneità della comunicazione in rete è un’estensione e un aggiornamento del tradizionale primo lavoro del politico: stringere le mani, baciare i bambini e farsi riprendere mentre compie queste azioni, senza filtro, oltre le “ingessature dei ritratti ufficiali”.
La pizza di Salvini. Quando, alle otto di sera del 24 febbraio 2014, Matteo Salvini invia con lo smartphone a Facebook la foto della sua pizza casalinga fa notizia e lavoro politico: quel piatto è una sorta di gesto di pacificazione con il Sud e segnala la nuova vocazione nazionale della Lega. Buona parte del pubblico lo sa, a cominciare da quelli che lo criticano per la forma – invero peculiare – della pizza e quindi lo accusano, implicitamente o meno, di volersi appropriare di qualcosa che non gli appartiene. L’uso dei social network di Salvini, con le aperture sulla propria vita privata, il linguaggio molto diretto e le frequenti domande retoriche che invitano a uno specifico commento di approvazione per il leader o di denuncia degli avversari, non è meno codificato e strutturato di un comizio degli anni Settanta e vuole ottenere la stessa comunione e “condivisione” con il singolo elettore. Negli anni Trenta i discorsi al caminetto del presidente americano Roosevelt alla radio, il primo mezzo di comunicazione di massa con la diretta, volevano essere un messaggio personale, capace di toccare ogni singolo cittadino: disintermediavano e coinvolgevano empaticamente. Costituivano la risposta democratica alle orazioni fasciste trasmesse alla radio di Mussolini e Hitler che, a propria volta, sussumevano il singolo in una superiore unità – il Popolo, la Nazione – e lo rendevano, in questo movimento, in forma diversa speciale. Vediamo lo stesso desiderio di congiungere la massima copertura in broadcast e la massima individuazione dell’elettore nel messaggio per la discesa in campo di Berlusconi, e nell’uso massiccio da parte di Obama di new e social media. Salvini su Facebook e Twitter non fa nulla di radicalmente nuovo, e la sincerità e l’immediatezza del singolo gesto – il desiderio di cliccare invia sullo smartphone e condividere subito una certa immagine sui social network, esattamente come accade a noi comuni cittadini – non cambiano ma confermano il contesto di cura dell’elettorato e della propria immagine.
Il numero di professionisti della comunicazione politica aumenta e le loro competenze si fanno più varie, ora che i potenziali elettori sono facilmente conoscibili grazie ai social media. Il politico di rilievo, così come la star, è oggi sempre notiziabile, o meglio vorrebbe esserlo sempre e nel modo da lui favorito, e lavora a questo fine attraverso l’attività in rete. Questa comunicazione salta alcune mediazioni tradizionali – nel caso della foto di Casini il fotografo parlamentare, nel caso di Salvini il fotografo privato che Berlusconi utilizzava per mostrare la sua villa e la sua famiglia agli italiani – ma rimane fondamentale l’assistenza degli esperti. Anche sul web, e pure in questo aspetto possiamo dire che Grillo e Casaleggio sono stati fonti di ispirazione. I professionisti dell’informazione vengono coinvolti e “orientati” come un tempo e i professionisti della comunicazione politica continuano a essere impiegati, anzi il loro numero aumenta, le loro competenze si fanno più varie e il loro lavoro più sofisticato, ora che i potenziali elettori, proprio grazie all’attività sui social network, sono facilmente conoscibili in molte preferenze. È quindi possibile andare incontro al voto individuale, in maniera non troppo distante dalla personalizzazione di un sito. I social network sono stati integrati perfettamente nella grande macchina delle due campagne presidenziali di Barack Obama, dove si sono dimostrati utili anche per la definizione di un accurato profilo degli elettori che, all’occorrenza, diventano bersagli di un marketing politico miratissimo. Semplificando diremo che per vincere un certo voto in un determinato luogo si potranno accentuare alcuni temi e mettere la sordina ad altri, come da regola in campagna elettorale in un grande e variegato paese quale è l’America, ma sulla base di una quantità molto più ampia e al tempo stesso molto più raffinata di dati rispetto ai tradizionali sondaggi. Non a caso vi è ormai in America un rapporto molto stretto e pure un flusso di personale tra protagonisti dei social network e della politica. Nicholas Lemann lo spiega attraverso l’esempio di LinkedIn, il social network per l’attività professionale con oltre 375 milioni di iscritti, e del suo ceo Reid Hoffman: “LinkedIn ha fornito alla Casa Bianca una parte della miniera di dati collezionati sull’attività degli utenti nel mercato del lavoro, che sono quindi stati utilizzati nel rapporto economico annuale del Presidente. All’inizio di quest’anno, un ex dirigente di LinkedIn, DJ Patil, è stato nominato chief data scientist alla Casa Bianca. A luglio Hoffman ha organizzato un incontro con persone coinvolte nella nuova fondazione di Obama su come sfruttare al meglio la forza dei social network[…]”.
Selfie con la nazionale di pallavolo prima del summit europeo sull'occupazione. La stretta relazione tra Hoffman e la Casa Bianca non è limitata al suo ruolo di grande political donor. Lui e quelli come lui hanno qualcosa di più potente del denaro da offrire: un modo per gli officials di connettersi con il pubblico più largo possibile. Nel diciannovesimo secolo, questo ruolo lo svolgevano i capi delle macchine elettorali; nel ventesimo, i capitani dei media, specialmente nel broadcasting e nei giornali; nel ventunesimo lo fanno le persone che hanno creato grandi reti sociali online. Il rapporto coi signori delle grandi piattaforme online è molto ricercato pure dai politici italiani che amano volare verso il futuro e la Silicon Valley – e nel pezzo appena citato si parla anche di una cena tra Larry Page (Google) e l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino che desiderava “creare un piccolo gruppo qui”. Le sofisticate forme di profilazione dell’elettorato non sono ancora del tutto sviluppate nel nostro paese e il più frequente travaso di personale verso la politica continua a essere quello molto tradizionale dei giornalisti. Filippo Sensi – ex vicedirettore del piccolo quotidiano Europa (legato al PD e chiuso alla fine del 2014), oltre che famoso blogger e influencer su Twitter – ha acquisito un ruolo strategico nella gestione della comunicazione di Matteo Renzi, e l’enorme interesse che la sua figura suscita sui giornali è dovuto in parte al meccanismo abituale e forzoso del Grande Vecchio o almeno dell’Eminenza Grigia, favorito nell’applicazione alla rete dall’esempio di Grillo e Casaleggio; ma deriva anche da un certo ritardo del nostro contesto, dallo stupore di fronte a una comunicazione politica condotta con grande professionalità e aggiornamento tecnico su tutti i media, di fronte a uno spinning che include e anzi mette in evidenza i social network. Nell’attività di Sensi si individua tuttavia una forte continuità con pratiche antiche, a cominciare dalla piena consapevolezza del ruolo della stampa nel nostro paese: la solerzia con cui ricerca e cura il filtro dei singoli giornalisti e intellettuali è almeno pari all’ingegno profuso nella “disintermediazione” via hashtag arguti di Renzi. Con il governo Renzi si è superata una nuova soglia: la costante e insistente attività sui social fa parte del messaggio stesso di giovanile dinamismo, concretezza antiburocratica e apertura al nuovo. Mario Monti alla fine del 2012 annunciava la sua intenzione di salire in politica su Twitter, Matteo Renzi nel febbraio 2014 sale al Quirinale per presentare la lista dei ministri a Napolitano e durante il lungo colloquio col presidente della Repubblica twitta impaziente il messaggio politico dell’energia e dell’ottimismo: “Arrivo, arrivo! #lavoltabuona”. Con il governo Renzi si è appunto superata una nuova soglia, poiché la costante e insistente attività sui social media fa parte del messaggio stesso di giovanile dinamismo, concretezza antiburocratica, apertura al nuovo e trasparenza del politico. La strategia è ancora una volta orientata alla personalizzazione, sia nel senso dell’enfasi sul leader sempre attivo e presente, sia del singolo cittadino a cui in principio si presta ascolto, e anzi se ne sollecita il contributo sulle reti sociali, con un appello all’unità e alla buona volontà oltre le differenze, per far ripartire il paese. Renzi opta per l’uso sistematico e primario di Facebook e Twitter come agenzia politica, anzi governativa, e al pari di Grillo e Casaleggio, ma in forme più misurate ed eleganti, segue un’ideologia della rete e dell’innovazione. Ritiene quindi un progresso comunicare stabilmente notizie di rilievo per la nazione in prima istanza su quei social network, piattaforme private di proprietà di aziende americane, e le promuove così, nell’ideale della comunicazione empatica, a bene comune – e nel concreto economico e digitale della Silicon Valley, a meta di pellegrinaggio politico.
Tre gradi di separazione, scrive Giovanna Baer su Paginauno n. 18, giugno - settembre 2010. Chi possiede o controlla, seduto nei Consigli di amministrazione, i principali quotidiani italiani? Inchiesta sulla longa manus della banche e dell’industria nella carta stampata. Il doppio livello di lettura dei giornali italiani. Nessuna notizia è pienamente comprensibile se non si capisce da chi viene: la proprietà della testata, gli interessi che rappresenta e soprattutto le relazioni di potere, espresse nei consigli di amministrazione. E nessuna notizia è pienamente comprensibile se non si capisce come viene "offerta" al lettore: il posizionamento all'interno del giornale e le parole usate. Perché ogni quotidiano ha un doppio livello di lettura: visibile e invisibile. E lo si può leggere in modo passivo, da semplici fruitori di notizie, o con spirito critico, sapendo riconoscere, tra le righe, il modo in cui i poteri economico e politico usano l'informazione per indirizzare la pubblica opinione... (leggi...)
La teoria dei "sei gradi di separazione" è un’ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altro abitante del globo terrestre attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari. Proposta per la prima volta nel 1929 dallo scrittore ungherese Karinthy in un racconto breve intitolato Catene, venne confermata nel 1967 dal sociologo americano Stanley Milgram e più tardi, nel 2001, da Duncan Watts della Columbia University. La ricerca di Watts, pubblicata su Science nel 2003, permise l’applicazione della teoria dei sei gradi di separazione anche in aree differenti, tra cui l’analisi delle reti informatiche ed elettriche, la trasmissione delle malattie, la teoria dei grafi, le telecomunicazioni e la progettazione della componentistica dei computer. La nostra inchiesta vuole dimostrare che la legge di Watts non si applica alle relazioni fra le principali testate giornalistiche italiane e il capitalismo industriale-finanziario, o più precisamente che, analizzando i legami esistenti, andrebbe corretta al ribasso, in non più di tre gradi di separazione.
Con quali effetti sulla libertà di informazione? La cosiddetta linea editoriale è ciò che distingue in sostanza una testata giornalistica da un’altra. Rappresenta, diremmo in linguaggio aziendale, una sorta di missione strategica, l’ipotesi di fondo a partire dalla quale si scelgono e si analizzano le notizie. Dall’esistenza di linee editoriali diverse – il cosiddetto pluralismo informativo – dipende la qualità dell’informazione, perché il pluralismo garantisce al cittadino/lettore la possibilità di conoscere notizie differenti lette da punti di vista differenti. Non solo. Dal pluralismo informativo dipende anche la possibilità che uno Stato possa dirsi democratico, dal momento che un elettore adeguatamente informato è messo in condizione di esercitare un voto consapevole. Il caso opposto, quello cioè di una rappresentazione univoca della realtà socio-politico-economica di un Paese (pensiamo alla Pravda di staliniana memoria), impedisce la corretta formazione del consenso, e quindi il libero esplicarsi dei meccanismi democratici.
Ciò detto, dove si forma la linea editoriale di una testata? Come suggerisce il termine, è espressione della visione dell’editore, e si forma nel luogo in cui questi (che è il proprietario del giornale) prende le sue decisioni strategiche. Nelle moderne società capitalistiche questo luogo è il Consiglio di amministrazione. Diamo quindi un’occhiata a chi siede nei Cda dei principali giornali italiani e valutiamo di quali tipi di interessi siano portatori, dal momento che sulla base degli interessi del Consiglio si forma la linea editoriale.
Partiamo dal più importante quotidiano a diffusione nazionale, il Corriere della Sera. Il suo editore è il gruppo RCS (Rizzoli Corriere della Sera), quotato in borsa. Il Corsera ha fama di essere il giornale super partes per definizione, quello che meglio rappresenta il tipo di linea editoriale tipico dell’informazione anglosassone (come si dice di solito, ‘all’americana’), per definizione indipendente da interessi particolari. Ma, analizzando il suo Cda, più che super partes dovremmo definirlo inter partes: in esso siedono infatti John Elkann, presidente di Fiat e di Exor (la holding finanziaria della famiglia Agnelli); Franzo Grande Stevens, avvocato storico di casa Agnelli, ex vicepresidente Fiat e attualmente presidente della Fondazione San Paolo; Carlo Pesenti, consigliere di Italcementi, Unicredit, Italmobiliare e Mediobanca; Berardino Libonati, consigliere di Telecom Italia e Pirelli; Jonella Ligresti, consigliere di Fondiaria, Italmobiliare e Mediobanca; Diego Della Valle, consigliere di Tod’s, Marcolin e Generali Assicurazioni; Renato Pagliaro, consigliere di Telecom Italia, Pirelli e Mediobanca; Giuseppe Lucchini delle omonime acciaierie; Paolo Merloni, CEO (Chief Executive Officer, ossia amministratore delegato) di Merloni Finanziaria, gruppo Indesit Company; Enrico Salza, consigliere di Intesa San Paolo; Raffaele Agrusti, consigliere di Assicurazioni Generali; Roberto Bertazzoni, consigliere di Mediobanca; e Claudio De Conto, di Pirelli Real Estate. Fra Corsera e Fiat, Pirelli, Telecom Italia, Mediobanca, Intesa, e tutte le altre aziende citate, ci sono zero gradi di separazione, cioè sono direttamente collegate fra loro. Grande finanza, banche, assicurazioni, automotive, telecomunicazioni, cementifici, acciaierie, pneumatici, immobili, moda, elettrodomestici: non c’è praticamente nessun settore del made in Italy che non possa dire la sua sui contenuti e sulla posizione del giornale. Viene da dire che in Italia essere indipendenti coincide col dipendere da tutti, nessuno escluso: la linea editoriale del Corrierone nazionale risentirà quindi delle esigenze e degli accordi reciproci fra le aziende che siedono in Consiglio: nessuna visione strategica a prescindere, e una pletora di manovre tattiche in risposta alle necessità del momento.
Meno compromessa, ma solo all’apparenza, La Repubblica, che fa parte del Gruppo l’Espresso di Carlo De Benedetti. Nel Cda de L’Espresso troviamo Sergio Erede, amministratore di Luxottica; Luca Paravicini Crespi, consigliere della Piaggio dei Colaninno (dove siede accanto a Vito Varvaro, il quale a sua volta è anche nel Cda della Tod’s di Diego Della Valle) e figlio di Giulia Maria Crespi, ex direttore editoriale del Corriere ed ex presidente del Fai; e Mario Greco, consigliere di Indesit Company (dove siede anche Emma Marcegaglia) e della Saras di Massimo Moratti (già rappresentato nel Cda del Corriere attraverso i consiglieri del gruppo Pirelli).
Massimo Moratti rappresenta inoltre il trait d’union fra il Gruppo L’Espresso e la famiglia Berlusconi, poiché siede, oltre che nel Cda della Saras, anche in quello della Pirelli, accanto a Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e amministratore Mediaset.
La famiglia Berlusconi controlla direttamente Il Giornale, edito dal gruppo Mondadori, mentre la famiglia Agnelli è proprietaria del quotidiano La Stampa di Torino.
Il Messaggero di Roma, il Mattino di Napoli, il Gazzettino di Venezia e il Nuovo Quotidiano di Puglia sono editi dalla Caltagirone Editore, di proprietà della famiglia Caltagirone (grandi opere, cementifici, immobili): fra gli altri, siedono nel Cda di Caltagirone Editore, Azzurra Caltagirone, moglie di Pier Ferdinando Casini, e Francesco Gaetano Caltagirone, consigliere di Monte dei Paschi e di Generali Assicurazioni.
Il Resto del Carlino di Bologna, la Nazione di Firenze e Il Giorno di Milano sono invece posseduti dalla Poligrafici Editoriale, collegata con due gradi di separazione a Telecom Italia, Generali Assicurazioni e Gemina (attraverso Massimo Paniccia e Aldo Minucci); e con tre gradi di separazione (attraverso Roberto Tunioli, Sergio Marchese e Giuseppe Lazzaroni), alla Premafin della famiglia Ligresti.
Infine una notazione quasi umoristica. Libero, l’aggressiva testata di destra e Il Riformista, quotidiano timidamente di sinistra, hanno lo stesso editore (e quindi zero gradi di separazione!): Giampaolo Angelucci, proprietario di un impero fatto di cliniche e strutture sanitarie (fra cui l’ospedale S. Raffaele di Roma), e messo agli arresti domiciliari il 9 febbraio dello scorso anno per falso e truffa ai danni delle Asl.
La situazione non migliora, anzi se possibile peggiora, quando si analizzano i quotidiani finanziari. Il Sole 24 Ore, come è noto, è appannaggio dell’universo Confindustria, quindi diretta espressione dei desiderata dei principali gruppi industriali del Paese. Nel suo Cda siedono, fra gli altri, Giancarlo Cerutti, consigliere di amministrazione di Saras; Luigi Abete, presidente di Bnl (gruppo Paribas), fratello di Giancarlo Abete (presidente della Figc) e consigliere anche della Tod’s di Diego Della Valle; e Antonio Favrin, collega di Cda, in Safilo Group, di Ennio Doris, che siede in Mediolanum della famiglia Berlusconi e in Mediobanca.
A proposito dei legami fra industria, editoria e sport, è interessante notare come quattro delle principali squadre di calcio italiane appartengono a gruppi industriali che possiedono, o amministrano più o meno direttamente, almeno un quotidiano generalista: la Juventus degli Agnelli (che influenzano la Stampa e il Corriere), il Milan di Berlusconi (Il Giornale), la Fiorentina dei fratelli Della Valle (il Corriere), e infine l’Inter di Massimo Moratti (il Corriere e La Repubblica).
Milano Finanza e Italia Oggi, quotidiani economici molto conosciuti fra gli addetti ai lavori, sono invece editi dalla Class dei fratelli Panerai, e nel Cda del gruppo “leader nell’informazione finanziaria, nel lifestyle e nei luxury good products” (come si autodefinisce), siedono Maurizio Carfagna, consigliere di Mediolanum, e Victor Uckmar, il più celebre fiscalista italiano, i cui servigi sono stati richiesti in passato da ogni possibile gruppo industriale, e che oggi è amministratore della Tiscali di Renato Soru. Non sorprende quindi che gli analisti finanziari italiani lamentino l’impossibilità di rintracciare informazioni equilibrate sulla base delle quali valutare i bilanci delle società, o che scandali come quello della Cirio o della Parmalat siano stati tenuti nascosti finché non è stato troppo tardi perché i piccoli investitori (ma non le grandi banche!) potessero rendersi conto della reale situazione.
E qui è necessario notare un dettaglio sconcertante. Tiscali è l’editore de L’Unità – il quotidiano del principale partito di sinistra del Paese, il Pd – che risulta pertanto a un solo grado di separazione da Milano Finanza e Capital (attraverso Uckmar); e a due gradi di separazione (lo stesso Uckmar e Carfagna), dalla Mediolanum di Berlusconi.
Esiste poi un Consiglio di amministrazione dove tutti i gruppi industriali e bancari citati, a eccezione della famiglia De Benedetti, si incontrano, ed è quello di Mediobanca, ai tempi di Enrico Cuccia – suo fondatore – il ‘salotto buono’ della grande finanza, quella che dirigeva i destini dell’economia italiana sulla base di un preciso progetto strategico (più o meno condivisibile, per carità, ma almeno un progetto c’era), e ora trasformato in enclave di ogni possibile mediazione. Nessuno stupore che l’economia italiana navighi, per la verità a ritmi piuttosto bassi, alla deriva, priva com’è di un timoniere (una volta questo era il ruolo dei politici), in grado di darle una rotta qualsiasi.
E ora tiriamo le somme: se sei sono i gradi di separazione fra due entità qualsiasi prese a caso, è evidente che tre, due, uno, o nessun grado di separazione non rappresentano un legame casuale. Esiste quindi la precisa volontà da parte di industria e finanza di controllare le notizie. Prova ne sia l’ostinazione con cui tanti imprenditori e manager italiani (un esempio per tutti – senza scomodare Silvio Berlusconi – è Diego Della Valle, che si è sottoposto ad anni di paziente anticamera pur di essere ammesso al Cda del Corsera), cercano di forzare la porta dei circuiti informativi. Ovviamente non è prudente che il legame sia sempre diretto, perché una situazione di controllo trasparente potrebbe far nascere qualche lecito dubbio nella mente dei cittadini lettori/elettori sull’attendibilità di quel che apprendono nella lettura dei quotidiani o addirittura potrebbe obbligare i direttori e le redazioni dei grandi giornali a fare i conti con il loro ruolo di utili idioti (ovviamente in buona fede, non ne abbiano a male per la definizione). Divengono quindi necessari degli ‘intermediari’ che intorbidino le acque nascondendo gli interessi reali, e che nello stesso tempo costituiscano il trait d’union fra quelli che devono apparire come opposti estremismi. Il profilo tipico di questa figura essenziale è quello del ‘tecnico’: avvocato, consulente, commercialista, revisore, sempre al corrente dei panni sporchi di famiglia (di più famiglie), al contempo confessore e uomo di fiducia, vincolato, più o meno direttamente, al segreto professionale. Come Berardino Libonati (classe 1934), titolare dello studio legale Jaeger-Libonati e ordinario di diritto commerciale all’Università La Sapienza di Roma, che ha ricoperto la carica di presidente del Cda del Banco di Sicilia dal 1994 al 1997; dal 1998 al 1999 e stato presidente di Telecom Italia e di Tim; ha fatto parte del collegio sindacale di Eni dal 1992 al 1995; dal 2003 al 2007 è stato membro del Cda della Nomisma di Romano Prodi; dal 2001 al 2007 è stato consigliere di amministrazione di Mediobanca; è stato presidente del Cda di Alitalia dal febbraio al luglio 2007, e presidente del Cda di Banca di Roma dal 2002 al 2007. Attualmente, oltre a far parte dei Cda di Pirelli, Telecom e RCS, è vicepresidente del gruppo Unicredit. Nel suo curriculum vitae pubblicato sul sito di Pirelli, in una nota particolarmente umoristica, si legge che “è in possesso dei requisiti contemplati dal codice di autodisciplina delle società quotate per essere qualificato come indipendente”.
Un altro super tecnico è Mario Greco (classe 1957), consigliere del gruppo l’Espresso, di Saras, di Indesit Company, di Fastweb e di Banca Fideuram, laureato con lode in economia all’Università di Roma. Partner fino al 1994 di McKinsey&Company, la più importante società mondiale di consulenza strategica, è stato amministratore delegato e CEO di Ras dal 1998 fino al 2005. Poi c’è Carlo Secchi (classe 1944), professore ordinario di Politica economica europea all’Università Commerciale Luigi Bocconi (è stato il diciassettesimo rettore della stessa università dal 2000 al 2004), attualmente nel Consiglio di amministrazione di cinque aziende quotate in borsa: Pirelli, Italcementi, Mediaset, Allianz-Ras e Parmalat, nonché di Fondazione Teatro alla Scala, TEM Tangenziali Esterne di Milano, Milano Serravalle, La Centrale Sviluppo del Mediterraneo, Premuda, e futuro consigliere della società che dovrà organizzare l’Expo 2015 a Milano. Uomini potenti perché – loro sì – informati, ma nello stesso tempo condannati a servire il sistema, indispensabili ma sostituibili, schiavi delle beghe piccole e grandi e dei capricci degli imprenditori di cui sono al soldo, con la loro indubbia statura professionale che basta a stento a ritoccare la facciata.
Quali sono gli effetti di questa tragica analisi sulla libertà di informazione? 7 aprile 2010. Poco prima delle 10.30 decolla dall’aerodromo militare di Payerne il primo aereo alimentato esclusivamente a energia solare. Si chiama Solar Impulse e ha sorvolato per due ore la Svizzera occidentale. L’aereo è stato progettato per volare giorno e notte senza produrre alcuna emissione. Sulle ali del Solar Impulse, costruito in fibra di carbonio, sono installate 12mila cellule fotovoltaiche. L’aereo è a elica ed è spinto da quattro motori elettrici. Il velivolo, per la cui costruzione sono stati impiegati sei anni, è il prototipo di un aeroplano che secondo i programmi compirà il giro del mondo senza carburante nel 2012. Si tratta di un aereo dalle vaste dimensioni, ha infatti l’apertura alare di un Airbus A340, ma il suo peso è equivalente a quello di un’auto di medie dimensioni. In un periodo in cui il prezzo del petrolio è in brusca risalita e il tema della sostenibilità ambientale sempre più trattato, ci si immagina che questa notizia debba ricevere gli onori della cronaca e che venga salutata con entusiasmo. Invece no, in Italia nemmeno una parola, né in televisione né sui giornali, con l’eccezione di un articoletto sul Sole 24 Ore pubblicato sull’inserto online Nuove energie e di un pezzo su L’Osservatore Romano. Forse perché l’opinione pubblica rimanga convinta dell’insostituibilità dell’oro nero? Quante altre notizie non vengono date? Non possiamo saperlo, ma siamo ragionevolmente certi che le notizie pubblicate sono quelle che non infastidiscono nessuno. Cronaca nera, pettegolezzi politici e non, pochissimo approfondimento e quasi nessuna inchiesta, notizie dall’estero estremamente limitate, e solo quando non se ne può fare a meno: guerre, tsunami, terremoti. Anche la lotta tutta nostrana fra chi è pro e chi contro Berlusconi, fra il partito dell’odio e quello dell’amore, o la querelle fra Stato confessionale e Stato laico, sono comode cortine di fumo per non parlare di altro: la crisi economica, la responsabilità delle banche nel suo perdurare, la grande impresa che non sa che fare. Emma Marcegaglia chiede al governo, nel corso del convegno degli industriali del 10 aprile 2010, di impegnarsi entro due mesi per un investimento di almeno 1 miliardo di euro su ricerca e innovazione e di circa 1-1,5 miliardi sulle opere infrastrutturali. Ma con i soldi di chi? E tagliando quali costi? E cosa ci darebbe in cambio la grande industria? Emma non lo dice, nessuno glielo chiede. Intrallazzi fra pubblico e privato costantemente oscurati, miliardi che corrono ma nessuno lo sa, accordi sottobanco con la criminalità organizzata, servizi segreti a disposizione di interessi privati: verità solo annusate che è impossibile addentare, mentre leggiamo di pedofilia vaticana, di un federalismo misterioso, dell’ennesima esternazione di un premier che ormai ha superato i confini del bene e del male e della morte prematura di un Presidente polacco. È proprio il caso di dirlo: beata ignoranza!
SCATENI. Il mistero dei misteri, le non verità. Articolo pubblicato il: 26/11/2017 17 su "Goldwebtv.it". Domani, lunedì 27 novembre, alle 10, il Gran Caffè Gambrinus ospita l’incontro dibattito “Giustizia e memoria, trent’anni di verità nascoste”. Se alla libertà di informazione e al diritto di conoscere la verità fa più danni la censura, l’autocensura o l’aggravante di documenti segretati per nascondere responsabilità istituzionali. E’ la domanda che si fa ogni giornalista democratico se disposto a pagare il prezzo della coerenza è penalizzato senza dolersene, escluso da vantaggi di carriera o remunerativi. E’ un’inezia, ma traslata nel moltiplicatore della sopraffazione generalizzata della libertà di informare, semplifica le dinamiche che regolano il controllo della comunicazione. Era alla guida del Tg1, Vespa, direttore noto per empatia con la destra molto moderata. Nel contatto di prima mattina con la testata mi chiesero di inviare un servizio, tra l’altro senza alcuna implicazione politica. Un’ora prima della messa in onda il caporedattore mi chiese perché non avessi inoltrato anche il testo del servizio. Mi spiegò un esperto di modi d’essere di quel telegiornale che quel fax sarebbe stato sottoposto al responsabile dei rapporti con il partito di riferimento per l’ok alla messa in onda. Ovvio, non ho più collaborato con il Tg1. Che giornali e comunicazione radiotelevisiva siano cinghie di trasmissione dei partiti è noto e nel dettaglio è storicamente accertata la sintonia politica dei tre canali Rai con chi governa e chi è all’opposizione. Altrimenti perché tre telegiornali, tre radiogiornali, tre troupe sullo stesso accadimento, perché Porta a Porta e il suo politicamente opposto Report? Cos’altro ispira la linea editoriale di quotidiani come Libero, Il Giornale, la Repubblica, il Corriere, le reti Mediaset e il rosario di emittenti private foraggiate dal network di Berlusconi con la cessione di pacchetti di pubblicità, se non l’amplificazione degli interessi politici dei rispettivi partiti? L’Italia, ma non solo, è priva del fondamentale contributo all’informazione libera del giornalismo free lance che negli Stati Uniti ha una sua straordinaria consistenza. In quel Paese un redattore indipendente, al top della visibilità conquistata con inchieste e articoli esenti da censura, è parte della coscienza critica del sistema. In Italia le assunzioni sono subordinate all’organicità dell’aspirante giornalista alla linea editoriale (cioè politica) della testata, verificata nel periodo del cosiddetto praticantato. La ricaduta sui mille misteri che nascondono l’accertamento di altrettante verità, sarà evidente in questo incontro per il lavoro di Andrea Cinquegrani, giornalista “eroe del nostro tempo” che ha indagato e smascherato decine di retroscena di scandali, reati di corruzione, trame eversive, rara testimonianza in Italia di giornalismo d’inchiesta. Questo nobile comparto dell’informazione, oramai è consentito solo ai grandi gruppi editoriali, in grado di sostenere l’onere delle spese legali per la difesa da querele facili dei soggetti indagati, gli stessi che hanno spento una delle voci libere della comunicazione. La Voce della Campania, testata storicamente coraggiosa, ha subito la violenza dei poteri forti e in misura rilevante la subordinazione di parte della magistratura a personaggi dei partiti, di potentari analoghi. E’ di Rita Pennarola la conoscenza in dettaglio di questo ignobile capitolo del nostro giornalismo. Coraggio da vendere ha fatto di Michel Moore il giustiziere senza paura di una delle mistificazioni a valle del depistaggio americano che ha impedito la verità su episodi divenuti simbolo della disinformazione. Il docufilm sull’attentato alle torri gemelle è un’impressionante atto d’accusa alla versione ufficiale dell’evento disastroso, viziata da semplificazioni di comodo per assolvere responsabilità istituzionali. Armi decisive per sostenere quel che resta del giornalismo d’inchiesta sono gli archivi delle testate giornalistiche quelli personali. Un esempio probante è il patrimonio di conoscenze messe in memoria di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Il problema è che giornali, periodici e informazione radiotelevisiva, fanno ricorso a ricchissimi archivi e fonti telematiche a loro uso e consumo. Chi ha indotto Milena Gabanelli alle dimissioni, all’esodo dalla Rai? Il chi non è venuto allo scoperto, il perché si intuisce. Le sue inchieste non hanno risparmiato le responsabilità politiche di qualunque segno politico. Il bavaglio ai grandi temi scottanti della società contemporanea si affida ad omertà imposte o autosancite per molteplici convenienze: copre le trame delle commistioni mafia-politica, stragi, i retroscena del terrorismo. Fanno testo il lato oscuro del rapimento di Moro, gli assassini di Ilaria Alpi, di Regeni, altri che l’incontro ricorderà per dare consistenza al progetto Giustizia e memoria, promosso dalla Camera di Giustizia europea, dalla Voce delle Voci con il supporto di Meridonare. La domanda a monte di questo incontro-dibattito: ci sono responsabilità del sistema giudiziario, di singoli magistrati e del loro braccio operativo se tanti misteri rimangono insoluti o il controllo blindato della politica è determinante nell’impedire l’accertamento della verità? Chi meglio di alti magistrati può dare risposta a questa legittima richiesta? E non è certo un caso se relatori di questo incontro saranno Nicola Cioffi, Antonio Esposito e Bruno Spagna Musso, magistrati di cassazione, la giurista Manuela Mazzi e la direttrice della Voce delle Voci Rita Pannarola.
Fake news e libertà di stampa, la disinformazione all’italiana in quattro punti, scrive Tiziana Ciavardini il 28 aprile 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sarà pur vero, come riportato dall’annuale rapporto di Reporters sans Frontieres, che il nostro Paese ha migliorato e di molto la propria condizione relativa alla libertà di informazione, balzando dal 77° al 52° posto nella classifica mondiale. Nonostante questo, l’Italia si colloca agli ultimi posti nell’Unione Europea. Il primato, invece, continua ad appartenere alla Finlandia, paese in cui le condizioni di lavoro per i giornalisti sono le migliori al mondo. Sarebbe davvero interessante, poi, stilare una classifica di quali siano i paesi al mondo che continuano, forti della convinzione che la libertà di espressione sia un diritto di tutti, a fare dell’informazione una pratica ‘disinformata’. Proprio così, perché il rischio che all’Italia venga assegnato il primato della disinformazione non è poi così lontano. Ancorati all’etnocentrismo fai da te e convinti che, in quanto liberi, possiamo esprimere qualunque opinione, crediamo di aver acquisito anche il dovere di raccontare ciò che vogliamo, dimenticando troppo spesso che le notizie dovrebbero essere prima verificate. Oggi siamo tutti giornalisti. Qualcuno serio che si attiene alle regole deontologiche per fortuna ancora si trova, ma il vero dramma è che giovani blogger hanno la presunzione di atteggiarsi a giornalisti esperti facendo delle proprie convinzioni dei dati di fatto, per poi far cadere nella trappola migliaia di lettori. Questo genere di informazione falsata diventa “pura disinformazione” ed è ormai all’ordine del giorno: dalle fake news alla manipolazioni delle notizie, spesso i mezzi di comunicazione non ci raccontano la verità. Se oggi molti italiani si trovano ad avere idee confuse su molti temi, quali terrorismo, Islam, immigrazione, politica, sanità e tanti altri, è proprio perché l’informazione ha voluto creare questa realtà. Chissà se riusciremo mai a sapere se in buona o cattiva fede. La comunicazione in senso generale e con essa l’informazione, sia giornalistica sia televisiva, rappresentano un grande potere che porta con sé una responsabilità altrettanto grande. Tale responsabilità è nelle mani degli operatori, siano essi giornalisti, broadcaster o opinion leader, i quali, veicolando un messaggio verso un pubblico di fruitori più o meno vasto, hanno il dovere della completezza, dell’obiettività e dell’imparzialità. Anche quando il messaggio stesso è contestualizzato dall’opinione, legittima, di chi comunica. Elementi, questi, che purtroppo spesso vengono disattesi secondo varie modalità e obbedendo a logiche diverse, lontane dal semplice informare. Il professor Marino D’Amore (esperto di comunicazione e mass media), docente presso la Ludes Hei foundation Malta, campus Lugano, stabilisce 4 punti in cui catalogare la disinformazione all’italiana.
1. In primo luogo – dice – assistiamo costantemente ad un uso strumentale del messaggio: ossia si cerca, a volte, di “colorare” una notizia o di metterla maggiormente in risalto perché funzionale, rispetto ad altre, a perseguire fini di consenso politico, sociale o di semplice popolarità di una classe dirigente o di un gruppo d’influenza. Ad esempio ciò avviene quando in un tg, invece di parlare del tasso disoccupazione in aumento, si punta la lente su un lieve incremento del Pil rispetto all’anno precedente).
2. In secondo luogo, in alcuni casi, emerge una certa superficialità di chi fa informazione, ad esempio nella verifica delle fonti, una delle regole più importanti del giornalismo, e/o dei fatti. Quest’atteggiamento alimenta la totale disinformazione e la nascita delle cosiddette bufale, che si trovano ad essere legittimate dall’autorevolezza del mezzo comunicativo (quotidiano, tv o web) che le veste di veridicità e come tale le diffonde. Si pensi ad esempio a tutte le notizie gravitate intorno alla vicenda dei migranti negli ultimi tempi.
3. Il terzo punto si basa invece sulla ricerca spasmodica del sensazionalismo fine a stesso che segue logiche commerciali, di mercato, fondate sulla spettacolarizzazione della notizia che punta al gossip più basso senza, di fatto, informare. È il caso della fine della relazione di una coppia vip che diventa notizia all’interno di un tg o di un sito d’informazione con tanto di comunicati stampa).
4. Il quarto è ultimo punto gioca sull’autoreferenzialità del mezzo in chiave autoironica. Il web oggi è pieno di siti, pagine social e blog che creano dichiaratamente notizie false, recepite come vere da fruitori o operatori poco attenti, i quali poi si adoperano come mezzi di diffusione. Si tratta quasi di “stakeholder”, i quali, nel migliore dei casi, vengono smentiti poco dopo creando più imbarazzo e perdita di credibilità che informazione. In alcuni casi, tali notizie sono finite addirittura all’interno di tg nazionali, nonché in talk show di prima serata molto seguiti dal pubblico. Quelle sopracitate sono le tipiche situazioni comunicative da interpretare in modo critico ed evitare quando si vuole fare o fruire informazione degna di questo nome. Forse ogni giornalista dovrebbe seguire queste norme, altrimenti troveremo sempre più millantatori che si atteggiano a esperti di tuttologia di cui la rete, la tv, i quotidiani ormai ne sono colmi. Oggi la disinformazione miete le sue vittime ovunque e spesso ci racconta un mondo diverso da quello in cui viviamo, per cui diventa complesso e difficile interagire. Il mondo dell’informazione ci deve garantire trasparenza e certezza della notizia, evitando così di perdere anche quel poco di credibilità che gli è rimasta.
Marcello Veneziani: “La falsa guerra alle bufale”, scrive il 27 novembre 27 2017 su Il Tempo. Ma cosa sono mai le fake news che spaventano l’establishment mondiale e che Renzi ha denunciato in apertura della Leopolda? Sono le notizie false e tendenziose come un tempo si diceva. Non è una novità dei nostri giorni: si chiamava “disinformazia” ai tempi dell’Unione Sovietica, si chiamava manipolazione mediatica o storica negli anni più recenti. La maldicenza, la falsificazione, la disinformazione esistono dacché esiste l’umanità, anzi prima, col serpente biblico. Qual è allora la novità di oggi? Che tra la disinformazione di regime, la propaganda di partito e il pettegolezzo da ballatoio, la maldicenza da bar, si è insinuata una forma nuova, pubblica e privata al tempo stesso: la bufala in rete. Renzi ce l’aveva con i 5Stelle, perché trattandosi di un movimento cresciuto con la Rete si ritiene che sia cresciuto a suon di fake. Ma il discorso ha assunto una grande rilevanza mondiale da quando c’è Donald Trump, che si ritiene il Re delle fake, una specie di Buffalo Bill nel senso delle bufale. Sarebbe facile dimostrare che le notizie incontrollate, sommarie, imprecise, usate dalla propaganda di Trump si equivalgono almeno alla deformazione mediatica e alla falsificazione usata contro di lui dall’apparato mediatico-istituzionale. Trump è stato vittima e artefice delle fake news. E per certi versi anche i movimenti populisti in Europa lo sono. Per dare una spiegazione colta, le fake news sono state definite “postverità”, cioè nell’epoca in cui tramonta la verità, restano solo le interpretazioni soggettive. Ognuno si costruisce la sua verità su misura dei suoi interessi. Vero. Però ci sono da considerare due cose.
1) La prima è che se la rete abbonda di postverità, i media abbondano di pre-falsità, ovvero di falsità costruite a priori, pregiudizi che precedono i fatti e prescindono dai fatti. C’è una vera e propria fabbrica delle notizie corrette e filtrate, dei linguaggi costretti e ipocriti, delle omissioni e delle menzogne organizzate. La Rete è figlia di questo contesto. Una figlia che si ribella a tutto questo ma poi finisce per somigliare tutto a sua madre.
2) La seconda osservazione invece scende a un livello più profondo. Quando sento filosofi, intellettuali, politici e giornalisti che attaccano le post-verità mi ricordo che sono poi gli stessi che nei loro saggi, nella loro militanza, nella loro professione e nella loro esperienza, hanno sempre rifiutato di credere all’esistenza di una verità oggettiva, riconosciuta e universale. Hanno sempre sostenuto che la verità non esiste, è un retaggio della tradizione e della religione, perché le verità sono tante quante sono gli uomini, e di solito rispecchiano i rapporti di potere, servono al potere. Perché, come diceva Mar e ripeteva Gramsci, le idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante. Dunque, la verità non esiste. Da questo rifiuto è discesa la condotta dei nostri anni dove tutto è “a modo mio”: non mi devo attenere a una verità e a un canone, ma vivere secondo i miei diritti e desideri. Questa in fondo è l’eredità del ’68. Ora, invece, sorge un nuovo bigottismo, un nuovo clericalismo, che liquida come postverità sia le bufale bell’e buone sia le interpretazioni o addirittura i fatti che non rispecchiano l’ideologia dominante, il pensiero unico (che è una definizione sbagliata perché se un pensiero è unico, e uniforme, non è un pensiero ma un comandamento). Il nuovo bigottismo clericale somministra ai sudditi una rete di falsità prefabbricate. Torno alla realtà d’oggi. Non so se siano peggio le bufale di cui si è nutrita la rete e che ha nutrito il grillismo o le bugie, le promesse mancate, i raggiri e gli annunci da piazzista di Renzi e dei suoi dirimpettai. È malapolitica in ambo i casi. Infine un appello animalista e agroalimentare: è già falso e fuorviante definire bufale le notizie false. Smettetela di diffamare le bufale, animali innocenti e mozzarelle deliziose.
Le vere fake news? Le bufale rosse e a Cinque Stelle. Dalle bugie sullo spread sponsorizzate da Repubblica per far cadere il governo del Cav a quelle sulla macchina del fango su Fini, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 27/11/2017, su "Il Giornale". Si discute di fake news, termine con cui al tempo di internet si definiscono le vecchie «bufale», ovvero notizie false atte a modificare o alterare la realtà per ottenere vantaggi politici o economici, spesso screditando gli avversari. Sinistra e grillini si accusano a vicenda di essere «fabbrica di fake news», e mi sembra come il ladro che dice al collega: ma che fai, rubi a casa mia? Già, perché nella storia tutti i regimi, soprattutto quelli socialisti, hanno fatto loro il motto attribuito a Voltaire: «Mentite, mentite che qualche cosa resterà». Qualche esempio. È oggi accettato scientificamente che furono delle fake news sponsorizzate da La Repubblica le notizie che fecero cadere il governo Berlusconi nel 2011. Non è vero, infatti, che l'Italia era sull'orlo del default e che non c'erano i soldi in cassa per pagare gli stipendi pubblici; è risultata assolutamente infondata l'inchiesta giudiziaria-mediatica sulle notti di Arcore, tanto che Berlusconi è stato poi assolto in tutti i gradi di giudizio. Anche noi, nel nostro piccolo, siamo stati vittime di fake news, quando fummo additati da molti colleghi come «macchina del fango» per aver incastrato Gianfranco Fini - allora utile idiota della sinistra per disarcionare il governo - con lo scandalo della casa di Montecarlo. Oggi sappiamo con certezza che peccammo sì, ma per difetto nel raccontare quei fatti assolutamente veri. E che dire delle fake news grilline? Qualcuno pensa che davvero i parlamentari Cinquestelle non ritirino a fine mese il loro lauto stipendio, che, se coinvolti in fatti giudiziari, si dimettono perché «l'onestà prima di tutto», che da quelle parti «uno vale uno» e tutto viene deciso in modo trasparente dalla rete? Nessuna di queste affermazioni corrisponde a realtà, eppure c'è ancora chi crede, grazie a martellanti fake news, che il mondo di Grillo sia quello. La sinistra ha sempre usato l'arma delle bufale per manipolare l'opinione pubblica e oggi teme solo di perdere l'esclusiva del metodo. Perché in questo, effettivamente, Grillo è un avversario molto temibile. È riuscito pure a fare credere di essere un modello di rettitudine morale e fiscale. Ed è questa la migliore battuta del suo vasto repertorio di comico. La migliore fake news, per rimanere in tema.
Le fake news sono una bufala, la verità è che abbiamo leader stanchi. Le fake news sono le nuove scie chimiche. L’idea che qualche hacker stia influenzando la nostra campagna elettorale è francamente risibile. E mostra tutta la debolezza politica d’Occidente, scrive Flavia Perina il 27 Novembre 2017 su "L’Inkiesta". Torna sugli scudi l'espressione Fake News, e – grazie a due articoli su BuzzFeed e sul New York Times - l'idea che il successo delle forze antisistema europee sia legato alla disinformatia sui social, probabilmente pagata dai russi per destabilizzare l'Occidente. Secondo questa linea di pensiero falsi tweet e falsi post sarebbero stati il motore di eventi di portata planetaria tipo la Brexit, l'elezione di Trump, la rivolta catalana per l'indipendenza. La medesima disinformatia metterebbe ora a rischio le prossime elezioni italiane e in particolare le “forze della responsabilità”, favorendo Cinque Stelle e Lega con la diffusione di notizie allarmistiche, gonfiate, spesso del tutto false, comunque ostili ai partiti “di sistema” e vantaggiose per l'area anti-sistema. Fino a un paio di anni fa questo tipo di accusa veniva rivolta alla televisione. La madre di tutte le battaglie (peraltro mai combattuta fino in fondo) della sinistra fu quella contro il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi, e contro l'anomalia “tecnica” di un candidato premier che controllava tre tv oltreché moltissimi giornali e altri ambiti dell'editoria. Lo spostamento dell'asse polemico in direzione delle Fake News, e quindi della Rete – che non ha specifici padroni ma solo influencer e forse qualche pezzo di intelligence che allunga rubli e/o dollari in giro – stupisce e incuriosisce. Un maligno direbbe che è frutto del famoso Nazareno, la tregua negoziata tra il Pd e il Cavaliere. Ma la tesi più probabile è un'altra, e cioè che questo mondo qui – il mondo della politica Millennial, di quelli nati con lo smartphone nella culla – viva il rapporto con la Rete in modo così viscerale e simbiotico da immaginarla davvero onnipotente strumento di ogni fortuna e disgrazia. Una parte della politica italiana sembra convinta che siamo già lì, e che le reputazioni, il consenso, il successo di un'idea o di un partito non dipendano dalla loro qualità ma siano in balia dell'attivismo digitale. Come se Andreotti o Cossiga avessero legato i loro alti e bassi al moltiplicarsi sui muri, sui volantini, sugli opuscoli universitari e persino nei graffiti a pennarello sugli ascensori. Uno degli episodi più riusciti di Black Mirror racconta una società distopica dove le “quotazioni” sui social – insomma, i «Mi piace» - sono il passaporto di ogni cosa, dall'acquisto di una casa alla carriera nel lavoro. Ecco, una parte della politica italiana – quella che continua a denunciarsi vittima di complotti informatici – sembra convinta che siamo già lì, e che le reputazioni, il consenso, il successo di un'idea o di un partito non dipendano dalla loro qualità ma siano in balia dell'attivismo digitale e possano essere affondate dallo sciame social dei “nemici”. Come se Andreotti o Cossiga avessero legato i loro alti e bassi al moltiplicarsi sui muri, sui volantini, sugli opuscoli universitari e persino nei graffiti a pennarello sugli ascensori, dei “messaggi virali” dell'epoca: Kossiga boia, Andreotti mafioso.
È un grave errore prospettico, che concretizza (forse inconsapevolmente) la distrazione di massa da elementi di disinformatia molto più pervasivi, molto più cogenti anche se veicolati dai media tradizionali.
Guardate qui. Si tratta della galleria di prime pagine mandate in edicola a ridosso del voto della Brexit dal Daily Express: un quotidiano popolare che nel Regno Unito vanta un milione e mezzo di copie cartacee vendute e 14 milioni di “lettori” in Rete. Di recente la sua proprietà è stata colonizzata da una multinazionale cinese della logistica, il gruppo Suning. Che cosa volete che siano i 400 falsi account anti-immigrati e pro-Brexit scoperti dall'Università di Edimburgo rispetto a questa corazzata? D’accordo, quegli account erano collegati (forse) a un server di San Pietroburgo, ma davvero appaiono spiccioli rispetto alla geometrica potenza dei tabloid. In Italia non esistono quotidiani di diffusione paragonabile a questa roba inglese. In compenso abbiamo molte trasmissioni tv che si abbeverano alle stessa fontana. “Quinta Colonna”, su Rete Quattro, ad esempio fa in media 700mila spettatori a sera con titoli di questo tipo: Italia invasa, nessuno vuole fermare gli sbarchi; Emergenza Rom, vivono al campo ma sono milionari; Ecco le rapine più violente degli ultimi mesi; Grand Hotel Immigrati; Nessuna sicurezza in città; Emergenza Rom, ecco uno scippo in diretta; Immigrazione senza controllo, salute a rischio?.
La trasmissione è uno dei gioielli del gruppo Mediaset. Il suo conduttore storico, Paolo Del Debbio, è stato più volte spinto da Silvio Berlusconi ad entrare in politica: è popolarissimo, se avesse accettato la candidatura a Milano probabilmente oggi sarebbe sindaco. Come quelli del Daily, “pompa” un po' le notizie: ad esempio, si scoprì che un suo giornalista aveva pagato uno straniero per false interviste in due occasioni: nella prima lo aveva presentato come ladro Rom («Così rubo le auto agli italiani») e nella seconda come estremista musulmano («Sono d’accordo se fanno lo sterminio»). Entrambi i video, ovviamente, avevano avuto enorme circolazione e condivisione in Rete, contribuendo al discredito per l'azione di governo e all'invettiva collettiva contro l'immigrazione e contro l'Unione europea. La denuncia di BuzzFeed sull'Italia riguarda un'azienda a conduzione familiare (la Web365) titolare di 175 domini e di «alcune pagine Facebook con migliaia di follower». Viene da ridere. Tutto questo per dire che, al momento, in Europa, i mezzi più efficienti per orientare l'opinione restano ancora i media tradizionali, cioè la tv e i giornali. I loro “numeri”, tra l'altro sono certificabili a differenza di quelli della Rete dove i seguaci e i contatti si comprano notoriamente un tanto al chilo e le visualizzazioni indicano soltanto chi ha cliccato su un video o su un testo, non se lo ha visto o letto tutto, oppure se è andato altrove dopo due secondi. La colossale inchiesta Usa sulle interferenze russe nella campagna presidenziale ha individuato 18 canali Youtube “probabilmente legati” a un'agenzia di Mosca, per un totale di 1.108 video, 43 ore di contenuti e 309mila visualizzazioni in 18 mesi. La denuncia di BuzzFeed sull'Italia riguarda un'azienda a conduzione familiare (la Web365) titolare di 175 domini e di «alcune pagine Facebook con migliaia di follower». Viene da ridere pensando che solo in Italia, e solo nel Dossier Mithrokin (l'elenco dei contatti del Kgb sovietico diffuso negli anni '90) c'erano undici tra quotidiani e settimanali di diffusione nazionale e un elenco di giornalisti anche notissimi, che scrivevano su testate da milioni di copie vendute in edicola. Nonostante tutto questo i cosacchi non arrivarono mai ad abbeverarsi nelle fontane di San Pietro, un po' per incapacità loro ma molto per le abilità, le competenze e il professionismo politico degli “altri”, che lasciarono perdere le proposte di censura e fecero battaglia culturale e politica nel Paese. Ricominciare da lì, dall'idea di una politica che faccia il suo lavoro senza inseguire i Meme e gli eserciti dei troll, forse sarebbe una buona idea.
Massimo Cacciari: "Il dovere della sinistra è reagire a tutte le bugie della destra". Il filosofo: "Ho apprezzato il video di Saviano, che ha smontato efficacemente le menzogne sull'immigrazione", scrive Alessandra Longo l'1 settembre 2017 su "La Repubblica". Che cosa fa la sinistra di fronte all'esplosione di violenza verbale, a certe pulsioni xenofobe, razziste della destra? Chiederlo a Massimo Cacciari significa avere risposte tranchant (incluso un attacco a Minniti) tipo questa: "Registro una deriva estremamente pericolosa. La sinistra, chiamiamola così, non reagisce più alle menzogne degli avversari. Anzi, semmai cerca comportamenti che possano soddisfare costoro. E così non li fermerà, così perderemo le elezioni".
Cacciari, la questione immigrazione avanza come un incendio che divora ogni ragionamento...
"E' vero. Siamo passati da una fase di comprensibile timore di fronte all'evidente aggravarsi del problema, con un'Europa impotente e il nuovo protagonismo della destra xenofoba ad una fase - quella di adesso - in cui subiamo passivamente le palle che sparano dall'altra parte. Non c'è reazione, tentativo di controbattere e razionalizzare. Al contrario si cerca di tradurre in "moderatese" quello che certa destra urla in modo forsennato".
Clima brutto.
"Prevalgono parole di odio e violenza. Ed è tipico delle grandi crisi di regime. Le orecchie si chiudono, l'ascolto diventa impossibile. Subentra la logica dell'amico/nemico. La crisi non è più in mano di chi governa. Non sottovaluto la situazione. Siamo in un'epoca di trasformazioni radicali che generano paure e disagi. Dico però che la cosiddetta sinistra non fa nulla per contrastare questo clima".
Cosa dovrebbe fare?
"Deve cambiare la comunicazione, bisogna rappresentare la questione immigrati in modo razionale, evidenziare i punti deboli nella gestione, i suoi tempi lunghi, fornire dati economici, spiegare che non c'è un'invasione che toglie il pane alla gente. C'è un fenomeno epocale che va governato, con una grande progettualità, con i piani di aiuto ai Paesi di provenienza, con l'Europa che si prende le sue responsabilità. Mi è piaciuto il video di Saviano su Repubblica. Non amo sempre l'uomo ma in questo caso ha smontato efficacemente le menzogne della destra, i luoghi comuni. Non è una tragedia se Sesto San Giovanni dovrà accogliere 100 immigrati. La tragedia vera è di quei poveretti che vanno in mare e vengono ricacciati nei lager della Libia. Si è rovesciata totalmente la scala dei valori".
Il ministro Minniti dice di aver temuto per la tenuta del sistema democratico nel momento di massima crisi migratoria.
"Ma scherziamo. Se così fosse vorrebbe dire che l'attuale sistema democratico è marcio e allora merita di finire! Non bisogna temere di perdere voti e creare un clima parossistico. Così vince la destra. Bisogna rappresentare bene la questione. La politica deve essere razionale non è fatta per dire alla gente: "hai ragione", non deve ascoltare le domande e ripeterle. Deve dare risposte e indicare prospettive".
Però bisogna anche rispettare il senso di inquietudine della collettività.
"Certo, per questo serve una buona comunicazione della politica. Bisogna smontare le menzogne che seminano il panico. La percezione di insicurezza non è creata solo dal problema immigrazione. Siamo un Paese con il 35 per cento di giovani disoccupati, con milioni di individui in miseria, con il Meridione in mano alla criminalità organizzata. Se il Pil fosse schizzato al 15 per cento, le reazioni della gente ai migranti sarebbero molto diverse. Ma la realtà un'altra. E allora vince chi grida di più".
Scalfari stana i "pappagalli". Eugenio Scalfari è davvero una carogna, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 24/11/2017, su "Il Giornale". Eugenio Scalfari è davvero una carogna. Una geniale carogna che ha trovato il modo di rovinare la festa a quello che considera un suo indegno successore alla guida della non più sua Repubblica. Proprio nel giorno in cui il giovane Mario Calabresi girava gli studi televisivi per presentare la nuova veste del giornale debenedettiano, il novantenne predecessore e fondatore se n'è uscito con una frase che ha raggelato il sangue di Calabresi e dei repubblichini (nel senso di giornalisti e lettori): «Dovessi scegliere se votare Di Maio o Berlusconi, tutta la vita Berlusconi». Poche parole che non solo hanno cancellato anni di duro lavoro per espellere Berlusconi dalla vita politica senza se e senza ma, ma che hanno oscurato il costosissimo lancio del restyling. Nei giorni successivi infatti, di Repubblica si è parlato per l'outing di Scalfari pro Berlusconi, non certo per il lavoro tipografico di Calabresi. Scalfari, 94 anni, si è comportato come il nonnetto ritenuto e trattato dai parenti come un rimbambito che al brindisi della cena di Natale in famiglia, per vendetta alza il calice «A quelle zoccole delle mie nuore» raggelando la tavolata. «Scusate, il nonno è andato e straparla, conosco la stima che nutre per tutte voi» è la frase che di solito in queste circostanze, dopo qualche istante di gelo, usa dire il capotavola per sdrammatizzare (esattamente quello che un imbarazzato Calabresi ha fatto nelle ore successive senza peraltro essere creduto). La verità è che il nonno non si inventa le cose, ha sempre saputo delle scappatelle coniugali delle nuore ma ha taciuto fino al giorno in cui il disprezzo per i figli cornuti non ha prevalso sull'onore della famiglia. Scalfari non solo è una carogna, ma pure una canaglia che a Berlusconi gliene ha fatte di tutti i colori. Ma alla sua età può permettersi di ammettere l'ennesimo fallimento della sua lunga e ondivaga vita. È come se non volesse concedere l'onore di continuare la battaglia al suo ultimo nemico storico (Berlusconi) a ragazzini - tipo Calabresi - che non sanno neppure di che cosa e di che pasta d'uomini stiamo parlando. Repubblica incassa il colpo e affida alla penna di un comico decaduto e triste, Michele Serra, il compito di redarguire sul suo giornale nonno Eugenio e ribadire che Berlusconi e Mediaset sono il male assoluto. Compito da studenti mediocri che una volta imparata la lezione a memoria la ripetono all'infinito senza avere mai ben capito che cosa stiano dicendo. Pappagalli dell'antiberlusconismo.
Massimo Cacciari: “L’antiberlusconismo? E’ stato un antidoto del cazzo…” Intervista del 18/02/2015 di Bruno Giurato su "Il Giornale". Prima il Fondatore di Rep (Eugenio Scalfari: «Tra Berlusconi e Di Maio scelgo il primo»), poi lo strapagato (9 milioni di euro in quattro anni) Fabio Fazio, che ospita Silvio Berlusconi a “Che tempo che fa”: ora la sinistra -compresa la “gauche caviar”, ma solo una parte, quelli sono degli irriducibili nostalgici -rivaluta “il fattore B”, ma il primo in tempi non sospetti a fare “outing” è stato il filosofo Massimo Cacciari, che senza mezzi termini ha detto a noi di OFF che l’antiberlusconismo è stato una boiata pazzesca (in realtà ha usato un’espressione più colorita: leggere per credere) (Redazione). “È chiaro, una certa battaglia riformistica, io e altri della mia generazione l’abbiamo perduta” racconta Massimo Cacciari a ilgiornaleoff.it. Siamo al festival Pordenonelegge. La lezione magistrale di Cacciari verte sul suo ultimo libro, Labirinto filosofico (Adelphi, pp. 348, euro, 32.30), nel quale l’ex sindaco di Venezia rifà i conti con la tradizione del pensiero occidentale. Temi centrali: ontologia e linguaggio. Autori di riferimento le stelle fisse, i molti eretici e borderline dell’avventura filosofica europea scelti, citati, interpretati. Davanti al teatro Verdi centinaia di persone in fila aspettano la sua lezione e la politica attiva è lontana, lontanissima. Ma riguardo Matteo Renzi e la sinistra che in questo momento è al governo qualche considerazione Cacciari se la lascia scappare: “I discorsi che sento fare sono quelli che facevamo noi 25-30 anni fa. Speriamo che stavolta li realizzino, ma certo i propositi non sono cambiati”.
Qual è stato l’elemento che ha congelato il riformismo in Italia?
«E’ stato l’incartamento dei partiti della prima Repubblica, giunti ad una fase senile, sono stati gli errori clamorosi combinati dall’unico leader che poteva avere futuro, Bettino Craxi. Errori complementari e opposti a quelli dell’allora Partito Comunista, che hanno generato Berlusconi, e da lì, l’anti-berlusconismo».
Non starà dicendo che l’antiberlusconismo è stato il veleno della sinistra?
«No, no. Il veleno è stato Berlusconi. L’antiberlusconismo è stato l’antidoto del cazzo! Berlusconi non doveva essere combattuto né con quello, né tanto meno coi compromessi sottobanco. E poi la Lega. Anche chi ragionava è stato preso tra l’incudine del centralismo romano e il martello dei secessionisti. Ogni riformismo, di destra o di sinistra, è stato battuto e ha passato la palla ai nuovi riformismi. Chissà cosa combineranno…»
Non sembra entusiasta. Renzi ha lanciato molte parole d’ordine, da #cambiaverso a #labuonascuola. Non è che sta innovando solo con le parole, e con l’immagine, in una sorta di gioco linguistico alla ribollita?
«Se l’innovazione è soltanto linguistica, durerà molto poco. È troppo presto per dare giudizi sull’operato del giovane Renzi. Ma non c’è niente di stupefacente nel fatto che esista la parola d’ordine, lo slogan, la frase. La parola in questa veste è sempre esistita. E poi ci sono i filosofi. La loro funzione è la critica. Il lavoro critico è l’unico lavoro che tutti dovrebbero riconoscere come proprio della filosofia».
Bene. Nel suo ultimo libro, però, ci sono prese di posizione molto precise sul linguaggio. Scrive e riscrive che il linguaggio non esaurisce la realtà. Che l’essere è più grande del parlare. Che, banalizzando, non basta la parola per cambiare la cosa.
«È vero che il nostro pensiero si esprime linguisticamente, ma questo non significa che la dimensione linguistica esaurisca la potenza del pensare. Perché ci sono molte cose che non posso esprimere linguisticamente. I pensieri che riesco a dire hanno forma linguistica, ma ciò che riesco ad esprimere non è la totalità di ciò che riesco a pensare».
E a sua volta, anche l’essere eccede il pensare…
«Certo. “Cogitatus ergo est non vale”. Una cosa non esiste davvero solo perché la pensiamo…
Da un po’ di tempo, con il fenomeno del “linguisticamente corretto” (una volta il totem era teologico, poi è diventato la filosofia della storia, ora il linguaggio e la scienza) c’è l’idea che si possa riformare la realtà attraverso delle puntualizzazioni linguistiche. “Non usare queste parole perché sono inappropriate, usa invece un’altra parola, ecc ecc”. Si può usare la leva del linguaggio per riformare la realtà?»
La filosofia è cercare di chiarire l’etimo, il significato, l’uso delle parole che usiamo. Rendercene consapevoli. Questo lavoro di “igiene”, come lo chiamava Ludwig Wittgenstein, rimane fondamentale per la filosofia.
«Sì, ma veniamo alla bieca attualità: se invece di dire “professoressa” dico “professora”, o se invece di dire “sindaco” dico “sindaca” – perché c’è gente che sostiene che si dovrebbe dire “professora” o “sindaca”, sto sostenendo la parità di genere oppure sto dicendo una solenne e pretenziosa stupidaggine? Per me è una stupidaggine».
Ah...
«Ma laddove spieghi invece il significato di termini come “riforma”, allora illustri in che senso si usa questo termine. O “rivoluzione”, o “popolo”, o “democrazia” o “potere”, e ti soffermi su queste parole contestualizzandole vedendole nella storia, vedendole nelle varie declinazioni, fai opera “igienica”».
Invece c’è un altro ramo della filosofia che è il cosiddetto nuovo realismo, di Maurizio Ferraris, che tende ad avere un atteggiamento molto vicino a quello delle verità delle scienze “dure”. Come se la filosofia fosse ancella della scienza. Cosa ne pensa?
«Io contro questo nuovo realismo mi sono limitato a citare personaggini come Erwin Schrödinger, che già avevo frequentato in passato, per esempio nel mio primo Krisis. Non è assolutamente conoscenza della natura questo atteggiamento dei neorealisti. Il problema della grande scienza contemporanea, come della vera filosofia è il superamento del discorso soggetto-oggetto. Non c’è nessun soggetto né oggetto, c’è la relazione».
Per lei non si dà nessuna priorità della scienza sulle forme conoscitive “umanistiche”, quindi…
«La logica è logica di relazione, e la logica di relazione è talmente potente che anche laddove è perfettamente consapevole di non poter mai determinare la cosa in sé, riesce a prevedere in termini probabilistici ecc. con assoluta precisione il caso. Loro, soggetto e oggetto, sono finiti. Non finiti nel senso che non ci sono più. Son finiti in sé, si devono aprire all’altro. E danno vita alla relazione».
Quindi chi riparte da questo dualismo soggetto-oggetto fa un’operazione regressiva?
«Regressiva rispetto alla scienza contemporanea, alla grande scienza della natura, la fisica quantistica».
Veniamo un attimo al movimento del neo marxismo: Diego Fusaro è considerato…
«Uff, Fusaro…»
Insomma, dov’è che i neo marxisti come Fusaro sbagliano?
«Sbagliano tutto perché l’idea di poter recuperare una soggettività rivoluzionaria fuori del sistema, la possibilità di scoprire soggettività alternative e moltitudini alternative fuori dal sistema, mi paiono leggermente utopistiche».
Un Marx, almeno in questo revival, decisamente troppo idealista?
«Il Marx idealista è assolutamente come Hegel: ritiene che lo sviluppo del soggetto dell’intelletto contemporaneo abbia una tale potenza e risplende di una tale energia da poter giungere a una sorta di compimento della Storia. Qui funziona l’idea fichtiana dell’”io artista”, che secondo me Marx interpreta. L’intelletto umano sarebbe tanto potente da trasformare la Storia nella riproduzione della propria energia, l’espressione continua della sua creatività».
In un’intervista recente su Repubblica, ha detto che l’Occidente nega a se stesso che ci sia un elemento di violenza necessario nel discorso politico. Un Occidente “malato di nervi” che non riesce più a porsi in contrasto rispetto ad altre realtà politiche, ad altre potenze?
«Discorso molto delicato. Certo che è proprio una civiltà che si ritira o tende a ritirarsi dall’uso della violenza è qualcosa di molto difficile da comprendere e da definire. Tuttavia è chiaro che questa nostra civiltà ha maturato inevitabilmente attraverso tragedie di ogni genere questa forma mentis. Respinge la violenza. È naturale che sia così. Il problema è uno, comprendere che la tecne politikè ha per forza al suo interno una tecne polemikè. Capire allora come questa tecne polemikè debba essere pensata e concepita alla luce appunto del fatto che l’Occidente una certa violenza per fortuna o per sfortuna non può più esprimerla, perché non ne ha la potenza. Qual è questa forza? Diciamo così, non più violenza ma forza, che l’Occidente può avere?»
Ecco. L’Occidente deve combattere, come dice Giuliano Ferrara? O cos’altro?
«Io ritengo che l’unica “kratos” [la personificazione della potenza nella mitologia greca n.d.r.] è che l’Occidente possa esprimere è la sua parola. Se la parola dell’Occidente è una parola di ospitalità, di riconoscimento dell’altro, di identità propria attraverso il riconoscimento dell’altro, di declinazione diversa dei diritti nel senso, recuperando l’idea di “progresso”, di lotta alle disuguaglianze che non ha niente a che vedere con l’ugualitarismo, se la cultura dell’Occidente presenta un’offerta culturale e di parole e fatti, allora la sua può essere una forza».
Dobbiamo solo accogliere e pacificare?
«Una forza diversa oggi l’Occidente non potrà esprimerla o se tenta di esprimerla sarà comunque debole rispetto a quella che altri possono esprimere nel mondo globale: i poteri imperiali ma anche i cosiddetti poteri terroristici.
Ma non si può aprire a tutti. Sembra una utopia riflessiva anche troppo tipica dell’illuminismo. Con il rischio di perdere la propria identità. Ci sono forti indizi in questo senso: siamo appunto finiti, non di possiamo aprire all’infinito…»
Non devi diventare altro da te, invece devi costruire la tua identità attraverso il riconoscimento e il rapporto con l’altro. Non è che ti perdi nell’altro, se ti perdi nell’altro questo è il discorso del tramonto dell’Occidente.
«Appunto…L’Occidente si perde perché non ha più una potenza individuante. Invece non deve essere così, assolutamente. La tua identità è a partire dai tuoi linguaggi, dalle tue storie e dalla tua cultura. Poi certo, la meticci, la modifichi. Questa è l’unica forza che l’Occidente può offrire oggi. I tentativi di offrirsi come forza imperiale hanno fatto la fine che hanno fatto negli ultimi vent’anni, dalla guerra del Golfo in poi: fallimenti totali. Ma passa attraverso delle pratiche, questo discorso: comunità europea, politica mediterranea, politiche commerciali, politiche di aiuti, e anche praticamente scegliendo i propri alleati».
E i nostri alleati sono ancora gli Usa, la Nato?
«Ma lì non sono gli alleati, quelli sono i membri della famiglia e la famiglia non te la scegli né la molli mai. È la Terza Roma il tuo alleato, nella tua famiglia ci sono gli Stati Uniti. I tuoi alleati sono quelli che della tua famiglia finora non sono stati, il primo dei tuoi alleati è chiaro che è la Terza Roma. La Russia».
VERITÀ E MENZOGNA. Lotta alla fake news: le bufale sono un'industria, scoprirle è sempre più difficile, scrive il 24 Novembre 2017 Francesco Specchia su "Libero Quotidiano". «Perchè sporcare con la verità un così bel racconto?...» ironizzava il Pulitzer Bob Woodward. Il quale riteneva che nel giornalismo - sin dai tempi delle Hoax, i reportage/frottola del cronista Mark Twain- la verità assoluta non esistesse; e che, al massimo, il giornalista potesse impegnarsi nella «miglior versione possibile della verità». Woodward non conosceva il network di Giancarlo Colono. Colono è titolare della Web365, azienda a conduzione familiare composta da sei persone più un team di giornalisti per diffondere in maniera deliberata bufale, notizie copiate e disinformazione. Un vero network di 170 domini Internet e diverse pagine che fa i soldi spacciando per notizie le bufale, i pezzi di carattere religioso oppure post che puntano sul sensazionalismo anti immigrati e sul clickbaiting, (la tecnica di costruire titoli sensazionalistici per attrarre clic dagli utenti). Un' inchiesta di BuzzFed ha smascherato il business. Ma ha anche illuminato la fragilità di noi paladini della libera stampa. Solo l'altro giorno, autorevoli testate nazionali sono cascate nell' inganno della bambina islamica picchiata dal padre e nella cancellazione totale della Domenica in delle Parodi. Non c' è da puntare il ditino, ci saremmo potuti cascare tutti. Il filosofo Maurizio Ferraris nel saggio Postverità e altri enigmi (Il Mulino) ritiene che la predisposizione all' informazione striata di menzogna sia «un'emergenza che definisce una caratteristica essenziale del mondo contemporaneo: l'alleanza tra la potenza modernissima del web e il più antico desiderio umano, quello di aver ragione a tutti i costi». Infatti, Ferraris ha ragione. Certo, noi tutti cronisti di mezz' età, l'ultima generazione cresciuta sul sudore da suole di scarpe e sul riscontro quasi ossessivo delle fonti, potremmo chiudere il discorso imputando l'omesso controllo ai colleghi più giovani inchiodati al desk e alle fatiche del copia- e incolla. Ma sarebbe una soluzione semplicistica al problema. La colpa è molto più diffusa. Ed è vero che le fake news, le bufale, sono sempre esistite. Io stesso, nel 1998, ad una Mostra del Cinema di Venezia lanciai nel deserto di notizie, una fake con la complicità dei colleghi delle agenzie di stampa, su una presunta associazione pseudoreligiosa di maschilisti che voleva mettere a ferro e fuoco il Lido per l'eccessiva presenza di attrice donne. L' associazione Ri. Ma. , Rifondazione maschilista, esisteva (ne facevo parte); ma non aveva la minima intenzione di fare dichiarazioni bellicose. Ricordo che quella sòla fu ripresa da tutti i quotidiani nazionali; il Tg2 ci aprì perfino il suo approfondimento. Quella goliardata, oggi, è caduta in prescrizione, ma le redazioni potevano evitarla. Oggi è diverso. Oggi vige il "giornalismo a rete" (definizione di Charlie Beckett): chiunque può accedere a molte fonti di informazione e allo stesso tempo «creare un contenuto informativo con bassi costi e alte potenzialità di distribuzione». Le fake sono un'industria, il fenomeno oramai è incontrollabile. Chi usa notizie false per influenzare le opinioni politiche o per motivi commerciali può, per esempio, contare sull' «effetto-bolla» dei social network; e Facebook e Google News impaginano le notizie in una modalità omogenea, uguale sia per il Washington Post che per i siti terribili, appunto, di Giancarlo Colono. Quindi la capacità di controllo delle fonti da parte di noi giornalisti è messa a durissima prova. E molti di noi si rendono complici involontari di misinformazione, cioè di condivisione di informazioni false. Altro problema è che i giovani colleghi, privati della consuetudine all' inviatura e inchiodati al pc in un'impaginazione talora ai limiti delle catatonia, sempre più spesso difettano di capacità di factchecking, di controllo immediato dei fatti (figuriamoci, non lo facciamo più, ormai demoralizzati, noi vecchi). Tutto questo ci porta ad un concetto di verità molto più lasco di quello di Bob Wooward...
Perché Buzzfeed ha scoperto il vaso di Pandora della disinformazione. L'inchiesta del sito americano racconta che dobbiamo stare attenti in vista delle elezioni, scrive Matteo Grandi il 22 novembre 2017 su "Agi". L'inchiesta di BuzzFeed che porta alla luce un network di pagine Facebook e siti internet italiani intenti a spacciare e diffondere disinformazione e anche fake news di stampo nazionalista e razzista e tutte riconducibili a un imprenditore romano, Giancarlo Colono, è qualcosa di più di un semplice segreto di Pulcinella. Perché se in fondo era risaputo che la disinformazione a orologeria, in particolare quella che ha fatto dei migranti uno strumento di propaganda e ritorno economico, era qualcosa di coordinato con dei fini specifici, grazie all'inchiesta di BuzzFeed si inizia a intravedere una verità più articolata e inquietante. A quanto pare, le finalità del network non erano soltanto economiche (si sa il clic-bait indotto da allarmismo e populismo soldi), ma anche e soprattutto politiche. Ed ecco scoperchiarsi il vaso di Pandora delle bufale 2.0. A fare da perno a questa ragnatela, sempre secondo l'inchiesta di BuzzFeed, ci sarebbe la società Web365, controllata da Colono. Un network a cui sarebbero riconducibili 175 siti internet e un numero imprecisato di pagine Facebook. In rete le informazioni sono scarne. Su infojobs.it, Web365 è accreditata come una srl con sede a Roma “consolidata nel settore dell'editoria online, leader nel settore news, sport, curiosità, food, automotive”, una “realtà molto presente nel mondo dei social network e nel settore della app online”. Così presente che il flusso di contenuti veicolati dai siti di news è incentrato esclusivamente su operazioni di clickbait virale, attraverso titoli ingannevoli su tragedie e notizie morbose oltre che strumentalizzazioni di parte su immigrazione islamofobia. Fra le pagine Facebook più influenti gestite da Web365 risulterebbero pure due fra le pagine di news più seguite su Facebook in Italia: direttanews.it e inews24. La prima con tanto di badge azzurro (il “verificato” di facebook) e quasi 3 milioni di like sulla pagina. Inutile sottolineare il potenziale di interazione che le notizie urlate e pubblicate su queste pagine erano in grado di generare. Negli ultimi 12 mesi la pagina Facebook di DirettaNews ha ingenerato più di 5 milioni di condivisioni, ovvero più della pagina Facebook del Corriere della Sera. Ora Facebook, sull'onda lunga dell'inchiesta di BuzzFeed, ha già preso i primi provvedimenti, oscurando le principali pagine riconducibili a Web365. Ma in questo mix letale di notizie morbose e allarmistiche, fra fake news su immigrati portatori di malattie e sproloqui di Imam fittizi, a farne le spese sono gli utenti, fuorviati e condizionati da bufale e notizie prive di fondamento. Flussi di informazioni capaci di spostare gli equilibri dell'opinione pubblica. Una nuova dimostrazione, anche alle nostre latitudini, che l'informazione di massa oggi può essere manipolata scientificamente attraverso un uso capillare di piattaforme online e social network. In questo caso a tinte catto-integraliste. Non a caso una delle pagine Facebook “vicine” a Colono e alla sua famiglia è la pagina “La Luce di Maria”, 1 milione e mezzo di fan e un flusso di informazioni anti-scientifiche, declinate tra disinformazione medica, ricette per contrastare il diavolo e il malocchio, presunte apparizioni divine e analisi che mettono in correlazione l'aborto con i riti satanici. Un Medioevo 2.0 amplificato e rilanciato da numerose altre pagine gestite dalla società di Colono, in un gioco di specchi innalzato all'ennesima potenza capace di generare disinformazione all'interno di qualunque contesto (il network gestisce fra gli altri pure siti che si occupano di calcio, alimentazione e animali), anche attraverso il ricorso ad account fittizi. Per la credibilità già minata di Facebook questo può essere un vero e proprio terremoto, anche perché siamo di fronte a una forma consapevole e coordinata di manipolazione dell'informazione dall'esterno. Una manipolazione che non ha come unico scopo quello del lucro, come da sempre si sospettava, ma anche quello di spostare gli equilibri dell'opinione pubblica: in attesa di capire se ci siano i margini per degli approfondimenti da parte della magistratura o dell'ordine dei giornalisti, considerando che dietro alle pagine più chiacchierate ci sono delle testate registrate. Di certo siamo di fronte a un terremoto destinato ad avere conseguenze. Non è un caso che Facebook si sia attivata con una velocità insolita – nel tentativo di metterci una pezza - oscurando alcune delle pagine in questione. Sul tappeto però resta in tutta la sua brutalità la vulnerabilità dell'utenza, totalmente indifesa rispetto a fenomeni così profondi, complessi e articolati. Difendersi da una fake news si può, difendersi da uno tsunami di disinformazione coordinata e veicolata in parallelo da una miriade di canali è un'impresa molto complessa. Oggi più che mai occorre uno sforzo di responsabilità a custodia della democrazia da parte degli organi di informazione tradizionali (chiamati a recuperare una credibilità e un rapporto fiduciario perduto con i lettori) e, soprattutto, da parte dei gestori, gli unici che con un controllo serio, costante e capillare possono avere un ruolo attivo in questa partita.
Ecco l’attivista (anche dei 5Stelle) che ha aiutato la Lega sui social network. Il blogger David Puente ha individuato il nome dell’anello di congiunzione fra i pentastellati e il partito di Matteo Salvini di cui si parla nell’articolo del Nyt, scrive Martina Pennisi il 27 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Marco Mignogna, campano, social media manager. Sarebbe lui l’anello di congiunzione fra i siti pro Movimento 5 Stelle e pro Lega cui fa riferimento l’articolo del New York Times di venerdì 24 novembre basato su uno studio dell’esperto italiano di sicurezza informatica Andrea Stroppa. Ad arrivare a nome e cognome dell’intestatario di una ventina di siti è stato il blogger ed ex Casaleggio Associati David Puente. Lo ricerca è partita dal portale info5stelle.info, collegato a una pagina Facebook riconducibile a Mignogna, di Afragola, Napoli. Grazie ai codici di Google Adsense e Analytics — lo stesso metodo usato da Stroppa — Puente ha individuato la connessione fra info5stelle.info e una serie di portali filorussi e le relative pagine Facebook da decine di migliaia di fan, fra i quali noiconsalvini.org, italyfortrump,info, iostoconputin.info e ilsudconsalvini.org. Mignogna ha inoltre utilizzato la mail con cui ha creato alcuni domini anche per dichiararsi attivista del Movimento 5 Stelle e per creare il sito Imprese5s.wordpress.com. Non solo, l’imprenditore campano ha fra le sue amicizie di Facebook il responsabile della comunicazione digitale di Matteo Salvini Luca Morisi, che nel 2015 gli ha dedicato un post lodando la sua attività online, oltre alla sindaca di Roma Virginia Raggi e il candidato premier dei pentastellati Luigi Di Maio. Insomma, come scrive oggi Stroppa sul suo profilo Facebook, sembrerebbe «non proprio un attivista indipendente, ma un personaggio con collegamenti con entrambi i vertici dei due partiti». E, a differenza di quanto dichiarato da Morisi dopo l’articolo della testata americana, Mignogna non sembrerebbe solo un sostenitore di uno o dell’altro partito che ha messo mani ai codici ma un profondo conoscitore delle dinamiche della Rete a fini propagandistici (ed economici, ovviamente). L’indagine di Puente risale a fine febbraio e, spiega Stroppa al Corriere, quando è stata effettuata quella poi citata dal New York Times «le tracce erano già state rimosse».
Vi spiego le bugie del “Fatto Quotidiano”, scrive il 28 Novembre 2017 "Il Dubblio". La lettera di Andrea Stroppa, 23 anni, autore del report da cui ha preso spunto il New York Times per la sua inchiesta sulle fake news. La lettera di Andrea Stroppa, 23 anni, autore del report da cui ha preso spunto il New York Times per la sua inchiesta sulle fake news. Sul Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, l’altro giorno ci si occupava di me alle pagine 1,2,3 compreso nell’editoriale dello stesso direttore. «[…] Del suo amico Marco Carrai, che s’è messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa, che da minorenne faceva l’hacker per Anonymous Italia durante gli attacchi ai siti di Polizia, Carabinieri, governo, Viminale, Guardia costiera e – pensate un po’ – al blog di Grillo; perciò fu imputato e ottenne il perdono giudiziale dal Tribunale dei minori». Apagina 2, un articolo a firma di Virginia della Sala e Carlo di Foggia viene scritto riguardo la mia persona «Non è un tecnico ma può contare su una notevole rete di relazioni». A pagina 3, a firma di Wanda Marra vengo definito «esperto di cyber security».
Partiamo dalla fine, io non credo di essere un esperto, ma credo di saperne qualcosa in tema di cyber security. Dal 2013 ad oggi ho pubblicato numerosi paper e ricerche riguardo temi come le botnet, la contraffazione online, i malware. Il primo a 18 anni su The New York Times. Ho sempre lavorato con persone più brave di me e sono orgoglioso di aver avuto accanto persone che mi hanno insegnato molto, non soltanto dal punto di vista professionale. Solo pochi mesi fa ho pubblicato una ricerca su Associated Press, la quale, in una forma più privata e destinata ad al- tri soggetti, ha permesso l’individuazione di sostenitori dell’Islamic State in Europa. Ho avuto il piacere di confrontarmi con analisti dell’intelligence, ex veterani della CIA, consiglieri di importanti rappresentanti di altri paesi e alti dirigenti delle più importanti società tecnologiche statunitensi. Ho fatto anche altro, direttore Travaglio, molto potrà trovarlo attraverso Google. Non cerco da voi, né dagli esperti che consultate per attaccarmi, i vostri applausi. Agli “esperti” che continuano da mesi ad insultarmi dico solo: se siete più bravi sono contento per voi. Vi auguro tanta felicità e gioia nella vostra vita. Su una cosa però voglio essere chiaro: non mettete in dubbio la mia onestà, il mio onore, non permettetevi di infangare la mia persona. Caro direttore Travaglio, sì, ho fatto parte di Anonymous. Avevo 17 anni, ho fatto degli errori, ho commesso dei reati e ne ho risposto di fronte alla legge. Di fronte a un tribunale, quello dei minorenni. Ho ottenuto il perdono giudiziale e ho ricominciato la mia vita facendo volontariato, costruendo la mia carriera con un lavoro lungo e appassionato. Nessuna scorciatoia: mi hanno proposto libri e interviste “sull’hacker di Anonymous”, potevo prendere la strada della notorietà, ho scelto quella del sacrificio. Non ne ho mai parlato pubblicamente, non per vergogna, ma perchè io penso che dei miei errori sia stato corretto rispondere di fronte la legge, non di fronte a lei, a voi. Come forse saprà, i minori sono tutelati dalla legge sulla privacy e tutto quello che riguarda i loro processi non deve diventare di dominio pubblico. Lo è diventato, prima con il libro di Belpietro “I segreti di Renzi”, poi con un articolo di Fittipaldi su l’Espresso e ancora oggi sul suo giornale. Io non contesto “i guai giudiziari “ e guardi, non contesto, in questa sede, nemmeno il fatto di aver violato nuovamente la mia privacy: contesto le falsità. Non ho mai attaccato i siti di Polizia, Carabinieri, governo, Viminale e il blog di Grillo come lei scrive. E nemmeno il sito di D’Alema come ha scritto Fittipaldi. Sono andato di fronte al tribunale a rispondere alla legge italiana, per altri fatti. E questo come può intuire si chiama diffamazione. Nel suo articolo afferma inoltre: «Del resto Renzi sospetta l’intervento di una ‘ mano’ russa. E chi gliel’ha detto? Una società di sorveglianza informatica. E di chi è? Del suo amico Marco Carrai, che s’è messo in società con uno smanettone di 23 anni, Andrea Stroppa». Non c’è nessuna società con Marco Carrai e io personalmente non ho mai parlato di “mano russa”. Anzi, le dirò di più: durante le elezioni americane ho pubblicato un report in esclusiva con Forbes dove documentavo che un importante numero di russi seguivano il candidato Trump e lo sostenevano attivamente, ma che non era possibile documentare nessun legame ufficiale con il governo russo. Altroché i suoi giochini linguistici. Inoltre vengo definito da una sua giornalista parte dei “Carrai boys”, “pupillo di Carrai”, e lo comprendo. Quando non si è liberi, si cerca di mettere le catene anche agli altri. Ma, mi dispiace per lei, per Carrai, e per tutti quelli che vengono citati. Io non appartengo a nessuno, appartengo a me stesso. Non ho bisogno della sua stima, penso che il mondo sia molto più grande de Il Fatto Quotidiano e non credo sia un caso se le mie ultime ricerche sono state pubblicate con il Washington Post, Associated Press, Wall Street Journal e non con il suo giornale. E le assicuro che non è un caso nemmeno il fatto che quando voglio capire di economia, tecnologia, cultura, geopolitica, non leggo il suo quotidiano. Grazie a dei think tank ho avuto l’onore e il piacere di creare rapporti con intellettuali, esperti, scienziati: è con loro che voglio confrontarmi, è da loro che voglio imparare. Caro direttore Travaglio, la coscienza è quella cosa che quando siamo soli ci guarda e non possiamo nasconderci. Mi auguro che lei possa affrontarla a testa alta. Buona domenica.
Fake news, Buzzfeed e New York Times, tutte le novità sulla disfida fra Pd e M5S, scrivono Lorenzo Bernardi e Niccolò Mazzarino il 27/11/2017 su Formiche.net. Continua, anzi si amplifica, la polemica politica sulle fake news. Secondo il Movimento 5 Stelle le inchieste giornalistiche di Buzzfeed e New York Times sulle fake news sarebbero a loro volta delle fake news. Non solo, per il blog di Grillo si tratterebbe di “un giochino apparecchiato su misura al segretario del Pd, oramai in caduta libera. Ed è molto triste che a prestarsi siano state due note testate giornalistiche come il Nyt e Buzzfeed”.
COSA HANNO SVELATO BUZZFEED E NEW YORK TIMES. Tutto è cominciato con un’inchiesta di Buzzfeed che ha portato alla luce una galassia di siti internet e account social, molti dei quali più o meno collegati fra loro, responsabili di campagne di disinformazione e della pubblicazione di varie “bufale”. Sono emersi anche collegamenti fra siti filo-grillini e filo-leghisti. Secondo Buzzfeed, i medesimi soggetti riscuotevano i proventi della pubblicità da siti teoricamente scollegati. A ciò si è aggiunto l’articolo del New York Times, che ha ripreso la notizia sottolineando come in vista delle prossime elezioni l’Italia sia “il punto debole di una sempre più vulnerabile Europa”. Sullo sfondo, le possibili ingerenze da parte della Russia, analoghe a quelle che avrebbero condizionato già le presidenziali Usa. Il New York Times ha citato nel suo articolo Andrea Stroppa, esperto in cybersecurity, già collaboratore di Marco Carrai, consigliere di Matteo Renzi. Stroppa aveva evidenziato, anche sul suo profilo Twitter, gli anomali collegamenti fra i siti vicini ai 5 stelle e quelli salviniani.
LA REAZIONE DEL M5S. Il Movimento ha affidato la sua reazione ufficiale al blog, e si tratta di un contrattacco che prende di mira Renzi. Il primo elemento sospetto sarebbero le tempistiche. “New York Times e Buzzfeed pubblicano a distanza di tre giorni due presunte “inchieste giornalistiche” – mette nero su bianco il movimento capeggiato da Luigi Di Maio – Le due inchieste arrivano, guarda caso, alla vigilia della Leopolda di Matteo Renzi, quest’anno dedicata, guarda ancora il caso, proprio alle fake news”. Nella tesi del M5S tutto ruoterebbe intorno a Stroppa. “Entrambi i pezzi, apparentemente indipendenti, nascono da una ricerca condotta da un tecnico del web non strettamente indipendente, Andrea Stroppa”. Si traccia poi il collegamento con Carrai. “Stroppa è stato arruolato nella Cys4, la società di sicurezza presieduta da Carrai, il braccio destro di Renzi, al quale l’ex premier voleva persino affidare la guida dei servizi segreti italiani”. E poi l’affondo: “Diciamocelo chiaramente: sembra un giochino apparecchiato su misura al segretario del Pd, oramai in caduta libera”. E ancora: “Quella dei due quotidiani è un’altra fake news sulle fake news. Le due testate avrebbero infatti dovuto approfondire quanto meno la ricerca invece di prendere come oro colato lo studio di un giovane sotto contratto con la coppia Carrai/Renzi”. C’è anche la spiegazione dei collegamenti con i siti “salviniani”. Sarebbe colpa di soggetti indipendenti, slegati dal M5S: “Non ci vuole un genio a capire che questi siti nascono spontaneamente. Sul web ognuno, anche per mero scopo di guadagno attraverso la pubblicità, chiuso nella sua stanza può scegliere di aprire più di una piattaforma e pubblicare quel che vuole. Ma ciò non significa che ci debba essere un coinvolgimento della forza politica di riferimento”.
IL COMMENTO DI MARTON. Per Bruno Marton, senatore del M5S e componente del Copasir sentito dall’agenzia Cyber Affairs, “hanno accusato noi e quelli della Lega, quando in realtà sono i media principali a diffondere le fake news, a divulgarle e amplificarle, quanto e più dei social network. Qualsiasi strumento si possa mettere in atto per limitare l’influenza di queste notizie false va assolutamente usato, senza influire però nelle libertà dei social media e di Internet”. Sulla necessità di creare strumenti normativi di contrasto a questo problema, Marton commenta: “In linea generale, penso che si tenda a creare sempre strumenti legislativi, ma alla fine è la cultura che fa la differenza. Finché stiamo smontando scuole e istruzione e non diamo più strumenti alle persone per capire e informarsi correttamente, non ne usciamo. Non è lo strumento legislativo in sé che può fare la differenza. Può aiutare, ma sono la cultura e l’istruzione che fa la differenza in queste cose”.
LA REPLICA DI CARRAI. Sempre oggi, sul Corriere della Sera, è arrivata la versione di Carrai. “Non esiste. Ecco, questo è un esempio di fake news”, ha detto il manager e imprenditore toscano vicinissimo a Renzi e attivo anche nel settore della cyber security, commentando la notizia secondo cui ci sarebbe lui dietro l’articolo del New York Times, che partendo da un report di Andrea Stroppa, esperto di cyber sicurezza che collabora con Renzi, ha segnalato il rischio che le elezioni possano venire inquinate dalle fake news. “Escludo nel modo più totale” che sia stata la sua società di sorveglianza informatica a girare il report al Nyt. “Stroppa lo conosco – ha aggiunto – e per un periodo ha collaborato con una mia società. Chiunque può andare al registro delle Camere di commercio e vedere che non ho mai avuto società con lui”. In ogni caso, ha detto ancora Carrai, in Italia c’è un’emergenza fake news. “Un tempo l’informazione era verticale, garantita da una auctoritas e divulgata solo dai quotidiani”, oggi, ha spiegato, “grazie ai social, l’informazione è diventata orizzontale: si autoalimenta e per i follower diventa vero solo ciò che è virale”. I rischi, ha concluso, sono di “manipolazione dell’informazione, diffusione di notizie false tese a creare confusione e ad alimentare la rabbia sociale. Prenda l’esempio dei vaccini o della foto del funerale di Riina”.
IL POST DI STROPPA E I COLLEGAMENTI LEGA-M5S. Anche Stroppa, via facebook, ha replicato a Grillo, negando di essere dipendente di Carrai e sottolineando di non fare più parte da tempo di Cys4. Il cyber esperto ha difeso Buzzfeed e Nyt e ha rivendicato di essere la fonte dei due articoli. Però ha rigettato l’appartenenza al Pd di Renzi e anzi, rivolgendosi a Grillo, ha rivelato: “Nel 2013 ho votato M5S e se il programma sarà convincente non esiterò a votarvi nuovamente”. Detto questo, ha ribadito i contenuti delle due inchieste, mettendo in dubbio la tesi del blog, ovvero che i siti di fake news siano opera di attivisti indipendenti. “Questi siti ogni giorno pubblicano decine di contenuti: articoli, immagini, video con grafiche. Vengono condivisi sulle pagine Facebook. Tutto questo lavoro coinvolge più specialità: chi gestisce il sito, chi crea i contenuti, chi elabora le grafiche, chi elabora le grafiche dei video, chi pubblica sui social, chi risponde ai commenti sulle pagine, chi risponde ai messaggi privati e via dicendo. Temo che sia un bel lavoro per un attivista indipendente”. Infine Stroppa, a proposito dei legami fra i siti pro-M5S e pro-Lega, si è chiesto chi sia l’ex attivista del M5S che, secondo la tesi dello spin doctor di Matteo Salvini, Luca Morisi, avrebbe poi contribuito a realizzare i siti pseudo-leghisti, generando “l’apparentamento” improprio. Questo ex attivista, di cui nessuno sin qui aveva fatto il nome, secondo il debunker David Puente, potrebbe essere un imprenditore napoletano, Marco Minogna, amico di Morisi (per stessa ammissione di quest’ultimo) e amico su facebook di Luigi Di Maio. Stroppa scrive che sarebbe “non proprio di un attivista indipendente, ma un personaggio con collegamenti con entrambi i vertici dei due partiti”.
LE TEMPISTICHE E I PRODROMI. In ogni caso, al netto dei contenuti dell’inchiesta di Buzzfeed, fino a prova contraria inconfutabili, è vero che la notizia era già uscita in passato, pur non suscitando l’eco di questi giorni. Lorenzo Romani, altro esperto informatico, ne aveva parlato sia su Twitter che su Affari Italiani. Poi in questi giorni è riesplosa, stavolta facendo molto più rumore, e proprio alla vigilia della Leopolda.
L’OSCURAMENTO DI DIRETTA NEWS. Strettamente correlato alla vicenda, c’è l’oscuramento della pagine Facebook di Diretta News, uno dei siti accusati di diffondere fake news, citato dall’inchiesta di Buzzfeed. La decisione è stata assunta da Facebook stessa malgrado, scrive lo stesso Buzzfeed, non ci siano prove che la testata abbia commesso degli illeciti. Come rileva il blog Valigia Blu, si aprono quindi dei profili di legittimità della decisione di Facebook, che di fatto “opera in regime di semi- monopolio” ed è in grado di censurare – almeno sulla propria piattaforma – una testata che gode, come tutti del resto, di tutele costituzionali sulla libertà di espressione.
Contro le fake news l'unica arma è la cultura. Le false notizie per propaganda ideologica non sono nate con la Rete. La storia ce lo racconta. Oggi però serve il coraggio di essere scettici, scrive Marco Ventura il 28 novembre 2017 su Panorama. Adesso sembra che le fake news siano nate con Internet. Quasi che le false notizie frutto di propaganda ideologica, politica, economica o addirittura psicologica, possano sgorgare solo dalle paludi e dal magma incontrollato della Rete. Ma le cose non stanno così. La Rete per alcuni versi è davvero più democratica, per esempio, di certi ambienti universitari nei quali hanno diritto d’accesso soltanto quelli che adottano tesi e linguaggi politicamente corretti. Dal dopoguerra, alla fabbrica comunista delle fake news ci siamo abbeverati, e in qualche misura ancora ci abbeveriamo, sui libri di testo per le scuole. Per decenni la storia d’Italia trasmessa a ragazzini strutturalmente non in grado di distinguere tra vero o falso o di ponderare il peso delle “notizie” è stata scritta, raccontata, spesso imposta (attraverso la didattica e gli esami) da professori che avevano una visione distorta della storia. Quale peso hanno avuto nei libri di scuola i massacri nella foresta di Katyn, 1940, quando su ordine di Stalin i sovietici trucidarono freddamente oltre 20mila tra militari e civili polacchi? Non è escluso che ancora qualcuno attribuisca l’eccidio non ai sovietici ma ai nazisti. Fu “criminale” o no, da parte di Togliatti, imporre la censura sulle notizie delle efferatezze di Stalin, quando già Kruscev stava scoperchiando il vaso di Pandora? Furono trattati nel giusto modo sui libri di storia (e di scuola) i profughi italiani istriano-dalmati che attraversarono l’Italia tra i lazzi e gli insulti di quanti li consideravano tutti fascisti? E non era forse un fake la reazione condizionata dei conduttori di Tg degli anni di piombo che dopo un attentato, qualsiasi attentato, parlavano di “chiara matrice fascista” pur se le indagini non erano neppure avviate? Quanta disinformazione e fuffa ideologica ci è stata propinata in un clima di intimidazione culturale sui banchi di liceo e nelle Università? Adesso, le “anime belle” si scandalizzano se in Rete troviamo delle bufale. Ha ragione il New York Times quando dice che il problema non è Internet, non il mare magnum nel quale si trova di tutto, anche le bugie, esattamente come si trovano nella vita che è quanto di più si avvicini alla vastità del web. Il problema siamo noi, che abbiamo perso la capacità di analisi, la voglia di non farci abbindolare, la perseveranza nel distinguere tra verità e menzogna e mettere in azione il cervello e tutti gli altri strumenti culturali. Perché abbiamo via via svuotato di significato e di rigore l’insegnamento scolastico, perché abbiamo diffamato il buon giornalismo della verifica sui documenti e sul campo pensando (a torto) che l’informazione in Rete fosse un modo più diretto di accedere alla realtà. Da quando mondo è mondo gli Stati fanno propaganda: prima con giornali e tv, oggi anche attraverso la Rete. La guerra di propaganda, l’interferenza nella vita politica di altri Stati, c’è sempre stata. L’importante è essere più bravi degli altri, smascherare le bufale, imparare a giudicare da soli, non fermarsi mai alla prima notizia ma cercare di andare a fondo e confrontarla con altre di segno opposto. Essere meno “scemi”, cioè ingenui, direbbe il NYT. Anche gli americani in fondo hanno diffuso fake news che hanno generato guerre, come ai tempi dell’offensiva definitiva contro Saddam. I russi sono campioni di disinformazione. Ma lo sono oggi come lo erano ieri, quando in Italia i comunisti facevano da megafono della Pravda ed erano serviti e riveriti da una intellighenzia che si prestava “per la causa” a diffondere un racconto tutto bugiardo. A Mosca e nell’Europa dell’Est si viveva meglio che all’Ovest? C’è chi ci credeva e chi lo faceva credere. Io non ho tutta questa paura della Rete, pur conoscendone i pericoli. Altre sono le insidie: il cyber-bullismo, per esempio. Ora c’è chi propone una legge contro le fake news. Una contraddizione in termini. Chi controllerà i controllori? Chi potrà mai ergersi a depositario della verità? L’unica difesa dalla menzogna si chiama cultura, raziocinio e coraggio. Di essere scettici e, sì, politicamente scorretti.
A proposito di fake news, scrive Orlando Sacchelli il 28 novembre 2017 su “Il Giornale”. Spero che i lettori mi perdoneranno se uso un verbo inesistente, la maccheronica italianizzazione dell’inglese “to quote” (citare). Un bel giro di parole per dire che “straquoto” (cioè condivido in pieno) ciò che ha scritto il giornalista Guido Olimpio su Facebook a proposito delle cosiddette “fake news”, di cui tanto si parla in questi giorni. Ve lo riporto qui sotto:
Disinformazione c’è sempre stata, oggi ci sono delle differenze:
– raggiunge un pubblico vastissimo grazie ai “social”.
– non c’è evento che non sia accompagnato da teorie cospirative, frottole. Ne vedo ogni giorno su Twitter e Fb. E spesso sono rilanciate da gruppi omogenei e non solo dal cretino del web.
– vedo siti di pubblicazioni che dovrebbero essere serie che pubblicano articoli sul web (ripeto sul web) dai toni cospirativi. I casi sono due: o non capiscono una mazza o invece cercano i “like”.
Esiste una precisa regia politica che mira a manipolare l’opinione pubblica con le balle? Oppure alla base delle fake news c’è solo il desiderio di fare soldi sfruttando gli “allocchi”? Il dibattito è aperto. Ma ci può essere una medicina contro questo male? Un bell’articolo di Marcello Zacché (leggi qui) ci spiega qual è l’unica soluzione possibile: fidarsi dei professionisti dell’informazione. Che possono sbagliare (ci mancherebbe), ma se lo fanno dovrebbero pagare in qualche modo. O almeno così dovrebbe essere. Qualcuno giustamente sottolinea che ci sono anche i giornalisti prezzolati: verissimo, ma il fatto che esistano numerose testate e tanti professionisti, e soprattutto che vi sia il pluralismo dell’informazione, dovrebbe essere sufficiente a far sviluppare i necessari anticorpi. Segnalo anche un altro interessante post su questo tema, scritto su Facebook dal giornalista Stefano Magni: “Fate pure la legge contro le fake news. Introducete pure i controlli sui contenuti dei siti e dei blog e magari mettete anche qualche bel filtro sui social network, come fanno in Cina. Così vi sentirete più sicuri, perché ritenete che il Web sia penetrato dalla propaganda russa, che appoggia i partiti di destra e da questa minaccia ci si deve difendere a costo di reintrodurre la censura. Fate pure tutte queste cose e altre ancora. Tanto fra un paio di anni i filo-russi vinceranno le elezioni e tutte queste vostre belle leggi le useranno loro, per mettere a tacere voi. I russi e i loro complici troveranno già la pappa fatta e vi ringrazieranno (prima di censurarvi)”.
L'informazione a costo zero e le sue bugie. Curiosa questa cosa di una legge contro le fake news (in italiano, notizie false). Bizzarra perché le notizie hanno già una loro distinguibile credibilità: basta attingere ai professionisti dell'informazione, scrive Marcello Zacché, Martedì 28/11/2017 su "Il Giornale". Curiosa questa cosa di una legge contro le fake news (in italiano, notizie false). Bizzarra perché le notizie hanno già una loro distinguibile credibilità: basta attingere ai professionisti dell'informazione. Ebbene sì, loro. Cioè noi: i giornalisti professionisti. A cosa serve una legge? È che sembra si sia dimenticato che il giornalismo è una professione, per esercitare la quale bisogna anche superare un esame pubblico. Il metodo non è diverso da altre professioni, come l'avvocato o il medico. C'è molta gente disposta a farsi curare da qualcuno che non sia laureato in medicina? Chi, invece, si farebbe difendere in una causa penale da un bravo blogger, che però non abbia mai ottenuto una laurea in legge? Eppure c'è la pretesa di informarsi dove capita. Ovvio che comporti dei rischi. È come comprare una borsa di Hermès sotto i portici della stazione: facile che sia un fake. E molto difficile potersene poi lamentare. O prendere un aereo guidato da uno che non abbia la licenza o la patente da pilota: lo fanno in tanti? Non è un caso che il reato per l'«abusivo esercizio della professione» esista già e sia perseguito regolarmente. Ma non si può pretendere di tutelare i boccaloni dalle false notizie se queste sono diffuse da organi non giornalistici e per di più gratuiti. È una questione di buon senso che non può certo essere regolata per legge. Le fake news sono sempre esistite, ed è sempre stato molto facile scoprirle presto. Oggi si sono moltiplicate semplicemente perché in tanti pensano che un post su Facebook con molti like sia più autorevole di una testata giornalistica, su internet o in edicola. Non lo è, è solo gratis rispetto a tanti siti d'informazione oppure alla carta, che invece costa 1,5 o 2 euro. Eh sì, perché poi c'è anche questo piccolo problema: i professionisti dell'informazione bisogna pagarli. Un po' come l'avvocato o il medico di cui sopra. Ma anche l'architetto piuttosto che l'agente immobiliare. Sembra invece che no, il giornalista non lo pago proprio, l'informazione a pagamento non serve perché c'è quella gratis. Ottimo. Ma torniamo alla borsa di Hermes: pretendere che poi le notizie siano anche vere pare un po' troppo, no? Dietro un'informazione professionale, tra l'altro, ci sono anche le garanzie contro le stesse fake news. Perché le corbellerie, sia chiaro, le possono scrivere tutti, prima o poi. Anche i professionisti dell'informazione. Ma questi, a differenza di chi si improvvisa reporter, se sbagliano, pagano. Ci sono fior di norme che prevedono sanzioni civili e reati penali a carico dei giornalisti. A ulteriore conferma che attingere le informazioni da loro sia di per sé una garanzia di qualità. Tutto ciò non ci salva dalle fake news, che continueranno a esistere, né ci ha mai salvato. Né lo potrebbe fare una legge ad hoc: bastano e avanzano quelle che ci sono. Ma finiamola con l'illusione di un mondo dove l'informazione è gratuita: non lo è in ogni caso, c'è sempre qualcuno che paga e qualcuno che guadagna. La differenza è che se si lascia ai giganti del web e delle telecomunicazioni l'oligopolio dei nostri bisogni, compresa l'informazione, anche questa finirà sotto il loro controllo. Più o meno diretto, più o meno stretto. Per questo, per salvare le news dal virus delle fake news non servono punizioni esemplari. Bisogna piuttosto occuparsi dei meccanismi economici, fiscali e finanziari che regolano i colossi della rete, e creare le condizioni di mercato che rendano l'informazione di qualità un bene di valore.
Aprite gli occhi sulle fake news! Sono solo un pretesto per imporre la censura. Ve lo dimostro qui, scrive il 28 novembre 2017 Marcello Foa su “Il Giornale". Non è un caso. E’ un metodo. Con un pretesto, le fake news, e uno scopo finale: mettere a tacere le voci davvero libere. Attenzione, non si tratta di una questione meramente italiana bensì di quella che definirei una “corale internazionale”. Il là lo hanno dato gli Stati Uniti, dove, dopo la vittoria di Trump, è partita una massiccia campagna ispirata dagli ambienti legati al partito democratico con l’entusiastico consenso di quello repubblicano, nella consapevolezza che la prima grande e inaspettata sconfitta dell’establishment che governa gli Usa da decenni non sarebbe avvenuta senza la spinta decisiva dell’informazione non mainstream. A seguire si sono mobilitati diversi Paesi europei, la Germania in primis, ma anche la Gran Bretagna del post Brexit e, ovviamente, l’Italia, del post referendum. Sia chiaro: il problema delle fake news esiste; soprattutto quando a diffonderle sono società o singoli a fini di lucro. Gli esempi, anche recenti, abbondano. O quando vengono usate dagli haters, gli odiatori, ovviamente senza mai esporsi in prima persona. Ma le soluzioni vanno trovate nel rispetto della libertà d’opinione e nell’ambito del sistema giudiziario del singolo Paese. La diffusione sistematica di notizie false al solo fine di generare visualizzazioni è semplicemente una truffa e in quanto tale va trattata. Il problema degli haters è più complesso. Io da sempre sostengo che bisogna avere il coraggio di mettere la faccia e che l’anonimato assoluto per chi si esprime pubblicamente non sia salutare in una vera democrazia. Anche in questo ambito si possono trovare soluzioni intelligenti ad hoc. Le proposte che sono state formulate negli ultimi tempi – e guarda caso tutte su iniziativa del Pd – si caratterizzano, invece, per la tendenza da un lato a delegare il giudizio a organismi extragiudiziali – talvolta anche extraterritoriali – dall’altro per l’intenzione di colpire arbitrariamente le parole e dunque, facilmente, anche le idee. Non mi credete? Eppure è così. Ricordate il decreto Gentiloni sulla schedatura di massa degli utenti web e telefonici e la misura che autorizzava una censura di fatto e contro cui ho condotto una battaglia furibonda su questo blog? La prima misura è da regime autoritario, senza precedenti in democrazia; la seconda delega all’Agcom la facoltà di valutare se un sito viola il diritto di autore e, un caso affermativo, di oscurarlo. Ovvero appropriandosi di funzioni che spettano normalmente alla magistratura. E leggete la proposta di legge contro le Fake News annunciata da Renzi. Cito una fonte insospettabile, la Repubblica, che la definisce una legge sulle fake news che non parla di fake news. Scrive Andrea Iannuzzi: Nel ddl elaborato dai senatori Zanda e Filippin si impone ai social network con oltre un milione di utenti la rimozione di contenuti che configurano reati che vanno dalla diffamazione alla pedopornografia, dallo stalking al terrorismo. La valutazione dei reati viene demandata ai gestori delle piattaforme, che di fatto sostituiscono il giudice: la libertà di espressione potrebbe essere a rischio. Previste sanzioni pesanti per chi non rispetta una serie di adempimenti burocratici. Persino la Repubblica – sì proprio il giornale che ha amplificato le denunce di Renzi contro le Fake News – non ha potuto esimersi dall’ammettere che così i giudici non servirebbero più, violando uno dei principi fondanti della nostra civiltà, e dal riconoscere che la libertà di opinione è in pericolo.
E non finisce qui. Sentite cosa dice Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi, che in un’intervista al Corriere della Sera rivela: Stiamo lavorando con uno scienziato di fama internazionale alla creazione di un “algoritmo verità”, che tramite artificial intelligence riesca a capire se una notizia è falsa. L’altra idea è creare una piattaforma di natural language processing che analizzi le fonti giornalistiche e gli articoli correlandoli e, attraverso un grafico, segnali le anomalie. A mio avviso ciò dovrebbe essere fatto anche a livello istituzionale. Traduco: significa che un algoritmo e meccanismi di analisi semantica stabiliranno se un singolo articolo è vero o è una fake news. Scusate, ma io rabbrividisco. Queste sono tecniche da Grande Fratello, e non solo perché i criteri rimarranno inevitabilmente segreti (per impedire che vengano aggirati), ma soprattutto perché così si potranno discriminare le idee, i concetti, bannando quelli che un’autorità esterna (il gestore dei social!) riterrà inappropriati. D’altronde sta già avvenendo su Facebook e su Twitter, dove opinionisti anche conosciuti si sono visti cancellare gli account da un amministratore che, nel migliore dei casi, si presenta con un nome di battesimo (Marco, Jeff o Bill) e che decide che si sono “violate le regole della comunità”. Oggi sono ancora incidenti episodici, ma domani – sotto la minaccia di sanzioni milionarie già ventilate da Renzi – i gestori sboscheranno con l’accetta. E basterà un'”esuberanza semantica”, ad esempio scrivere zingari anziché rom, o accusare un’istituzione di diffondere dati falsi o incompleti per sparire dalla faccia del web. Perché per gente come Renzi e Carrai e Gentiloni, tutti veri splendidi progressisti, evidentemente non può che esistere una sola Verità. Quella Ufficiale, quella certificata da loro e difesa dagli implacabili gestori dei social media, novelli guardiani dell’ordine costituito. Cose che possono esistere solo in una “Fake Democracy”. Quella a cui ci vogliono portare.
La realtà è una “fake news”, scrive Sebastiano Caputo il 28 novembre 2017 su “Il Giornale”. I social network e il web sono ufficialmente luoghi insicuri. La crociata dell’establishment contro il sistema delle cosiddette “fake news” è stata lanciata dal palco della Leopolda 8. Il frontman è Matteo Renzi ma la regia è di un certo Andrea Stroppa, ragazzetto di 23 anni che ha lavorato come capo del reparto ricerca e sviluppo di una società di consulenza, la Cys4, di cui Marco Carrai, fedelissimo del segretario del PD, era socio, supportato dalla piattaforma Buzzfeed. Peccato però che l’inchiesta – firmata a quattro mani da Alberto Nardelli e Craig Silverman – che presumeva svelare l’intreccio tra movimenti nazionalisti e populisti con una rete di siti internet rei di fabbricare e diffondere “fake news” abbia ricondotto – come ha ammesso lo stesso New York Times qualche giorno dopo – a Davide e Giancarlo Colono, proprietari attraverso le loro società con scopo di lucro ma senza alcun collegamento partitico di DirettaNews e iNews24 (con annesse pagine Facebook con milioni di “mi piace” chiuse senza preavviso dallo staff di Zuckerberg!), due quotidiani online che non pretendevano fare libera informazione ma raccogliere clic riportando (e non fabbricando!) notizie e fatti, il più delle volte, con titoli incendiari e strillati. Se ci si pensa bene non c’è nulla di sensazionalistico in tutta questa storia dato che ilclickbaiting – una tecnica per attirare il maggior numero possibile d’internauti per generare rendite pubblicitarie – viene sfruttata da tutti, persino dalle testate “autorevoli”, da Repubblica al Corriere della Sera, da Il Giornale a Libero, dal Fatto Quotidiano a La Stampa. Insomma se la legge fosse uguale per tutti oggi (e non sarebbe così male) non potremmo più informarci in rete. Ma andiamo avanti. La produzione di “fake news” è una questione ben più seria che va oltre il flusso statistico e diventa pericolosa quando viene inserita in un’agenda giornalistica in funzione di un’agenda politica (ad esempio l’invenzione delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l’intervento militare statunitense in Iraq oppure l’enfatizzazione dell’incremento dello spread per far cadere il governo Berlusconi nel 2011 e far insediare quello tecnico di Mario Monti). In questo caso specifico, a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia e, vista la vittoria di Donald Trump contro il sistema dell’informazione mainstream negli Usa, serviva una capro espiatorio – due siti apartitici con milioni e milioni di utenze – da gettare nella spirale della liquidazione coatta (di “censura” non è corretto parlarne per quanto non ci sia stata la possibilità di replica sui social) per spianare la strada ad una vera e propria strategia che mira ad arginare il dissenso mediatico camuffandola come campagna “angelica” – con il supporto di Facebook – contro le bufale. In Senato sarebbe già pronto un disegno di legge presentato dal Partito Democratico a firma del capogruppo Luigi Zanda e di Rosanna Filippin, per contrastare il fenomeno “della diffusione su internet sui social network di contenuti illeciti e delle fake news”. Un ddl che sarebbe condivisibile oltre che legittimo se non fosse in realtà un meccanismo sofisticato di auto-celebrazione e di auto-difesa funzionale alla strategia scritta sopra oltre che a scaricare la produzione di notizie false sul web ed evitare furbescamente il mea culpa. Perché diciamocelo, questi presunti “nemici della disinformazione” hanno inquinato il dibattito politico-culturale per tutti questi anni con notizie orientate, faziose, manipolate, commissionate, silenziate, copiate e incollate senza nessuna verifica della fonte. Di esempi se ne potrebbero fare all’infinito ma il fact-checking ferisce a targhe alterne, quando fa più comodo, a colpi di algoritmi studiati da nerd rinchiusi nelle università che sul campo non ci sono mai andati perché la realtà, impietosa, cruda, con tutta la sua violenza simbolica, per loro, non esiste.
Parole e omissioni, scrive Cristina Cucciniello il 28 novembre 2017 su L’Espresso. Quando questo giornale, giorni fa, aveva deciso di dedicare un numero a due domande - chi paga? chi manipola? - numero peraltro ancora in edicola, era stato profetico. Perché da quando - il 24 novembre, con tempismo da consumato protagonista televisivo - in prime time, Matteo Renzi ha deciso di dare una svolta alla campagna elettorale del suo partito, indicando nella lotta contro le fake news e per la verità il leit motiv della propaganda elettorale dem, quelle due domande sono diventate le uniche due che il giornalismo italiano dovrebbe porre e che, invece, stranamente, nessuno pone. Nella straordinaria canea alzatasi nelle ultime 48 ore, attorno al tema della disinformazione e del suo ruolo entro la sacrosanta competizione politica ed elettorale, due cose mi hanno colpito: le parole utilizzate e le omissioni. Delle parole utilizzate mi ha colpito la sciatteria, quel pilota automatico che - talvolta - il circo mediatico inserisce, ribattendo, di testata in testata, di media in media, le medesime locuzioni, senza soffermarsi sulla loro autenticità e sulla reale aderenza ai fatti. Delle omissioni ho già detto: ci sono domande che nessuno sente di fare, probabilmente perché - uso una parola pomposa che poco mi piace - gli ultimi anni ci hanno mitridatizzato, abituato pian piano a quell'intreccio oscuro che la politica italiana è diventata, un sottobosco di fondazioni, think tank, sedicenti esperti e consulenti indipendenti. Ecco, cominciamo dalle parole, cominciamo dall'indipendenza. Da diversi anni, su più di una testata italiana, Andrea Stroppa - cui si deve il report citato da un'inchiesta di BuzzFeed e dall'ormai celebre articolo del New York Times, a sua volta citato da Matteo Renzi durante la Leopolda 8 - viene presentato come un "ricercatore indipendente" (qui, qui, qui sul suo stesso blog). Dal Corsera apprendiamo che è "uno dei più contesi consulenti di sicurezza informatica di grandi imprese private ed istituzioni". Nello stesso articolo, Stroppa stesso ribadisce la sua indipendenza: "Io non appartengo a nessuno, appartengo a me stesso". E però qui casca l'asino: se Stroppa è un conteso consulente di sicurezza informatica - definizione peraltro ben più calzante di "ricercatore", titolo che nella nostra lingua si applica principalmente a chi possiede un dottorato di ricerca - per imprese private ed istituzioni - enti di cui non conosciamo la lista, perché doverosamente Stroppa come loro consulente ne deve rispettare la privacy - possiamo ancora utilizzare la parola "indipendente"? Passiamo alle domande omesse. Poiché è assodato che, lecitamente, Andrea Stroppa sia un consulente per aziende ed istituzioni, nonché per Matteo Renzi stesso - così come riportato dal NYT e da numerose testate italiane - e che possieda una compagnia di consulenza ("a company called Ghost Data who advises Mr. Renzi on cybersecurity issues"), possiamo chiederci chi paga per il più che lecito lavoro di un libero professionista nel campo della consulenza informatica? Possiamo chiederci chi ha commissionato e chi ha pagato il report poi citato da BuzzFeed e ripreso dal NYT? Prevengo una ipotetica risposta: laddove il report fosse stato realizzato da Stroppa, di spontanea volontà, senza committenti, senza ricevere compenso, pur in costanza di un servizio di consulenza per Matteo Renzi, poiché Stroppa è un professionista che riceve compensi da aziende ed istituzioni, possiamo veramente dire che il suo lavoro sia indipendente? E ancora: poiché un articolo de 'La Stampa', oggi, ci fa notare che "uno dei problemi è che Usa e Uk sono pieni di società di analisi terze dei dati, l’Italia neanche ha capito di cosa parliamo", possiamo chiederci come mai una di queste società di analisi terze dei dati ha diffuso con incredibile tempismo, a pochi giorni dall'apertura di una kermesse politica, un report che di quella kermesse è diventato protagonista? Possiamo chiederci quale, fra queste società di analisi terze dei dati, realizzerà i report quindicinali promessi da Matteo Renzi? E ancora, rimanendo sempre nel campo delle domande omesse, c'è un ulteriore aspetto da sottolineare. La Leopolda, tecnicamente, non è un evento del Partito Democratico, ma un evento organizzato dalla Fondazione Open. Del board della Fondazione Open fa parte Marco Carrai, che - secondo quanto risulta a questo blog, attraverso testimonianze di due fonti distinte - è la persona che ha curato la parte del programma dedicata alle fake news, invitando un apposito esperto sul tema. Il che è non solo lecito ma anche prevedibilissimo: chi altri dovrebbe fare gli inviti e occuparsi di un evento, se non i membri della fondazione che lo organizza? Ma, ancora, qui casca l'asino. La Leopolda non è un evento del Partito Democratico, ma incidentalmente ospita gli interventi del Segretario nazionale del Partito Democratico, che qui annuncia anche l'andamento della campagna elettorale del partito che guida. Ricapitoliamo: una fondazione terza organizza un evento pubblico, cui partecipa il segretario di un partito politico, che quivi annuncia i temi della sua campagna elettorale, compreso un tema salito agli onori della cronaca grazie ad un report, realizzato da una società terza di analisi di dati, da un consulente del segretario del partito politico, che in passato ha anche lavorato per una società di un membro del board della fondazione. E non è uno scioglilingua. Veniamo alle domande omesse: la lotta alle fake news, che verrà supportata da report quindicinali, verrà condotta dalla Fondazione Open o dal Partito Democratico? Il Partito Democratico, ricordiamolo, essendo erede dei due principali partiti di massa del '900 italiano, ne ha ereditato anche un aspetto ormai vintage: una struttura piramidale, composta anche da una segreteria nazionale, di più membri, da una direzione, da un'assemblea. La struttura era al corrente di questa intenzione di lotta alle fake news? Ne condivide l'impegno? Sappiamo quali persone si occuperanno di questo tema, nella struttura del Partito Democratico, dentro il Collegio del Nazareno? Vedremo i report quindicinali sul sito del Partito Democratico? Last but not least, poiché io - come Stroppa - ho una certa predisposizione alle ricerche on line, vi propongo un divertissement: anche il sito di Matteo Renzi, segretario del Partito Democratico, condivide il codice Google Analytics con un altro sito, quello della Leopolda5, attualmente diventato, grazie ad un redirect, il sito dell'evento Leopolda, al di là delle varie edizioni. Nulla di cui stupirsi: cosa c'è di male? Nulla. Ma se la partita cui stiamo assistendo è quella della trasparenza e dell'accountability, beh, magari ad un elettore del Partito Democratico, un elettore che non si riconosce nella maggioranza renziana, potrebbe non far piacere che Google profili le sue visite al sito del segretario assieme ai dati raccolti dalle visite sul sito di un evento che non è pertinente al Partito Democratico. Ma siamo sicuri che la partita sia proprio quella della trasparenza e dell'accountability?
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Poi, dalle bufale alla gogna il passo è breve.
Brizzi, De Luca, Tavecchio: i tre volti della gogna, scrive Piero Sansonetti il 21 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il regista, il politico, il capo del calcio italiano, tre vicende diverse, ma il linciaggio mediatico è sempre lo stesso. Sono tre storie diverse, e riguardano tre personaggi diversissimi tra loro, ma tutte e tre hanno in comune un elemento: la voglia di gogna, di linciaggio, di ricerca del capro espiatorio e poi di realizzazione della cerimonia dello scannamento. Le storie di Carlo, Cateno e Fausto. Chi sono lo capite dalle fotografie: Carlo è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (cioè della federazione italiana gioco calcio) fino a ieri verso mezzogiorno, quando si è dimesso, travolto dalla sconfitta della nazionale con la Svezia e dalla furia dei giornali e dell’opinione pubblica. Cateno (nome singolarissimo) è Cateno De Luca, consigliere regionale siciliano appena eletto, arrestato per motivi francamente misteriosi due giorni dopo la vittoria elettorale, e ieri finalmente scarcerato dopo essere stato trattato dai giornali come un criminale conclamato. Fausto, infine, è il regista Fausto Brizzi, annientato da giornali e Tv, dipinto come un maniaco sessuale e uno stupratore, demolito nell’immagine e nel morale ma, forse, innocente. Le dimissioni di Tavecchio, diciamolo pure, erano doverose e scontate. Perché dopo una grande sconfitta sportiva è vecchia usanza che l’allenatore e il capo della federazione siano sostituiti. Successe così nel 1958, dopo la mancata qualificazione ai mondiali di Svezia, e successe così anche nel 1966, dopo l’eliminazione ai gironi per mano della nazionale della piccola Corea del Nord (gol di un dentista, calciatore dilettante) che allora era governata dal nonno del terribile Kim Yong (anche il nonno, Kim Il Sung, era parecchio spietato). Doverose le dimissioni ma non era doveroso il linciaggio. Tavecchio non è un personaggio simpaticissimo, il suo mandato in Figc è stato costellato di gaffe ed errori diplomatici. Tuttavia non è stato il peggio dei peggio. È lui che nel 2015 riuscì a reclutare Antonio Conte, uno degli allenatori più forti del mondo. E riuscì a trovare gli sponsor che permettessero di pagare il suo stipendio altissimo senza prosciugare le casse della federazione (e Conte ottenne ottimi risultati con una nazionale modesta); è lui che ha introdotto la Var nel campionato (sarebbe la moviola Tv in campo: clamorosa innovazione); è lui che ha messo in ordine i conti della Figc (l’Italia è quasi l’unica federazione calcistica coi conti in ordine). Forse, prima di mandarlo via, potevamo dirgli grazie, invece di coprirlo di sputi. Ha sbagliato a prendere Ventura quando Conte ha lasciato? Non c’era di molto meglio sul mercato degli allenatori. E poi, Ventura, prima del pasticcio svedese era stato un discreto allenatore e aveva avuto diversi successi. Su Brizzi non voglio sbilanciarmi. Non conosco i fatti. Se ha molestato, se ha stuprato, se ha commesso dei reati, che a me paiono gravissimi, deve essere processato. Però mi sembra che nessuno lo abbia denunciato, e quindi che è impossibile processarlo. Allora forse l’uso vigliacco della potenza dell’informazione (senza certezze, senza riscontri, senza prove, con pochi indizi) non è uno strumento di avanzamento della trasparenza ma piuttosto di una idea giustizialista che sfiora il totalitarismo. Poi c’è Cateno, che ieri finalmente è stato scarcerato e ha rilasciato dichiarazioni dure. Questo Cateno è stato processato negli anni scorsi 14 volte e sempre assolto. Quindi, tecnicamente, è un perseguitato. Quando l’altro giorno l’hanno messo in mezzo di nuovo, e arrestato, i mass media si sono scatenati (scusate il gioco di parole) contro di lui. Impresentabile, corrotto, mafioso. Quando due giorni dopo è arrivata la quindicesima assoluzione, silenzio. Nemmeno un accenno di scuse. Anzi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Massimo Fini che chiedeva che gli fossero tolti i domiciliari e fosse sbattuto il cella. Crucifige, Crucifige. Era il verso ripetuto di una famosa poesia del duecento, di Jacopone da Todi. A lui era chiaro che il giustizialismo era un’infamia. Quasi mille anni fa. Oggi invece torna, il giustizialismo, e torna sempre più tronfio, spietato, altezzoso. Sulle ali del grillismo. Su twitter, ieri (per fortuna) ho letto un twitt di Enzo Bianchi, teologo e monaco piuttosto noto nel mondo cristiano. C’era scritto così: «Ancora oggi ci sono persone rigide e legaliste che passano la vita a spiare i peccati degli altri e a scovare le presunte eresie degli altri: dopo una tale fatica, incattiviti, hanno la faccia che si meritano». E di seguito al twitt don Enzo – che oltre ad essere un teologo è anche molto spiritoso – ha pubblicato la faccia che viene ai giustizialisti. È quella che vedete in questa pagina, sotto il titolo…
L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattordicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate.
Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa.
Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema. Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno.
L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa in considerazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…
P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.
LA VERITA' E' FALSA.
La «post-verità» da Platone fino a Trump. La filosofa Adriana Cavarero analizza le radici della «parola internazionale dell’anno», ovvero quando i governanti diventano popolari sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza, scrive Adriana Cavarero il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Gli Oxford Dictionaries hanno eletto «post verità» parola internazionale dell’anno 2016, a seguito del controverso referendum sulla «Brexit» e dell’elezione presidenziale americana ugualmente contestata, che hanno contribuito a diffondere questo termine tanto nei mass media che nel gergo politico. Il dizionario definisce «post-verità» come «in rapporto o contestuale a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto alla leva esercitata sulle emozioni e sulle credenze personali». Il prefisso «post», in questo caso, non significa «successivo», ma anzi denota un’atmosfera in cui la verità è irrilevante e prevalgono le credenze radicate nelle emozioni. Ci si chiede se una politica che fonda la sua agenda sul principio della verità, scartando il regno emotivo di sentimenti e credenze, sia mai esistita nell’intera tradizione politica dell’Occidente. A dire il vero è esistita, ma solo nel registro astratto della teoria: nella fervida immaginazione politica di Platone.
Nella Repubblica, Platone esamina l’antagonismo tra una politica costruita sulla verità, che corrisponde alla sua concezione della polis ideale, e una politica costruita invece sulle emozioni, ovvero sul pathos, la patologia di quella entità politica collettiva che egli chiama «i molti» — hoi polloi — e che descrive in modo allegorico come «un grosso animale». Il contesto in cui questa celebre e ignobile immagine emerge è un discorso di Socrate sulla natura del vero filosofo, che si distingue dalla natura di altri esperti di logos nell’Atene contemporanea, i sofisti. Nello sviluppare una speciale tecnica di linguaggio che riesce ad emozionare «i molti» i sofisti si prestano a pagamento a istruire i futuri leader politici su un discorso che miri a manipolare il pubblico e, tecnicamente, a conquistarsi i voti degli elettori. Platone paragona il sofista a qualcuno che «avesse compreso gli impulsi e i desideri di un animale da lui allevato grande e forte e sapesse come bisogna avvicinarsi a lui e quando e per quali motivi diventa più irascibile o più mite, quali suoni è solito emettere a seconda delle circostanze, e quali, se proferiti da altri, lo ammansiscono e lo irritano; e tutte queste conoscenze, apprese grazie a una lunga dimestichezza, le chiamasse sapienza e si volgesse a insegnarle quasi avesse istituito un’arte;… tutto in base alle opinioni di quel grosso animale».
È risaputo che le teorie antidemocratiche di Platone sono state storicamente cooptate dalla tradizione reazionaria e dall’estrema destra, persino dalle ideologie naziste. Eppure vale la pena riflettere sulla sua critica della democrazia. Platone sostiene che la democrazia si trasforma inevitabilmente in demagogia, un regime politico che provoca la corruzione del popolo tramite la manipolazione dell’opinione pubblica e crea governanti che accrescono la loro popolarità sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza di molti, rinfocolando le loro emozioni e contrastando le decisioni ragionate. Questi leader si specializzano nel coltivare, incrementare, riprodurre e riformulare gli impulsi del grosso animale, allo scopo di stabilire e affermare un sistema di potere fondato sul pathos, una forma di «politica patologica». In questo senso, la polis ideale di Platone è all’opposto: come governanti, i filosofi sono in realtà guidati dalla verità del logos, ovvero dalla capacità della ragione di controllare e reprimere gli impulsi delle parti più basse e viscerali. I filosofi, sostiene Platone, devono essere educati ad amare la verità e provare vergogna nel mentire. Al contrario, dato che i politici educati dai sofisti guardano al logos non come una struttura che racchiude l’ordine della verità, ma piuttosto come uno strumento di azione per manipolare le emozioni della gente, essi mentono. La verità è irrilevante in questo contesto patologico. Talmente irrilevante che qualunque cosa il grosso animale creda o sia persuaso a credere, ciò corrisponde al vero. Il concetto della post-verità applicata alla politica, come suggerisce il dizionario di Oxford e come Platone sembra presagire, non liquida la verità, bensì la rende irrilevante.
La posta in gioco non è la verità, bensì il potere: sia il potere generalmente definito come dominio sugli altri tramite mezzi di persuasione oppure, più nello specifico, come caratteristica distintiva di operazioni linguistiche capaci di dimostrare l’irrilevanza e, in ultima analisi, la superfluità del vero. Platone, antidemocratico ed elitista, è il primo a detestare i tecnici della manipolazione del popolo che trasformano l’esercizio della menzogna in un’arte politica efficace, accettabile e gradevole, l’arte del discorso acrobatico, una specie di funambolismo verbale assai divertente. Per questo motivo Platone non esita a definire ciarlatani i sofisti e i loro emuli in politica, aggiungendo che la loro esibizione corrisponde ai gusti popolari degli spettatori del circo.
Potrei aggregarmi alla schiera degli scettici, ma non è questo il mio scopo. In questo momento, mi appassiono alla descrizione della fenomenologia della politica patologica, nel suo annoverare anacronistico e altamente polemico di una serie di caratteristiche e preoccupazioni riguardanti un certo pathos politico, i cui profili sembrano convergere nell’attuale definizione di post-verità. Se Platone insistendo sulle emozioni dei «molti» dava consistenza e giustificazione alla bugia, Hannah Arendt ci aiuta a comprendere lo specifico della menzogna politica moderna come «bugia fabbricata» e fittizia. La presa sulle emozioni è in questo caso aggravata da una comunicazione che, lungi dall’essere manipolazione acrobatica del discorso, mira ad accattivarsi il pubblico attraverso frasi tanto efficaci quanto sconnesse: in pratica sembrano vere in quanto prodotte non dalla ragione ma da impulsi. Improvvisato e privo di coerenza teorica il discorso politico dell’attuale potere spegne in noi il senso del reale, sostituendo la nostra presa sulla realtà con fatti «alternativi», fake theory, bugie rese «reali» dai social media. Nell’era della post verità il potere si esprime con stile improvvisato. Quello che twitter trasforma in realtà. Il rapporto tra verità e politica è definitivamente collassato? (Traduzione Rita Baldassarre)
La polemica: verità, post-verità e ragione. La verità tra sentimento soggettivo, dubbio e controllo della ragione, scrive Rocco Buttiglione il 15 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Adesso è di moda la post-verità. Uno incolto potrebbe pensare che la post-verità sia quello che una volta si chiamava menzogna ma in realtà non è proprio così. Tra la idea di menzogna e quella di post-verità sta la morte della idea di verità. I saggi, i colti, ci hanno spiegato che la verità non esiste. Prima ancora dell’era del web e della proliferazione incontrollata dei blog, dalle colonne dei grandi giornali e dalle cattedre universitarie ci hanno detto che la verità è pericolosa per la democrazia, che quelli che credono una verità hanno la tendenza naturale ad imporla e quindi sono tendenzialmente totalitari. C’è stato anche chi ha denunciato la pretesa totalitaria della ragione ed esaltato il primato della autenticità soggettiva. Che succede quando muore l’idea di verità? Ognuno di noi è abitato da un groviglio di impulsi, paure, desideri e tensioni istintive. La idea di verità ha la funzione di controllare (Foucault direbbe sorvegliare) questo magma, di costringerlo a fare i conti con la realtà. Se questo non avviene l’uomo rimane prigioniero di se stesso, perde la capacità di adattarsi all’ambiente, infine muore. Della realtà fanno parte anche gli altri esseri umani. Quando muore l’idea di verità muore anche il dialogo che unisce gli uomini fra di loro. Ogni uomo infatti ha una sua verità, che è la risultante delle sue interne passioni dell’anima. Per poter confrontare la mia verità con la verità dell’altro ho bisogno di credere in una verità più grande che possiamo scoprire insieme. Se questa idea viene meno avremo il pluralismo delle verità. Ognuno griderà la sua verità con tutta la forza di cui dispone. Il pluralismo delle verità era l’ideale dei decostruzionisti (quelli che volevano decostruire l’idea di verità). Essi, per la verità, immaginavano la coesistenza pacifica, senza violenza, delle diverse verità. Adesso abbiamo visto che si sbagliavano. Non vedevano il fatto che viviamo in un mondo comune e diamo forma alle nostre società attraverso un lavoro comune. Per realizzare il mio desiderio, per dare forma alla mia idea di verità, ho bisogno della collaborazione dell’altro. Credevano che il desiderio fosse buono o almeno innocuo. Non vedevano che l’invidia la violenza contro l’altro uomo è una componente fondamentale del desiderio non sottoposto al vincolo della ragione. Assistiamo dunque ad una regressione di massa. Nel Mercante di Venezia Shakespeare ci offre un modello insuperabile di questo movimento di pensiero. Io sono frustrato per le mille ragioni che si frappongono fra il mio desiderio e la sua realizzazione. Invece di cercare un percorso reale verso la realizzazione del desiderio mi trovo un responsabile immaginario della mia infelicità. Nel caso di Shakespeare questo responsabile è Shylock, l’ebreo. La mia frustrazione è reale e la condensazione delle sue cause in un personaggio fantastico è una grande opera d’arte. La identificazione di questo personaggio fantastico con l’ebreo reale è invece demoniaca (esiste anche il demoniaco nell’arte). Io sento che l’ebreo è la causa del male del mondo e, data che non esiste nessuna ragione superiore abilitata a giudicare del mio sentimento, allora l’ebreo è davvero, almeno per me (e per quanti si lasciano contagiare dal mio sentimento) la causa di tutti i mali del mondo. Per la verità una crisi analoga della idea di verità l’Europa la ha vissuta fra la fine del secolo XIX e gli inizi del secolo XX. È da quella crisi che nacquero i totalitarismi. Non a caso i nuovi filosofi della decostruzione fanno tutti riferimento a Nietzsche. Adesso si tende ad addossare al web tutti i mali della post verità. Il ragionamento andrebbe rovesciato. La diffusione del web ha effetti così distruttivi perché avviene in un tempo storico che già precedentemente aveva rinunciato alla idea di verità. Non abbiamo assistito a linciaggi mediatici fatti dalla grande stampa che adesso si straccia le vesti per le bufale del web già molti anni prima della diffusione di internet? Sia chiaro: internet va regolato ed è del tutto inaccettabile l’idea che esso possa essere uno spazio anarchico in cui ci si sottrae alla responsabilità per le proprie azioni. Talvolta le parole sono pietre e chi le scaglia non si può sottrarre alla propria responsabilità. Il problema vero, però, non è la regolamentazione del web, é la riabilitazione della idea di verità. Un problema strettamente connesso, poi, è quello del ripristino dei confini fra i generi letterari. In occasione dell’anniversario dell’attentato a Charlie Ebdo si moltiplicano gli articoli che chiedono un uso responsabile della satira. È giusto chiedere a chi fa della satira di essere responsabile? La satira è sempre stata un modo di far emergere il represso. Rido perché scopro in me stesso un umore che collude con quello che la satira mi dice, per crudele ed osceno che sia. Ne rido perché so che non è vero. È come andare allo zoo (pardon: al parco biologico) a vedere gli animali feroci. Mi diverto perché so che sono inoffensivi. Il vero problema è che è saltata la distinzione fra la satira e l’informazione. Una satira politicamente militante ha diseducato una generazione abituandola a pensare che il satiro dice la verità ovvero che non esiste differenza fra il sentimento soggettivo e la verità. Fra il sentimento soggettivo e la verità esiste il controllo della ragione. La ragione vaglia i fatti e valuta se essi confermino o contraddicano il sentimento soggettivo. La ragione sottopone il sentimento soggettivo al controllo metodico del dubbio e lo lascia valere solo se supera (nella misura in cui supera) questo vaglio del dubbio. Nel fare questo la ragione considera diverse ipotesi alternative. Esse hanno però il dovere di rendere ragione di tutti i fatti accertati, non possono selezionare solo i fatti che le confermano tacendo quelli che le contraddicono. È solo attraverso questo difficile esercizio che cresce una opinione pubblica matura. Senza di essa però la democrazia muore.
Noi in trappola tra bufale e censura. La circolazione di false notizie online non si combatte con lo stop alla libertà di parola. Ma evitando l’impunità di chi le diffonde, scrive Roberto Saviano l'08 gennaio 2017 su "L'Espresso". Come sempre in Italia (anche quando le notizie che ci riguardano arrivano dall’estero) si ragiona tirando in ballo la parola “emergenza” per far leva sull’emotività. Come sempre - e questo impedisce la ricerca reale di una soluzione - si propongono ricette inattuabili e che hanno un retrogusto amaro, quando non pericoloso. E come sempre, la risposta non tarda ad arrivare. Anch’essa è scomposta, deve alzare i toni perché la gara è a chi la spara più grossa, a chi fa più proselitismo e ovviamente il proposito finale non è trovare una soluzione, ma lasciare tutto com’è. Ché, detto tra noi, quando le cose vanno male sono in molti a stare bene. Ed ecco la nuova reale e pressante urgenza ed emergenza democratica: le bufale online, le false notizie. Non fraintendete il mio tono, è effettivamente un problema che esiste e non va sottovalutato, ma la sua risoluzione non si chiama censura. Per fare un esempio che è sotto gli occhi di tutti, secondo l’analisi della testata americana BuzzFeed, nella fase conclusiva della campagna presidenziale americana, le 20 notizie false più cliccate su Facebook hanno generato più condivisioni, più like e più commenti rispetto alle 20 notizie vere più cliccate: “Il Papa appoggia Donald Trump” (notizia falsa) ha avuto più condivisioni dell’inchiesta del Washington Post sui reati di truffa e corruzione di Trump (notizia vera). L’ho presa larga, ma sto parlando della nostra Costituzione, quella stessa che molti vogliono difendere, che pochi conoscono e che pochissimi si impegnano perché sia effettivamente applicata. Sto parlando dell’articolo 21 di cui cito le prime righe: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”. E io aggiungerei questo: la tutela della libera formazione delle opinioni nelle persone è un diritto fondamentale da tutelare e se le bufale, se le false notizie presenti online mettono a rischio questa libertà la risposta non può essere il controllo dello Stato sulle conseguenze, ma la ricerca delle cause. Allo stesso tempo la soluzione non può essere far finta che il problema non esista e rivendicare il diritto a dire ciò che si vuole, ovvero il diritto all’irresponsabilità. Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, rilascia al Financial Times (ecco la notizia che ci arriva dall’estero) un’intervista sullo stato dell’informazione in Italia e dice che la maggiore causa di degrado della democrazia sono le bufale che circolano sul web e sui social. Pitruzzella dice di non fidarsi del controllo che i social farebbero sulle notizie false e auspica la costituzione di una serie di istituti indipendenti coordinati da Bruxelles e modellati sull’Antitrust. Non sarebbe lavoro da affidare a società private, dice, perché: «è storicamente compito dei poteri pubblici». Afferma di non temere alcun rischio censura perché le persone «potranno continuare a utilizzare un web libero e aperto» (con “free”, l’intervista era in inglese, non credo di riferisse alla gratuità del servizio che in Italia è costoso anche quando - e capita spesso - è scadente. Ma questa è un’altra storia). Pitruzzella, a margine della sua intervista, accenna anche alla soluzione già esistente, ovvero il ricorso dei privati cittadini che si sentono danneggiati dalle false notizie all’autorità giudiziaria ma, secondo Pitruzzella, la macchina giudiziaria è notoriamente “clunky” che io tradurrei con “oberata”, “ingolfata”. Ecco, quindi una risposta di buon senso a Pitruzella poteva essere questa: ma invece di pensare a un intervento dello Stato, non sarebbe stato meglio auspicare una riforma del sistema giudiziario dando atto delle ripercussioni che il suo malfunzionamento ha anche sulla circolazione di notizie false e sulla sostanziale impunità per chi le produce e le diffonde? E invece no e a rispondere immediatamente è Beppe Grillo, che nella sua invettiva omette di citare le bufale da cui tutto oltreoceano era partito, e si accomoda sul banco degli imputati dicendo che è lui che vogliono zittire e censurare. Pitruzzella non l’aveva citato Grillo, che però, sentendosi chiamato in causa, rivendica di fatto il diritto alla bufala. Conclusione: c’è chi vorrebbe censurare e chi vuole dire balle, in mezzo ci siamo noi. That’s all folks.
La verità? E' falsa: 2016, un anno di bufale. Da Agnese Renzi che vota no a Boldi nei panni di Berlusconi, un’antologia delle migliori-peggiori notizie fasulle alle quali una quantità immane di persone ha abboccato. Un racconto lungo dodici mesi di disinformazione, scrive Maurizio Di Fazio il 23 dicembre 2016 su "L'Espresso". Notizie false, falsissime, a cui però si è creduto in massa. Frottole, meme, favolette acchiappa-click diventate virali e verità costituita. Bufale passate senza soluzione di continuità dalla babele interessata dei siti Internet dedicati all’opinione pubblica ufficiale. Con i social network a fare spesso da porta girevole, da docile quinta colonna per la moltiplicazione incontrollata delle fandonie legate soprattutto alla politica, all’attualità, al costume, alla scienza e alla tecnologia. Per il guadagno di pochi mercanti di menzogne (capaci di aggirare a volte anche il sistema immunitario dei media autentici), complice la dabbenaggine di molti e insospettabili fruitori “attivi”, armati di like e condivisione. Questa è la storia contraffatta, ma sulle prime contrabbandata per buona, dell’anno che se ne va tra allarmismi, pietismi e le consuete morti ingannevoli di celebrities della politica e dello spettacolo; rivelazioni della Nasa sull’esistenza degli alieni; nuove e spaventose malattie in agguato e ripristini imminenti della leva obbligatoria; Facebook e Whatsapp che diventeranno a pagamento, e il ritorno alla lira fissato per il primo gennaio; l’ex ministro Cécile Kyenge che vomita cattiverie contro il nostro Paese, Laura Boldrini che preferisce gli immigrati clandestini a tutti noi e i giustizieri del pomeriggio che suppliscono col far west al lassismo di una classe politica che sempre dal primo gennaio ci toglierà la pensione per ridistribuirla agli immigrati stupratori. Eccovi quindi un’antologia delle migliori, peggiori bufale del 2016, alle quali una quantità immane di persone ha abboccato. Un racconto lungo dodici mesi di disinformazione fattasi, per assurdo, fantomatica informazione corrente.
Attentato a Bruxelles. Il 23 marzo, il giorno dopo la strage all’aeroporto dell’Isis, ci casca la gran parte dei quotidiani italiani online, che pubblicano un video fake in apparenza riconducibile alle telecamere a circuito chiuso. E il video rimbalza in tutte le dirette televisive, commentato dal fior fiore degli opinionisti ed esperti di terrorismo e geopolitica. In verità, il filmato è relativo a un’altra carneficina, quella perpetrata cinque anni prima, l’11 gennaio del 2011, all’aeroporto russo di Mosca-Domodedovo, già presente già su Youtube.
Referendum sulle trivelle di aprile. Nel pubblicizzare il referendum, i “no triv” assicurano che sposando la loro posizione si eliminerebbero le piattaforme petrolifere dal panorama dei mari italiani. Ma non è così: il quesito referendario si limita al divieto del rinnovo delle concessioni per le trivellazioni in mare entro le dodici miglia. I fautori del sì agitano invece lo spettro dell’impennata dei licenziamenti e del crollo delle entrate dei petrolieri qualora perdessero la propria battaglia: doppio falso. Desta clamore il tweet di Giampaolo Galli, docente e parlamentare del Pd, che inneggia all’“astensione per Regeni e i marò”.
Sisma e menzogne. Nemmeno il tempo di riprendersi dallo spavento per i terremoti che squassano, tra agosto e ottobre, il centro Italia, che si fa largo la bugia epidemica della magnitudo abbassata ad arte (sotto i sei gradi) per non pagare i danni ai cittadini. Su Facebook proliferano tanti novelli sismologi, che asseverano con forza la bontà della loro teoria.
Referendum costituzionale. Da Gigi D’Alessio e Barbara D’Urso che smetteranno rispettivamente di cantare e di fare televisione se vincesse il no, a Vladimir Putin (un beniamino dei bufalari) che dichiara: “Se vince il sì, la Russia agirà di conseguenza, e non in senso positivo”. E che dire del presunto outing della first-lady Agnese Renzi, col suo “Voterò no”? Ma la bufala-spartiacque si mette in moto sulla scia del post Facebook del frontman dei Liftiba, Piero Pelù, che denuncia di essere stato costretto a usare una matita non copiativa in cabina elettorale. Parecchi altri seguono il suo esempio, nonostante la smentita ufficiale del Viminale. Le matite copiative funzionano solo su certi tipi di carta, e su quella normale si comportano come semplici matite. S’è sempre saputo.
Immigrati brutti, sporchi e cattivi. “Il Governo dà 35 euro al giorno a ogni immigrato”: tra le bufale a tema, questa è tra le più classiche. E tra gli “scoop” farseschi e xenofobi più originali dell’anno, si segnala questo del 28 agosto. “Pescara. Io ho più bisogno di quei terremotati, che si fottano. Da qui non me ne vado. Queste le parole di Mustafa Thomas Daverie, immigrato sbarcato a Lampedusa nel 2015 che attualmente soggiorna presso l’hotel (inesistente) “Nobelli” di Montesilvano. Il senegalese continua affermando che “i terremotati hanno i soldi quindi si possono risolvere da soli. Io no”, mentre tiene in mano il nuovissimo Galaxy S7 Edge pagato con le nostre tasse, 35 euro al giorno per la legge stabilita dal governo Renzi in collaborazione con la Boldrini. La nostra redazione è indignata dai commenti di questo ragazzo a cui noi italiani abbiamo salvato la vita. Ti senti indignato anche tu? Condividi il post, tutti devono sapere”. E in migliaia accorrono e condividono.
L'esordio di Gentiloni. "Basta ipocrisie, sono tutti finti poveri e io sono già scocciato di questo piagnisteo: rimboccarsi le maniche per il futuro del paese, qualche sacrificio non ha mai ammazzato nessuno, solo così l’Italia tornerà a primeggiare in Europa”. Queste le frasi che avrebbe proferito il nuovo presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Parola, credibilissima, di “Libero Giornale”. Lo sfogo fittizio di Gentiloni prosegue così: "Ma per ritornare ad essere veramente competitivi gli italiani devono fare dei piccoli sacrifici quali smettere di lagnarsi sui social e poi fare la fila per comprarsi l’ultimo iPhone o insultare i protagonisti di Riccanza per poi fare tavolo in discoteca in 40 per potersi permettere una bottiglia di DonPero. Risparmiassero 10 euro in più al mese, così potrebbero campare dignitosamente".
Renzi che parla al cellulare in momenti decisamente inopportuni. Nella foto-meme si vedono Renzi, Boldrini, Grasso e Mattarella ad Ascoli al funerale delle vittime del terremoto, mentre si fanno il segno della croce. Qualcuno però mette in giro la voce che la mano del premier dietro la cravatta stia manipolando, in gran segreto, il suo smartphone… Una suggestione e niente più. Troppo tardi: l’indignazione dilaga sui social.
Pokémon bufala. Narra uno delle decine di siti di informazione pataccara: “La situazione sta davvero degenerando, incidente d’auto causato da Pokèmon Go. Un 22enne romano ha perso il controllo della sua auto che si è ribaltata a causa della brusca sterzata che il giovane aveva eseguito quando si è accorto che stava invadendo la corsia opposta. L’auto ha preso fiamme ma per fortuna il giovane è stato estratto e portato immediatamente in ospedale, dove, per le condizioni gravissime, è deceduto. La polizia municipale accorsa sul posto ha rilevato subito che il giovane usava lo smartphone mentre giocava a Pokémon Go, il nuovo videogame lanciato da Nintendo alcuni giorni fa e che sta facendo impazzire gli appassionati di tutto il mondo. La distrazione del videogame sul display del cellulare gli è stata fatale: l’auto è andata completamente distrutta come si vede nella foto”. Tutto falso. Hai capito, Galileo? Il rapper B.o.b. si professa convinto che la terra sia piatta e non sferica. E il bello è che lo seguono in moltitudini in questo suo sragionamento che ci riporta indietro di secoli, ai tempi della realtà aumentata.
Bufal-Stracult.
1) Il 5 marzo il solito “Libero Giornale” pubblica un “pezzo” dal titolo Sicilia: estremista islamico uccide il cane della fidanzata perché annusa il Corano. Svolgimento: “Bruttissima storia di crudeltà e ignoranza arriva da tranquillo comune siciliano di Marina di Vigata. Un pizzaiolo algerino di 22 anni, Aarif al Djebar ha crocifisso il cane della sua fidanzata italiana, una meticcio di Chihuahua. La bestiola era colpevole di aver annusato il suo Corano, incautamente lasciato sopra una sedia. L’uomo, che sembra avere legami con l’Isis, l’ha presa e l’ha crocifissa, poi, non contento ha anche dato fuoco alla carcassa. Il 22enne ha detto di averlo fatto perché era un cane degli infedeli. Il giovane, che risulta essere un clandestino, è balzato agli onori della cronaca francese quando nel 2011 fece saltare in aria un allevamento di maiali a Buffle, nella bassa Provenza”.
2) “Rocco Siffredi ha intrattenuto rapporti intimi con due donne nel bagno di un ristorante ed è stato allontanato dal proprietario su sollecitazione di clienti imbarazzati per i rumori”. Questa leggenda metropolitana è stata purtroppo ripresa e rilanciata anche da testate serie e autorevoli.
3) “Massimo Boldi vestirà i panni di Silvio Berlusconi nel prossimo film di Paolo Sorrentino”. La notizia, piuttosto incredibile, viene pubblicata da svariati giornali solitamente credibili. Ma era l’ennesima bufala assurta al rango di vero, sia pure giusto per qualche ora: un’eternità incontenibile, sul web.
I cretini della post verità Francesco, scrive Maria del Vigo l'1 gennaio 2017 su “Il Giornale”. É l’anno dei cretini della post verità. Termine già certificato dal prestigiosissimo Oxford Dictionary e infatti tutti i più saccenti giornaloni si sono affrettati a mandare a memoria questa parola: dal Guardian al Washington Post, dal Times al Corriere della Sera, dal radicalchicchissimo Internazionale a Repubblica. È la parola dell’anno finito e senza dubbio ci romperanno le balle con questa strampalata teoria anche in quello che ha appena iniziato. Ma cos’è dunque questa post verità? Di cosa si stratta? È il solito giro di parole che le elite radical chic si inventano per darsi un po’ di arie. Questi sterminatori di parole e di buon senso hanno decretato che siamo nell’era della posto verità; e, per intenderci, sono gli stessi che chiamano lo spazzino operatore ecologico e l’handicappato diversamente abile; quelli che hanno inventato decine di perifrasi per catalogare (con estremo rispetto, ovviamente!) tutti i gusti sessuali, quelli che si dice genitore 1 e 2, quelli che se dici negro ti mettono alla gogna e che prima o poi chiameranno i bianchi diversamente neri per non essere troppo razzisti, senza accorgersi di essere gli ultimi razzisti rimasti sul pianeta terra. Hanno ecceduto a tal punto in questa ossessione politicamente corretta da essere diventati la caricatura di loro stessi. E qualcuno, esasperato da questo galateo dell’ipocrisia, ha sbroccato e ha pensato bene di ruttargli in faccia. L’ultimo in ordine temporale è stato Beppe Grillo. Ma torniamo alla post verità e al suo significato. Post verità è un modo per dire bufala, balla, bugia. Ma siccome – come dicevamo prima - loro non chiamano mai le cose col loro nome hanno pensato di apparecchiare questo termine paludato. La post verità è una bufala di nome e di fatto. La teoria è che nel far west della rete circolino così tante bugie che la gente (che se avessero il coraggio delle loro azioni definirebbero “plebi”) finisce per crederci e per farsene influenzare. Per non cadere nel loro stesso gioco: siamo di fronte a una cagata pazzesca. Provate un po’ a indovinare quando ha preso campo questa idea? Vi aiuto io: si è fatta largo silenziosamente dopo il successo della Brexit, è esplosa a livello mondiale a seguito della vittoria di Donald Trump e in Italia è diventata verbo dopo il trionfo del No al referendum costituzionale. Un caso? No. Anche perché coloro che la hanno inventata e la utilizzano come una scimitarra contro le folle populiste, sono gli stessi che non avevano capito niente di quello che stava ribollendo nei loro rispettivi paesi. Quelli che fino al giorno prima dicevano che se la Gran Bretagna fosse uscita dall’Europa il secolare impero di sua Maestà sarebbe andato gambe all’aria, che quell’arricchito di Trump avrebbe fatto esplodere il mondo e che lo stop alle riforme avrebbe portato ogni forma di distruzione sullo Stivale (queste non erano post verità ma semplicemente delle idiozie). Invece la regina è ancora lì con la sua imperturbabile permanente, Trump rispetto all’ultimo, isterico, Obama sembra uno statista e in Italia non è cambiato un tubo. Dunque, lorsignori, non adattandosi a un mondo che va per i fatti suoi e non si adatta ai fatti che circolano nella loro testa, hanno deciso di ribaltare il tavolo: hanno vinto i populisti perché la menzogna ha prevalso sulla verità e gli elettori hanno preso lucciole per lanterne. Insomma, è stato solo un gigantesco abbaglio. Ed è tutta colpa di internet e dei social network. Il passo successivo – e qualcuno già lo ha fatto capire tra le righe – è dire che gli elettori sono solo una massa di imbecilli e quindi bisogna abolire il suffragio universale. Così improvvisamente la post verità è stata spalmata come un balsamo su tutti i mezzi di comunicazione. Quando non sai come giustificare un clamoroso fallimento della tua combriccola ideologica tiri fuori la post verità e tac è fatta. Un manipolo di cretini che non capisce un cavolo di quello che vuole realmente la gente ha risolto la situazione classificando come ebeti qualche centinaio di milioni di persone: noi stiamo dalla parte giusta, loro da quella sbagliata perché sono ignoranti che si bevono qualunque fesseria. Perché è rassicurante, per chi ha perso ogni punto di rifermento, convincersi che è tutta colpa delle balle e di chi le posta su Facebook. Come se non fossero mai esistite le bufale, come se i cittadini, gli internauti e dunque gli elettori, non fossero capaci di distinguere autonomamente il vero dal falso. E così da strampalata teoria autoassolutoria e popolodenigratoria si è trasformata in un’istanza politica. Ed è questo il pericolo. Perché i governi hanno iniziato a dire che bisogna porre rimedio a questa cosa, che i social network sono delle cloache a cielo aperto dove tutti – ohibò! – possono dire quello che gli pare. Giovanni Pitruzzella, il presidente dell’Antitrust, ha dichiarato al Financial Times che “i pubblici poteri devono controllare l’informazione”. Oh, finalmente qualcuno ha calato la maschera. Beppe Grillo, una volta in vita sua, ha detto una cosa giusta: questa è una nuova inquisizione. Ha ragione. Ci manca solo che i burocrati di Roma o – ancora peggio – di Bruxelles si mettano a censurare quello che scriviamo sui nostri profili Facebook… Anche perché, allora, se si dichiara guerra alle balle bisogna mettere alla berlina tutti, ma proprio tutti i pinocchi del mondo, e non solo su Facebook. Sento tintinnare le ginocchia in Parlamento. Vogliamo imbavagliare Maria Elena Boschi perché in televisione diceva che con la vittoria del No sarebbe stato più difficile combattere il terrorismo islamico? E quella non era post verità, ma proprio una stronzata. Difatti i cittadini lo hanno capito, hanno smontato una per una tutte le trimalcioniche promesse referendarie e hanno dato il benservito a Renzi e al suo governo. A dimostrazione del fatto che gli elettori non hanno bisogno di una badante di Stato che verifichi e selezioni per loro quello che possono o non possono leggere. Ma loro, questa badante ce la vorrebbero appioppare. Vorrebbero mettere le nostre idee in libertà vigilata, sigillare una zona traffico limitato del pensiero, mettere fuori legge gli eretici. Perché ci vuole un attimo a infilare le critiche nel cestino della spazzatura, dello spam illeggibile. Sognano una discarica indifferenziata del pensiero politicamente diverso. Non scorretto. Gli scorretti – quelli che vogliono cambiare le regole del gioco – sono soltanto loro. Non ce la faranno, perché cercare di fermare la rete – la gente – con qualche carta bollata è come pensare di poter svuotare il Sahara con un cucchiaino da tè. Ma il 2017 sarà comunque l’anno in cui i cretini della post verità cercheranno di mangiarsi pezzi della nostra libertà. Libertà di informazione, libertà di critica e financo politica. Stiamo all’erta.
"Non credono ai social, ma tre giovani su dieci rilanciano le bufale". L'87% diffida della Rete, ma il 28,5% ha condiviso almeno un fake e l'11% diffonde "sempre e comunque". I dati dell'istituto Toniolo, scrive Cristina Nadotti il 28 gennaio 2017 su "La Repubblica". Consapevoli che quanto si legge sui social andrebbe verificato, ma comunque pronti al clic veloce che diffonde la bufala. Ci sono soprattutto due dati, nell'indagine dell'Osservatorio giovani dell'Istituto G. Toniolo su "Diffusione, uso, insidie dei social network", capaci di fotografare la società della post-verità: tra i giovani che hanno dai 20 ai 34 anni circa uno su tre (il 28,5 per cento) ammette di aver condiviso un'informazione poi rivelatasi falsa. Eppure il pericolo bufala è noto: l'86,6 per cento afferma che i social non vanno presi troppo sul serio perché "i contenuti che vi si pubblicano possono essere tanto veri quanto inventati". Un'anticipazione dell'indagine, condotta nel mese in corso su un campione di 2.182 persone, rappresentativo dei giovani dai 20 ai 34 anni, sarà presentata oggi all'incontro "Vero, verosimile, post-verità", che l'arcivescovo di Milano terrà con giornalisti e comunicatori. I dati raccolti sulla diffusione delle bufale in rete lasciano tuttavia qualche speranza su un mutamento di tendenza, su una maggiore consapevolezza nell'uso dei social. Se, come detto, il 28,5 per cento ha condiviso informazioni poi risultate false, il 75,4 riferisce che, dopo un'esperienza personale o la diffusione di una bufala da parte di un amico, ha aumentato la sensibilità sul tema e l'attenzione ai contenuti "sospetti". In particolare, il 55,6 per cento ha smesso di condividere contenuti da contatti a rischio e il 41,7 per cento ha rimosso dalla propria rete chi diffondeva notizie false. Ma resta un 11,2 per cento che tende a condividere "sempre e comunque, tanto è impossibile appurare l'attendibilità di quello che circola in rete". La capacità di fiutare l'inganno e di aumentare l'attenzione è poi strettamente legata agli strumenti culturali. Tra chi ha il solo diploma di scuola media, la condivisione di un bufala è al 31,7 per cento, scende al 24 per cento tra i laureati. Con un titolo di studio universitario si individuano le notizie false condivise da altri (77,8 per cento, contro il 74,6 per cento di chi ha un titolo intermedio e il 70,4 per cento di chi ha un titolo basso) e anche la reazione dipende dal livello culturale: il 79,1 per cento dei laureati è pronto a cancellare un contatto facile alle fake news, contro rispettivamente il 76,7 e 71,4 di chi ha un titolo intermedio o basso. Confermati anche il primato di Facebook tra i social network e l'uso dello smartphone. Il 90,3 per cento degli intervistati è presente sul social di Zuckerberg, il 56,6 per cento è su Instagram, Google+ cattura il 53,9 per cento degli utenti, mentre Twitter resta al 39,9. Chi usa Facebook è più assiduo (oltre il 90 per cento presente con cadenza quotidiana) e lo strumento privilegiato per connettersi è il telefonino (72,7 per cento), sul quale si leggono post di amici e follower (74,1 per cento), news (63,2 per cento), si conversa via messenger (57,8 per cento) e si commentano post dei contatti (49,1 per cento). Non vacilla il binomio rete/libertà: il 69,2 per cento degli intervistati considera i social uno strumento dove è più semplice comunicare stati d'animo ed emozioni ed esprimere "apertamente il proprio punto di vista sulle questioni più controverse dell'attualità" (71,3 per cento) con un linguaggio più schietto e diretto (70,1 per cento).
Contro la post-verità in rete, legittima difesa degli utenti. Non serve la censura ma il lavoro di contrasto delle fake news da parte dei lettori, dei giornalisti liberi, dei siti di fact-checking, in collaborazione con Facebook, Google e Twitter, scrive l'1 gennaio 2017 su Panorama Luigi Gavazzi. Il post-truth in rete e i populisti che la usano, la democrazia minacciata, sono entrati definitivamente nel dibattito politico quotidiano anche in Italia, dopo che giovedì scorso il presidente dell'Antitrust, Giovanni Pitruzzella, parlando con il Financial Times, ha proposto una rete di agenzie pubbliche dei Paesi Ue contro le notizie e le storie false diffuse online. Questa opera di individuazione e smascheramento delle bufale, secondo Pitruzzella sarebbe più efficace se venisse affidata direttamente a autorità pubbliche simili alle varie antitrust nazionali, invece che essere semplicemente delegata alle grandi aziende che dominano Internet - Facebook, Google o Twitter e alla loro volontà e capacità di contrastare le informazioni false. Gli utenti, dice Pitruzzella, continuerebbero "a usare un Internet libero", ma beneficerebbero di un'entità "terza", indipendente dal governo, "pronta a intervenire rapidamente se l'interesse pubblico viene minacciato". Contro Pitruzzella subito si è levato l'anatema di Beppe Grillo, che ha urlato al complotto contro la libertà di espressione, cui hanno fatto da eco immediatamente venerdì i social network, e sabato anche qualche giornale, Il Fatto Quotidiano in testa. Reazione che ovviamente allontana ogni possibilità di analisi e dibattito civile. Ma certo la questione del rischio censura merita tutta l'attenzione. Il punto ovviamente non è essere favorevole o meno alla censura. È invece necessario trovare modi e strumenti, e regole, per garantire la libertà di espressione, ma anche per evitare che essa diventi strumento di odio razziale e politico e, questo è il caso in questione, di informazione ingannevole. E con il web e i social network che amplificano a dismisura qualsiasi comunicazione, aumentandone il potenziale di influenza e convincimento, questi strumenti e regole devono essere probabilmente studiati specificamente. Intanto si tratta di vedere cosa intenda concretamente Pitruzzella, e come verrà eventualmente definito il potere di intervento delle agenzie che invoca. Lunedì 2 gennaio sul Corriere della Sera, il presidente dell'Antitrust ha chiarito parzialmente il suo pensiero. In sostanza quel che il presidente dell'Antitrust propone è l'introduzione di "istituzioni specializzate, terze e indipendenti, che, sulla base di principi predefiniti, intervengano successivamente, su richiesta di parte e in tempi rapidi, per rimuovere dalla rete quei contenuti che sono palesemente falsi o illegali o lesivi della dignità umana (non dimentichiamo il caso recente della ragazza napoletana che si è uccisa dopo la diffusione virale sulla rete di un suo video che doveva essere privato)". In linea generale è meglio evitare di andare oltre il perimetro previsto dalle leggi attuali, con le norme sulla diffamazione e la calunnia, e contro l'incitamento all'odio razziale. Ci sono poi le regole deontologiche dei giornalisti che potrebbero ispirare anche alcune regole generali di autoregolamentazione dei social network, relative ai limiti che si possono imporre alla diffusione delle informazioni. Un'Autorità che decida cosa è vero e cosa è falso può essere più pericolosa dei danni che vuole evitare. Buona parte del lavoro di difesa della verità e del diritto a essere informati correttamente, lo dovrebbero invece fare gli utenti della rete, i giornalisti, e le aziende protagoniste della diffusione dell'informazione sul web. Come ha scritto Nadia Urbinati su la Repubblica del 2 dicembre, è il caso di fare appello alla "responsabilità da parte di coloro che esercitano la politica e contribuiscono a creare l'opinione. La democrazia non sopporta né le politiche dell'odio né quelle della verità, ma neppure le azioni repressive che dovrebbero scongiurarle. Ha bisogno, in questi casi in modo particolare, di cittadini, di politici e di giornalisti capaci di virtù pubblica, di far affidamento al senso del limite e dell'autolimitazione. Non è stata ancora escogitata una forma migliore per governare le emozioni senza pretendere di estirparle, una medicina che ucciderebbe il malato nell'illusione di guarirlo". E in successivo intervento a Radio 3, Urbinati ha invocato anche il concetto di Sfera Pubblica nella definizione che ne ha data Jürgen Habermas. Timothy Garton Ash che alla questione della libertà di espressione nell'era di Internet sta dedicando parecchio lavoro - un sito per esempio, e un lungo ed elaborato libro, Free Speech: Ten Principles for a Connected World - ricorda il contributo importante che si apprestano a dare le grandi potenze del web, come Facebook, per esempio, che riconosce l'enorme responsabilità del social network nel "costruire uno spazio in cui le persone possano essere informate". Ma allo stesso tempo Garton Ash riconosce come Facebook e gli altri big del web siano da considerare più partner di altri attori, che essi stessi "arbitri della verità". Gli attori protagonisti sono innanzitutto gli utenti, che devono sempre più prestare attenzione, verificare le fonti cui attingono in rete, soprattutto sui social; scavare nei report poco credibili. E soprattutto rendere pubblico il proprio lavoro di verifica, mettendo a nudo le fonti di informazione bullshit, i siti di propaganda. Gli utenti, tutti noi, dovranno anche diventare un po' antipatici, almeno sui social. Quando un "amico" afferma o rilancia informazioni evidentemente false, di propaganda, diffamatorie, dovrebbe dirlo apertamente e esplicitamente. Sarà un lavoro duro e faticoso, ma se lo si fa in tanti, sarà efficace. A volte le bufale e le interpretazioni "post-fattuali" nascono anche da un collegamento inventato fra due fatti che non hanno relazioni alcuna di causa ed effetto, ma come tali vengono presentati. E il collegamento, magari solo suggerito, in rete rimbalza di account in account, e diventa certo, creduto. Diventa un post-fatto. E su questo tipo di false informazione il lavoro di decostruzione degli altri utenti è fondamentale, perché la loro credibilità sembra incontestabile, sembra quasi probabile, la loro efficacia retorica è subdola. I media con reputazione di credibilità e indipendenza che devono dedicare più tempo e attenzione a smascherare i fornitori di informazioni inventate, deformate e false. BuzzFeed che sta facendo un o sforzo notevole contro i fake, ha pubblicato a fine anno una lista delle 50 peggiori notizie false chehanno girato su Facebook nel 2016. Un'operazione che sicuramente aita a fare chiarezza e a difendersi. Le varie iniziative di crowdfunding e non-profit per il giornalismo investigativo e il fact-checking dovranno essere create, sostenute, aiutate, anche con lavoro volontario. Infine, Facebook, Google, Twitter. E le varie piattaforme di blogging. La tecnologia permette loro "di individuare ed eliminare - spiega Garton Ash - le notizie diffuse in massa da robot sotto la regia della Russia di Vladimir Putin o da siti di spamming (alias "meme farms") il cui scopo è semplicemente arricchirsi con la pubblicità online".
IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.
Il giornalismo della maldicenza. Un articolo del 10 luglio 2006 su “La Repubblica” del compianto Giuseppe D’Avanzo, sicuramente il migliore dei giornalisti investigativi italiani degli ultimi 20 anni. Un giornalista di cui tutti i giornalisti che vogliono fare questo mestiere con la schiena diritta dovrebbero rileggere le sue inchieste, i suoi articoli, i suoi libri. Imparerebbero tante cose. "L’ Italia ha molti guai e tra i suoi guai c’ è, senza dubbio, il giornalismo. Nelle democrazie mature d’ Occidente, il giornalismo è spesso una parte della soluzione, qui da noi è un problema che rende più arduo venire a capo delle anomalie nazionali. Se questo avviene, un motivo c’ è: l’informazione è stata degradata a chiacchiera. In un certo posto, a una certa ora del giorno, qualcuno dice qualcosa. Non è accaduto nulla. C’ è uno che ha espresso un’opinione, ma quella diventa la notizia del giorno. Sulla finta notizia si raccolgono pareri, si scrivono editoriali, si titolano le prime pagine, si combinano interviste. Meglio se un tipo del centrosinistra si lancia contro Romano Prodi o uno del centrodestra dà sulla voce a Silvio Berlusconi. Ottimo se in questa routine si possa sistemare, con qualche ghirigoro, un pettegolezzo. Si conoscono tra gli addetti molte frasi famose di questo canone giornalistico. Quella che qui conta suona così: «Non parlatemi di inchieste giornalistiche, ché mi viene l’orticaria». Un’ inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’ interesse dell’opinione pubblica e anche nell’ interesse della politica perché senza fatti la politica annienta se stessa. è per proteggere se stessa che la democrazia prevede nel suo ordinamento costituzionale alcuni «rifugi della verità» garantiti – le università, le magistrature – e difende dai governi la libertà di stampa senza la quale, in un mondo che cambia, “non sapremmo mai dove siamo”. Il giornalismo della chiacchiera e della maldicenza dimentica il suo dovere di raccontare «dove siamo». Non guarda ai fatti, non li cerca, non vuole trovarli, soprattutto non ne vuole tenere conto. Quando si ritrova improvvidamente qualche fatterello tra i piedi, lo trasforma in opinione. Screditata a opinione, la verità di fatto è fottuta perché diventa irrilevante. Ma è appunto in questo “salto” l’astuzia del gioco. Accantonata la realtà, quel che resta si può combinare a mano libera. Ogni cosa è uguale al suo contrario. Ognuno è uguale all’ altro. Non contano più comportamenti, responsabilità, abitudini, attitudini, condotte, decisioni, direzioni, orizzonti. Liberatosi dalla inevitabilità dei fatti, questo giornalismo deforme è ora il padrone della scacchiera. Muove torri e pedoni. Nella notte dove tutto è nero, nel vuoto di realtà creato, il lettore è frastornato. “Chi ha fatto che cosa?”, non trova mai una risposta. Accade in queste ore. C’ è un giornalista, Renato Farina, sorpreso a trafficare con i servizi segreti che lo pagano con migliaia di euro. Il disgraziato non sa come difendersi. L’ ha fatta grossa e lo sa. Ha tradito se stesso, il suo buon nome, l’amicizia di chi lavora con lui, gli appassionati lettori delle sue cronache. Non sa come uscirne con decoro. Gli suggeriscono di lanciarsi all’ attacco. Chi se ne importa dei codici deontologici, tu hai combattuto per l’Occidente la IV guerra mondiale. Sei un soldato dell’Occidente cristiano ed ebreo. Sei un crociato. Sei un patriota. Il disgraziato s’afferra all’argomento come un naufrago al legno. Sistemandosi addirittura accanto a Karol Wojtyla, scrive che ha “cercato di fare di tutto e di più per difendere questo nostro Paese e la sua civiltà cattolica”. E’ la pietosa menzogna di un uomo che prova a proteggersi dal disprezzo. L’ espediente miserabile di chi, religiosissimo, vuole rendere accettabile la sua umana debolezza invocando una fede e un’autorità che pure gli dovrebbero essere sacre. Un penoso spettacolo su cui si chiuderebbero volentieri gli occhi. Una brutta cosa che dovrebbe essere relegata in un angolino del discorso pubblico, e presto accantonata. Fino a quando, non sorprendentemente, il direttore del “Corriere della Sera” Paolo Mieli entra nel gioco. Prende sul serio quell’ argomento: Farina è un crociato e un patriota. Santifica le ragioni di quel disgraziato addirittura con la legge di Antigone (che Dio lo perdoni). Non giustifica che abbia preso del denaro, ma per tenere a galla l’esercizio deve precipitare nel suo ragionamento, con un venticello calunnioso, anche chi dai metodi di lavoro, la storia professionale, l’opacità morale di Renato Farina è lontano un braccio di mare. La manovra deve accecare il lettore, nascondergli una realtà che, se raccontata, renderebbe l’iniziativa di Mieli un’arlecchinata. Renato Farina non è stato pagato dal servizio segreto per difendere l’Occidente cristiano o combattere l’Islam radicale. Il Sismi ha chiesto a Farina di mettersi in contatto con un pubblico ministero per carpirgli informazioni (Armando Spataro n.d.r.) e inquinarne il lavoro. Per questo è stato pagato. Il Sismi ha retribuito Farina per vedere pubblicato un dossier falso e screditare Romano Prodi, il candidato dell’opposizione a Palazzo Chigi. Lo ha pagato per spiare gli esiti dell’inchiesta sulle intercettazioni abusive e i dossier illegali raccolti dalla “sicurezza” di Telecom. Le attività di Farina non hanno nulla a che fare con l’Occidente, l’Islam, la civiltà cattolica. Lo si vede a occhio nudo. Le attività di Farina, rivolte contro le istituzioni del Paese (magistratura, governo), sono del tutto anti-italiane, assai poco patriottiche. Se Paolo Mieli non avesse così in uggia il mestiere di informare i lettori che ancora hanno fiducia nel “Corriere della Sera”, si rimboccherebbe le maniche anche con l’orticaria per capire perché un’istituzione dello Stato (il Sismi) paga un giornalista (Farina) per mettere a mal partito altre istituzioni dello Stato (Palazzo Chigi e la Procura di Milano). Chiederebbe ai suoi bravi cronisti di raccontare quali interessi nascondono queste manovre oscure. Si sforzerebbe di spiegare ai suoi lettori come, quando e perché questo è avvenuto, e che cosa significa. Ho lavorato per qualche tempo al “Corriere della Sera” e sono sicuro che un’eccellente redazione saprà riportare nel lavoro quotidiano i fatti là dove oggi ci sono soltanto chiacchiere e maldicenze. Non so se Paolo Mieli l’ha mai saputo, ma so che la sua redazione non ha dimenticato che, senza un’informazione basata sui fatti, la libertà d’ opinione è soltanto una beffa crudele.
GIORNALI E PROCURE.
L’oscuro retrobottega del potere, scrive Piero Sansonetti il 28 giugno 2017 su "Il Dubbio". Il dottor John Woodcock e la nostra collega Federica Sciarelli hanno diritto alla presunzione di innocenza (anche se loro non l’hanno mai concessa ai loro imputati). Perché la presunzione di innocenza è un pilastro dello Stato di diritto talmente robusto da non consentire eccezioni. Protegge tutti: anche chi non la riconosce. La decisione della Procura di Roma di indagarli per fuga di notizie non è una condanna per loro. E accanirsi contro due professionisti (più o meno bravi) che stanno vivendo un momento molto difficile della loro carriera, è solo una vigliaccata. Molto frequente nel nostro giornalismo, ma non per questo giustificabile. Però è giusto ragionare su questi avvisi di garanzia. Per la semplice ragione che per la prima volta si apre uno squarcio su un luogo misterioso della vita pubblica italiana: il retrobottega nel quale pezzi di magistratura e pezzi di giornalismo giudiziario si incontrano in segreto, violando la legalità, stabilendo assoluzioni e condanne, condizionando la politica, l’economia e spesso rovinando molte vite private. L’uso della stampa e del suo potere per fare giustizia sommaria al di fuori dei tribunali (e violando la Costituzione), e per fare in modo che la magistratura condizioni e devii il corso della politica, da molti anni (almeno 25) è uno dei mali più grandi della vita pubblica italiana, anche se è quasi “proibito” discuterne. Ed è quasi “proibito” per la semplice ragione che il sistema- informazione, facendo parte di questa malattia, come è logico si rifiuta di denunciarla. Ora la Procura di Roma ha finalmente messo il dito nella piaga. Ed ha avviato un processo che può provocare un terremoto. Prima ha scoperto che gran parte delle notizie sul cosiddetto scandalo Consip erano false, poi ha scoperto che erano state falsificate da apparati dello Stato, poi ha scoperto che queste notizie – in gran parte false – erano state illegalmente diffuse da qualche ufficio della Procura attraverso alcuni giornali (soprattutto “Il Fatto Quotidiano”) che le avevano ricevute e pubblicate (senza averle potute verificare) comportandosi un po’ come uffici stampa più che come organi di informazione. La Procura ieri ha formulato due ipotesi molto inquietanti sui possibili autori di questa gravissima azione illegale: ha detto che potrebbe trattarsi di un sostituto procuratore molto famoso e molto attivo, e cioè Woodcock, e di una giornalista della Tv notissima, e cioè la Sciarelli. E ha ipotizzato che Woodcock passasse le informazioni alla Sciarelli e che lei poi le passasse a sua volta – se capiamo bene – al giornalista del “Fatto” Marco Lillo. I nomi scritti nel libro degli indagati potrebbero essere sbagliati, ma la filiera è quella. E questa filiera, da dicembre in poi, ha provocato uno tsunami politico che ha messo in gran difficoltà il partito di governo e il suo leader, cioè Renzi. Il quale Renzi, più o meno esplicitamente, ha reagito parlando di complotto, e per questo è stato molto preso in giro. In effetti, secondo me, non è giusto parlare di complotto. Per una sola ragione: questo meccanismo, che stavolta ha colpito al cuore il Pd, ha funzionato negli anni passati moltissime volte, sempre in modo assolutamente efficiente, e ha danneggiato, o addirittura annientato, singoli leader e interi partiti politici. Da quelli della prima repubblica a quelli di oggi. In particolare Berlusconi. Perciò non è un complotto: è un meccanismo oliato e illegale che sta corrodendo la nostra democrazia, azzerando persino la possibilità di formazione di una classe politica. E senza ceto politico la democrazia non esiste. L’iniziativa coraggiosa della procura di Roma, forse, rompe questo meccanismo infernale. Perché per la prima volta succede che un pezzo importante della magistratura si muove per fermare un altro pezzo di magistratura. E apre la speranza che lo Stato di diritto, alla fine, sia ristabilito. Resta sullo sfondo il ruolo oscuro svolto dai giornali. O almeno da un certo numero di giornali. Che sin qui, nascondendosi dietro un presunto dovere professionale, hanno svolto un compito molto importante di supporto all’azione di pezzi di magistratura in guerra con la politica. Un compito sicuramente subalterno ma essenziale: la magistratura se non avesse a disposizione un certo numero di giornalisti e di giornali compiacenti, non avrebbe i mezzi per dispiegare la propria offensiva. Probabilmente per porre fine a questa brutta vicenda servirebbe che anche nel giornalismo si sollevasse qualche coscienza critica, così come è successo dentro la magistratura. Si sollevasse, anzi, una vera e propria rivolta contro quell’idea di giornalismo passacarte, al servizio del potere (prevalentemente del potere giudiziario) che in questi anni ha prevalso ed è diventata quasi una filosofia. Tanto da innalzare sugli altari del “giornalismo eroico” un qualunque “funzionario di giornale” capace di andare fuori della porta di un Pm (o di un suo incaricato) per ricevere qualche carta proibita. Rivolta del giornalismo vuol dire cose molto precise. Per esempio accettare – anzi chiedere – una limitazione delle intercettazioni e della loro pubblicazione; e chiedere un rispetto dei segreti di ufficio. E imporre un’etica professionale che respinga la subalternità ai gruppi di potere e alle manovre di palazzo. Questo costringerebbe anche gli editori a rinunciare a un populismo giornalistico a buon mercato, che oggi dilaga e che ha fagocitato il giornalismo vero, e ad investire sulle inchieste, sulle analisi, sui reportage, sul racconto. Diciamo pure su tutte quelle attività che, più o meno fino al 1992, erano la carne e il sangue del giornalismo italiano.
Si chiamava caso - Consip ora si chiama caso - Il Fatto, scrive Piero Sansonetti il 29 giugno 2017 su "Il Dubbio". Eterogenesi dei fini. Intanto a Napoli si incendia la corsa per la successione. Lo scandalo Consip si è sgonfiato. Era stato concepito come spingarda per dare l’assalto a Renzi e al renzismo. E’ fallito. L’assalto a Renzi prosegue, ma per altre vie, con altri protagonisti e – soprattutto – con mezzi leciti: quelli della lotta politica. Lo scandalo si è invece rivelato una bufala, costruito in gran parte con mezzi del tutto illegali, contraffacendo intercettazioni e brogliacci e usando in modo inauditamente spregiudicato la stampa, e in particolare un quotidiano, e cioè Il Fatto. Ora la Procura dovrà accertare le responsabilità penali e personali, perché questo le compete. Squadernati davanti agli occhi di tutti, però, ci sono i resti di un piccolo complotto fallito. E siccome era un complotto – o qualcosa di simile rilevante per la stabilità della politica italiana, l’argomento merita una riflessione. Ci sono le immagini di due colossi della vita pubblica che escono un po’ infangate. La magistratura – visto che un magistrato addirittura è sospettato di essere il protagonista di tutta la manovra – e il giornalismo visto che l’operazione è stata possibile solo grazie alla collaborazione di un quotidiano. Ieri a sfogliare Il Fattoonline veniva quasi tristezza: titolo a tutta pagina sul fallimento della riforma elettorale. Cioè su un episodio politico di un mese fa. Poi notizie varie di modesta importanza. Ma sul caso Consip solo un titoletto, vecchio del giorno prima. E anche sul Fatto di carta, per la prima volta dopo mesi, Marco Travaglio evitava di dedicare l’editoriale al caso Consip. Chissà se di fronte a questo disastroso infortunio la stampa italiana ammetterà che c’è qualcosa da rivedere nel meccanismo folle che ha travolto il nostro giornalismo giudiziario, e del quale Il Fatto è stato vittima, forse quasi inconsapevole. O se invece preferirà dire: «Cane non morde cane», e starsene accucciata. La Procura di Roma ha dimostrato di saper prendere il toro per le corna. Temo che il giornalismo non saprà fare altrettanto. Una singolare coincidenza: Henry John Woodcock sarà interrogato dai pm di Roma il prossimo 7 luglio, ventiquattr’ore dopo l’avvio della discussione che condurrà il Csm a scegliere il nuovo capo del magistrato napoletano. Il giorno 6 infatti la quinta commissione di Palazzo dei Marescialli entrerà nel vivo del confronto sui tre candidati rimasti in lizza per andare a dirigere la Procura del capoluogo campano. I destini di Woodcock e del suo futuro dirigente dunque si incrociano. E non è da escludere che la vicenda del pm influisca sui lavori del Consiglio. Tutto il versante dell’inchiesta Consip che vede indagati da un lato il magistrato e Federica Sciarelli e dall’altro gli investigatori del Noe è segnato da una costante: il rischio che ogni passo sia riletto alla luce dei “sospetti di vicinanza” a Renzi. Il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette potrebbe essere trattenuto dall’intervenire sui militari del Noe perché ogni provvedimento sarebbe letto come vendetta. Al Csm temono che ogni scelta su Woodcock possa essere ricondotta al fatto che il vicepresidente Giovanni Legnini è esponente del Pd e che dallo stesso partito viene Beppe Fanfani, presidente della prima commissione, a cui sono strati trasmessi gli atti (secretati) della Procura di Roma relativi al pm. Non a caso, Fanfani ha già fatto sapere che si asterrà dallo svolgere funzioni di correlatore sulla pratica aperta nei confronti di Woodcock. Ora gli stessi timori di generare equivoci potrebbero indirizzare anche la scelta del nuovo procuratore di Napoli. La partita è tra Giovanni Melillo e Federico Cafiero de Raho. Sul secondo pesa, come “handicap”, il fatto di avere un figlio che nel capoluogo campano svolge la professione di avvocato. Il primo, che sembrerebbe in vantaggio, è però stato capo di Gabinetto al ministero della Giustizia con Renzi premier. Non c’è alcuna incompatibilità reale, ovvio. Il che però potrebbe non bastare a interrompere la spirale dei sospetti che, attorno al caso Consip, circolano in modo incontrollabile. Qualora emergessero responsabilità a carico di Woodcock, si porrebbe la necessità di una guida che sappia prevenire distorsioni, e fughe di notizie, come quelle ipotizzate dalla Procura di Roma. Melillo, proprio in virtù del periodo trascorso fuori ruolo, potrebbe essere meno condizionato dall’ambiente. Certo la svolta in tema di riservatezza che ha portato il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone a indagare Woodcock e Federica Sciarelli per concorso in rivelazione del segreto sarà tanto più effettiva se chi assumerà la guida dell’ufficio di Napoli condividerà l’impostazione di Piazzale Clodio. Proprio la Procura di Roma verifica in queste ore i contatti telefonici tra Sciarelli e il giornalista del Fatto Marco Lillo avvenuti il 21 dicembre scorso, giorno in cui finirono sul registro degli indagati di Napoli i vertici dell’Arma (Del Sette e Saltalamacchia) e Luca Lotti. Pignatone, l’aggiunto Ielo e il pm Palazzi ritengono di poter ricavare elementi decisivi dagli interrogatori: fissato per domani quello della conduttrice e per il 7 luglio, appunto, quello del pm. Nei prossimi giorni potrebbe essere sentito anche Lillo, già indagato per pubblicazione arbitraria di atti giudiziari. Intanto Fnsi e Usigrai hanno ricordato che il sequestro del cellulare della giornalista è «un atto grave». L’Osservatorio informazione dell’Ucpi fa notare che anche quella a cui ora è sottoposto il pm di Napoli è «una giostra del circo mediatico». Mentre la Camera penale di Roma prende spunto da un articolo del Corriere della Sera per ricordare che le indagini sugli «spifferi» hanno «rilevanza almeno pari» a quelle per corruzione.
Quelle voci su Woodcock e le soffiate ai cronisti amici. Già nel 2009 un anonimo accusò il pm di fare filtrare notizie. È agli atti di un processo in cui ora è parte lesa, scrive Simone Di Meo, Venerdì 30/06/2017, su "Il Giornale". A Roma, Henry John Woodcock è indagato per rivelazione di segreto e con lui c'è sotto inchiesta anche la compagna Federica Sciarelli, che ne sarebbe stata il tramite. A Catanzaro, invece, Henry John Woodcock è parte lesa in un processo per calunnia e abuso d'ufficio, che ha particolari e sorprendenti punti di contatto con quel che sta accadendo attorno al fascicolo Consip e alla sua gestione. Un processo nato come reazione alle lettere anonime di un «corvo», che aveva ingiustamente accusato Woodcock di aver passato notizie riservate proprio alla conduttrice Rai e a Michele Santoro, all'epoca teletribuno di «Annozero». È l'inchiesta «Toghe Lucane bis», costola di un precedente omonimo procedimento, istruito, sempre a Catanzaro, dall'allora pm d'assalto Luigi de Magistris, che si concluse con trenta archiviazioni su trenta indagati. Un «mostro giudiziario» di 200mila pagine, quello dell'attuale sindaco partenopeo, che ipotizzava l'esistenza di una cupola massonica in grado di ostacolare gli accertamenti dei colleghi di Potenza. Giggino ci aveva lavorato per qualche tempo, mescolando, come sua abitudine, un po' di tutto: non solo le presunte manovre di delegittimazione, ma pure un po' di misteri ad alto contenuto mediatico, come la scomparsa di Elisa Claps, uccisa a sedici anni, e il duplice omicidio dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, e quello dei fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Mariarosa Andreotta. Una maionese giudiziaria impazzita, che, infatti, morì di morte naturale una volta approdata davanti a un giudice. Nel nuovo filone, che oggi è arrivato alle battute finali con la richiesta di 14 anni di carcere per otto dei dieci imputati, la trama di fondo è quasi la stessa: il capo d'imputazione suppone che a Woodcock e ad altri magistrati inquirenti della procura del capoluogo lucano sarebbero state contestate dai superiori false violazioni procedurali finalizzate a minarne il lavoro investigativo e a favorire un certo establishment fatto di uomini d'affari, politici, imprenditori e faccendieri allarmati dalle continue indagini sul loro conto. Secondo la ricostruzione dei pubblici ministeri calabresi, competenti a indagare sul distretto giudiziario lucano, Henry John sarebbe finito nel mirino di questa «cricca», di cui farebbero parte tra gli altri il procuratore generale facente funzione di Potenza Modestino Roca, l'ex appartenente ai Servizi segreti Nicola Cervone e l'ex pg aggiunto Gaetano Bonomi, per una serie di scoop pubblicati con tempismo sospetto da organi di stampa locali e nazionali. Nel maggio dello scorso anno, la Sciarelli indicata dagli anonimi come destinataria delle «confidenze» di Woodcock è stata sentita in aula come teste; e ha ribadito di non aver mai ricevuto da lui atti o intercettazioni. Si è anzi lamentata dei modi spicci di un magistrato donna che l'aveva sentita in redazione come persona informata dei fatti. In uno dei plichi arrivati negli uffici giudiziari lucani, erano allegati anche i tabulati telefonici dei due. Una pista quella dell'amicizia tra il sostituto procuratore e la conduttrice di Chi l'ha visto? che avrebbe dimostrato, secondo i mittenti, le violazioni di legge commesse da Woodcock. La prima lettera, risalente al 2009, era stata firmata da un tale «signor Sicofante» e additava il pm con l'Harley Davidson di aver spifferato ai cronisti-amici informazioni top secret e per dimostrarlo allegava dati estrapolati dai contatti telefonici di un collaboratore del pm anglo-napoletano. Questi, peraltro, era finito a sua volta sotto inchiesta per un precedente esposto anonimo, perché sospettato di utilizzare il telefonino di servizio per motivi personali. Una guerra di fango e veleni, combattuta senza esclusione di colpi, che è giunta in tribunale con alcuni reati già prescritti. E con una constatazione di fondo: già nel 2009, qualcuno associava scoop giornalistici alla Sciarelli e a Woodcock.
Altra batosta per Woodcock: querela, perde e deve pagare. Il giudice si era sentito diffamato e voleva 260mila euro dalla giornalista Chirico. Invece rifonderà le spese legali, scrive Mariateresa Conti, Sabato 1/07/2017, su "Il Giornale". Voleva un risarcimento monstre di 260mila euro, per i presunti danni materiali e morali subiti. Ma non avrà un centesimo. Anzi, dovrà sborsare lui, Henry John Woodcock, pm della procura di Napoli oltre 12mila euro di spese processuali e legali, visto che ha perso la causa civile da lui stesso intentata contro la giornalista, saggista e presidente dell'associazione «Fino a prova contraria» Annalisa Chirico. Non è decisamente un periodo fortunato per il pm partenopeo nella bufera in questi giorni per il caso Consip, che lo vede indagato per rivelazione del segreto d'ufficio e che lo vedrà nelle vesti di indagato di fronte ai pm di Roma il prossimo 7 luglio, per l'interrogatorio. La sentenza del giudice monocratico capitolino, prima sezione civile del tribunale, pronunciata lo scorso 20 giugno, è tranchant. E boccia lui, il pm celebre ora nei guai: non ci fu alcun intento diffamatorio da parte di Annalisa Chirico, né nel riportare su Panorama, nel 2012, le parole contro di lui del politologo americano Edward Luttwak, né nel citare, nel suo libro «Condannati preventivi», il caso P4. Di qui il verdetto: domanda rigettata e condanna per Woodcock a pagare le spese legali dei tre querelati - la stessa Chirico, Mondadori e l'editore Rubettino - pari 4.254 euro più Iva. Soddisfatta la Chirico, difesa dall'avvocato Michele Clemente: «Sono molto felice - confessa al Giornale - che questa causa si sia conclusa. Io mi sono limitata a esercitare il diritto di critica. Perché è possibile farlo coi politici e se invece si tocca un magistrato si va incontro a queste incresciose disavventure, fonte anche di preoccupazione di impiego di tempo e risorse?». Già, perché. La Chirico è una «veterana» delle denunce targate Woodcock: «Questa non è la prima, sono quattro o cinque - ricorda lei - in questi anni a un certo punto ho avuto l'impressione di essere diventata un'ossessione per lui...». La doppia contestazione alla Chirico riguardava un'intervista, scritta per Panorama, al politologo Luttwak e poche pagine del libro «Condannati preventivi». Luttwak, sentito dalla Chirico sulle indagini sul processo sulla trattativa Stato-mafia, parlava di intercettazioni e citava il caso dell'onorevole Alfonso Papa, espulso dal Parlamento, messo in cella e poi scarcerato. Quanto al libro, sono ancora le pagine su Papa quelle che Woodcock ha contestato. Il pm ha lamentato non solo i danni materiali, ma anche quelli morali e nell'esercizio della professione che la presunta diffamazione gli avrebbe provocato. Ma tanto per Panorama quanto per il libro della Chirico è arrivato il pollice verso. In entrambi i casi il giudice Cecilia Pratesi non ha ravvisato alcun dolo né intento denigratorio da parte della giornalista. La Chirico ha affidato il suo commento anche ad una nota: «Il dottor Woodcock attraversa un momento difficile, non sarò io a infierire. La sentenza conferma la mia assoluta professionalità. Non ho mai diffamato il magistrato che in questi anni mi ha reso bersaglio di molteplici azioni giudiziarie. Penso che con me gioiranno le persone maltrattate, arrestate e vilipese da una giustizia ingiusta».
La libera stampa e il pm, scrive Annalisa Chirico su "IlFoglio" il 7 gennaio 2017. Un giornalista che decida di occuparsi di cronaca giudiziaria e non di sfilate modaiole non avrà il privilegio della tessera sconti presso le boutique griffate in via Montenapoleone. In compenso acquisirà dimestichezza con il “rito della consegna”. Blin blin, suona il campanello, chi è?, l’appuntato dei carabinieri, la signora Chirico è in casa? Apri il portone, lo accogli sull’uscio, firmi quel che è da firmare, ormai vi conoscete, lei come sta, si sieda pure cinque minuti, come va la vita di quartiere, i furti-maledetti-furti, eh sì per me la solita roba, come si chiama questo magistrato, no aspetti, mi dica da dove proviene la notifica, le dico subito di quale causa si tratta, certo che lei non molla, quante rogne, ma sì, gli inconvenienti del mestiere, a ciascuno il suo. Nessuna tessera sconti, plurimi procedimenti in giro per l’Italia. Toghe e carte bollate, carte bollate e toghe. Per qualche oscura ragione i politici puoi tacciarli di mafiosità senza batter ciglio, è diritto di cro-na-ca. Sul conto di Vincenzo De Luca puoi esprimere disinvoltamente i tuoi più intimi convincimenti, è diritto di cro-na-ca. Sulle bollenti notti di Arcore, manco a dirlo, la penna talebana si esercita orgiasticamente, è diritto di cro-na-ca. Sul culetto delle ex ministre, corredato da stralci d’intercettazioni rubate, talvolta inventate di sana pianta, puoi fantasticare ad alta voce. Il diritto di cronaca non conosce confine, per la libertà di stampa si vive o si muore. Ma se ti occupi di giudiziaria, se per qualche masochistica propensione hai scelto di frequentare le aule di tribunale, non avrai scampo. La libertà di stampa manca davvero in Italia? Il Giornalista Collettivo issa la bandiera dello scandalo se nel 2016 Reporters sans frontières classifica l’Italia al 77esimo posto per la libertà d’informazione, meglio di noi Burkina Faso e Botswana. Il Giornalista Collettivo indossa il bavaglio se il governo ventila l’ipotesi di norme più efficaci contro chi confonde la libertà di critica con la licenza di sputtanamento. Chi si alimenta di fango quotidiano non è disposto a rinunciarvi. La libertà di stampa, si diceva, c’è, ci mancherebbe, qui i giornalisti non li arrestano, piuttosto in Rai si moltiplicano come i pesci e se dopo sette anni decidi di spostare un direttore infuriano le polemiche, i giornali non li chiudono, al contrario ne nascono di nuovi, pur nella penuria di lettori, evviva la libertà, Roma non è Ankara, Gentiloni non è Erdogan, eppure c’è un fatto fastidioso e irritante. La libertà c’è, ci mancherebbe, ma ci sono tante cose di cui non si può parlare. Se sfidi il divieto diventi un bersaglio. “L’odierno attore è costretto al presente giudizio a causa di quanto dichiarato dal politologo Edward Luttwak nell’ambito dell’intervista rilasciata alla giornalista Annalisa Chirico pubblicata sul settimanale Panorama del 12 settembre 2012, nonché a causa di quanto affermato dalla giornalista Annalisa Chirico nel suo libro intitolato ‘Condannati preventivi’, edito da Rubbettino editore”. Che onore, Henry John Woodcock si occupa di me. In Italia capita che un libro finisca nel fascicolo di tre diversi procedimenti giudiziari. Partiamo dal principio. L’intervista a Luttwak testé citata riguarda la difesa delle prerogative dell’allora Capo dello stato Giorgio Napolitano contro gli eccessi della procura palermitana nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa. Per Luttwak la richiesta di interrogare il presidente della Repubblica è inaudita, l’analista statunitense, profondo conoscitore del nostro paese, riflette sugli eccessi delle procure italiane, tema sul quale si è espresso pubblicamente a più riprese al punto che, sollecitato dalla cronista, egli si sofferma su un caso che in quei mesi gode di un notevole risalto mediatico, la P4. Si tratta dell’inchiesta su una presunta associazione a delinquere che per la prima volta nella storia repubblicana conduce all’arresto preventivo di un parlamentare per reati non di sangue. Nel criticare la condotta del magistrato in servizio presso la procura di Napoli, Luttwak usa toni severi e invoca una sanzione nei suoi confronti. Dopo la citazione in giudizio per l’intervistatrice, non per l’intervistato, costui spedisce al tribunale una missiva per rivendicare la paternità delle affermazioni, confermarne il contenuto e la “fedele riproduzione” ad opera della giornalista. La quale, oltre alla citazione in sede civile, money, insieme all’editore Mondadori, è pure destinataria di una querela per diffamazione a mezzo stampa. Vallo a spiegare all’amerikano. L’antefatto. Nell’atto di citazione si tira in ballo una visita nel carcere di Poggioreale, ascoltate bene, che la convenuta realizza nell’ottobre 2011, oltre un anno prima della pubblicazione del libro. Non si tratta invero di una scoperta strabiliante dal momento che è la stessa convenuta a raccontare nel libro di aver tratto spunto da quell’esperienza per la stesura di un pamphlet sulle storture e i nodi irrisolti della giustizia italiana. Nelle oltre 150 pagine di “Condannati preventivi – Le manette facili di uno stato fuorilegge” si raccontano quindici storie di malagiustizia, il caso P4 occupa una decina di cartelle. Il libro, edito da una piccola ma prestigiosa casa editrice, Rubbettino, vende poco più di un migliaio di copie, ma è valorizzato da autorevoli recensioni sui principali quotidiani, dal Corriere della Sera alla Repubblica. Paolo Mieli lo presenta in più di un’occasione, alla Luiss interviene Giuliano Amato, Marco Pannella ne tesse le lodi in quella che sarà una delle sue ultime apparizioni alla Camera dei deputati. All’epoca della visita a Poggioreale chi scrive è una 25enne fresca di laurea magistrale in Scienze politiche e relazioni internazionali, con un master in European studies e un’esperienza di lavoro al Parlamento europeo (nello staff di Pannella e Marco Cappato), già fondatrice e segretaria del movimento giovanile della galassia radicale, già attivista immortalata in decine di cortei e sit-in per la giustizia giusta e i diritti dei detenuti, con più di una dozzina di prigioni italiane visitate al seguito di parlamentari radicali e non (recidiva!). Sono entrata negli istituti di pena fin quando la legge ha consentito ai parlamentari di introdurre con sé collaboratori anche non contrattualizzati. Nell’estate 2011, dopo la laurea, avvio una collaborazione con un parlamentare pugliese, della mia stessa città natale, responsabile dell’Ordinamento penitenziario del Pdl. Nel corso della visita, della durata di un paio d’ore, tra i vari bracci del carcere, il deputato si trattiene alcuni minuti con il collega di partito, l’onorevole Alfonso Papa, indagato eccellente dell’inchiesta P4. Io stento a riconoscerlo, non l’ho mai incontrato prima in vita mia e le immagini che inondano quotidiani e telegiornali sono assai diverse da quella sagoma di uomo in pigiama, dimagrito e barbuto. Poggioreale è una delle prigioni più antiche e decadenti d’Italia, ricordo ancora la cella con almeno dieci detenuti, stipati gli uni sugli altri, le teste che sbucano da non si sa dove, io mi sforzo di contarle tra i letti a castello, quel che più mi colpisce è il riflesso vigile di alcuni che indietreggiano non appena un agente penitenziario, sempre lo stesso, appunta lo sguardo su di loro. Il carcere puzza di paura e intimidazione. Resta purtroppo inascoltato Leonardo Sciascia che proponeva per ogni neomagistrato, fresco di concorso, almeno tre giorni tra i detenuti comuni. “Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”, così lo scrittore di Racalmuto nell’agosto 1983 sulle colonne del Corriere della Sera. All’epoca vanno di moda i blog, ancora non impazza la disintermediazione da social network, io ne curo uno dal titolo “Politicamente scorretta”, un diario online dove racconto iniziative e battaglie radicali, stati d’animo e tendenze, incontri e riflessioni sull’universo mondo. Oggi tutti i quotidiani ospitano quintalate di blog: per il giornale è traffico web in aggiunta, per cuochi soubrette e avvocati che si dilettano nella scrittura è pubblicità gratuita. Il mio blog, che non esiste più, sopravvive nelle carte di una terza inchiesta. Provenienza? Napule! La procura partenopea mi notifica – per mezzo del benedetto appuntato (la signora Chirico è in casa?) – un avviso di garanzia per falso ideologico: secondo l’accusa, avrei dichiarato il falso in un atto pubblico al fine di entrare in galera. Al termine di approfondite indagini gli inquirenti non rinvengono traccia di una mia pregressa – e inesistente – conoscenza con il parlamentare galeotto e si spingono a sostenere che mi sarei introdotta con l’inganno nell’istituto penitenziario allo scopo di trarre linfa per la mia futura attività giornalistica. All’ingresso dell’istituto penitenziario io ho firmato un foglio con la seguente formula prestampata: “Dichiaro di non svolgere attività di GIORNALISTA”, sic. La procura mi contesta di essere una giornalista mascherata. Eppure all’epoca dei fatti io non ho MAI scritto su un giornale (neppure ricette di cucina), non ho MAI preso un soldo da un giornale, non possiedo né ho richiesto un tesserino giornalistico. Da un paio di mesi ho conseguito la laurea magistrale, ho collaborato con gli europarlamentari radicali a Bruxelles, nel frattempo ho vinto un dottorato di ricerca ma non ho ancora le idee chiare su che cosa farò da grande. Chiedo di essere ascoltata al pm Vincenzo Piscitelli che con Woodcock conduce inchieste fragorose, con lui indaga su Lavitola e i finanziamenti all’Avanti, su Finmeccanica e sulla P4. Durante il nostro cordiale incontro, Woodcock fa capolino nella stanza, probabilmente ignaro della mia presenza a quell’ora nell’ufficio a pochi passi dal suo. Ricapitoliamo: visito una prigione al seguito di un parlamentare, la procura competente apre un fascicolo per falso ideologico accusandomi di aver simulato una collaborazione fittizia e di essere in realtà una giornalista. Poiché non lo sono, né di nome né di fatto, s’ipotizza che avrei in animo di diventarlo, e la prova regina di ciò sarebbe la pubblicazione, a distanza di quattordici mesi, di un libello sulla malagiustizia. Libello nel quale oso criticare un’inchiesta condotta dalla medesima procura. Il pamphlet all’indice finisce in tre fascicoli: Napoli, Roma (giudizio civile) e Lamezia Terme (penale per diffamazione). Bingo. A parte la fortuita apparizione durante il mio colloquio volontario in procura, non ho mai incontrato il dottor Woodcock. Eppure avrei voluto manifestargli la mia sincera e assoluta buona fede. Come facilmente riscontrabile, nelle poche pagine sull’inchiesta P4 non compare un solo termine di dileggio, né un aggettivo insultante o un’espressione men che rispettosa nei confronti del magistrato. Si tratta di un colloquio intervista con Alfonso Papa che all’epoca rappresenta un caso di enorme clamore mediatico, corteggiatissimo dai giornalisti di ogni testata. Io riporto alcuni dati di fatto, come la bocciatura giudiziaria del suggestivo teorema di una associazione denominata P4 o la dichiarata inammissibilità di una mole di intercettazioni captate irregolarmente (in assenza della previa autorizzazione della Camera d’appartenenza). Riporto ricordi e impressioni personali del protagonista che è un ex magistrato e si è formato pure lui a Napoli. Non è mistero che io nutra insuperabili dubbi sulla solidità delle principali contestazioni così come sulla necessità di una misura cautelare estrema come la detenzione in carcere. M’illudo di poter esprimere liberamente le mie personali opinioni e convincimenti esercitando il diritto di critica persino nei confronti di una toga. Centottantamila euro è la somma che Woodcock chiede a titolo di risarcimento dei danni patiti. Una “grande sofferenza morale”, unita al “patema d’animo sofferto e sofferente”, “gravissime ricadute nella sfera personale, familiare e professionale. Nel 2014 Woodcock è promosso alla Direzione distrettuale antimafia, le sue imprese continuano ad affollare le cronache giudiziarie, è farina del suo sacco l’inchiesta Consip che lambisce i vertici delle forze armate e il ministro allo Sport Luca Lotti, la persona più vicina all’ex premier Matteo Renzi. Alcuni mesi or sono, un giornale mi assegna un pezzo sui 40 mila euro che lo stato italiano è obbligato a versare al principe Vittorio Emanuele di Savoia ingiustamente detenuto per sette giorni nel carcere di Potenza, accusatore Woodcock. “D’accordo, lo faccio”, apro il programma Word e per la prima volta da quando faccio questo mestiere (tre anni, non una eternità), mi pongo un dilemma: scrivo o non scrivo? Se rinfresco la memoria dei lettori sull’inchiesta dalla quale il principe è uscito completamente innocente, il pm potrebbe riaversene? Magari non mi conviene, magari è meglio evitare. L’esitazione dura pochi minuti, alla fine scrivo. La libertà prima che un diritto è un dovere, insegna Oriana Fallaci. La libertà di pensare esiste se pensi, la libertà di esprimersi esiste se ti esprimi, la mia libertà esiste se io la afferro. In quell’istante la assaporo come il respiro dell’anima che si libra al di sopra delle nostre miserie, del nostro ridicolo, delle carte bollate e del citofono che suona, blin blin, chi è?, l’appuntato. Chissenefrega, scrivo. Sono libera. Sono io. Quando siedi dinanzi a un giudice chiamato a dirimere una controversia tra te e un di lui collega, non dormi sonni tranquilli. Esistono però taluni magistrati impermeabili alle logiche corporative. Si vedrà. Resta l’amara constatazione che in casi come questo, una volta azionata la causa civile, si potrebbe fare a meno di avviare contemporaneamente un giudizio in sede penale. Tanto più se il pomo della discordia è un libro. Al di là delle intenzioni personali, e sebbene non voluto, l’effetto intimidatorio nei confronti di chi per mestiere scrive è inevitabile. Quanto alla visita in carcere, se si potesse fare rewind, agirei esattamente come ho agito. Se all’epoca dei fatti avessi dichiarato di svolgere attività giornalistica, avrei asserito il falso. Il libro è approdato nelle librerie a distanza di oltre un anno, e il tempo, in tribunale, non dovrebbe essere una variabile ininfluente. In uno stato di diritto il processo alle intenzioni può avere cittadinanza? Applicando la trama dei sospetti e delle illazioni, non dovrebbe venire da chiedersi se certi magistrati, che indagano sempre sui potenti e imbastiscono inchieste clamorose con arresti eccellenti ed alterne fortune, agiscano in tal guisa al solo scopo di acquisire potere e popolarità? Per persuadere anche i più scettici dell’utilità della propria esistenza, l’Ordine dei giornalisti dovrebbe trovare il tempo di approfondire storie come quella che vi ho appena raccontato. La libertà di stampa non andrebbe invocata soltanto quando il governo paventa la sciagurata ipotesi di ritoccare la disciplina sulle intercettazioni. Sarebbe magnifico prestare attenzione al caso di giornalisti che non seguono le sfilate di moda (la mia è tutta invidia), non si fanno consegnare di soppiatto la chiavetta usb dal cancelliere compiacente, ma si sforzano piuttosto di elaborare analisi ragionate, e in quanto tali opinabili, sulle dinamiche processuali, persino in contrasto con la tesi della pubblica accusa. E non individuano in Barbara d’Urso, intervistatrice sprovvista di tesserino, una grave e seria minaccia per il futuro della categoria. L’autocensura, questo sì che è un pericolo. Blin blin, suona il campanello. Vado a rispondere.
Giornalista horizontal…, scrive Piero Sansonetti il 5 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Panegirici per Davigo, interviste senza domande, anche il bravo Massimo Gramellini si piega alla cupola del giustizialismo. Bisogna sparare a zero sui politici, ma l’ossequio al giudice è un atto dovuto. Sul “Corriere della Sera” è apparso un articolo di Massimo Gramellini intitolato “Davigo vertical”. È una tipica espressione spagnola, l’hombre vertical, molto lusinghiera, che indica l’uomo tutto d’un pezzo, coerente, serio, incorruttibile. Mi è venuto da chiedermi cosa sarebbe successo se sul “Corriere della Sera” fosse apparso un articolo altrettanto adorante, e firmato da una delle firme più prestigiose del giornale, rivolto all’esaltazione di qualche leader politico. Renzi, magari, o Berlusconi, o Alfano, o Salvini o – al limite – Grillo. Oppure se un panegirico di stile gramelliniano fosse stato pronunciato in Tv, dedicato a un uomo di governo. Sarebbe successa l’iradiddio e il malcapitato adoratore avrebbe capito in un batter d’occhio di essere giunto a fine carriera. Giornalismo horizontal. L’ossequio al giudice è sempre ammesso. Gramellini invece è solo all’inizio di una carriera che sarà – ve lo garantisco – di grande, grande successo. Qual è la differenza tra Davigo e – poniamo – Gentiloni? Come mai se osanni Gentiloni sei degno di disprezzo e se osanni Davigo sei un giornalista coraggioso? A occhio non c’è nessuna differenza tra i due: Davigo e Gentiloni sono rappresentanti del potere, e dunque – vorrebbe una versione forse un po’ antica della deontologia professionale giornalistica – dovrebbero sempre essere osservati con occhio critico dai giornalisti, tenuti a distanza, non celebrati. In realtà uno dei due è molto più potente dell’altro. Davigo ha assunto un ruolo di comando nella magistratura, fino al vertice dell’associazione magistrati, è un giudice di Cassazione, ha un ascolto altissimo nei giornali e nelle Tv, ha a disposizione persino un partito politico, e cioè i 5 Stelle, cosa che – paradossalmente – Gentiloni neanche si sogna. Davigo decide sulla politica della giustizia molto più di Gentiloni, è in grado di guidare campagne di opinione che possono bloccare qualunque provvedimento del governo. E infatti ha bloccato la riforma- Orlando. Del resto lo ha detto lui stesso, proprio l’altro giorno, all’assemblea del suo partito di riferimento (i 5 Stelle): «Non entro in politica perché ho molta più forza se resto fuori». Davigo orienta la magistratura e anche la politica, e se lui chiede più carcere ottiene più carcere. Influenza le sentenze dei suoi colleghi e frena i provvedimenti di clemenza. Intimidisce i tribunali di sorveglianza. Probabilmente Gentiloni sarebbe favorevole all’amnistia o a una riforma garantista del codice penale. Non può, ha le mani legate da un potere molto più grande del suo. La risposta alla domanda sul “diritto di ossequio” è esattamente questa. L’ossequio andrebbe evitato, ma se proprio va reso allora conviene renderlo al più forte. Il potere politico da anni è in verticale caduta, e non è strettamente necessario rendergli omaggio. Il potere di un pezzo di magistratura è in esponenziale crescita, sta allargandosi attraverso una nuova ferrea alleanza con la stampa e pezzi della Tv, ed è molto pericoloso opporsi. Un tipo come Davigo – dicono che sia anche permaloso – va tenuto nel giusto conto. Talvolta, non c’è niente di male: anche i giornalisti possono accettare di diventare hombre orizontal. Il bello è che ci sono alcuni giornali che ogni tanto pubblicano le classifiche dei giornalisti subalterni. Il Fatto Quotidiano, per esempio, li chiama i “lecca lecca”. State pure certi che non metterà Gramellini nell’elenco. Né metterà lo stesso Travaglio, che l’altro giorno, intervistando il Pm palermitano Di Matteo, è riuscito a fare una sola domanda, formulata più o meno così: “Lei ha già risposto a tutte le domande che avrei voluto farle, prima ancora che io gliele facessi…”. Esempio sfrontato di giornalista guascone che non guarda in faccia all’intervistato. Del resto poco prima dell’intervista a Di Matteo, e nella stessa sede (gli stati generali sulla giustizia tenuti mercoledì scorso a Roma dal movimento 5 Stelle) una giornalista di Repubblica aveva dichiarato candidamente: «Non posso non unirmi, anche se non dovrei, all’ovazione per Davigo». Almeno lei ha aggiunto, sottovoce, quelle quattro paroline: «anche se non dovrei…». Naturalmente non ha nessun senso parlare di giornalismo di regime. Come non aveva senso farlo qualche anno fa, quando imperava Berlusconi, non lo ha neppure ora che impera Grillo. Però per chi fa il giornalista è giusto fare qualche attenzione al fenomeno. Il giornalismo italiano si sta piegando sempre di più alla cupola del giustizialismo. Gli spazi per i liberali e i garantisti sono diventati stretti stretti. Non è il caso di piangersi addosso, però non c’è ragione per nasconderlo.
A Otto e mezzo uno show giustizialista. Dodici domande a Lilli Gruber, scrive Piero Sansonetti il 18 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Marco Travaglio, Nicola Gratteri e Beppe Severgnini ospiti di La7 in un dibattito su politica e giustizia pieno di false informazioni e privo di contraddittorio. Ma questo è buon giornalismo? Indiscutibilmente Lilli Gruber è una delle giornaliste più prestigiose della televisione italiana. È preparata, ha carisma. Però ogni tanto sbaglia anche lei. Spesso sbaglia l’assortimento degli ospiti. E se commette questo errore senza conoscere troppo bene l’argomento del quale si parla, e dunque senza poter esercitare lei stessa l’obbligo della critica, finisce per fornire ai lettori un cattivo servizio, e per confondere le idee un po’ a tutti. Così è stato venerdì scorso, durante la puntata di “Otto e Mezzo”. Tema, la Giustizia. Ospiti: Nicola Gratteri (da Gruber definito Pm e saggista) Marco Travaglio e Beppe Severgnini. Dov’era l’errore nell’assortimento? I tre, sui temi in discussione, avevano idee perfettamente collimanti. E così non solo nessuno dissentiva, ma venivano lasciate passar per buone (cioè per vere) affermazioni del tutto infondate, o false, o quantomeno discutibilissime. Uno degli ospiti parlava, e gli altri due (ma anche Lilli Gruber, talvolta) annuivano, con la testa o coi sorrisi, in un clima sicuramente idilliaco ma che aveva a che fare poco poco sia col giornalismo, o con l’informazione, sia, ovviamente, col dibattito politico. Qui riassumo – senza commentare, o quasi… – in dodici punti solo le principali affermazioni non vere (o contestabilissime) che mi sono segnato su un taccuino. E provo a smentirle, sulla base dei fatti, e dei codici, e delle leggi. O anche del buonsenso.
Il processo a distanza. Il dottor Gratteri ha spiegato tutti i vantaggi del processo a distanza. Che funziona così: l’imputato non è presente in aula ma sta in carcere ed è collegato per via telematica in video e in audio. Dunque non ha il suo avvocato al fianco, non può consultarsi con lui in tempo reale, non è di fronte ai testimoni di accusa, né al pubblico ministero, non può intervenire, non può vedere documenti che eventualmente l’accusa esibisce, eccetera eccetera. Gratteri però questi inconvenienti non li ha elencati. Ha solo detto che comunque l’imputato può eventualmente consultarsi con l’avvocato via cellulare. E poi ha spiegato che in questo modo si risparmiano 70 milioni all’anno, facendoci capire che più che dello Stato di diritto è bene occuparsi del bilancio. Ha ragione Gratteri? No, ha torto. Il processo a distanza indubbiamente danneggia l’imputato e le sue possibilità di difesa. E lo costringe (se ha i soldi per pagarseli) ad avere due avvocati, uno in aula e uno accanto a lui in carcere. Ma se è povero, niente da fare. E soprattutto Gratteri ha torto perché esiste l’articolo 111 della Costituzione che dice così: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato (…) abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico (…)». In coscienza, qualcuno può ritenere che il processo a distanza, nel quale l’imputato, ad esempio, non può mai trovarsi faccia a faccia davanti al testimone d’accusa, e neppure davanti al giudice, è compatibile con questa norma della Costituzione? L’altro giorno persino il nuovo presidente dell’Anm (associazione nazionale magistrati) ha detto che il processo a distanza non sta in piedi. In trasmissione non si è neppure fatto cenno a questa circostanza.
«Gli avvocati difendono lo status quo». Questa è stata la motivazione fornita da Beppe Severgnini (editorialista del “Corriere della Sera” e direttore del settimanale “Sette”) per spiegare l’opposizione degli avvocati al processo a distanza. Eppure gli avvocati da molti e molti anni chiedono profondissime riforme della giustizia: la separazione delle carriere, per esempio, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale, la riforma della carcerazione preventiva, la regolamentazione delle intercettazioni e tante altre. A opporsi a queste riforme è stata una parte della magistratura, mai gli avvocati. Cosa c’entra lo Status quo? Il problema è la difesa dello Stato di diritto. Che alcuni considerano un orpello, una cosa antimoderna, incompatibile con una giustizia severa ed economica, e che gli avvocati invece difendono coi denti.
Carceri affollate per mancanza di personale. Gratteri ha sostenuto che non esisterebbe il sovraffollamento delle carceri se ci fosse il personale sufficiente per usare tutte le celle a disposizione. Ma siccome il personale è usato per i trasferimenti dei detenuti (che potrebbero essere aboliti col processo a distanza) le celle restano vuote. Non è vero. Le carceri sono sovraffollate semplicemente perché la massima capienza (e cioè 45 mila posti letto) è inferiore al numero dei detenuti (55 mila).
Detenuti stranieri. Gratteri ha fatto notare che in Africa il costo della vita è molto basso. E dunque ha auspicato che i detenuti in Italia, di nazionalità africana, siano rispediti nei paesi d’origine, con accordi che prevedano che l’Italia paghi loro il vitto. In questo modo – ha spiegato – svuoteremmo le carceri e risparmieremmo un sacco di soldi, perché il vitto africano costa poco. Applausi di Severgnini. Purtroppo nessuno ha fatto notare a Gratteri che in alcune carceri africane (per esempio in Libia) spesso si applica la tortura, e gli standard umani sono inferiori a qualunque principio costituzionale italiano.
Carcere duro. Gratteri – in contrasto con il linguaggio usato solitamente in magistratura – ha affermato che il famoso articolo 41 bis consiste nel carcere duro. Probabilmente è stata una disattenzione. I magistrati hanno sempre sostenuto che è solo una forma di maggiore vigilanza sull’attività del detenuti. Se il 41 bis è carcere duro come dice Gratteri (e su questo, probabilmente, ha ragione) è una forma incostituzionale e illegale di detenzione che va immediatamente abolita.
Prescrizione. Sempre Gratteri ha sostenuto che non va allungata la prescrizione ma ne vanno abolite le cause. E le cause sono la lunghezza dei processi. Anche qui: d’accordo. E qual è la causa principale della lunghezza dei processi? Dice Gratteri: il mancato processo a distanza. E se invece – chiediamo – si abolisse l’obbligatorietà dell’azione penale, come in tanti paesi occidentali, e si dimezzasse, o più, il numero dei processi? E se si abolisse il diritto dell’accusa di fare appello dopo una assoluzione in primo grado, dal momento che una sentenza di assoluzione in primo grado è di per se un “ragionevole dubbio” sulla possibile colpevolezza?
Tasso di impunità / 1. Marco Travaglio ha sostenuto che il provvedimento cosiddetto “svuota- carceri” ha disposto che sia impossibile, anche dopo la sentenza definitiva, mettere in prigione qualcuno se è stato condannato a meno di 4 anni. Prima – ha detto Travaglio – il limite era tre anni, ora l’hanno aumentato. Non è vero. Travaglio probabilmente ha fatto parecchia confusione. Esistono vari provvedimenti e non si capisce bene a quale lui si riferisca. Uno è la riforma carceraria di trent’anni fa, quella firmata dal parlamentare cattolico di sinistra Mario Gozzini, e approvata all’unanimità (tranne i neofascisti), che prevedeva la possibilità di varie misure alternative alla detenzione per i detenuti considerati non pericolosi. Tra queste misure c’era la possibilità di scontare la pena, o una parte della pena, in forme diverse dalla detenzione in cella. Il giudice di sorveglianza ha la possibilità di sospendere la pena per un certo numero di mesi, in caso di condanna a meno di tre anni, per dare il tempo dal condannato di chiedere le misure alternative. Ha la facoltà – attenzione – non l’obbligo. La decisione spetta solo a lui, non al parlamento. L’idea di portare dai tre ai quattro anni il tetto per ottenere queste misure, non è stata ancora realizzata. E’ una legge delega che aspetta i decreti attuativi. Non riguarda tutti i carcerati ma solo le donne incinta, i padri con bambini sotto dieci anni, i malati, gli anziani e i ragazzi sotto i 21 anni. Io non dico che tutti debbano conoscere per filo e per segno le leggi, ma insomma è proprio necessario parlare in tv, con prosa apodittica, di cose che non si conoscono? (Scusate il commento, mi è scappato…)
Tasso di impunità / 2. Travaglio sostiene che in questi ultimi anni le carceri si sono svuotate e i tassi di impunità aumentano, perché i politici fanno leggi per non andare loro in galera, e, con effetto- domino, finisce che aiutano anche i delinquenti di strada. E così il crimine aumenta. I delinquenti restano a piede libero, e la gente si spaventa e si arma. È giusta questa analisi? No, è sbagliata. Le carceri, in questi anni, non si sono svuotate ma riempite. E i delitti – viceversa – non sono aumentati ma diminuiti. Per l’esattezza, nel 1970 i detenuti erano circa 25.000. Nel 1990 erano circa 30 mila. Ora sono 55 mila. Negli anni 70 il tasso di delinquenza era circa il doppio, rispetto ad oggi. Gli omicidi circa 4 volte di più. Diciamo che viviamo in una società molto più sicura, molto più legale e anche molto più repressiva rispetto a quella di 30 o 40 anni fa.
Reati dei colletti bianchi. Beppe Severgnini ha sostenuto che in Italia esistono solo 230 colletti bianchi messi in prigione per reati finanziari. In Germania – ha detto – sono 18 volte di più. Ignoro l’origine di questi dati. Ho dato un’occhiata al foglio ufficiale del Dap (il dipartimento penitenziario). Prendo qualche numero a caso. Detenuti per bancarotta l’ultimo giorno dello scorso anno: 517. Per appropriazione indebita: 342. Per insolvenza fraudolenta: 726. Peculato: 341. Omissione d’atti d’ufficio: 401. Non voglio conteggiare truffa (1505) o altri reati simili, perché riguardano sia i colletti bianchi che la povera gente. Ho citato solo alcuni reati a caso. Ne mancano moltissimi altri, fra i reati dei colletti bianchi. Solo con questi che ho citato (e senza conteggiare le truffe) siamo oltre i 2400 detenuti. Da dove esce quel dato di 240? Nelle prigioni italiane ci sono un senatore in carica (Antonio Caridi) e due parlamentari della scorsa legislatura (Dell’Utri e Cosentino) più alcuni che sono ai domiciliari. Non sono sicurissimo che esistano molti altri paesi europei con dei parlamentari in prigione.
Carcerazione preventiva. Marco Travaglio ha spiegato che in Italia è difficile ottenere la carcerazione preventiva, perché per ottenerla bisogna beccare il reo mentre sta tenendo un testimone col coltello alla gola. Cioè bisogna dimostrare che sta cercando di fuggire, o di inquinare le prove, o di reiterare il reato.
Non è vero. E’ sufficiente il rischio. Il Pm e il Gip, a loro discrezione, decidono se esiste o no il rischio di inquinamento fuga o reiterazione. L’Italia infatti è il paese occidentale con la percentuale più alta di carcerazione preventiva. Circa il 33 per cento. Cioè più di 15 mila persone. Dei quali almeno la metà risulterà innocente. Negli ultimi 10 anni le ingiuste detenzioni accertate sono state 7000 all’anno. Cioè, più o meno, venti al giorno. Non bastano ancora?
Il capitan “Riscrivo” (Consip). Travaglio ha difeso il capitano dei carabinieri (capo del Noe) accusato dalla Procura di Roma di falso per aver consegnato una “informativa” nella quale si sosteneva che l’imprenditore Romeo era stato intercettato mentre diceva di avere incontrato Tiziano Renzi. L’informativa – sulla quale si è costruito un clamoroso scandalo sui giornali – era sbagliata, perché non era Romeo ma era l’ex parlamentare Italo Bocchino quello che diceva di avere incontrato Renzi, e si riferiva non a Tiziano ma a Matteo, che Bocchino, in quanto ex parlamentare, incontra spesso nei corridoi di Montecitorio. Travaglio ha detto che il capitano probabilmente ha solo commesso un errore “di svista”, perché ha sbagliato nell’informativa ma non nella trascrizione dell’intercettazione che invece riporta giustamente il nome di Bocchino. Già, ma Travaglio non ha detto che la trascrizione non l’ha eseguita il capitano, l’hanno eseguita un brigadiere e un maresciallo, i quali l’hanno consegnata al capitano, correttamente, e il capitano ha poi compilato l’informativa, e l’ha consegnata alla magistratura, invertendo i nomi. Che forse il capitan Riscrivo sia innocente, e abbia solo commesso un errore involontario, è possibilissimo. Solo stupisce l’eccesso di garantismo di Travaglio, abbastanza insolito, e qualche omissione nel riferire i fatti. Forse anche perché il Noe del capitan “Riscrivo” (come è stato scherzosamente ribattezzato) tempo fa aveva fornito presumibilmente al “Fatto” una intercettazione di Renzi che parlava male di Enrico Letta col comandante della Gdf (intercettazione priva di rilievo penale e che quindi andava distrutta e non passata i giornali).
Intercettazioni. Il dottor Gratteri ha sostenuto che la giustizia italiana vive di intercettazioni – a differenza degli altri paesi occidentali – perché sono economiche. Dice che altri metodi d’indagine, più concreti – accertamenti, pedinamenti, riscontri, testimonianze, eccetera – costano troppo. Severgnini a questo punto lo ha proposto come ministro della Giustizia. A me sembrerebbe più adatto a fare il ministro dell’economia.
Mi fermo qui. Non è successo niente di grave, naturalmente. Tutti errori veniali. Ma il numero di informazioni inesatte fornite ai telespettatori in 38 minuti di trasmissione è stato davvero altissimo. Io dico solo, sommessamente, che questo non è buon giornalismo. Può succedere. E’ che sui temi della giustizia succede spesso. Magari sarebbe opportuno, talvolta, quando si parla di giustizia, invitare non solo fans del “Fatto”, ma anche qualche esperto, qualche avvocato, qualcuno che conosce bene le cose e le ha studiate un po’. Voi direte: ma Gratteri le conosce bene! Non mi pare, francamente.
Ma il partito dei Pm esiste e ha molti appoggi, scrive Piero Sansonetti il 6 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Carissimo Morosini, sul Dubbio di ieri noi abbiamo riportato le sue dichiarazioni virgolettate ed esatte, e poi abbiamo pubblicato un commento. Come usano gli inglesi. Naturalmente i commenti appartengono a chi li scrive e basta. Le sue opinioni però mi hanno dato lo spunto per provare ad aprire una discussione con la magistratura Ma il partito dei Pm esiste e ha alleati nei partiti e nei giornali. Carissimo Morosini, sul Dubbio di ieri noi abbiamo riportato le sue dichiarazioni virgolettate ed esatte, e poi abbiamo pubblicato un commento. Come usano gli inglesi: i fatti separati dalle opinioni (in Italia, è vero, si usa pochissimo questo metodo). Naturalmente i commenti appartengono a chi li scrive e non certo a chi ne è “l’oggetto”. Ovvio che le mie considerazioni non coincidono con le sue opinioni. Né tantomeno con le cose che lei dichiara ufficialmente, soppesando bene le parole, come è giusto che sia visto il suo ruolo istituzionale, la sua lunga carriera in magistratura e la sua presenza attiva nelle associazioni dei magistrati. Le sue opinioni però – interessanti e non frequenti tra i magistrati – mi hanno dato lo spunto per andare oltre e provare a rivolgermi a quella parte della magistratura più moderna e meno reazionaria (della quale lei sicuramente fa parte), per chiedere di venire allo scoperto, di partecipare o addirittura pro- muovere un dibattito di idee che è necessario per fare uscire la giustizia italiana dalla crisi profonda nella quale si trova. Quanto alle osservazioni espresse nella sua lettera, mi permetto di fare a mia volta qualche altra considerazione.
A) Lei dice che per sostenere che esistono casi di magistrati che usano la giustizia per fare lotta politica bisogna fare nomi e cognomi. Specie se, come nel suo caso, si ricopre un ruolo istituzionale. Potrei fare diversi nomi e cognomi, visto che, ad esempio, come lei sa bene, il parlamento è pieno di magistrati, i vertici delle regioni sono pieni di magistrati, lo sono molte giunte comunali, diversi magistrati hanno partecipato anche ai governi della Repubblica, altri sono stati proposti per ruoli rilevantissimi, compreso quello di ministro della Giustizia. Oppure potrei citarle, tra i tanti, il caso di quell’ex deputato del Pd ( che mi pare si chiami Nicola Sinisi, peraltro ottima persona e onestissimo) che dopo anni di battaglie contro Augusto Minzolini, giornalista schierato a destra e poi senatore di Forza Italia, si trovò a giudicarlo (e Minzolini finì condannato, credo ingiustamente); o ancora le potrei parlare di un certo Bernini, assessore in Emilia di centrodestra, che finì indagato per collusioni con la ‘ ndrangheta ( restò nel limbo per anni, fu rovinato, e poi ne uscì pienamente assolto) da un magistrato di centrosinistra che era stato il capoufficio in un ministero del governo Prodi. Non sono belle cose, so che lei è d’accordo con me. Non succede in nessuna altra professione. Dopodiché è chiaro che in genere sono i partiti, e non direttamente la magistratura, ad utilizzare le inchieste a fini di lotta politica. Basta pensare alle liste di proscrizione stilate alla vigilia delle elezioni dalla Commissione antimafia, o al caso del povero sindaco di Roma Marino, del quale, giustamente, ha parlato anche lei, un po’ indignato, nell’intervista al quotidiano siciliano.
B) Lei giustamente sottolinea la necessità di regole certe per i magistrati, in tema di segretezza e la necessità “di sanzioni per chi non le rispetta”. Ha ragione. Però le regole ci sono, quasi nessuno le rispetta, e di sanzioni, fin qui, nemmeno l’ombra… O mi sbaglio?
C) Lei dice che condotte penalmente irrilevanti possono appannare la credibilità di un politico, e dunque ben vengano i codici etici. Forse ha ragione. Io però penso che a giudicare le condotte penalmente irrilevanti sarebbe giusto che se fossero gli elettori. Dovranno pure avere un potere questi elettori, o no? Oppure devono solo ratificare le scelte compiute a monte o dalla magistratura o dagli Stati maggiori dei partiti, o – nel caso in cui si parla tanto in questi giorni – da Grillo in persona?
D) Sul partito dei Pm possiamo discutere per ore e ore. Però, francamente, dottor Morosini, sostenere che non esiste è arduo. Ha una sua struttura (si chiama Anm), un capo (si chiama Davigo), una linea politica (attualmente, purtroppo, è il davighismo), moltissimi referenti esterni e moltissimi alleati, tra i quali un partito politico vero e proprio, i 5 Stelle, e un gran numero di testate giornalistiche. Altra cosa è dire che non è monolitico. Anch’io credo che non lo sia. E del resto la sua intervista al Giornale di Sicilia lo conferma. Il problema – che cercavo di sollevare nell’editoriale di ieri – è proprio questo: il silenzio di un pezzo importantissimo di magistratura che non è d’accordo con la linea davighiana eppure non esce allo scoperto. Le ultime righe della sua lettera mi incoraggiano: mi fanno capire che forse c’è la volontà di riaprire una discussione chiusa da troppo tempo. La domanda che le faccio è questa: esiste un pezzo di magistratura ha l’interesse e la forza e il coraggio per mettere tutto in discussione (in discussione vuol dire che si esaminano i pro e i contro e poi si decide): dalla separazione delle carriere, alla responsabilità civile, alle manette facili, al 41 bis, eccetera eccetera eccetera? Finché questa discussione non si apre, in modo moderno e leale, è difficile pensare a qualcosa di buono per la giustizia italiana.
Procura e redazioni: quando il copia-incolla diventa uno scoop! Scrive Paolo Delgado il 2 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Spesso dietro le notizie ci sono i magistrati, così finisce che a dettare la linea e il senso comune siano, appunto, quegli stessi magistrati. Intercettato in carcere Massimo Carminati, che secondo la procura di Roma è la versione romanesca di Totò Riina, si lascia andare a una confidenza sbalorditiva: «La vera Cupola a Roma sono i costruttori». Sull’Espresso, uno dei giornalisti più addentro nelle cose della Cosa nostra capitolina commenta: «La bomba er Cecato la sgancia così. Senza aggiungere nulla. Senza dare una spiegazione all’interlocutore che però comprende il messaggio». Però se le parole del temibile sono una bomba conviene evitare i bar della Capitale, pena il ritrovarsi nell’inferno di Mosul: che a Roma i padroni siano i palazzinari lo sanno e lo ripetono proprio tutti. Da decine d’anni. L’articolo in questione, uscito nel settembre scorso ma del tutto omogeneo a un migliaio d’altri usciti su quasi tutte le testate italiane, è un florilegio. Carminati è in cella con altre tre detenuti e stando in regime di 41bis non vede nessun altro. Sempre in virtù del medesimo 41bis, l’articolo che dispensa il carcere duro per i mafiosi, capita che in cella il Pirata si ritrovi appunto con mafiosi, tra cui Giulio Caporrimo, considerato intimo del super latitante Matteo Messina Danaro. Capita anche, per quanto incredibile sembri, che ci parli. Commento del settimanale: «Ecco come la mafia siciliana ritorna prepotente e silenziosa in questa storia». Di perle del genere, a spulciare i media italiani se ne rintracciano senza sforzo a tonnellate. Fanno notizia, anche quando la notizia latita o si riduce a un’opinione. Fanno cultura di massa, mentalità diffusa, e siccome 99 volte su 100 dietro quelle notizie ci sono le procure finisce che a dettare il senso comune sono appunto le procure. Fanno anche carriera: per essere promossi a principi del giornalismo niente, neppure una bella sparata contro i politici magnaccioni, vale una minaccia mafiosa, un sguardo di sbieco del boss di turno. Se resuscitasse, Leonardo Sciascia volgerebbe oggi i suoi strali non più contro i palazzi di giustizia ma contro le redazioni, che del resto ne sono spesso pure dependences. Roberto Saviano ha aperto la strada e indicato la rotta. In mezzo allo stuolo di principi e duchesse è senza discussioni il sovrano. Cosa abbia scritto nel celebre Gomorra che non fosse già noto è un mistero. L’apporto creativo e fantasioso in quello storico titolo è conclamato: si chiama romanzo proprio perché non perde tempo a separare i fatti dall’immaginazione. Ma se ai boss non è piaciuto deve per forza trattarsi di capolavoro: tanto che qualche anno fa di Saviano, con all’attivo due titoli, è uscita l’edizione di lusso delle opere complete. Come usa Con Tolstoj o Gadda. Il secondo titolo in questione, al quale si è aggiunto nel frattempo un terzo e bisognerà sfornare al più presto l’edizione aggiornata dell’opera omnia era un’inchiesta sullo spaccio di cocaina, “ZeroZeroZero”: basta spulciare i ringraziamenti finali per scoprire che le fonti dell’inchiesta sono essenzialmente le inchieste della magistratura. Del resto anche in quel caso si trattava di un romanzo…L’esempio più lampante ed eloquente resta tuttavia ancora quello dell’inchiesta Mafia capitale. La procura ipotizza l’associazione mafiosa, ma è ben consapevole di muoversi su un terreno friabile, tanto che nelle ordinanze pagine e pagine sono devolute a giustificare la pesante accusa a carico di un gruppo che non ammazza, non ferisce, non picchia ed è discutibile persino che minacci. A giudicare a fondatezza del capo d’accusa saranno ovviamente i tre gradi giudizio, ma il dubbio è lecito e dovrebbe anzi essere obbligato. Qualche giornalista infatti dubita, ma il circolo è ristretto e sembra essere precluso, con pochissime eccezioni, ai cronisti di giudiziaria. I quali si sono invece procurati in massa il crampo dello scrivano per spiegare senza pensarci su due volte che il capo d’accusa è in realtà solare e solidamente giustificato. Neppure quando una sentenza ha stabilito che nell’unico municipio di Roma sciolto per mafia, quello di Ostia, la mafia non c’era. Non è solo questione di opportunismo e asservimento alle procure. Quando si parla di mafia e affini entra in ballo l’impegno civile. Revocare in dubbio le conclusioni dei pm che indagano sulla criminalità organizzata significa farsene complici, e chi mai potrebbe guardarsi nello specchio sapendo di aver dato una mano a Matteo Messina Denaro o Massimo Carminati? Non è forse l’etica civile a imporre per prima di prendere per oro colato qualsiasi cosa i guerrieri dell’antimafia partoriscano, scemenze incluse? Il rovello non si pone solo nei casi clamorosi, come il processone romano. La logica discende sino a quelli microscopici.
Ilaria Capua: «Io, vittima delle calunnie dell’Espresso», scrive Valentina Stella l'1 Aprile 2017 su "Il Dubbio". L’amarezza di Ilaria Capua, prosciolta completamente dopo due anni di indagini, che ha dovuto subire una gogna giudiziaria e mediatica. Ilaria Capua, virologa e ricercatrice di fama mondiale, la prima ad aver caratterizzato il ceppo africano H5N1 dell’influenza aviaria, ha rischiato addirittura l’ergastolo perché nel 2014 il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo l’ha accusata – insieme ad altre 15 persone – di essere una criminale senza scrupoli, il vertice di una associazione a delinquere che contrabbandava virus e procurava epidemie in cambio di soldi, in accordo con alcune multinazionali dei vaccini. Ne veniva fuori l’immagine di una donna che lucrava e metteva in pericolo la salute dei cittadini, ma che stranamente il magistrato Capaldo decise di mantenere a piede libero per oltre sette anni prima di accusarla formalmente. L’indagine della procura di Roma ha prodotto 17.000 pagine di documentazione, tra cui moltissime intercettazioni della scienziata che – coerentemente col vizietto italiano di fare della stampa il megafono delle Procure sono finite sui giornali prima ancora che le venisse notificata la chiusura delle indagini a suo carico. Stiamo parlando della famosa copertina dell’Espresso intitolata “Trafficanti di virus” e della inchiesta a firma del giornalista Lirio Abbate. Dopo due anni, e il trasferimento del processo a Verona, per undici dei dodici capi di accusa, tra cui quelli riguardanti la diffusione di epidemie nell’uomo e negli animali, associazione per delinquere, falso ideologico, concussione e abuso d’ufficio, è stata prosciolta “perché il fatto non sussiste”. Il proscioglimento nel merito, più favorevole all’imputato, ha prevalso rispetto alla dichiarazioni di estinzione del reato, ossia la prescrizione, anche per tutte – tranne una – le accuse prescritte. Gogna giudiziaria e mediatica hanno portato tuttavia la Capua a dimettersi da parlamentare di Scelta civica e a trasferirsi negli Stati Uniti dove attualmente dirige un centro di ricerca d’eccellenza dell’Università della Florida, e dove vive con suo marito Richard John Currie e sua figlia Mia. Oggi si racconta in un libro, edito da Rizzoli, Io, trafficante di virus. Una storia di scienza e di amara giustizia scritto con il giornalista scientifico Daniele Mont D’Arpizio.
Professoressa Capua, lei è rimasta “impiccata” ed è stata lasciata penzolare per più di due anni al cappio di accuse infamanti che, come descrive nel suo libro, l’hanno resa in quel momento “una donna finita, disidratata per quanto ho pianto, disperata. Violentata, sì”. Come ci si riesce a rialzare in queste situazioni?
«Conservando la lucidità, mantenendo la barra dritta, sapendo che l’esito della vicenda dipende solo da te».
Lei al termine del libro scrive: “Quello che è successo a me accade troppo spesso in Italia, e potrebbe succedere a chiunque. In occasione di questo momento voglio dar voce a tutte le persone innocenti accusate ingiustamente”.
«Vorrei che questa mia storia servisse a tante persone, che sono coinvolte in vicende come la mia, a farsi forza ed andare avanti. Io ho voluto dare voce anche a queste persone. Se con il mio libro riuscissi a evitare che anche un solo scienziato o una persona onesta venissero accusati ingiustamente e svergognati sui giornali avrei vinto la mia battaglia».
Qual è il virus che attanaglia la nostra giustizia e quali potrebbero essere gli anticorpi affinché casi simili non avvengano più?
«La giustizia ma anche l’opinione pubblica sono segnate dalla rassegnazione. Una delle cose che mi son sentita dire più volte è “ma in Italia si sa che è così”. E questo non va bene, non è accettabile che le vite delle persone vengano stravolte da meccanismi troppo lenti e soprattutto dalla mancanza di risposte certe. Quando ponevo domande circa i tempi e l’iter processuale, la risposta più frequente era “dipende dal giudice, dal pubblico ministero, da quanto hanno da fare”. Il mio non lo ritengo un caso di malagiustizia ma di amara giustizia: alla fine giustizia è stata fatta ma ci è voluto tempo, c’è stata la messa in discussione della mia vita e lo sradicamento di una famiglia dall’Italia, il trasferimento dall’altra parte del mondo. Mi sento come se fossi stata ostaggio della giustizia».
Passiamo al linciaggio mediatico. Lei racconta di pubblicazione di intercettazioni del tutto decontestualizzate, un tentativo – poi mal riuscito – di “svergognare e denudare le persone”. Dopo il proscioglimento si sarebbe aspettata una copertina opposta dall’Espresso e le scuse del giornalista Lirio Abbate?
«No, perché mi è stato subito detto che nessuno avrebbe scritto una riga. Addirittura Abbate in una intervista ha sostenuto che io non l’avessi querelato per diffamazione. Invece l’ho fatto immediatamente perché sapevo di essere innocente, e lo ha capito anche la giustizia: ho querelato lui e l’Espresso e li ho citati anche per danni. Mi è dispiaciuto il fatto che, al di là del male che questa persona ha fatto a me e alla mia famiglia, ho dovuto sentire anche ulteriori menzogne. Lui non ha voluto realmente approfondire e scoprire la verità, mi ha fatto tre domande secche, come scrivo nel libro, ma ho avuto l’impressione che lui non volesse onestamente capire. Si è trovato in mano le carte sulla mia indagine e ha deciso di prendere una certa posizione. Detto ciò, esiste però il fair play, quindi secondo me non è giusto e non è corretto che il giorno stesso del mio proscioglimento lui firmi un altro articolo in cui scrive, tirando fuori altre intercettazioni, che i magistrati di fatto hanno scoperto il business tra aziende e comparto pubblico».
Cosa si sente di dire a qualsiasi giornalista che desidera fare in modo professionale cronaca giudiziaria?
«Un giornalista che vuole fare giornalismo di inchiesta deve lavorare in buona fede dando al malcapitato il beneficio del dubbio. Se una persona si dichiara innocente e gode anche di una certa credibilità in ambito scientifico e reputazione internazionale, bisognerebbe avere almeno la mente sufficientemente aperta per valutare le varie versioni».
Lei si chiede ad un certo punto nel libro: “Ma un pm è obbligato a conoscere la scienza? Un giudice, un carabiniere? Un giornalista?”. Che risposta si è data?
«Non è un obbligo che conoscano determinate dinamiche e ramificazioni del mondo scientifico perché io da 25 anni faccio il virologo e garantisco che i virus sono una realtà molto complicata. Però prima di accusare delle persone e sbatterle in prima pagina e trasformarle in mostri criminali occorrerebbe far vedere la documentazione a un paio di persone esperte. Come ricordo nel libro, nelle pagine della mia inchiesta, finite sui giornali, avevano confuso i virus: è come se avessero detto che Paolo Rossi e Michele Rossi sono la stessa persona. Vi erano degli errori proprio grossolani. È forse anche vero che i lettori non hanno gli strumenti per districarsi in certi argomenti e prendono per oro colato quello che viene pubblicato. Non si può incolpare il lettore perché il giornalista serve anche per selezionare e tradurre le informazioni. Io non me la sento di dire al cittadino o al lettore dell’Espresso che deve conoscere la nomenclatura dei virus influenzali».
Appena scoppiato lo scandalo, il deputato Gianluca Vacca del Movimento 5 Stelle chiese le sue dimissioni da vicepresidente della commissione Cultura alla Camera ove fosse stata iscritta nel registro degli indagati. Due mesi fa invece i pentastellati virano verso un moderato garantismo qualora qualcuno di loro riceva avvisi di garanzia. Come commenta?
«Io in quel momento non avevo ricevuto alcun avviso di garanzia, ma mi ero trovata sbattuta sulla copertina dell’Espresso accusata di reati gravissimi. Trovo che l’onorevole Vacca come altri esponenti del Movimento 5 Stelle abbiano peccato e continuino a peccare di inesperienza e di mancanza di conoscenza della complessità di alcuni problemi e di come alcune situazioni vengano strumentalizzate dalla stampa e non solo. La loro svolta garantista mi lascia un po’ perplessa perché loro stessi dicono “decideremo caso per caso”: questo mi sembra davvero un abuso di responsabilità. Sulla base di cosa un laureato, per esempio in ingegneria, si mette a discutere o a decidere – Grillo non so nemmeno se sia laureato – se determinate accuse sul traffico di vaccini stanno in piedi o no? Siamo arrivati alla giustizia sommaria?»
Suo padre voleva farle studiare legge ma lei rispose: “Papà, ma io voglio fare ricerca nel pubblico, perché la scienza è di tutti”. Oggi però in Italia si investe pubblicamente pochissimo in ricerca. Come mai secondo lei?
«Manca la cultura della ricerca, quella che collega la ricerca alla competitività, che produce posti di lavoro e punta al benessere della società. E poi la ricerca è la Cenerentola dell’agenda politica, quando si devono fare dei tagli la ricerca ne soffre sempre. Alla base manca la meritocrazia».
Il sistema scienza in Italia è ancora quindi troppo intriso di nepotismo per mettersi davvero in competizione con la realtà internazionale? E come si può ovviare?
«Basta copiare quello che fanno nelle altre parti del mondo, come in Olanda, in Inghilterra, in Germania, negli Stati Uniti: basta fare dei bandi che siano realmente competitivi e valorizzare le persone e i loro meriti, senza cercare di proteggere dei feudi e delle aree di potere».
Parlando della sua esperienza parlamentare lei scrive: “A volte in questo Paese sembra che di scienza non importi niente a nessuno”. Filosofi della scienza e bioeticisti invece sostengono che il metodo scientifico dovrebbe essere il prototipo della democrazia. Perché in Italia la politica è indifferente alla scienza se non per vietare, e come dovrebbe migliorare il rapporto tra scienza e politica?
Io speravo di riuscire a migliorare questo rapporto con la mia presenza in Parlamento: mi sono impegnata, ho cercato di dialogare, cercando una maggiore apertura e comprensione da parte dei miei colleghi alla Camera verso il mondo scientifico, ma poi è successo quello che racconto nel libro e che mi ha costretto a lasciare lo scranno di Montecitorio. Purtroppo manca apertura mentale e disponibilità a capire determinati aspetti».
Scrivendo del periodo di campagna elettorale con Monti racconta di quando venne ripresa dagli attivisti per alcune affermazioni pubbliche, espressioni del suo pensiero laico. Quanto pesa ancora la presenza del Vaticano nelle decisioni politiche, ad esempio in materia di inizio e fine vita?
«Moltissimo, la nostra radice cattolica è determinante. Penso a come l’establishment religioso abbia preso posizione nel caso di Dj Fabo e della sua richiesta di suicidio assistito, e anche sul voto sul testamento biologico».
Lei ha voluto fare ricerca per decenni in Italia, rifiutando prestigiosi incarichi all’estero, perché ha sempre voluto scommettere sul nostro Paese. Oggi però le strutture di ricerca italiane non sono considerate “appealing”, i giovani preferiscono portare le loro borse di studio all’estero. Cosa direbbe a un cervello in fuga per farlo rimanere?
«Io avevo predisposto una proposta di legge proprio per i ragazzi che partecipano ai bandi europei per permettere loro di spendere questi soldi in Italia. Inoltre sono contraria allo stereotipo del cervello in fuga, perché ritengo che i cervelli debbano muoversi, ci deve essere una circolazione di cervelli. E così come l’Italia esporta cervelli, sarebbe opportuno che ci fosse un saldo positivo, ossia che il nostro Paese importasse un numero pari o superiore dei cervelli che esporta. In Italia ora si fanno meno figli e spesso si è costretti a scegliere tra lavoro e maternità».
Lei però con la sua storia vuole anche “dare l’esempio, dimostrare che la conciliazione mamma- dottoressa è possibile”. Questo è davvero auspicabile in Italia o lei ha rappresentato una eccezione?
«Davvero è possibile per alcune persone che hanno determinate capacità organizzative e che hanno la fortuna di intraprendere dei percorsi giusti come è successo a me. Io negli Stati Uniti ho iniziato un lavoro di mentorship sulla leadership al femminile, sulla conciliazione tra la perpetuazione della specie, affidata alle donne, e la gratificazione professionale».
Cosa pensa di una legge sulla obbligatorietà dei vaccini in Italia?
«Mi spiace che si debba arrivare a una legge, però a mali estremi, estremi rimedi; in particolare quando si tratta delle vaccinazioni infantili, perché alcuni genitori, rifiutando di vaccinare, si prendono la responsabilità nei confronti dei loro figli e di quelli degli altri che non dovrebbero prendere. Nel momento in cui la percentuale della copertura vaccinale scende sotto determinati livelli come sta avvenendo in Italia io sono d’accordo che si imponga la vaccinazione ai bambini che frequentano la scuola e vivono in comunità».
«Manette e gogna mediatica: così mi hanno annientata», scrive Valentina Stella il 19 Aprile 2017, su "Il Dubbio". Parla Maria Grazia Modena, la cardiologa fatta arrestare dai giudici dell’inchiesta “Camici sporchi”, condannata e linciata da televisioni e giornali, poi assolta in tribunale. Una mattina come un’altra, cinque anni fa, i carabinieri hanno bussato alla sua porta, le hanno messo le manette e l’hanno portata via. È iniziato l’inferno. Titoli feroci suoi giornali, detenzione, gogna, grida in Tv, poi una condanna in primo grado, infine la liberazione con l’assoluzione piena in appello. Non ha commesso il fatto, il fatto non sussiste. Si chiama Maria Grazia Modena, è una cardiologa molto famosa in tutto il mondo. È professoressa all’Università di Modena e Reggio Emilia, è stata Presidente della Società Italiana di Cardiologia e primario al Policlinico modenese. In quel mattino del 2012, insieme a lei furono arrestati altri 8 medici. Era l’operazione “Camici sporchi”. L’accusa: associazione a delinquere finalizzata a sperimentazioni cliniche non autorizzate L’inchiesta è finita in una bolla di spone. Lei però ha avuto la vita distrutta. E’ un caso come quello di Ilaria Capua. La vicenda di Ilaria Capua non è la sola a vedere una delle eccellenze della scienza italiana stritolata dalla macchina difettosa della giustizia e dall’accanimento mediatico. Oggi vi raccontiamo la storia di Maria Grazia Modena, professoressa di Cardiologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, già Presidente della Società Italiana di Cardiologia – la prima donna a ricoprire tale ruolo -, ed ex primario della Cardiologia del Policlinico modenese. Il suo nome balza agli onori della cronaca, prima nazionale e poi internazionale – Forbes ad esempio -, nel 2012: all’alba del 9 novembre, i carabinieri suonano il campanello della sua casa e le mettono le manette, mentre elicotteri dell’Arma sorvolano su di loro. Insieme a lei vengono arrestati altri 8 medici, vengono effettuate 33 perquisizioni, nonché imposto il divieto a dodici aziende che producono attrezzature cardiologiche di contrattare con la Pubblica amministrazione. L’ operazione “Camici sporchi” impegnò oltre 150 militari dei Nas, coordinati dalla Procura di Modena e individuava una associazione a delinquere finalizzata a sperimentazioni cliniche non autorizzate, all’ installazione di apparecchiature mediche, alcune delle quali difettose, su pazienti ignari e alla creazione di false cartelle cliniche. Il ruolo apicale, secondo il pm Marco Niccolini e l’allora procuratore capo Vito Zincani, all’interno della presunta associazione, era svolto proprio dalla professoressa Modena, che secondo gli accusatori "promuoveva e tollerava lo svolgimento delle sperimentazioni illegittime presso il reparto da lei diretto, al fine di trarne beneficio in termini di carriera essendo indicata quale autrice di numerose pubblicazioni ed abstract".
Dal giorno dell’arresto la sua faccia è stata sbattuta sulle prime pagine dei giornali e nei tg che avevano già decretato la sua colpevolezza. Rimase ai domiciliari per 40 giorni, poi, avendo spedito delle email affinché dei colleghi la sostituissero ad alcuni lezioni ai suoi studenti, fu costretta dalle autorità a risiedere per due mesi al di fuori della provincia di Modena, poiché ritenuta pericolosa e con tendenza a reiterare i suoi crimini. Tornata a Modena ebbe l’obbligo di firma. In primo grado, con rito abbreviato, è stata condannata dal Gup del tribunale di Modena ad una pena di 4 anni e mezzo. Ma nel dicembre dello scorso anno la corte d’Appello di Bologna ha annullato quasi totalmente la sentenza emessa. L’ex Direttrice del reparto di Cardiologia è stata difatti assolta dai reati più gravi con formula piena per non aver commesso il fatto e perché il fatto non sussiste: associazione a delinquere, corruzione, truffa ai danni dell’ospedale e abuso d’ufficio. Rimane in piedi solo la condanna a otto mesi (pena sospesa) per falso, per la quale gli avvocati Iovino e Stortoni ricorreranno in Cassazione, in merito a due lettere firmate da lei ma che riportavano dati errati su alcune sperimentazioni. Annullata anche l’interdizione dai pubblici uffici. Ieri la Procura Generale ha deciso di ricorrere in Cassazione contro l’assoluzione. Intanto la professoressa Modena si racconta nel suo secondo libro Il Caso cardiologia… la Verità, che segue Il Caso cardiologia. La mia vita, la mia verità, entrambi Edizioni il Fiorino.
Si aspettava il ricorso in Cassazione?
«Era scontato, contro di me c’è un vero accanimento. La Procura di Modena ha investito troppo in questa inchiesta e non è pronta ad ammettere di aver sbagliato nei miei confronti».
Cosa ha provato nel momento dell’assoluzione, giunta a dicembre in appello?
«Ho provato la consapevolezza di quanto sia importante essere dichiarata innocente per una innocente».
Chi era la professoressa Modena prima di quel 9 novembre 2012?
«Una persona rispettata, stimata, conosciuta, consapevole di avere ricevuto tanto, anche sotto il profilo cristiano di “talenti”, ma inconsapevole che la vita può cambiare in un attimo dalla sera alla mattina, come quella mattina dell’arresto».
Come ha vissuto il periodo ai domiciliari?
«In una specie di limbo, senza mai perdere fiducia in me stessa (non nella magistratura, come usano dire tutti…), con serenità e speranza per tre motivi: la vicinanza di mio marito, la certezza di avere dei grandi avvocati e di vivere un enorme errore giudiziario, che si sarebbe presto chiarito. E invece è diventato un incubo, ma me sono resa conto solo a posteriori».
Quello che ha colpito lei, ha anche distrutto l’intera reputazione del reparto di cardiologia e la fiducia dei pazienti. Quando riprenderà il Suo posto al Policlinico?
«Non lo so, mi si dice da cinque mesi che ci sono tanti interlocutori che si stanno confrontando su di me e sul come reintegrarmi: il Rettore, il Preside, il Direttore Generale del Policlinico, l’Assessore alla Sanità dell’Emilia Romagna, manca solo la Ministra Lorenzin. Credo che il problema sia da ascrivere al fatto che il professor Giuseppe Boriani, peraltro segnalato anche da me quando fui sospesa, ha preso il mio posto e che tutti i sopracitati attori siano stati spiazzati da un’assoluzione così rapida e imprevista».
Lei sintetizza la sua vicenda così: la mia convinzione è che siamo in un Paese dal sistema giudiziario tutt’altro che garantista che tratta gli “innocenti fino a prova contraria” come “colpevoli fino a prova contraria”. Secondo lei cosa non hanno capito i Pm e i giudici di primo grado?
«Forse che il merito e il prestigio in ambiente universitario non sono sinonimi di cupidigia, ma sono parte del mondo accademico. Le ricordo che io sono stata condannata per corruzione ascrivibile all’ambizione di veder aumentare le mie pubblicazioni, non per denaro. La mia non era ambizione personale, ma il desiderio di veder crescere un reparto, quello che nel mio primo libro chiamai ‘ la mitica cardiologia del policlinico” e tale è stata fino alla sua distruzione motivata dall’invidia: questo è un vizio capitale, non l’ambizione».
Lei scrive anche: la poca preparazione – da parte dei Nas in una branca della medicina altamente specialistica e la “scarsa” conoscenza della lingua inglese, soprattutto tecnica, hanno originato errori grossolani che sono emersi durante le udienze. Può spiegarci meglio?
«L’inchiesta della Procura di Modena partì da esposti anonimi su elenchi di pazienti deceduti o con complicanze dopo interventi “subìti” presso la cardiologia del Policlinico, poi continuò su elenchi – sempre preparati da anonimi – di sperimentazioni clandestine su pazienti ignari. Morti e feriti però non risultavano da nessuna parte, né risultava un solo caso di malasanità, e allora tutto si concentrò sulle sperimentazioni (quelle incriminate non erano tali, bensì normali interventi di angioplastiche con raccolta di dati). Ritengo che per indagare su materiali di uso in emodinamica, come cateteri, stent, protocolli, registri, linee guida spesso in lingua inglese, si sarebbe dovuto ricorrere a personale competente in materia o, per lo meno, ricorrere a periti, non a dei Carabinieri».
Sostiene di aver subìto un processo per direttissima, con annessa condanna, attraverso i mezzi di comunicazione. Racconta di essere stata descritta come la “vergogna dei cardiologi senza cuore", “mela marcia” in una puntata di Quinta Colonna, “mercante di stent” in una puntata di Report, annoverata fra le “dame nere della sanità’ sul Corriere della Sera. Cosa le ha fatto più male leggere?
«Mi ha fatto male tutto e nulla, sono arrivata a un punto da sentirmi ferita, ma inossidabile, tranne per due aspetti: il dolore che provava, più di me, la mia famiglia e il panico che si era creato nei pazienti, panico che nessuna Istituzione ha saputo, o voluto, governare».
Lei ipotizza un disegno programmato di chirurgia politico- sanitaria, una trama fra Regione e politica sanitaria locale per colpire lei e il suo operato. Da cosa deduce questo, e secondo lei quale sarebbe stato il motivo?
«Modena è una piccola città con da sempre una competizione fra troppi ospedali e soprattutto fra Università e Ospedale. Io ero allora direttore del Dipartimento di Emergenza Urgenza e del Reparto di Cardiologia del Policlinico e in un tavolo di confronto per ridurre le spese, proposi, tra l’altro, l’unione delle varie Cardiologie in unico Dipartimento: mi fu detto di no, anzi fu proprio quello il momento in cui mi scavai la fossa, era il 2011. Ora però stanno attuando il mio progetto, perché la crisi finanziaria è insostenibile. Ero una donna di grande visibilità e a capo di un reparto di eccellenza. Non ti perdonano il successo e di voler competere addirittura con Bologna».
Come ha reagito alla vicenda l’allora presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani?
«Mi ha apparentemente ignorata. E quando si arrivò, su pressione, credo, dell’Associazione Amici del Cuore (da cui poi è partita l’inchiesta), a dovermi confermare nella Direzione della Cardiologia, spinse il Direttore Generale a licenziarmi e questi si oppose. Pagai lo scandalo con la mancata conferma a Direttore della Cardiologia. Non so ancora perché, ma fu allora che cominciò il mio calvario. Certamente il tritacarne mediatico spinse tutti ad abbandonarmi, e il primo fu il Rettore di allora, che avrebbe dovuto per lo meno tutelarmi in attesa di giudizio. Era il mio legittimo capo».
Tra i suoi grandi accusatori c’era il dottor Daniele Giovanardi, fratello del senatore. Lei gli dedica il capitolo L’ingloriosa fine del “castigatore di costumi”. Perché?
«Da apparente amico (era allora il mio vice Direttore del Dipartimento di Emergenza Urgenza) diventò, perché vicino al presidente degli Amici del Cuore, uno dei miei più grandi accusatori, presente quasi quotidianamente sui giornali locali, per il suo cognome, ad accusarmi di corruzione, di “sottrarre letti agli infartuati per destinarli alle sperimentazioni”. Poi al processo ordinario l’anno scorso smentì tutto, dicendo che erano voci di corridoio».
Chi tra i suoi colleghi l’ha delusa di più e da chi invece ha ricevuto solidarietà?
«Quasi tutti, quando sei in disgrazia, ti abbandonano, ti evitano, ti ignorano. Solidarietà dai pazienti, dai miei ex collaboratori per bene che hanno pagato quanto me, dagli infermieri, dalla gente comune.
Dalle strade di Modena però le hanno gridato “troia” e “assassina”. Oggi com’è il suo rapporto con la città?
Non amo più questa città, che mi diede tanto; ora mi abbracciano e si congratulano con me per l’assoluzione, ma quando scoppiò lo scandalo mi trattarono come una appestata. Sono nata in un paesino di provincia, che invece non mi ha mai voltato le spalle».
Quando nacque la santa alleanza tra media e procure, scrive Paolo Delgado il 9 giugno 2016 su "Il Dubbio". Il caso Tortora fu anche il vero esperimento pilota di una pratica diventata poi merce comune. I giornali bombardarono quotidianamente i lettori con verbali di interrogatorio, notizie riservate e annunci di nuove presunte scoperte a carico dell'imputato. «La vera separazione delle carriere dovrebbe essere quella tra magistrati e giornalisti»: la battuta sarebbe stata folgorante e puntuale comunque. Essendo stata pronunciata da uno che se ne intende, Luciano Violante, diventa proverbiale. Il caso italiano si presenta in effetti come una variante probabilmente unica di degenerazione nel corretto rapporto tra i poteri dello Stato in una società democratica. Se praticamente tutti gli studi moderni accostano ai tre poteri codificati da Montesquieu quello dell’informazione, e non per esempio quello economico, è perché all’informazione spetta, nei sistemi democratici, il compito di sorvegliare sia sull’operato dei singoli poteri sia sulle eventuali invasioni di campo. L’Italia della seconda repubblica è stata segnata, da un lato, da un conflitto inaudito per profondità, dimensione e durata tra il potere politico e quello giudiziario, dall’altro da un massiccio schieramento combattente dell’informazione a sostegno del secondo e contro il primo. Almeno fino al 2011, cioè sino alle dimissioni dell’ultimo governo regolarmente eletto, i media hanno sorvegliato sull’operato pubblico e privato dell’esecutivo e in particolare del suo capo con una attenzione ossessiva e maniacale, non priva di aspetti propriamente persecutori. Ogni tentativo da parte dell’esecutivo o del legislativo di impicciarsi negli affari del potere giudiziario, a volte con intenti invasivi ma in altre occasioni al puro fine di colmare lo squilibrio prodottosi, è stato denunciato, stigmatizzato, ostacolato e in buona parte proprio grazie allo schieramento militante dell’informazione alla fine e debellato. I media hanno invece serrato con altrettante costanza e determinazione occhi e orecchie su qualsiasi sconfinamento del potere giudiziario dai propri limiti istituzionali e dai vincoli di un corretto operare. Il sodalizio dura da tanto che viene quasi spontaneo immaginare che sia così da sempre. Invece no. Per tutta la fase fiorente della prima Repubblica il sistema dell’informazione ha assolto, nel complesso, alla propria funzione di controllo, sorveglianza. C’è un evento preciso che segna la fine della relativa "neutralità" dell’informazione, a metà di quel triennio di solidarietà nazionale che è all’origine di quasi tutti i guasti dei decenni successivi: il sequestro di Aldo Moro. Nel corso dei 55 giorni, per la prima volta, l’informazione scelse in modo quasi unanime non di stare dalla parte dello Stato contro il partito armato, come era ovvio e sacrosanto che fosse, ma di impegnarsi nello scontro anche a costo di violare sistematicamente le proprie stesse regole. Nei giorni del sequestro, l’intero apparato mediatico, con le sole eccezioni del Manifesto, Lotta continua e Radio Radicale, negò l’autenticità delle lettere dal carcere del sequestrato. Non che non fossero di suo pugno, questo era pacifico. Solo che il poveretto era di fatto «impazzito» e nulla di quel che scriveva andava pertanto riconosciuto come realmente frutto del suo pensiero. Non meritava pertanto neppure di essere discusso o preso in considerazione. Da quel momento l’escalation fu rapidissima e impressionante. L’anno dopo, nel quadro dell’inchiesta 7 aprile, furono arrestati, come ideatori del sequestro Moro, i principali leader dell’Autonomia operaia e con loro anche il giornalista dell’Espresso Pino Nicotri, che collaborava anche con Repubblica. Quando le accuse caddero gli inquirenti si limitano a modificarle, ripetendo il gioco a più riprese. La libera stampa non trovò nulla da ridire sull’operazione e restò incrollabilmente a sostegno dell’inchiesta. Nicotri invece, a cui L’Espresso aveva garantito un’ottima difesa, fu invece scarcerato dopo tre mesi. Ad attenderlo fuori dal carcere il giornalista trovò una macchina che, senza neppure passare da casa, lo portò da Eugenio Scalfari. Il direttore lo invitò caldamente a non prendere le difese dei coimputati perché «questa storia del 7 aprile sta molto al di sopra delle nostre teste». Nicotri rifiutò e il suo rapporto con il quotidiano liberal terminò lì una volta per tutte. Un anno dopo, nel dicembre 1980, la preoccupazione di non fare il gioco dei terroristi convincerà i direttori di quasi tutti i giornali a non pubblicare l’appello la cui diffusione era il prezzo chiesto dalle Br per liberare il magistrato rapito Giovanni D’Urso. Lo salveranno i radicali, mettendo a disposizione il loro spazio elettorale in tv per leggere il documento brigatista. Sono solo esempi tra innumerevoli altri. Entrambi i passaggi fondamentali destinati a incidere per decenni sul percorso della storia italiana si compiono negli anni dell’emergenza e in nome dell’emergenza. La magistratura si incarica, con il beneplacito della politica, di supplire al vuoto della politica stessa e di gestire su ogni fronte, incluso quello legislativo, la lotta al terrorismo. L’informazione sigla un patto di ferro con la magistratura inquirente, venendo meno a tutte le sue regole essenziali pur di sostenerla in quella lotta. Una volta finita l’emergenza e uscito di scena il terrorismo, però, sarebbe stato possibile invertire la direzione e indirizzarsi verso un ritorno alla normalità, sia sul fronte dell’equilibrio istituzionale sia su quello di un’informazione meno parziale. Solo che, all’uscita dagli anni di piombo, il potere politico era ancora più debole di quanto non fosse stato negli anni 70 e quello giudiziario, sia pur scontando divisioni al proprio interno, non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla postazione conquistata. Al bivio, la flotta dell’informazione ebbe pochi dubbi e scelse di mantenere intatto lasse con i pm, in nome di una emergenza diventata infinita, nella quale cambiavano solo i connotati del pericolo mortale di turno. È probabile che quella scelta di campo definitiva sia stata fortemente condizionata dal legame che si era creato tra pm e cronisti negli anni roventi del terrorismo, quando i medesimi inquirenti si erano imposti come fonte principale, dunque dotata di un fortissimo potere di ricatto, a cui i giornalisti attingevano e quando si era stabilito un legame tra magistrati e professionisti dell’informazione molto vicino a quel che i togati amano definire sodalizio. Il percorso si delinea con chiarezza nel caso giudiziario più esemplare del decennio 80: l’arresto per camorra del popolarissimo presentatore Enzo Tortora nel 1983. I media, con rarissime eccezioni fecero a gara nell’esaltare gli inquirenti: «Scrupolosi, seri, prudenti e stimati» per Il Giorno, addirittura «esemplari per zelo e disprezzo del rischio» secondo il Corriere della Sera. Per il presentatore, invece, il massacro di immediato. Secondo Il Tempo, «rivela una calma addirittura sospetta al momento dell’arresto», per Il Messaggero «desta qualche sospetto quando fa di tutto per nascondere la sua vita privata». La star Camilla Cederna era convinta della colpevolezza soprattutto perché le trasmissioni di Tortora non le erano mai piaciute, e poi perché «se un uomo viene catturato in piena notte è segno che qualcosa di grave ha commesso». Il caso Tortora fu anche il vero esperimento pilota di una pratica diventata poi merce comune. I giornali bombardarono quotidianamente i lettori con verbali di interrogatorio, notizie riservate e annunci di nuove presunte scoperte a carico dell’imputato. Ma se l’esercito dei cronisti, da Novella 2000 al Corrierone suonava la stessa musica, tra i commentatori il quadro era più equilibrato. Cerano parecchie autorevoli penne che avanzavano dubbi sempre più forti sui metodi adottati dai pm: Enzo Biagi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Walter Vecellio. Non è una circostanza casuale: è proprio in quegli anni 80 che i cronisti iniziano a dipendere sempre più dalle notizie passate dagli stessi inquirenti, dai verbali, dagli interrogatori, dalle intercettazioni. Tra i magistrati inquirenti e i cronisti si cementa così una reciproca dipendenza che sconfina nella complicità. La crepa nella compattezza dello schieramento dell’informazione a sostegno delle toghe si chiuderà solo con tangentopoli. Non solo si ripeterà lì, in forma macroscopica, la stessa campagna di sostegno già dispiegata nel caso Tortora. I media faranno direttamente scudo alla magistratura ogni volta che, nei due anni dell’inchiesta, la politica tenterà di frenarne l’impeto. Dal decreto Conso, fatto ritirare nel marzo 1993 proprio dalla reazione violentissima (e concordata dai principali direttori) delle testate, alla levata di scudi contro il cosiddetto decreto salva-ladri varato dal governo Berlusconi nel luglio 1994, giornalisti e magistrati formarono negli anni di Mani pulite un fronte unico. Tanto da giustificare la decisione dei principali giornali di pubblicare nello stesso giorno editoriali molto simili e palesemente concordati che alludono tutti a una rivoluzione italiana fatta proprio da magistrati e giornalisti. In parte a spiegare la scelta dell’informazione valgono le considerazioni precedenti sulla dipendenza dei giornalisti dalle informazioni concesse dalle toghe, tanto più importante dato l’immenso rilievo mediatico dell’inchiesta. Ma entrarono allora in campo altre considerazioni. L’inchiesta, come ha poi confermato lo stesso Di Pietro, «colpiva duro i politici ma salvava gli imprenditori, considerandoli vittime» invece che co-responsabili a pieno titolo del sistema delle tangenti. Gli editori, che erano poi quegli stessi industriali, avevano tutto l’interesse a difendere un accordo che li metteva al riparo. I direttori e gli editorialisti, pur avendo sempre difeso il sistema dei partiti, speravano che l’inchiesta rendesse il sistema più efficiente, assolvendo le imprese dall’obbligo di trattare con la politica, e di pagarla. La rivoluzione, come è noto, ebbe esito imprevisto, ma il modello definito una volta per tutte allora, poi rinsaldato dall’ascesa di un Berlusconi che i giornalisti e i loro editori hanno sempre tollerato di mala voglia, non è più stato scalfito. Giornalisti e magistrati? Due corporazioni, una sola carriera.
«Noi avvocati di Romeo trattati da camorristi sui giornali dei pm», scrive Errico Novi il 20 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Esposto di tre legali napoletani a Cnf e Camere Penali. Le intercettazioni selvagge e la frenesia del Fatto Quotidiano. I difensori di Alfredo Romeo quell’espressione l’avevano usata: “Cavallo di Troia”. E per questo “siamo stati chiamati mafiosi”, denunciano ora in un esposto a Consiglio nazionale forense e Unione Camere penali. La nota diffusa lo scorso 5 gennaio dai legali napoletani Francesco Carotenuto, Alfredo Sorge e Giovanbattista Vignola e definita “inquietante” dal Fatto quotidiano finisce dunque all’attenzione dei massimi organismi dell’avvocatura. Chiamati dai tre professionisti a intervenire sia contro “gli attacchi” di stampa, sia per la “fuga di notizie” sull’inchiesta che vede indagati anche il ministro dello Sport Luca Lotti e il comandante dei carabinieri Tullio Del Sette. L’assistito in questione, l’imprenditore casertano che gestisce servizi e manutenzione presso “almeno 200 amministrazioni pubbliche” era stato – avevano sostenuto i tre difensori nella nota del 5 gennaio – “usato strumentalmente per indagare sulla Consip e sulle alte cariche dello Stato”. Volevano spiegare che nell’inchiesta sui servizi di pulizia all’ospedale Cardarelli di Napoli, l’uso delle intercettazioni (fatte anche attraverso i “trojan horse”), era forzato, indebito. A loro giudizio le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa che giustificavano le captazioni erano “insussistenti”. Volevano insomma dire che se i pm della Procura di Napoli non avessero ipotizzato l’accusa di concorso esterno nei confronti di Romeo, non avrebbero intanto potuto intercettare lui, e successivamente neppure gli altri soggetti coinvolti, ministro e comandante compresi. E che, in ultima analisi, il vero “cavallo di Troia” è proprio quel “doppio binario investigativo” che prevede di usare le intercettazioni contro mafiosi e terroristi, ma che, con una semplice esagerazione nell’ipotesi di accusa, consente di fatto alle Procure di intercettare chiunque. Anche “le alte cariche dello Stato”. Gli avvocati volevano dire questo. Inoppugnabile. La loro nota è stata additata come un “pizzino”. E loro dunque come la versione avvocatesca di Binu “U tratturi” Provenzano. Nella frenesia con cui nei primi giorni dell’anno il Fatto quotidiano prima e altri media poi hanno dato notizia dell’indagine su Romeo, Lotti e Del Sette, questa pazzesca accusa agli avvocati si era, per così dire, persa nel mucchio. Ora i tre professionisti dell’Ordine di Napoli la denunciano nell’esposto a Cnf e Ucpi, indirizzato anche al Consiglio dell’Ordine e alla Camera penale partenopee. Il documento, inviato due giorni fa, chiede di intervenire su due fronti. Innanzitutto sugli “attacchi” comparsi nei loro confronti sui giornali. A cominciare dall’aggettivo “inquietante” con cui il Fatto quotidiano ha definito la loro “nota tecnica” e da quel titolo sull’imprenditore che, attraverso i suoi tre legali, “lancia messaggi a Renzi e Lotti”. Interpretazione già terribile trasfigurata poi su Dagospia in un titolo peggiore: “I legali dell’imprenditore mandano un pizzino agli amici degli amici”. Sintesi, che “accusa ancora più chiaramente i sottoscritti avvocati di essere ‘ messaggeri della camorra’ usati per intimidire alte cariche dello Stato”. Inoppugnabile anche questo. L’altro fronte sul quale gli Carotenuto, Sorge e Vignola invocano l’intervento degli organismi forensi è la “fuga di notizie che riguarda questa indagine”. Perché come l’avvocato Sorge ricorda al Dubbio, “la quasi totalità degli atti finiti sui giornali non erano ancora conoscibili per noi difensori, dunque ancora segreti”. Sulla violazione, l’esposto chiede di “sollecitare indagini”. Che magari arriveranno pure. Ma considerate le pene edittali previste, faranno al massimo un po’ di solletico.
Il linciaggio di Virginia Raggi, scrive Piero Sansonetti il 28 gennaio 2017 su "Il Dubbio". L’assalto a Virginia Raggi è vicino al diapason. Nel senso che è diventato una polemica politico- giornalistica “purissima”, molto elevata, priva di argomenti concreti ma condotta con tecniche avanzate. L’assalto a Virginia Raggi è vicino al diapason. Nel senso che è diventato una polemica politico- giornalistica “purissima”, molto elevata, priva di argomenti concreti ma condotta con tecniche avanzate. Dico “purissima” proprio per questo: perché non è inquinata da fatti reali (dei quali nessuno si occupa: tipo le strade a pezzi, i tram che non funzionano, il traffico, i migranti…) ma si fonda semplicemente sulla dilatazione di una iniziativa giudiziaria. Che tristezza questo linciaggio di Virginia Raggi. Da giorni e giorni Tv e giornali dedicano pagine e pagine ( compresa la prima) a spiegarci come e perché in modo truffaldino la sindaca Raggi ha messo un suo uomo ( cioè una persona sulla quale, a occhio, riponeva la sua fiducia) a capo del dipartimento turismo; e poi altre pagine per esaltare l’azione rigorosa della magistratura, che ora vorrebbe o una confessione piena, da parte della Raggi, con accluso atto di pentimento e richiesta di perdono, oppure un processo immediato che – dicono – potrebbe portare anche ad una pena superiore ai tre anni di galera, e dunque senza condizionale. Nel secondo caso la Raggi, se condannata, sarebbe comunque rimossa immediatamente dal suo incarico sulla base della legge Severino (una legga che sospende i diritti costituzionali, precisamente l’articolo 27 sulla presunzione di innocenza, per alcune categorie di cittadini, tra le quali i sindaci e in genere i famigerati “politici”). Nel primo caso (confessione piena e pentimento, come fece anche Bucharin, nel 1930 di fronte al giudice Viscinski) la Raggi si salverebbe dalla legge dello Stato ma non dal codice di Grillo che non ammette dichiarazioni mendaci. Un bell’incastro. Siccome da un paio d’anni Roma si ritrova costretta a rinunciare ai sindaci che ha eletto, per via di iniziative giornalistico- giudiziarie, cerchiamo di capire cosa è successo. La sindaca, eletta con un plebiscito pochi mesi fa, ha nominato il fratello di Marra (quello arrestato perché accusato di corruzione) a occuparsi di turismo, e gli ha concesso, visto l’importanza del nuovo incarico, un aumento di stipendio di circa 800 euro al mese. Quando la Raggi ha nominato il fratello di Marra, il Marra principale non era ancora indiziato di nulla, e lei non è in nessun modo coinvolta con il caso di presunta corruzione di Marra. Quindi, qual è la sua colpa? Quella di essersi scelta un collaboratore. E la sua sfortuna, invece, è quella di essere resa invisa a tutti i grandi giornali, escluso “Il Fatto”, il quale in questa vicenda ha paradossalmente assunto il compito di unico tra i grandi giornali su posizioni garantiste (quant’è crudele e spiritosa, talvolta, la sorte!). C’è però qualche altra considerazione da fare su questo caso. La Raggi – come dicevamo – non è la prima sindaca a rischiare di essere liquidata su ordine della stampa. Al suo predecessore, Ignazio Marino, successe esattamente la stessa cosa. Lo accusarono di avere usato la carta di credito del Comune per andare a pranzo con la moglie. Appostamenti, interviste a vari osti, denunce “coraggiose”. Alla fine Marino fu cacciato via con ignominia. Anche perché si scoprì che talvolta parcheggiava la sua automobile, una vecchia Panda, in divieto di sosta o senza pagare il parcheggio. Si scatenò il putiferio, e persino il partito di Marino capì che quel sindaco era indifendibile. La magistratura, chiamata in causa dai giornali, e poi dai politici che si erano accodati ai giornali, fu costretta a intervenire. Recentemente Ignazio Marino è stato assolto da tutte le accuse, ma ormai non è più sindaco, la sua carriera è stata rovinata, Roma è passata prima nelle mani di un commissario e poi della sindaca Raggi. Diciamo la verità: il linciaggio di Marino e poi della Raggi è una ignominia. Peraltro realizzata da soggetti in parte diversi: i grillintravagli che guidarono la decapitazione di Marino mo’ si trovano a difendere la Raggi in contrasto aperto con i loro alleati di allora 8 e anche, un po’, con i loro principi). Come si spiega questa ignominia? Ci sono due spiegazioni possibili: una triste e una tristissima. La prima è che i giornali agiscano per proprio conto, usando in modo molto allegro il proprio potere, facendosi forti della storica alleanza col partito dei Pm, e senza uno scopo preciso tranne quello di dare soddisfazione all’irresistibile impulso al linciaggio. Questa è l’ipotesi triste. La seconda ipotesi è quella tristissima. Marino e la Raggi hanno qualcosa in comune: piacciono assai pochi ad alcune categorie di imprenditori romani, specialmente gli imprenditori edili, ma non solo loro, che da alcuni decenni (o forse secoli) hanno un enorme potere sulla città e anche sulle giunte che l’hanno governata. Questi imprenditori, da sempre, hanno anche una grande influenza sulla stampa. Magari sono loro ad aver voluto cacciare Marino, e ora la Raggi, nella speranza di ottenere un sindaco più amico? P. S. Dopodiché bisogna dire che la Raggi aiuta molto i suoi nemici. In due modi: generalmente evitando qualunque iniziativa amministrativa, nonostante l’urgenza dei problemi. Ogni tanto prendendo invece delle iniziative che lasciano, quantomeno, stupiti. Ieri ha annunciato con gran fanfara di aver deciso di esentare tutti i reduci dei campi di sterminio che risiedono a Roma dal pagamento del biglietto dell’autobus. Noi non sappiamo quanti siano. Da una stima attendibile non meno di due e non più di otto. Tutti ultranovantenni: sicuri che prendano l’autobus?
Fuga di notizie su Lotti, indagato da pm e Fatto per fuga di notizie, scrive Davide Varì il 24 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Il reato contestato al ministro è grosso modo lo stesso che la redazione del giornale di Travaglio potrebbe aver commesso nel rivelare la notizia. Il nuovo ministro dello Sport e renziano di ferro Luca Lotti sarebbe indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento. Lo ha rivelato – senza che il ministro sapesse ancora nulla, e forse a indagini ancora in corso – il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Insomma, il reato contestato al ministro è grosso modo lo stesso che la redazione del Fatto potrebbe aver commesso nel rivelare la notizia. Cosa piuttosto comune nelle redazioni italiane. Ma andiamo ai fatti. Fatti che, per forza di cose, muovono dall’istruttoria messa in piedi dai cronisti del giornale di Travaglio. Al centro dell’affaire Lotti ci sarebbe la Consip, una Spa del ministero dell’Economia che si occupa di “attività di consulenza, assistenza e supporto nell’ambito degli acquisti di beni e servizi nelle amministrazioni pubbliche”. Tradotto: per Consip passano i bandi più importanti della pubblica amministrazione. Dai servizi di pulizia degli ospedali alle penne delle cancellerie. Un giro d’affari di vari miliardi di euro. Ecco, secondo il Fatto i nomi di Lotti, del comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette e quello di Emanuele Saltalamacchia, comandante della Legione Toscana dell’Arma, sarebbero rimasti impigliati in una partita di 2,7 miliardi di euro messi a bando proprio da Consip. A tirare in ballo il ministro del “giglio magico” sarebbe stato Luigi Marroni, nominato amministratore delegato di Consip dal governo Renzi. Marroni avrebbe deciso di “cantare” dopo il blitz in Consip da parte dei carabinieri del Noe e della polizia tributaria. E a quanto pare l’ingegnere se l’è cantata subito, come direbbe il Fatto. In meno di 24 ore avrebbe infatti “rivelato” nomi e cognomi dei presunti coinvolti eccellenti. Per farlo cedere sarebbero bastate le allusioni di Henry John Woodcock (pm titolare dell’indagine e noto per l’inchiesta “Vipgate” finita con decine di assoluzioni e archiviazioni) su presunte intercettazioni e foto di pedinamenti che lo riguarderebbero. Le parole di Marroni sono immediatamente arrivate fin sui tavoli della redazione de Il Fatto che ha pubblicato tutto spiegando che il ruolo del ministro Lotti e del generale Saltalamacchia sarebbe stato quello di mettere in guardia il presidente e l’Ad di Consip dalle indagini sul bando milionario. E nel calderone politico- giudiziario è finito magicamente dentro anche Tiziano Renzi. Secondo il Fatto Renzi senior avrebbe una relazione sospetta con un certo signor Carlo Russo, titolare della società che avrebbe bonificato gli uffici di Consip – zeppi di microspie – dopo e grazie alla “presunta” soffiata di Lotti e del generale Saltalamacchia. Insomma, una situazione contorta e basata su indizi e intuizioni tutte da verificare. Da parte sua il ministro Lotti, colui che sapeva tutto dell’indagine su Consip ma che era all’oscuro di quella che lo riguardava, si è precipitato immediatamente a Roma: «Noi non scappiamo dalle indagini: siamo a totale disposizione di ogni chiarimento da parte dell’autorità giudiziaria. La verità è più forte di qualsiasi polemica mediatica e non vedo l’ora di dimostrarlo», ha dichiarato. In attesa di nuove scottanti rivelazioni del Fatto, la palla è passata nelle mani della repubblica di Roma che ha ereditato l’inchiesta per competenza territoriale.
Giornalismo d’inchiesta o giornalismo illegale? Scrive Piero Sansonetti il 13 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Lo “scoop” del Fatto Quotidiano su Luca Lotti: Il quotidiano dice vi aver visionato i verbali, eppure esiste un articolo del codice di procedura penale che proibisce la pubblicazione degli atti almeno fino alla chiusura delle indagini. Ieri il “Fatto Quotidiano” ha realizzato uno scoop. Con il quale ha aperto la prima pagina del giornale. È entrato in possesso dei verbali dell’interrogatorio del ministro Luca Lotti, ascoltato il 27 dicembre da un sostituto procuratore di Roma a proposito del cosiddetto scandalo Consip. E li ha pubblicati. Tra poche righe proviamo a riassumere lo scandalo Consip, intanto poniamo una domanda semplice semplice: cosa vuol dire “entrato in possesso? ”. I verbali della deposizione di Lotti fanno parte di un’inchiesta che è ancora nella sua fase preliminare. Come tutti gli atti di questa inchiesta, i verbali sono sottoposti al segreto d’ufficio. Il “Fatto” ci dice che ha potuto visionare i verbali, e li ha visionati abbastanza bene perché ne ha trascritti interi brani, con frasi testuali. Esiste un articolo del codice di procedura penale (il 114) che proibisce la divulgazione e la pubblicazione degli atti delle inchieste giudiziarie almeno fino alla conclusione delle indagini preliminari. E un articolo del codice penale (il 326) che punisce la violazione del segreto addirittura con il carcere da sei mesi a tre anni. Lo scoop del “Fatto” è la prova provata che questo articolo 114 è stato violato. Al momento non sappiamo da chi, in che modo, in quali circostanze, ma la violazione c’è. Il “Fatto”, nell’articolo che rende conto dello scoop, spiega che l’interrogatorio non è stato secretato, e dunque è pubblico. Non è così. L’interrogatorio non è stato secretato (e qui si parla del segreto investigativo, e cioè all’articolo 329 del codice di procedura) ma il segreto d’ufficio resta comunque, fino alla fine delle indagini preliminari. Ammenoché il Pm (ma non ci sono precedenti significativi) non decida di sospenderlo, con un decreto motivato, per particolari esigenze delle indagini. Circostanza, francamente, da escludere nel caso della deposizione di Lotti. Segreto investigativo e segreto d’ufficio non sono la stessa cosa. Pubblicare il verbale della deposizione di Lotti era e resta una violazione del diritto e della riservatezza e della Costituzione. La seconda serie di domande che vorremmo porre è questa: fare uno scoop di questo genere è giornalismo investigativo, giornalismo d’inchiesta, o è semplicemente giornalismo corsaro? E il giornalismo corsaro è la forma moderna del giornalismo d’inchiesta, o più spesso è semplicemente un metodo di lotta politica, esercitato talvolta per conto proprio talvolta per conto terzi? E se è esercitato per conto terzi, di solito, chi sono questi terzi? Prima di provare a rispondere, forniamo in sintesi la sostanza dello scoop. La procura di Napoli e la Procura di Roma stanno indagando sulla possibilità che alcuni alti ufficiali delle forze armate e alti funzionari dello Stato e lo stesso ministro Lotti abbiano commesso il reato di violazione del segreto d’ufficio, fornendo ad alcuni dirigenti della Consip la notizia che si stava indagando su di loro per il sospetto di un giro di tangenti (La Consip è una società di proprietà del ministero dell’Economia che si occupa di appalti e di spesa pubblica). Il “Fatto Quotidiano” ha ricevuto alla fine di dicembre da ignoti la noti- zia di questa indagine e ha pubblicato i nomi degli indagati. A questo punto al primo reato di fuga di notizie si è aggiunto un secondo reato identico: la fuga di notizie sulla fuga di notizie. Stavolta a mezzo stampa. Il ministro Lotti ha giurato di non sapere niente di tutta questa storia e ha chiesto di essere ascoltato. Un sostituto procuratore di Roma lo ha ascoltato e poi i verbali sono finiti sulle pagine del “Fatto” (e a questo punto i reati sono tre, ai primi due si aggiunge il reato di fuga di notizie su fuga di notizie). Nei prossimi giorni, giurateci, le “fughe” aumenteranno. Non è la prima volta che succede. E certamente non è solo “Il Fatto” ad essere strumento di questi reati (quante volte grandi giornali, come Il “Corriere della Sera” o “Repubblica” hanno pubblicato, ad esempio, fiumi di intercettazioni segrete?). E di sicuro non è l’ultima volta che di fronte all’evidenza di questi reati nessuno indaga. Eppure è certo che qualcuno ha violato il segreto. Chi? E’ così difficile scoprirlo? Va applicato o no l’articolo 326 del codice penale? A queste ultime domande la risposta è semplice: non è difficile scoprirlo ma nessuno indagherà, nessuno lo scoprirà, nessuno sarà sanzionato. Riprendiamo invece le domande di fondo che abbiamo posto un paio di capoversi più sopra e che riguardano il profilo del moderno giornalismo in Italia. Io credo che il giornalismo corsaro basato sulla violazione dei segreti – e dello Stato di diritto – da parte delle autorità che invece hanno il compito di tutelare quei segreti, non sia giornalismo moderno, tantomeno d’inchiesta né investigativo. Sia semplice sottomissione del giornalismo alle Procure, talvolta per guadagnarne i favori, talvolta per interessi commerciali (vendere qualche copia di più). E che il prezzo di questo tipo di giornalismo (e anche di questo modo di svolgere le inchieste con un occhio sempre fisso allo spettacolo e all’informazione) crei dei danni gravissimi al Diritto. Può darsi che io sbagli, ma francamente non riesco a capire dove. Nessuno è mai riuscito a spiegarmi perché violare la legalità con lo scopo di danneggiare degli imputati, e violare quindi i diritti degli imputati, sia un atto di libertà e di democrazia. E non mi pare che da parte del giornalismo italiano ci sia la volontà di discutere queste cose. P. S. L’altro giorno è morta Clare Hollingworth. Aveva 105 anni. Il 29 agosto del 1939 si appostò al confine tra Polonia e Germania e si accorse che i carrarmati tedeschi stavano per invadere e dare il via alla seconda guerra mondiale. Diede la notizia in esclusiva al suo giornale, il Daily Telegraph. Ecco, quello era uno scoop, credo. Senza veline, senza verbali copiati. Voi dite che semplicemente io sono un nostalgico? Forse avete ragione.
Chi calunnia ha sempre ragione, scrive Piero Sansonetti il 14 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Magari vi annoio un po’, però vorrei trascrivere tre o quattro titoloni che qualche mese fa campeggiavano a tutta pagina, in prima, sui principali giornali italiani. Eccoli qui. «La ministra garantiva gli affari del suo uomo». Titolo del Giornale, gigantesco e per di più in caratteri tutti maiuscoli. Chi calunnia un ministro comunque ha ragione…Poi: «Scandalo petroli: via la Guidi per la norma ad fidanzatum», sempre in prima sotto la testata, “Il Fatto Quotidiano”. Simile il titolo di “Libero” e sempre a tutta prima pagina: «Il regalo del governo al fidanzato del ministro». E ancora: «Petrolio e appalti, Guidi si dimette tradita dalle telefonate al fidanzato», questa è “Repubblica”. Il “Corriere” e “La Stampa” molto più sobri, ma comunque col titolo a tutta pagina. L’inchiesta nella quale fu coinvolta la ex ministra era la cosiddetta “Tempa Rossa”. Fu indagato il fidanzato della Guidi, non lei. Ma i magistrati – non vedo chi altro – passarono le carte ai giornali, con tutte le intercettazioni, che non avevano in se nessun elemento contro la Guidi, ma mostravano un quadro dei rapporti tra la ministra e il fidanzato, tesi come spesso sono i rapporti tra fidanzati. Fece epoca la frase, ripresa e amplificata da tutti i giornali, attribuita alla stessa Guidi: “Tu mi tratti come una sguattera guatemalteca”. La Guidi fu costretta alle dimissioni. Non la difese nessuno, nemmeno nel suo partito. La sua carriera politica finì lì. Ora sapete che non solo la Guidi, ma anche il suo fidanzato, sono usciti completamente dalla vicenda. Il Pm ha chiesto l’archiviazione perché non ha trovato traccia di reati: l’uomo descritto come un lestofante (il fidanzato) era una brava persona, la Guidi una bravissima persona e forse era anche brava a fare la ministra. In tutta la vicenda, di reati ce n’era uno solo: la violazione del segreto d’ufficio commessa dai magistrati che passarono le carte ai giornalisti e dai giornalisti che le pubblicarono. Il codice, per questo reato, prevede da sei mesi a tre anni. In questi giorni alcuni giornali hanno pubblicato la notizia dell’archiviazione, poche righe. Nessuno scandalo. Se non fosse stato per un articolo di una certa visibilità pubblicato ieri dal “Corriere della Sera”, la notizia sarebbe del tutto sparita. E comunque, se andate per strada e chiudete a qualcuno della Guidi, ci sono 95 probabilità per cento che non sappia nulla dell’archiviazione e sappia invece della campagna che fu condotta contro di lei. E che alla vostra domanda, risponda: «Una politicante che usava il ministero per far fare affari al suo fidanzato…». I giornali invece credo che non abbiano mai riportato neppure una riga sull’archiviazione delle imputazioni a carico di un certo dottor Incalza, ex altissimo dirigente del ministero delle infrastrutture, e di un certo signor Perotti, imprenditore. Erano stati accusati di varie malversazioni, e i giornali chiesero perciò le dimissioni del ministro Lupi, che non aveva vigilato su Incalza, anche perché pare che Perotti era un amico di famiglia del ministro e pare che avesse regalato un orologio al figlio di Lupi (che a sua volta fu messo in croce). Lupi fu costretto a dimettersi. Perotti e Incalza sono stati del tutto scagionati. Silenzio. Si era dimessa da ministro qualche mese prima, ai tempi del governo Letta, Nunzia De Girolamo. Grillini e giornali fecero i diavoli a quattro per mandarla a casa con ignominia, perché aveva ricevuto un avviso di garanzia. Colpevole! Colpevole! Era ministra dell’agricoltura e la sua carriera era in grande ascesa. La carriera ha preso la discesa. L’archiviazione e il suo pieno proscioglimento sono arrivati l’altro ieri. Nel disinteresse generale. Tre ministri maciullati con le calunnie a voi sembrano una piccola cosa? Non vi pare che si sia ormai consolidato un metodo che di fatto produce la totale delegittimazione della politica, e concede ai Pm e ai giornali il diritto di “asfaltare” chi vogliono (o in malafede o, più spesso, in buonafede) senza nessuna possibilità di difesa per il malcapitato? E dal punto di vista della correttezza dell’informazione, qualcuno saprebbe spiegarmi perché è giornalismo “coraggioso e a schiena dritta” quello che sommerge di contumelie e di pettegolezzi volgari la ministra Guidi, e ritiene di star compiendo la altissima missione di controllare il potere politico; e invece non è giornalismo affatto ( nel senso che non se ne vede l’ombra) quello che, accertata la “bufala”, non solo si applica per riabilitare la vittima, ma chiede conto a chi l’ha linciata dell’ingiusto linciaggio? Ve lo dico io perché: perché i giornali, per comportarsi così, dovrebbero accusare se stessi. E non possono farlo. Trovano molto più comodo fingere che il “Palazzo” da controllare sia quello della Guidi o di Lupi o della de Girolamo, e in questo modo può accucciarsi con la coscienza tranquilla ai piedi dei Pm e del giornalismo forcaiolo. Cioè del Potere, del potere vero.
STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.
I fatti non contano più: è l’epoca della “post verità”. L’Oxford Dictionary ha eletto parola dell’anno “post truth”. La gente è più influenzabile dalle emozioni che dalla realtà. Anche la battaglia tra Trump e Clinton ha vissuto di «post truth», scrive il 17/11/2016 Gianni Riotta su “La Stampa”. Una delle più struggenti storie della storica campagna elettorale americana del 2016 resta la profezia del musicista Kurt Cobain, nel 1993, un anno prima di suicidarsi: «Alla fine la mia generazione sorprenderà tutti. Sappiamo che i due partiti giocano insieme al centro e, quando matureremo, eleggeremo finalmente un uomo libero. Non sarei per nulla sorpreso se fosse un uomo d’affari, incorruttibile, che si dia davvero da fare per la gente. Un tipo alla Donald Trump, e non datemi del pazzo…». Peccato che la citazione del leader dei Nirvana, che ha fatto il giro dei social media, Twitter, Facebook, Google, sia inventata, forse in Russia, forse in America, da trolls che inquinano di menzogne i paesi democratici. Bene ha fatto dunque ieri l’Oxford Dictionary a dichiarare «Parola dell’anno 2016», «Post truth» la post verità, diffidenza per le opinioni diffuse e credulità per bugie condivise da siti a noi cari. La battaglia Trump-Clinton ha vissuto di post verità, dall’attore Denzel Washington paladino di Trump, alla bambina di 12 anni che accusa il neo presidente di stupro. Falsità che milioni di cittadini amano tuttavia credere. Aristotele aveva legato «verità» e «realtà», facendo dire secoli dopo al logico Alfred Tarski che «La frase “La neve è bianca” è vera se, e solo se, la neve è bianca». Questa è nozione di verità che impariamo da bambini, ma la crisi dell’autorità nel secondo Novecento, mettendo in discussione politica, famiglia, tradizioni, cultura, religione, ha frantumato la fede nel nesso Verità-Realtà, dapprima con un salutare moto critico, poi sprofondando nel nichilismo. Il filosofo Carlo Sini sintetizza la sindrome con una battuta macabra «La verità è la tomba dei filosofi…la Signora è decisamente invecchiata». Quando l’insegnamento del filosofo Derrida si diffonde ovunque, la «signora Verità» si consuma in bolsa «narrativa», che ciascuno piega a suo gusto. Ma i filosofi, non è purtroppo la prima volta, non avevano previsto che quando la mattanza della verità lascia le sofisticate torri accademiche per investire il web, le «menzogne», o false notizie, avrebbero impestato, come un’epidemia, il dibattito. Già nel 2014 il World Economic Forum denunciava i falsi online «uno dei pericoli del nostro tempo», studiosi come Farida Vis e Walter Quattrociocchi catalogavano casi gravi di menzogne diventate «vere», ma intanto il virus della bugia veniva militarizzato da stati e nuclei terroristici. Oggi il presidente cinese Xi Jinping, in un messaggio alla Conferenza internazionale sul web di Wuzhen, ricorda la necessità del controllo statale sulla rete, contro i falsi: medicina drastica da società autoritarie, non da democrazia. Così da Mosca Putin scatena seminatori di zizzania digitale, da un laboratorio di San Pietroburgo, 50 di via Savushkina, e giovani macedoni spacciano falsi online in America, mano d’opera a basso costo. Secondo le rivelazioni su «La Stampa» di ieri, a firma Jacopo Iacoboni, metodi di post verità politica sarebbero in uso anche tra i 5 Stelle, e del resto al fondatore Casaleggio veniva fatto dire «Ciò che è virale è vero», massima forse apocrifa ma calzante. Ciascuno di noi crede ai propri «fatti», su vaccini, calcio, clima, politica, e l’algoritmo dei social ci respinge tra i nostri simili. Ora il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, cerca di difendersi assicurando che «il 99% di quello che gira da noi è vero, il falso solo l’1%» e dichiara di non volersi fare lui «arbitro del vero». Purtroppo l’ex collaboratore Garcia Martinez lo smentisce dicendo che i funzionari provano a vendere pubblicità politica agendo giusto da «arbitri del vero». Quel 99 a 1 che a Zuckerberg sembra innocuo è letale, perché non sappiamo «dove» si nasconda, e quindi finiamo con il dubitare dell’insieme. «Ex falso sequitur quodlibet», dal falso deriva ogni cosa in modo indifferente: la massima medievale anticipa l’era della post verità, un solo 1% di falso basta a rendere incredibile il 99% di vero.
Grillo: "Vero o falso? Un tribunale del popolo per giudicare Tg e giornali". Il leader del Movimento 5 Stelle auspica una giuria scelta a sorte che decida se le notizie date sono false o vere. I colpevoli "a capo chino", scrive il 3 gennaio 2017 Panorama. Altro che post-verità. Non c'è pace nemmeno per la verità. Perlomeno quella nella quale dovremmo essere "giustificati" a credere. Ovviamente non si tratta, del tormento filosofico. È Beppe Grillo che tuona e vorrebbe un tribunale del popolo per smascherare i giornalisti che a suo dire scrivono e dicono frottole. Nei giorni scorsi aveva tuonato contro l'idea di autorità terze cui appellarsi per provare, a pubblicazione avvenuta, che una certa notizia o ricostruzione di evento fossero palesemente false, come aveva proposto il presidente dell'Antitrust italiana, Giovanni Pitruzzella. Martedì invece è passato all'attacco alzo zero contro i suoi principali nemici, i giornalisti. Scrive Grillo sul suo blog - in un post dal titolo decisamente facile da capire: "Una giuria popolare per le balle dei media": "I giornali e i tg sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene. Sono le loro notizie che devono essere controllate. Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa." Ovviamente sono arrivate numerose risposte a questa singolare proposta del comico/politico.
Enrico Mentana querela Beppe Grillo: "Il mio Tg non fabbrica notizie false. Ne risponderà in sede civile e penale".
L'Ordine nazionale dei giornalisti ha scritto che, "Beppe Grillo dalle colonne del suo blog ha sferrato l'ennesimo attacco alla libertà di stampa avanzando una proposta grave e sconcertante". L'Ordine ricorda che "esiste già un ordinamento che tutela chi si ritiene danneggiato dagli organi di informazione". Infatti, dice ancora l'OdG che "giace in quarta lettura dal 23 giugno 2015 in Senato la nuova legge sulla diffamazione. Sarebbe molto più costruttivo se Beppe Grillo esortasse i propri parlamentari a far sì che questa legge venisse approvata in tempi brevi abrogando il carcere per i giornalisti e ponendo un freno alle cosiddette querele temerarie. L'unico Tribunale riconosciuto dall'OdG è quello dell'ordinamento giudiziario ferma restando la singola responsabilità dei giornalisti che non rispettano le regole deontologiche e che vengono sanzionati dai Consigli di Disciplina. Tali strumenti sono di per sé idonei ad assicurare il diritto dei cittadini a essere informati correttamente". L'Ordine invita il leader dell'M5S "a riflettere sul clima e sulle conseguenze che le sue parole possono determinare e sottolinea l'invito rivolto agli italiani nel discorso di fine anno dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Secondo il Capo dello Stato l'odio come strumento di lotta politica è nemico della convivenza e crea «una società divisa, rissosa e in preda al risentimento» che «smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami, minaccia la sua stessa sopravvivenza»".
Filippo Facci il 5 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”: le post querele. Fate disinformazione; vi querelo; no, ma parlavamo degli altri; non vi querelo più. Alzi la mano chi non ha trovato imbarazzante tutto il teatrino tra Grillo e Mentana: il primo che spara le solite cazzate sui giornalisti e usa come sfondo un collage di testate rubato a tv.blog, il secondo che allora fa un casino in diretta perché nel collage c' è anche lui (La7) e annuncia querela; il primo che allora fa una rettifica penosa e dice che Mentana (solo lui) è diverso e fa informazione rispettosa della verità, il secondo che allora ritira la querela e scrive un papiro su Facebook perché si è accorto che intanto gli webeti grillini lo stanno infamando lo stesso. Siamo al post-nulla a somma zero, ne sentivamo tutti un drammatico bisogno: Mentana ha la sindrome da primo della classe e lo sapevamo, ma Grillo ha la dignità di un coniglio e state certi che se a querelarlo fossero stati in due anche le rettifiche sarebbero state due. Grillo ha paura delle querele? Probabile: perché è tirchio e perché ha già beccato delle condanne. Mentana teme di perdere pubblico grillino? Improbabile: chi disprezza compra, e comunque il suo tg resta il migliore. Per i feticisti: nel collage di testate utilizzato da Grillo manca Il Messaggero (un caso) e il Fatto Quotidiano (meno un caso). Però tra i disinformatori compare TuttoSport: serve una giuria popolare per la Juve.
Colleghi giornalisti, siamo vittime o carnefici? Scrive Tiziana Maiolo il 5 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Ora non facciamo le verginelle, noi giornalisti, per favore. Gestiamo un potere di vita e di morte sui cittadini, secondo solo a quello dei magistrati. I quali peraltro sono più che soddisfatti quando hanno la nostra complicità ma anche il nostro incitamento, come sta accadendo in questi giorni con l’istigazione palese a che qualcuno si sbrighi a inviare un’informazione di garanzia al sindaco di Roma Virginia Raggi. Non possiamo dirci vittime, neppure quando capita, come in questi giorni, che un importante leader politico quale Beppe Grillo, ci accusi di essere manipolatori e dispensatori di notizie false. Non è forse vero? Non interessa il fatto che lui stesso con questa dichiarazione cerchi a sua volta di manipolare l’opinione pubblica (e ci riuscirà, perché la nostra categoria non è molto amata), quel che conta è avere il coraggio di superare la debolezza del corporativismo per ritrovare la forza di guardarci allo specchio e fronteggiare ad armi pari l’interlocutore politico. Né vittime né carnefici. Cerchiamo prima di tutto di non trasformare in vittima il “carnefice” Grillo, come fu fatto con Berlusconi per il reato di “editto”, mentre fu salvato Renzi, che pure cacciò dalla direzione del Tg3 una brava giornalista come Bianca Berlinguer, la “strega” che non gli baciava l’anello. Cerchiamo di guardare con occhio autocritico tutti i nostri editti e le nostre manipolazioni. Piero Sansonetti ha spiegato molto bene quel che succedeva nelle redazioni dei tre principali quotidiani italiani e in quello che era organo del Pci nei primi anni novanta quando, in piena Tangentopoli, gli imprenditori (compresi quelli che erano anche editori) cercavano in ogni modo di evitare la galera e i quattro direttori concordavano l’uscita collettiva del giorno dopo. E intanto, mentre Romiti e De Benedetti salvavano i polsi dalla seccatura delle manette, cadeva la Prima Repubblica. Siamo così sicuri che a vent’anni di distanza, noi siamo diventati più virtuosi? Sappiamo bene che quando inizia una campagna stampa nei confronti di qualcuno, quel qualcuno finirà, volente o nolente, per doversi dimettere. L’abbiamo visto accadere a Roma nei confronti dell’ex sindaco Marino, crocifisso per una questione di scontrini, e contro l’ex ministro Lupi (mai colpito da alcun provvedimento giudiziario) per un orologio regalato al figlio da un amico di famiglia. Questo significa una cosa sola: non solo che la stampa italiana è libera, ma anche che è in grado di modificare la realtà, quindi che è potente. E allora non si può prima dire che occorre colpire le bufale dei social (la violenza verbale sì, invece) e poi offendersi se Grillo ci dice che anche noi ogni tanto le spariamo grosse, e che vuol fare il “tribunale del popolo” neanche fosse il capo delle Brigate rosse. Impariamo prima noi a rispettare gli altri, tutti. Beppe Giulietti, presidente della Federazione della stampa, nell’intervista al nostro giornale invita Grillo a sollecitare i suoi parlamentari perché facciano approvare due proposte di legge giacenti in Parlamento: una contro il carcere per i giornalisti, l’altra contro la “querela temeraria”, cioè pretestuosa e finalizzata a tappare la bocca al giornalista scomodo. Bene, questa seconda è argomento molto scivoloso e Giulietti, che è stato in Parlamento quindi è anche un politico di professione, sa bene che quando un quotidiano (o anche un singolo giornalista) ti prende di mira, ne puoi uscire solo attraverso la querela, l’unica forma di autodifesa possibile. Enrico Mentana, direttore del TgLa7, con un’accorata pubblica dichiarazione di difesa della propria correttezza professionale, ha annunciato di querelarsi nei confronti di Beppe Grillo. Poi pare abbia cambiato idea. Ma è proprio sicuro di essere lui, in rappresentanza della categoria, la vera vittima e non, talvolta il “carnefice”?
Siti responsabili per commenti degli utenti, lo dice la Cassazione, scrive il 3 gennaio 2017 "Adnkronos.com". Chi gestisce un sito web è responsabile dei commenti di utenti e lettori, anche quelli che postano in forma anonima. Lo stabilisce la sentenza 54946 della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso presentato dal gestore del sito agenziacalcio.it. Sulla community del sito, un utente ha pubblicato un commento relativo al presidente della Figc, Carlo Tavecchio: il numero 1 della federcalcio è stato definito nella circostanza “emerito farabutto” e “pregiudicato doc”. Al commento, come si legge nella sentenza, “l’utente allegava il certificato penale”. Il gestore del sito è assolto in primo grado e condannato in secondo. La Cassazione ha confermato la sentenza che prevede il pagamento di 60mila euro al presidente della Figc, per “concorso in diffamazione”.
Altro che giuria popolare M5S. La Cassazione inguaia i siti. Nubi sempre più nere si affollano sulla libertà di espressione nel nostro Paese, scrive Daniela Missaglia, Venerdì 06/01/2017, su "Il Giornale". Nubi sempre più nere si affollano sulla libertà di espressione nel nostro Paese. Il 2016 si chiude infatti con una discutibilissima sentenza della Corte di Cassazione che, contravvenendo ogni principio di logica e diritto, persino quelli stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, introduce una responsabilità in concorso del gestore di siti internet nei quali un forumer non anonimo iscriva commenti ritenuti diffamatori. Questo è quello che la Suprema Corte ci sta dicendo: se sul sito di questo giornale o in qualsiasi altro sito aperto ai commenti, un lettore (pur identificato con nome e cognome e regolare registrazione) dovesse esprimere feroci censure ad una notizia di cronaca politica, dipingendo come un farabutto questo o quell'onorevole, la responsabilità penale non sarebbe solo quella personale del commentatore fumino, ma anche del gestore o amministratore del sito che si buscherebbe un bel concorso in diffamazione. È bastato che un lettore chiamasse «farabutto emerito» e «pregiudicato doc» il presidente della Figc ad oscurare il sito su cui il post incriminato era stato vergato elettronicamente, con avvio dell'azione penale verso i gestori (e 60mila euro di condanna risarcitoria). Fermo il rispetto a Giancarlo Tavecchio ed al suo sacrosanto diritto di difendere la propria onorabilità nei confronti di chi lo diffami, con questa logica perversa (non a caso esclusa dal Tribunale di prime cure) stiamo condannando alla chiusura forum, chat pubbliche, piattaforme e siti che ammettono il coinvolgimento degli utenti attraverso i commenti. Pensare che la Corte europea dei diritti dell'uomo aveva bacchettato, nel febbraio 2016, gli Stati dell'Unione che condannavano i gestori dei siti per effetto di commenti di utenti anonimi o non identificabili: questo perché, spiegavano i magistrati di Strasburgo, così si finiva per ledere la libertà d'espressione che è un diritto fondamentale dell'umanità. Chi, dopo la sentenza in commento del supremo organo giurisdizionale nostrano, avrà il coraggio di gestire un sito e ammettere i commenti dei lettori? Si fa un gran parlare di post-verità, di Beppe Grillo e giurie popolari per smascherare i media, dell'ira del divin Mentana contro il leader pentastellato e poi questa sentenza scivola in un trafiletto delle pagine interne. A questa stregua Laura Boldrini o Matteo Renzi potrebbero, da soli, far chiudere l'80% dei siti italiani ma bisognerebbe costruire un super-carcere apposito per ospitare tutti gli amministratori. Per non parlare di quanto è stato scritto negli anni su Silvio Berlusconi e qualsiasi altro personaggio della politica, sport, finanza, tv o carta stampata che, per la sua visibilità e notorietà, automaticamente ha risentito di critiche, anche ben oltre il lecito. Siamo ad un bivio: la Cassazione dipinge lo scenario futuristico di un mondo di repressione verbale, la Corte europea fornisce invece una visione più garantista e rassicurante, identificando come personale la responsabilità penale, a tutela di un diritto fondamentale, il diritto alla libertà d'espressione. Questa volta mi sento di propendere per la visione europea, una volta tanto più avveduta dei manicheismi patri.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto in questi giorni si è discusso del ruolo di Facebook e di Twitter nella campagna elettorale che ha visto trionfare il candidato repubblicano Donald Trump, accusato di aver adottato una strategia in rete particolarmente aggressiva. Sul banco degli imputati, in queste ore, soprattutto, gli hoax, le bufale, e le notizie false, messe in circolazione ad arte per influenzare l’opinione pubblica e orientare il dibattito. Un esempio di questa strategia manipolatoria— che i colossi della Silicon Valley stanno tentando di contrastare — è un post diffuso nei giorni scorsi che ha per oggetto Denzel Washington. Come riferisce la Bbc, l’attore americano è stato trasformato, suo malgrado, in un supporter del presidente eletto Trump. «Lo ringrazio, abbiamo bisogno di più posti di lavoro. E lui è uno che assunto più impiegati di chiunque altro nel mondo», sono le parole attribuite al protagonista di «Philadelphia», di «Malcom X» e di tanti altri film, bandiera dell’America liberale e democratica. A diffondere su Facebook questa notizia falsa è stata American news, sito specializzato in propaganda di destra che ha più di 5 milioni di fan su Facebook. Impossibile capire chi ci sia dietro, in quanto gli articoli non sono firmati e non esiste un colophon della redazione. Ma la tecnica è quella usata da molti movimenti populisti in tutto il mondo (Movimento Cinque Stelle compreso): si tratta di clickbaiting (condivisione di contenuti spazzatura con espressioni del tipo: «non avete idea di quello che ha detto tizio e caio» per invogliare a cliccare il link) mischiato a temi che generalmente colpiscono l’opinione pubblica e gli spettatori (le tasse, i soldi, i divi di Hollywood, le soubrette, ecc). Il risultato è propaganda veicolata sulle piattaforme più utilizzate (Facebook conta 1,7 miliardi di utenti) a costo praticamente zero per chi la produce. Tornando al caso specifico, Denzel Washington ha negato categoricamente di aver in alcun modo espresso il proprio sostegno al presidente eletto. «Si tratta di una notizia totalmente falsa», ha spiegato l’agente di Washington alla Bbc. Ma American News è andata avanti imperterrita. «Mentre il resto della Hollywood liberale demonizza Trump, Denzel Washington ha parlato in favore del presidente eletto. Ecco come», hanno ribadito su Facebook riproponendo il link all’articolo. Il post è stato successivamente rimosso. Ma prima di finire nel cestino della spazzatura di Menlo Park, come dimostra lo screenshot della Bbc, è stato condiviso ben 22 mila volte. In tanti, dunque, hanno creduto alla bufala, come dimostrano i commenti postati sotto l’articolo. «È sempre stato il mio attore preferito, ora lo è ancora di più grazie Denzel!», ha scritto un utente. «Dobbiamo rimanere uniti, le sue parole sono un bell’esempio», ha sottolineato qualcun altro. E così via. Alla faccia della verità.
Denzel Washington contro i giornalisti, attacca l’informazione di massa moderna. What is the long-term effect of too much information? One of the effects is the need to be first, not even to be true anymore. So what a responsibility you all [in the media] have… to tell the truth, not just to be first, but to tell the truth. We live in a society now where it’s just first. “Who cares?” [the media seems to say,] “Get it out there. We don’t care who it hurts. We don’t care who we destroy. We don’t care if it’s true. Just say it, sell it.”
Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.
Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni!
I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
Vietato criticare Woodcock: il pm cita in giudizio la Chirico. La giornalista ed editorialista del «Giornale» Annalisa Chirico (nella foto), che per un'intervista e un libro sull'abuso della custodia cautelare in Italia («Condannati preventivi», ed. Rubbettino) finisce davanti al giudice, scrive "Il Giornale" Venerdì 6/01/2017. Blin-blin? Suonano alla porta, è l'appuntato dei Carabinieri che deve procedere col «rito della consegna» (della citazione in giudizio). Il pericoloso soggetto destinatario del provvedimento è la giornalista ed editorialista del «Giornale» Annalisa Chirico (nella foto), che per un'intervista e un libro sull'abuso della custodia cautelare in Italia («Condannati preventivi», ed. Rubbettino) finisce davanti al giudice. Il presunto reato? Aver procurato «una grande sofferenza morale» e «gravissime ricadute nella sfera personale, famigliare e professionale», quantificabili in 180mila euro di risarcimento, al pm della Procura di Napoli, Henry John Woodcock, titolare di celeberrime inchieste sul malaffare politico, non tutte impeccabili. Il pamphlet della Chirico si permette di criticare un'inchiesta di Woodcock, il risultato è che il libro «finisce all'indice in tre fascicoli: Napoli, Roma (giudizio civile) e Lamezia Terme (penale per diffamazione). Bingo» racconta la giornalista sul «Foglio» ricostruendo il caso. La libertà di stampa in Italia c'è, «ma ci sono tante cose di cui non si può parlare, se sfidi il divieto diventi un bersaglio». La magistratura italiana è una di queste, certe Procure più suscettibili di altre. Il rischio è l'autocensura, per timore di rappresaglie. Come capita alla Chirico dovendo scrivere del carcere per sbaglio di Vittorio Emanuele di Savoia, inchiesta Woodcock. Ma poi: «Chissenefrega, scrivo, sono libera».
Giornalisti in carcere: i precedenti. Da Guareschi a Surace, da Sparagno a Venezia, passando per Guarino e per Jannuzzi (che finì solo ai domiciliari). Ecco i precedenti, scrive Luca Romano, Mercoledì 26/09/2012, su "Il Giornale". Di casi di giornalisti in carcere per diffamazione ce ne sono stati davvero pochi. C'è quello famoso di Giovannino Guareschi, che scontò 409 giorni dietro le sbarre dopo essere stato condannato nel 1954 a un anno di carcere per aver diffamato a mezzo stampa sul settimanale Candido Alcide De Gasperi (a ciò si aggiunsero gli otto mesi che il tribunale gli aveva comminato nel 1951, sempre per lo stesso reato, per aver pubblicato sul Candido, di cui era direttore responsabile, una vignetta di Carlo Manzoni che prendeva bonariamente in giro il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi). Dopo Guareschi, c'è stato il caso di Lino Jannuzzi che però finì agli arresti domiciliari prima di ricevere la grazia dal capo dello Stato. Tra gli altri colleghi dietro le sbarre ci sono poi Stefano Surace (direttore della rivista "Le Ore" e di "Az", inviato speciale di "Abc), che finì dentro all'età di 70 anni dopo aver subito due condanne inflitte in contumacia perché lui si trovava in Francia, e Gianluigi Guarino (direttore del Corriere di Caserta) arrestato per un cumulo di pene riguardanti l'omesso controllo di alcuni articoli ritenuti diffamatori e condannato alla pena complessiva di tre anni e un mese di reclusione (pena ridotta a un anno e due mesi). Infine ci sono i casi di Vincenzo Sparagna e Calogero Venezia della rivista satirica del Male e condannati e finiti in carcere per delle vignette.
Una storia tipicamente italiana, scrive Giovanni Cervero l'8 dicembre 2017 su "Positanonews.it". E’ un dossier di una ventina di pagine che per ragioni editorialiste ne pubblichiamo alcuni stralci (ma è possibile scaricare l’intero dossier). Si tratta della situazione di un rinomato giornalista 84enne il quale, dopo oltre mezzo secolo (58 anni) di attività giornalistica particolarmente intensa, di notevole risonanza anche internazionale e socialmente meritoria, non di rado determinante per riforme fondamentali in vari settori… è semplicemente privo di pensione !!! Il che costituisce una vergogna per l’Italia e le sue istituzioni anche a livello internazionale, in particolare per l’Ordine italiano dei giornalisti in quanto causa diretta di questo obbrobrio per i comportamenti a suo tempo di certi suoi spregevoli dirigenti; ma che si estende anche alle altre istituzioni riguardanti il giornalismo (Federazione Nazionale della Stampa Italiana FNSI, Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani INPGI, Federazione Italiana editori di giornali FIEG) non essendo ancora intervenuti per sanare questa ignominia che sta suscitando vivo sdegno nei più diversi ambienti anche internazionali.
Ma com’è potuto succedere? Ma vediamo in dettaglio come tutto ciò è potuto avvenire. L’attività giornalistica di Stefano Surace è stata costantemente caratterizzata da inchieste approfondite su gravi problemi di interesse pubblico. Attività che consisteva soprattutto in campagne su grossi scandali politici, economici, finanziari, immobiliari, rackets della droga, del gioco d’azzardo, dell’usura, scandalo dei petroli, abusi psichiatrici, problema carceri, racket di editori e distributori che diffondevano riviste pornografiche nelle edicole alla portata dei minori, comportamenti devianti di personaggi con incarichi pubblici, elettivi e no. Si trattava dunque di attività ben positive socialmente, in linea con la funzione del giornalismo in un paese democratico, largamente apprezzate e quotate professionalmente, tanto più che non di rado furono determinanti per riforme fondamentali in vari settori, come appunto carceri e settore psichiatrico. Queste attività le svolgeva in particolare come:
a) Inviato speciale e poi direttore di ABC, il settimanale celebre all’epoca per le sue inchieste politico-sociali, fondato da Gaetano Baldacci.
b) Direttore del settimanale di attualità AZ specializzato anch’esso in inchieste, nel quale aveva come redattori fra gli altri Piero Ardenti, Ugo Mannoni, Aldo Nobile, Nino Puleio, Gianfranco Pintore, Maria Tedeschi.
c) Direttore delle agenzie giornalistiche L’inchiesta e Giornalisti Associati, anch’esse specializzate in inchieste.
d) Direttore di Le Ore, settimanale di varietà anche blandamente erotico, a partire dal quale Surace si opponeva con varie iniziative a coloro che diffondevano invece pornografia nelle edicole alla portata dei minori.
e) Collaboratore di vari settimanali italiani ed esteri, fra cui i tedeschi Quick e Neue Revue su argomenti riguardanti l’Italia ma di forte interesse internazionale.
La radiazione illecita. Questa sua attività contrastava naturalmente con gli interessi poco confessabili di vari ambienti, che tentavano di bloccarla. Sennonché il 28 maggio 1975 avvenne che certi personaggi che erano nel frattempo subentrati come dirigenti dell’Ordine, in particolare certo Saverio Barbati come presidente, ebbero a sospenderlo e poi radiarlo illegittimamente dall’albo senza dirne le ragioni (era difficile trovarne…) bloccando così di colpo l’intera sua attività giornalistica. Poiché fra l’altro non poteva conservare la direzione responsabile di periodici, decadde di colpo da direttore dei suddetti ABC, AZ, Le Ore, L’Inchiesta, Giornalisti Associati… né poteva essere assunto in Italia con un qualsiasi ruolo giornalistico da organi di stampa. Di conseguenza veniva anche privato dell’assistenza dell’istituto di previdenza per i giornalisti pubblicisti (dapprima l’INPS e poi l’INPGI) e quindi di usufruire a tempo debito di una pensione, non potendosi versare i contributi previdenziali. Per poter dunque continuare la sua attività giornalistica dovette spostarla all’estero, in Francia, dove però non poteva effettuarla per giornali francesi non conoscendo all’epoca sufficientemente la lingua. Sicché decise di continuare ad occuparsi di argomenti italiani dalla Francia, utilizzando gli estesi contatti professionali e le valide fonti di cui disponeva in Italia.
A Parigi. Fondò quindi a Parigi due agenzie, ABCnews Europa (che si ispirava alla linea di inchieste del settimanale ABC nel quale ero stato direttore) e Infos-Inter che si occupava di argomenti più generali. Poté così far partire da Parigi una serie di inchieste che ebbero larga risonanza sia in Italia che all’estero. Fra quelle che ebbero maggiori echi ci limitiamo a citare quella sul cosiddetto scandalo dei petroli, a seguito della quale vennero incriminati dei magistrati di Monza e condannati il capo della Guardia di finanza generale Raffaele Giudice, il suo braccio destro Donato Lo Prete e una serie di personaggi “eccellenti”. Oppure l’inchiesta sulla loggia P2, che spinse il procuratore della repubblica di Milano Mauro Gresti ad ordinare nel marzo 1981 la perquisizione di una villa Wanda nei pressi di Arezzo, residenza di Licio Gelli, dove furono trovati fra l’altro gli elenchi. Ci limitiamo a citare le interviste fattegli da Giulia Borgese e Glauco Licata del Corriere della Sera; da Davide Laiolo e Guido Cappato di Giorni-Vie Nuove (la pubblicarono su 9 pagine); da Mino Pecorelli direttore di OP (pubblicata su 6 pagine); da Vincenzo Sparagna direttore de “il Male”, combattivo settimanale satirico assai seguito all’epoca (pubblicò un fumetto su Surace in due puntate su diverse pagine). In Italia una giuria di giornalisti, presieduta dal noto critico Mario Tilgher, riunita al Circolo della Stampa di Napoli assegnò a un libro di Surace, Caro Pertini, il premio Vergilius per il miglior libro dell’anno 1982. i dei personaggi “eccellenti” che vi aderivano, sicché lo scandalo della Loggia P2 esplose clamorosamente.
Ne damnetur absens. Nel contempo però la sua assenza dall’Italia permetteva a certi ambienti di attivarsi discretamente in modo da riuscire finalmente a far emettere nei suoi confronti condanne per reati a mezzo stampa per articoli pubblicati quando ancora risiedeva in Italia. A tal fine utilizzarono una grave anomalia giuridica, esistente solo in Italia fra tutti i paesi occidentali, la quale consente di emettere condanne in contumacia (quindi in assenza dell’accusato) e farle diventare subito definitive ed esecutive, in flagrante violazione del principio fondamentale del diritto “ne damnetur absens” (non si deve condannare un assente). Utilizzarono anche il fatto che in Italia i processi per reati a mezzo stampa vengono effettuati “per direttissima”, quindi in tempi brevi, che possono diventare brevissimi nei processi contumaciali. In tal modo si poterono instaurare nei confronti di Surace numerosi processi per pretesi reati a mezzo stampa – a sua totale insaputa, le “notifiche” essendo state inviate a indirizzi che non erano da tempo sue residenze, e quindi impedendogli ogni difesa – e concluderli subito con condanne definitive ed esecutive…Per di più di quei “processi” in sordina se ne fecero parecchi, tanto che le condanne ebbero a raggiungere un totale di… 18 anni di galera (!!!) e da scontare subito poiché appunto esecutive. Intanto però la Corte d’Appello di Napoli, prima sezione civile, dichiarò illegittima la sua radiazione annullandola ab origine come mai emessa (tanquam non esset) con sentenza del 4 aprile 1986, poi confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza dell’8 novembre 1991, notificata il 19 novembre 1993. Sicché il 30 gennaio 1994 si dovette reintegrare Surace nell’Ordine, nei confronti del quale dovette comunque promuovere una causa civile di risarcimento per i gravi danni cagionatimi da quella radiazione illegittima. Ad ogni modo la reintegrazione gli ridava subito la possibilità di svolgere attività giornalistica anche in Italia, sicché i rapporti che aveva mantenuto coi giornali italiani – molto attivi ma necessariamente non ufficiali a causa appunto della radiazione – potevano essere formalizzati. Qualsiasi giornale italiano poteva dunque ora assumerlo ufficialmente, anche come direttore, e di conseguenza versare i corrispondenti contributi pensionistici.
Parigi nega l’estradizione. Sennonché a questo punto risultò che erano state emesse nei suoi confronti quelle condanne contumaciali per… 18 anni di galera, e da far subito poiché esecutive…Per cui non solo non poté rimetter piede in Italia, ma le autorità italiane chiesero alla Francia la sua estradizione, ricevendone tuttavia un secco rifiuto che coprì l’Italia di ridicolo a livello internazionale, la Francia avendo obiettato che non è lecito dichiarare esecutive condanne contumaciali. Per di più non si era mai visto in Occidente che un giornalista fosse condannato a… 18 anni di galera per reati a mezzo stampa, sicché si ebbe una reazione generale non solo in Francia (dove Surace venne anche decorato da Jacques Chirac) ma in Spagna, Gran Bretagna, Giappone...Così Surace continuò a far partire da Parigi numerose inchieste, fra cui la famosa “Scandalo a Palazzo di Giustizia” pubblicata su 10 pagine da Mino Pecorelli sul settimanale OP. In quel periodo pubblicò anche vari libri: in italiano oltre a “Caro Pertini” anche “Number One” (sul famoso scandalo romano per droga in cui erano implicati numerosi personaggi deljet-set internazionale: vi indicava coloro che aveva appurato essere stati accusati ingiustamente, e che in effetti vennero poi assolti) e “I padrini della pornografia e il delitto Pecorelli”; nonché in francese “La plume et la main vide” e “Enquête sur le Ju-Jitsu en France”. Tuttavia quelle “condanne” a 18 anni in Italia erano ritenute valide, impedendogli dunque di recarvici, e impedendo ancora l’ufficializzazione dei suoi rapporti coi giornali italiani (e corrispondenti versamenti dei contributi pensionistici) poiché i loro direttori si sarebbero trovati incriminati per… favoreggiamento di un ricercato! Questa situazione indubbiamente aberrante apparve superata solo dopo 7 anni, nel 2001, allorché la stessa magistratura italiana, per effetto anche del biasimo internazionale, trovò modo di bloccare gli effetti di quelle condanne.
Niente pensione…. Ma in quel 2001 Surace compiva 68 anni (è nato nel 1933) era quindi in età pensionabile, e tuttavia privo di pensione…E ciò dopo 42 anni di attività (dal 1958 a quel 2001) particolarmente intensa e meritoria, dai vasti echi ed effetti particolarmente positivi socialmente anche a livello internazionale. Mentre in Italia si attribuivano 2 o 3 cospicue pensioni a tanti noti personaggi “eccellenti”, a partire da 44 anni di età…Questa mancata pensione era dovuta al fatto che i contributi pensionistici erano stati versati per lui solo durante 16 anni (dal 1958, inizio della sua attività di giornalista, al 1975, data della sua sospensione e poi radiazione illegittima dall’Ordine) ed erano dunque insufficienti per dar diritto a una pensione (…..).
In carcere per una condanna inesistente. In effetti un PM Alfredo Ormanni, procuratore capo a Torre Annunziata, il 24 dicembre 2001 (vigilia di Natale) provvide ad imprigionarlo in stretto isolamento in un carcere di alta sicurezza, quello di Ariano Irpino, in esecuzione di una condanna “definitiva ed esecutiva” che tuttavia… non era mai stata emessa!!! Il che scatenò una reazione generale a suo favore dapprima da parte della stampa italiana (in cui si distinse il quotidiano Libero che, partito per primo, trascinò tutti gli altri quotidiani italiani grandi e piccoli, riviste settimanali e televisione) e poi della stampa di mezzo mondo e di una serie di autorità ed organismi italiani e internazionali (….).
Il giudice abusivo. E non tardò a scoprire che, fra gli effetti di quegli 8 mesi di reclusione, c’era stato anche quello gravissimo di avergli impedito di seguire la causa civile di risarcimento che aveva promosso nei confronti dell’Ordine per i danni cagionatigli con quella radiazione illegittima. In effetti giusto 16 giorni dopo quella sua incarcerazione per condanna mai emessa, si era tenuta di volata, il 9 gennaio 2002, a sua insaputa, dinanzi alla Corte d’Appello di Napoli l’udienza conclusiva di quella causa, che era stata presieduta da un giudice cui era tassativamente vietato per legge di occuparsene, essendo in situazione di inimicizia grave con Surace. Giudice dunque abusivo, il quale aveva emesso puntualmente una sentenza aberrante con cui si negava a Surace qualsiasi risarcimento, e per di più l’avvocato che doveva difenderlo l’aveva fatta subito diventare definitiva non presentando, da vero fedifrago, ricorso per Cassazione! (…)
L’affare Andreotti. E fra le inchieste che feci allora partire da Parigi, ed ebbero particolare risonanza, citeremo quella sull’assassinio di Mino Pecorelli, del quale era stato accusato come mandante Giulio Andreotti, di cui Surace sostenne e dimostrò invece l’innocenza contro l’opinione generale. Tanto più che già vari anni prima, nel 1976, aveva pubblicato sull’argomento quel libro cui abbiamo sopra accennato “I padrini della pornografia e il delitto Pecorelli”. E in effetti Andreotti venne assolto il 29 settembre 1999 dalla Corte di assise di Perugia. Ma siccome venne poi invece condannato il 17 settembre 2002 a ben 24 anni di galera dalla Corte di assise d’appello, Surace effettuò una nuova inchiesta dettagliando e documentando gli errori sui quali quella condanna era fondata, e poiché l’udienza in Cassazione era stata fissata per il 30 ottobre 2003, diffuse massicciamente l’inchiesta pochi giorni prima, il 21 ottobre. E la Corte di Cassazione, concordando in pieno, annullò la condanna ad Andreotti e senza rinvio.
La campagna per il Sud. Surace tenne anche a realizzare quella campagna – che gli era stata impedita con la famosa incarcerazione alla vigilia di Natale 2000 – sulla situazione drammatica in cui era stata gettata l’Italia meridionale. Campagna che prosegue tuttora intensamente da ormai vari anni, con effetti decisamente positivi avendo aperto gli occhi a vari ambienti, dirigenti e personaggi-chiave meridionali, fino allora condizionati dalle manipolazioni massicce diffuse sistematicamente urbi et orbi ai danni del Sud. Poté così stimolarli ad efficaci azioni concordi per il Sud prima impensabili. In particolare esortava i dirigenti politici meridionali (soprattutto i governatori delle regioni e i sindaci di città grandi e piccole, a cominciare da Napoli) a coalizzarsi, formando un saldo fronte meridionale in grado di opporsi efficacemente ad ambienti ed interessi anti-Sud. Provvide anche a smascherare certi personaggi che, presentandosi come difensori del Sud, in realtà agivano per interessi contrari; e ad approfondire certe situazioni di rapina particolarmente scandalose ai danni del Sud, come l’esproprio del Banco di Napoli facendolo assorbire da un banca del Nord, realizzata con metodi particolarmente spregevoli, e delittuosi.
Associazione a delinquere.
Inoltre effettuò un'inchiesta su tutti gli implicati in quella sua carcerazione per una condanna mai emessa, che aveva fra l'altro consentito di effettuare in sua forzata assenza e insaputa, l'udienza conclusiva della causa di risarcimento per la radiazione illegittima. E in base agli elementi raccolti presentò alla Procura della Repubblica di Napoli denuncia per associazione a delinquere e vari altri reati a carico di tutti gli implicati: il giudice abusivo, l'avvocato fedifrago, il PM Ormanni che comunque era già stato radiato e condannato penalmente, e gli altri coinvolti a vario titolo. Intanto il fatto che dopo oltre 50 anni (più di mezzo secolo!) di giornalismo particolarmente attivo e incisivo era tuttora privo di pensione, mentre si attribuivano 3 o 4 pensioni a partire da 44 anni di età a tanti noti personaggi, faceva sensazione e non solo negli ambienti giornalisti e previdenziali, e dei dirigenti dell'INPS non seppero comunque far altro che assegnargli una... pensione sociale di circa 600 euro mensili, che poi gli è stata addirittura arbitrariamente annullata! Ora è chiaro che questa sua indegna situazione colpisce a fondo l'onore dell'Ordine italiano dei giornalisti, in quanto causa ed origine di tutto ciò, e lo copre di vergogna anche a livello internazionale grazie a quei suoi spregevoli dirigenti autori a suo tempo della radiazione illecita di Surace. Ma l’indignazione estende anche verso le altre istituzioni riguardanti il giornalismo italiano (Federazione Nazionale della Stampa Italiana FNSI, Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani INPGI, Federazione Italiana editori di giornali FIEG) non essendo ancora intervenuti per sanare questa ignominia che sta suscitando viva riprovazione nei più diversi ambienti anche internazionali. Il che impone dunque agli attuali dirigenti delle suddette istituzioni di intervenire decisamente e con urgenza, anche per salvare in qualche modo l’onore pesantemente macchiato dell’Ordine. Si tratta dunque di attenuare gli effetti aberranti di quanto sopra, facendo sì che sia assegnato a Surace un'adeguata pensione o vitalizio. Ed è indispensabile che lo si faccia in stretta urgenza, poiché Surace ha ormai esaurito tutti i suoi risparmi ed è quindi privo di ogni mezzo di sussistenza.
Ordine italiano dei giornalisti. Riprendono, stavolta contro Feltri, i "safari al giornalista scomodo", scrive "Abcnews.free.fr". Dopo l'esemplare lezione ricevuta ad opera di Stefano Surace e della magistratura superiore (Corte di appello di Napoli e Corte di Cassazione) certi superstiti personaggi dell'Ordine ci riprovano, stavolta con Vittorio Feltri. Non poco scalpore ha suscitato il fatto che l'Ordine dei giornalisti di Milano abbia emesso un provvedimento "disciplinare" di radiazione nei confronti di Vittorio Feltri, direttore del quotidiano "Libero" e già direttore di varie importanti testate... Nonché giornalista non poco "scomodo" per per la sua "ingovernabilità", che fra l'altro lo aveva fatto passare da una direzione di giornale all'altra ogni volta che la sua indipendenza di giudizio gli sembrasse in qualche modo limitata, o che la linea editoriale fosse cambiata. A seguito di questa radiazione Feltri si trova, di punto in bianco, a non poter fare il giornalista. Né più né meno...Motivo ufficiale addotto dall'Ordine della Lombardia, presieduto da Franco Abruzzo: la pubblicazione su "Libero", nel quadro dello scandalo dei pedofili, di alcune foto "proibite" tratte da materiale che era già stato diffuso dalla televisione di Stato. Solo che il responsabile di quella diffusione televisiva, Lener, non è stato radiato, mentre Feltri sì...Benché fosse infinitamente più grave far apparire quel materiale alla televisione - che entra tranquillamente in tutte le case, alla portata dei minori - che pubblicarne delle foto su un quotidiano letto praticamente solo da adulti. Vero che Lener è ben lontano dall'essere "scomodo" come Feltri...Di quì la sensazione, subito diffusasi, che quelle foto su "Libero" c'entrino come i cavoli a merenda, e siano state solo la sospirata occasione per colpire un giornalista che dà "fastidio". Eppure dopo la dura sentenza emessa a carico dell'Ordine dei giornalisti dalla magistratura superiore (Corte d'Appello di Napoli e poi Corte di Cassazione) a seguito dell'ormai celebre ricorso di Stefano Surace, sembrava che certi personaggi fossero stati da tempo allontanati dai suoi vertici. Quei personaggi, per intenderci, che agivano in singolare assonanza coi "safari al giornalista scomodo" che periodicamente venivano lanciati da certi ambienti. Come si ricorderà infatti l'Ordine aveva avuto la buona idea di radiare Surace - l'intellettuale italo-francese e maestro di arti marziali che più scomodo non si può con quelle sue inchieste, polemiche e campagne di stampa che durano da cinquant'anni - non solo non dandogli alcuna possibilità di difesa ma, come risultò, senza neanche dirne le ragioni (era difficile trovarne). Fra l'altro quella radiazione ebbe affetti micidiali sulla libertà di stampa in Italia: da quel momento i giornalisti italiani si sentirono sotto la minaccia costante di essere radiati dall'Ordine di punto in bianco, senza potersi praticamente difendere, se andavano a ficcare il naso negli affari non troppo confessabili di certi ambienti politici ed economici. Se era stato possibile radiare in quel modo un tipo agguerrito come Surace, figurarsi per gli altri...Fu così che quella di giornalista divenne di colpo, in Italia, la professione meno garantita del mondo. Mentre avrebbe dovuto godere di particolari garanzie, essendo uno degli elementi fondamentali per un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. Con una tale spada di Damocle sulla testa, i giornalisti non trovarono di meglio che attendere tempi migliori per occuparsi di certi argomenti... Sicché gli abusi e gli intrallazzi di quegli ambienti, senza più un valido controllo da parte della stampa, poterono finalmente dilagare indisturbati. Per rendersi conto di a che punto era giunta la situazione, basti pensare che due giudici di Treviso, Labozzetta e Napolitano, avevano incriminato ufficialmente parecchi personaggi molto "in alto", fra cui il comandante in capo della guardia di finanza e il suo braccio destro, nel quadro di quello che poi divenne il famoso "scandalo dei petroli in Italia". Ebbene, i corrispondenti da quella città delle agenzie e di diversi quotidiani avevano inviato regolarmente, alle loro redazioni centrali, numerosi articoli sull'argomento. Ne avevano inviati per un anno, ma nessuno era stato pubblicato... Così, se l'opinione pubblica poté apprendere la faccenda fu proprio grazie al solito Surace, che nel frattempo si era spostato a Parigi. Da lì in effetti accusò certi magistrati di Monza di coprire quel traffico, dopodiché costoro (il presidente di quel tribunale, il procuratore capo e un suo sostituto) furono incriminati dalla stessa magistratura, e lo scandalo scoppiò col clamore che si sa. Per di più, in seguito la Corte d'Appello di Napoli (presieduta da un insigne magistrato, Vincenzo Schiano di Colella Lavina, con relatore Carlo Aponte, consigliere Francesco d'Alessandro; integrata - come prevede la legge in questi casi - da due giornalisti, Lino Zaccaria e Francesco Maria Cervelli) stabilì che la radiazione del Surace era stata non solo errata, ma addirittura illecita (per cui l'Ordine deve anche risarcirlo) e l'annullò d'autorità, evocando fra l'altro "gli obiettivi altamente sociali perseguiti dal Surace nella sua attività, le sue campagne di stampa, i riconoscimenti ottenuti". Inoltre, accertò che era stata decisa senza dare all'accusato alcuna possibilità di difesa e costatò (riportiamo testualmente dalla sentenza) "la mancanza di qualsiasi specificazione dei fatti che si imputavano al Surace". Surace era stato dunque radiato dall'Ordine senza che neanche si dicesse perchè...Questa "storica" decisione della Corte d'Appello (poi confermata dalla Cassazione) fece sensazione nell'ambiente giornalistico italiano ed europeo. Il presidente dell'Ordine all'epoca, Saverio Barbati, non si vide rinnovato l'incarico che ricopriva da anni. Surace l'aveva poco prima esortato, in un'intervista, "a darsi alla pastorizia, che ha molto bisogno di braccia". I membri del Consiglio dell'Ordine che avevano deciso quella radiazione si videro bollati sulla stampa come "sicari sfortunati", mentre Surace veniva definito fra l'altro "un grande eroe civile, un maître à penser, e à agir, non violento ma micidiale quando si tratta di difendere la verità, la giustizia e i diritti umani". Si verificarono perfino fenomeni di rigetto come l'iniziativa, in sede politica, di promuovere un referendum per l'abolizione dell'Ordine, visto ormai da molti come una minaccia per la libertà di stampa e dunque per una corretta democrazia. E in ogni caso nella categoria dei giornalisti sorse una larga esigenza di riforma profonda di questo organismo. L'Associazione napoletana della stampa si congratulò con Surace con lettera ufficiale. Nei vertici dell'Ordine si fece una buona pulizia di quei personaggi che ne avevano tanto malmenato l'immagine, con la loro bella idea di andare a prendersela con Surace...A questo punto i giornalisti italiani - sentendosi finalmente liberati dalla spada di Damocle della sospensione e della radiazione dalla professione senza potersi difendere che avevano sentito pendere costantemente sulle loro teste dopo la radiazione di Surace - si affrettarono a recuperare normalmente la propria funzione, così essenziale in democrazia. E gli effetti non tardarono a farsi sentire. Certi magistrati della Procura di Milano, indagando su un certo Chiesa per una faccenda abbastanza banale di distrazione di fondi, si trovarono davanti un uomo che, sentendosi abbandonato dagli "amici" vuotò il sacco rivelando una serie di intrallazzi ben più pesanti. Quei magistrati si trovarono così in mano una serie di quegli abusi che avevano potuto prosperare e proliferare indisturbati grazie anche alla specie di terrorismo cui erano sentiti sottoposti i giornalisti italiani. E si misero a indagare anche su queste storie. Se ciò si fosse verificato durante il precedente periodo di bavaglio alla stampa, quei magistrati avrebbero trovato ostacoli pressoché insormontabili alla loro azione, come accaduto tante altre volte. In questo nuovo clima invece gli articoli inviati sull'argomento dai vari corrispondenti da Milano alle loro sedi centrali furono pubblicati, e come. L'intera stampa italiana, ben lieta di rifarsi degli anni di bavaglio, si occupò massicciamente dell'azione di quei magistrati, che battezzò "operazione mani pulite" contro "Tangentopoli" trascinando il pubblico che si schierò dunque nettamente anch'esso a favore del "pool di mani pulite". Cosicché buona parte della classe politica italiana, diventata ormai corrotta fino alle midolla, si trovò spazzata via da un momento all'altro. L'azione di quei magistrati ebbe vasta risonanza in tutto il mondo, tanto che le giustizie di vari paesi ne seguirono l'esempio. Fra l'altro in Francia certi magistrati se ne ispirarono, e venne fuori che una serie di personaggi che ricoprivano le più alte cariche dello Stato (compreso l'ex presidente della repubblica François Mitterrand) erano immersi fino al collo in scandali semplicemente colossali... Con grande stupore dell'opinione pubblica francese che, non avendo l'abitudine a cose del genere, aveva tranquillamente avuto fiducia in quegli uomini e nelle istituzioni che rappresentavano. Certo, nella sua azione il "pool" di Milano fece anche degli errori, tuttavia abbastanza comprensibili: con la valanga di casi che erano venuti fuori, non era sempre facile distinguere subito il grano dal loglio. Ci furono poi anche, puntualmente, strumentalizzazioni politiche. C'è sempre chi è pronto ad approfittare di certi eventi per trarne vantaggi. Vennero così a trovarsi paradossalmente l'uno contro l'altro personaggi di rilievo che in realtà avevano lo stesso scopo: far sì che lo Stato italiano diventasse un pò più pulito e giusto. Comunque, sembrava che la minaccia che certi personaggi dell'Ordine avevano fatto pendere sui giornalisti italiani appartenesse ormai a un deplorevole passato. Invece, in realtà, non tutti quei personaggi erano stati eliminati dai vertici: alcuni superstiti, che a suo tempo avevano avuto cura di tirare il sasso ma nascondere la mano, erano ancora lì. Ed ecco che ci hanno riprovato. Stavolta con Feltri. Che è comunque ricorso all'Ordine nazionale dove dovrebbe respirarsi, oggi, aria migliore che in passato. Affare da seguire.
Com'è stato "ucciso" Craxi, scrive "Abcnews.free.fr" (Da "Sicilia Sera"). La morte di Bettino Craxi ha messo in luce alcune gravi aberrazioni del sistema giuridico italiano (condannate costantemente già da tempi dalla Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo) che hanno permesso e permettono abusi in serie. Calpestati sistematicamente principi fondamentali del diritto. Una dichiarazione illuminante del Procuratore della Repubblica di Milano, Gerardo D'Ambrosio. A seguito della morte di Bettino Craxi, il "pool" milanese detto di "mani pulite" è stato letteralmente sommerso da accuse per non aver permesso a Craxi di rientrare in Italia da libero per consentirgli di curarsi adeguatamente in una clinica milanese che dava ogni garanzia operatoria e post-operatoria, invece che in una struttura tunisina assai meno adeguata. Ciò avrebbe permesso a Craxi di essere curato seriamente, ed oggi sarebbe probabilmente ancora in vita. Per difendersi da queste critiche, il Procuratore di Milano Gerardo D'Ambrosio ha dichiarato a "Repubblica" che non era possibile far rientrare Craxi in Italia da libero, poiché c'erano ormai a suo carico condanne definitive. Ebbene, con questa dichiarazione, il D'Ambrosio non ha fatto che dare - certo involontariamente - la misura di quanto aberrante sia l'attuale sistema giuridico italiano. In qualunque altro paese civile infatti una condanna non può mai diventare definitiva se emessa in un processo in cui l'accusato, per una ragione o l'altra, non è stato presente. Anche nel caso che, come Craxi, vi si sta sottratto volontariamente "con la fuga", come suol dirsi. Nessuno in effetti è tenuto ad andare volontariamente contro se stesso presentandosi al carnefice, o comunque ad un tribunale che potrebbe attribuirgli una pesante condanna. Per esempio in Francia (la cui magistratura è notoriamente fra le più rispettate del mondo) se un tribunale condanna qualcuno non presente al processo (cioè, come suol dirsi, "contumace" o "latitante") la condanna non può diventare definitiva. Se in seguito il condannato si presenta volontariamente, oppure è catturato, il processo viene rifatto in sua presenza. Un processo è infatti costituito da tre elementi indispensabili: l'accusatore, l'accusato e il giudice. Se ne manca uno - per esempio l'accusato - non può considerarsi un vero processo. Si tratta di un principio fondamentale, inderogabile del diritto, mirante ad evitare che si possa condannare qualcuno senza che si difenda. Anche in Italia "culla del diritto"(ma divenutane la tomba) vigeva naturalmente questo principio fondamentale. Finchè prima della seconda guerra mondiale, negli anni 30, il regime di allora, per mettere facilmente i suoi oppositori nell'impossibilità di nuocere, trovò comodo sostituirlo con il criterio antigiuridico che una condanna "contumaciale" poteva diventare definitiva ed esecutiva. Questo "criterio" mostrò largamente la sua efficacia con accusati che si chiamavano, per esempio, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Sandro Pertini, Luigi Sturzo, Giorgio Amendola. Grazie ad esso, alcuni di costoro si trovarono in galera senza essersi potuti difendere, in seguito a condanne che si facevano risultare "definitive ed esecutive" senza che al processo si fossero mai visti gli accusati; ed altri, per non subire la stessa sorte, dovettero riparare all'estero, Francia e Stati Uniti soprattutto. Finita la guerra e caduto il regime di allora, molte cose cambiarono in Italia, ed anche si ribaltarono. Saragat e Pertini, i condannato rifugiatisi in Francia, divennero perfino Presidenti della repubblica italiana. Ma, stranamente, quel criterio antigiuridico che era stato loro applicato non fu eliminato dal nuovo regime repubblicano...Ed è così che lo si è potuto applicare ora anche a Bettino Craxi ... fino alla sua morte. Il più strano è che nessun media ha rilevato quanto elemento di importanza capitale. Eppure, a causa di questo criterio antigiuridico, l'Italia ha già subito innumerevoli condanne dalla Corte europea per i diritti dell'uomo di Strasburgo che le ha ingiunto, come in suo potere, di rientrare nella legalità rispettando quel principio fondamentale. Ma l'Italia non ha ancora ottemperato, restando così in piena illegalità. Identico sistema era stato a suo tempo usato contro un giornalista e scrittore le cui famose inchieste e campagne di stampa negli anni 60 e 70 rendevano particolarmente "scomodo" per certi ambienti e personaggi politici ed economici italiani molto "in alto, dalle attività non precisamente confessabili. Stiamo parlando di Stefano Surace. Non riuscendo a farlo condannare normalmente, poiché le sue inchieste erano ben documentate, gli si lanciarono contro degli ordini di cattura per pretesti reati a mezzo stampa, sicché fu costretto a riparare all'estero (come farà appunto Craxi). Dopodiché gli si lanciò, in sua assenza, una vera raffica di condanne per pretesi reati a mezzo stampa, per un assurdo totale di ... diciotto anni di galera (neanche per un assassinio efferato); che, come per Craxi, furono fatte diventare subito definitive ed esecutive grazie a quel criterio antigiuridico. Ma per Surace le cose andarono un po' diversamente che per Craxi. La magistratura francese (ripetiamo, fra le più stimate del mondo) ha considerato "inesistenti giuridicamente" tutte (diciamo tutte) quelle condanne attribuitegli in Italia, constatando che erano state emesse in violazione di principi fondamentali del diritto; fra cui quello, appunto, che una condanna contumaciale non può essere dichiarata definitiva. Per di più il Presidente della repubblica francese, Jacques Chirac, decorò Surace della medaglia d'oro, sulla quale è inciso "Parigi a Stefano Surace"...Lezione esemplare per quei magistrati italiani che pretendevano di fargli fare diciotto anni di galera! Surace è stato letteralmente coperto di onori anche in Spagna, in Gran Bretagna e perfino in Giappone. Lo stesso governo italiano, rendendosi conto di quanto l'"affaire Surace" danneggiasse anche all'estero l'immagine della Penisola - e non sapendo cos'altro fare poiché il giornalista-scrittore rifiutava ogni ipotesi di grazia che non comportasse una esplicita sconfessione ufficiale di quelle condanne - rinunciò a qualsiasi tentativo di estradizione (d'altronde senza speranza) vietando agli organi competenti qualsiasi procedura in tal senso nei suoi riguardi. Da aggiungere che, allorché Surace dovette espatriare in Francia, certi personaggi dell'Ordine dei giornalisti, invece di mobilitarsi in sua difesa come loro dovere, tentarono di pugnalarlo alle spalle, radiandolo. Ma in seguito la Corte di Appello di Napoli e la Corte di Cassazione hanno dichiarato illegittima questa radiazione e l'Ordine ha dovuto reiscriverlo. Ed ora i legali del Surace hanno citato l'Ordine per 19 miliardi di lire, a titolo di risarcimento dei danni materiali e morali cagionati da quella radiazione indebita. Ma questo contro Surace non era stato che l'ultimo episodio di una lunga serie di autentici "safari" contro personaggi scomodi. Per esempio quello contro un altro grande giornalista, Gaetano Baldacci. Fondatore de "Il Giorno" (quotidiano che in qualche mese di vita, con lui direttore, aveva quasi superato il "Corriere della Sera") in seguito aveva lasciato "Il Giorno" fondando il celebre settimanale "ABC" (di cui era direttore ed editore) concentrandovi quasi tutti i giornalisti italiani "troppo vivaci". Ma non si tardò a lanciargli un ordine di cattura con un'accusa fasulla, tanto che dovette rifugiarsi in Libano e poi in Canada. Parecchi anni dopo si riconobbe che l'accusa era fasulla, ma intanto era stato distrutto: tornato in Italia, dopo pochi mesi morì di crepacuore. Mino Pecorelli, giornalista molto deprecato in certi ambienti anche per la straordinaria esattezza delle sue notizie, commentò ad un certo punto sul suo settimanale "OP" ("Osservatorio Politico"): "Una giustizia che realizzi simili exploits perde ogni residua credibilità non solo all'interno del Paese, ma anche a livello internazionale. Non si tratta difatti di semplici errori come possono sempre capitarne, ma di una serie lunghissima di fatti aberranti". Ebbene, pochi giorni dopo aver scritto queste righe, Pecorelli fu ucciso da un killer. Si cercò di addossare la colpa del delitto ad Andreotti, chiudendo sistematicamente gli occhi su altre piste, indicate proprio da Stefano Surace in alcuni suoi libri e interviste alla stampa e alla televisione. Piste che conducevano diritto ad ambienti vicini a certi magistrati di Monza, che Pecorelli aveva additato alla pubblica attenzione per certo loro operato a favore di petrolieri evasori e di loro complici "ad alto livello", nel quadro del famoso scandalo dei petroli. Dopo anni, le accuse contro Andreotti sono cadute clamorosamente, ma - poiché le altre piste erano state ignorate con cura - i responsabili di quel delitto restano tuttora "ignoti"...Intanto un gruppo di intellettuali (l'italiano Federico Navarro, il francese Daniel Mercier e l'italo-francese Angelo Zambon) hanno promosso una petizione indirizzata alle autorità politiche, in cui si sottolineano fra l'altro "i casi gravissimi che sono stati resi possibili dal fatto che in Italia è ancora in vigore un tipo di processo penale contumaciale che viola gravemente il diritto, consentendo fra l'altro di dichiarare definitive ed esecutive condanne emesse in assenza dell'accusato; come costantemente ribadito anche dalla Corte europea pei diritti dell'uomo, che per questa ragione ha condannato ormai innumerevoli volte l'Italia". Affare da seguire...
Milano, è in carcere da mesi per pubblicazione oscena e diffamazione. I radicali sono in sciopero della fame per fargli avere la grazia. Surace, settantenne in prigione per due articoli degli anni '60. Il Quirinale non è contrario alla grazia, manca il parere di Castelli, scrive Fabrizio Ravelli l'8 agosto 2002 su “La Repubblica". Cella numero 1, quarto piano, galleria 3, carcere milanese di Opera. Reparto "anziani definitivi". Ieri pomeriggio, quando ha ricevuto visite, Stefano Surace è apparso "provato, ma non accasciato, consapevole dell'ingiustizia che sta subendo, combattivo". Così riferiscono i radicali Daniele Capezzone e Rita Bernardini, che ieri sera hanno cominciato uno sciopero della fame "per aiutare il ministro della Giustizia a esprimere un parere sulla domanda di grazia". Aggiungono che Surace - barba lunga, jeans neri e maglietta blu - era sepolto in un mare di carte. L'hanno appena "tradotto" da Poggioreale, una settimana fa era comparso in manette davanti ai giudici del tribunale di Napoli. Stefano Surace ha settant'anni suonati. Non è un vecchietto indifeso: l'unica foto in circolazione lo ritrae in kimono bianco, è un maestro di Ju Jitsu (decimo dan Menkyo Kaiden, il grado più elevato al mondo). Viveva da più di trent'anni a Parigi. Jacques Chirac l'ha decorato per i suoi meriti di educatore e creatore di campioni. Questa era la sua vita fino alla vigilia di Natale dell'anno scorso, quando è tornato in Italia per visitare un fratello gravemente malato a Napoli. Da quel giorno, Stefano Surace si è trasformato nella testimonianza vivente - si fa per dire, visto che sta in galera e non è in buona salute - di come la giustizia italiana possa avere, a sproposito, una memoria infallibile, un'efficienza asburgica, una durezza spietata. Anche quando - e questo è il caso di Surace - quasi nessuno ricorda più o è in grado di ricostruire con precisione le colpe del condannato. Lui stesso pare faccia una certa fatica a ricordare. Sta in carcere da sette mesi. Deve scontare 2 anni, 6 mesi e 12 giorni. Residuo di pena, per tre condanne che risalgono a trent'anni fa. Due per diffamazione a mezzo stampa, una per pubblicazione oscena. Condanne inflitte in contumacia. Lui non c'era, era già in Francia. Allora - trent'anni fa, nell'Italia che usciva dal boom - Surace era un giornalista. È stato direttore della rivista "Le Ore" e di "Az", inviato speciale di "Abc", ha fondato un'agenzia che si chiamava "Inchiesta", ha pubblicato un libro sul delitto Pecorelli. Qualcuno, fra i lettori più anzianotti, si ricorderà "Le Ore" e "Abc". La prima era una rivista semi-porno, ma di un porno che adesso non stuzzicherebbe un ragazzino delle elementari. La seconda mescolava giornalismo d'inchiesta aggressivo - molto, per quei tempi - a un po' di sesso e di anticonformismo. Dopo che l'hanno sbattuto in galera, i legali di Surace hanno provato a capire di che cosa trattassero i processi in questione. Lui stesso ricorda vagamente: "In un articolo denunciavo un abuso commesso da un colonnello dei carabinieri", ha scritto a un quotidiano. In un altro (era il 30 dicembre del 1966) segnalava i pasticci di bilancio di una cooperativa dei paesi vesuviani. Quando alla pubblicazione oscena, chissà qual era. Non se la ricorda nemmeno Nicola Cerrato, che oggi è un alto dirigente del ministero di Grazia e Giustizia. Allora era uno dei magistrati anti-pornografia, anzi uno dei più famosi d'Italia: "Ricordo vagamente il nome di Surace. Quelle pubblicazioni avevano direttori che cambiavano in continuazione". Per evitare la galera, cosa che a Surace non riusciva nemmeno allora. Solo che lui, a quei tempi, sfruttò qualche breve periodo in cella per fare inchieste sulla condizione carceraria. Visitò nove galere italiane: da San Vittore a Poggioreale, fino a Monza, Arezzo, Voghera, Legnano. I suoi reportages fecero scandalo. Lo chiamarono "inviato speciale nel continente carceri". Lui fondò l'Aided ("Associazione italiana cittadini detenuti, ex-detenuti e loro familiari"), il primo "sindacato dei detenuti". Fu fra i protagonisti, a San Vittore, della "rivolta bianca": uno sciopero della fame a singhiozzo, a gruppi di seicento detenuti per volta. Insomma, sarà anche stato un pornografo, ma viveva per il giornalismo vero. Anche adesso, nella sua cella di Opera piena di carte, forse progetta di scrivere un altro capitolo. Ma prima deve uscire di galera. Formalmente, dicono i difensori, la sua detenzione non fa una grinza. Hanno chiesto l'affidamento ai servizi sociali, il tribunale si è riservato di decidere. Franco Corbelli, del Movimento per i diritti civili, da due mesi si batte per fargli ottenere la grazia. Daniele Capezzone, segretario dei radicali, dice: "Risulta che il presidente Ciampi non è contrario al provvedimento, manca però un parere del ministro della Giustizia Castelli. Ci auguriamo che entrambi facciano al più presto quello che è necessario e possibile. Perché siamo di fronte a un caso di giustizia assassina". È intervenuto anche Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione della Stampa: "La vicenda di Stefano Surace sta diventando una vera persecuzione nei confronti del giornalista e della famiglia. Non sollevo la questione soltanto perché si tratta di un giornalista ma in quanto questa è l'ordinaria odissea di un cittadino qualunque che non può non suscitare la pena e la rabbia dell'intera collettività".
Intervista a Stefano Surace di Antonella Ricciardi del 2-3 luglio 2006. Stefano Surace, giornalista, scrittore, maestro dell'arte marziale di origine giapponese Ju-Jitsu, in questa intervista parla di alcuni nodi cruciali per la cultura non solo italiana. Esprimendovi anche la sua visione del giornalismo, molto diversa da quella, per esempio, dei colleghi Indro Montanelli ed Enzo Biagi. E come maestro di arti marziali ha tenuto ad evidenziare lo spirito più autentico del Ju-Jitsu. Fra l’altro si è molto occupato del tema della giustizia, che lo vede artefice da decenni di inchieste molto approfondite. Negli anni 70, per esempio gli riuscì l’exploit di farsi incarcerare volontariamente ben 19 volte, per brevi periodi, in 8 diverse carceri, per poter constatare di persona le condizioni delle prigioni italiane (tra queste anche l'Opg di Aversa). Famoso il mezzo che usò per riuscire in questa impresa ritenuta “impossibile”: assunse la carica di direttore responsabile del settimanale Le Ore e di altre pubblicazioni di un erotismo assai blando (come sottolineato anche dal quotidiano francese Le Monde) ma che all’epoca induceva varie Procure ad emettere ordini di cattura che Surace utilizzava puntualmente per entrare quando voleva per pochi giorni nelle carceri che gli interessavano. In quelle sue inchieste svelava fra l’altro gli abusi di vari personaggi e oligarchie ai danni dei cittadini, e diversi retroscena come quelli relativi al caso Andreotti, di cui aveva sostenuto fin dall’inizio in un suo libro, contro l’opinione generale, l’estraneità al delitto Pecorelli, poi confermata dalla magistratura. Questa sua attività suscitò nella magistratura una specie di dicotomia, nei suoi riguardi. Mentre alcuni magistrati non nascondevano la loro ammirazione per le sue attività che definivano “di alto valore civile e sociale”, anche nelle sentenze che lo riguardavano, altri invece non sembravano che sognare di metterlo in galera fino alla fine dei suoi giorni...Così quando, seguendo la sua carriera di giornalista e di sportivo si trasferì a Parigi, certi tribunali italiani credettero bene di lanciargli, in sua assenza, una serie di condanne per presunti reati a mezzo stampa per un totale di oltre... 18 anni di galera, definitive ed esecutive, facendogli conseguire il record mondiale (almeno del mondo occidentale) per condanne ricevute per quel tipo di reati. Quando tuttavia se ne chiese alla Francia l’estradizione, l’Italia ricevette un netto rifiuto, le autorità d’Oltralpe avendo ritenuto quelle condanne tutte inattendibili, ed anzi coprendo Surace di onori: fra l’altro Chirac lo decorò “per i suoi meriti di giornalista, scrittore, maestro di arti marziali di rinomanza internazionale, formatore dei giovani e creatore di campioni”. Comunque in seguito anche in Italia quelle condanne furono spazzate via da altri magistrati. Surace viveva dunque ormai a Parigi da quasi trent’anni, circondato dalla generale stima, quando, nel 2001, si recò in Italia poiché la madre 92enne, che abitava a Napoli, gli chiedeva di occuparsi di alcune pratiche che ella, data l’età, non era più in grado di seguire. Ma a Napoli venne arrestato in esecuzione di una condanna per traffico di droga che tuttavia, in realtà, non era mai stata emessa... Venuto fuori l’ “errore”, si cercò di trattenerlo comunque in carcere adducendo condanne per suoi articoli pubblicati circa 40 anni prima…Ma tutto ciò suscitò la reazione massiccia della stampa italiana e internazionale, fra cui i quotidiani francesi “Le Monde” (in prima pagina) e “Le Figaro”, il britannico “Guardian” (che definì “kafkiano” il suo caso, nonché come un “affare Dreyfus all’italiana”) dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, della Federazione della stampa, del movimento per i diritti civili di Corbelli, di deputati e senatori dei più diversi partiti - dall’estrema destra all’estrema sinistra - di intellettuali di ogni orientamento politico. Il Presidente della repubblica Ciampi si dichiarò pronto ad emettere un provvedimento di grazia e il capo del Governo Berlusconi sollecitò il ministro della giustizia a promuoverne l’iter ma Surace rifiutò gentilmente, non essendo grazie che preferiva, ma giustizia. E così, sull’onda di questa mobilitazione a suo favore si dovette farlo uscire dal carcere. Siccome però si era creduto bene di sostituire la galera con una specie di detenzione domiciliare che riteneva del tutto al di fuori da qualsiasi criterio giuridico, dapprima pubblicò una serie di articoli su vari quotidiani e rilasciò diverse interviste, dopodiché eluse ogni “strettissima sorveglianza” e se ne partì tranquillamente per Parigi dove ancora una volta le autorità francesi respinsero ogni richiesta di estradizione. In una conferenza stampa organizzata al suo arrivo in suo onore da Reporters sans Frontières Surace illustrò, dinanzi ai rappresentanti della stampa mondiale, lo stato della giustizia e della libertà di stampa in Italia. Sicchè certa magistratura italiana si trovò coperta di discredito di fronte all’opinione pubblica internazionale, discredito di cui subisce ancora le pesanti conseguenze. Una settimana dopo questa conferenza di Surace, «Reporters sans Frontières» classificò, quanto a libertà di stampa, l’Italia – fino a quel momento ritenuta un Paese dalle istituzioni correttamente democratiche - al 40° posto nel mondo dietro Benin, Bulgaria ed Ecuador, basandosi esplicitamente su quanto da lui rivelato. E l’anno dopo, al 53° posto dietro Ghana, Bosnia-Erzegovina e Bolivia. Attualmente Surace, anche come presidente dell’”Observatoire Européen pour la Justice et la liberté de presse”, segue con interesse l’evoluzione di certe situazioni in Italia.
D.) Nel corso della sua lunga carriera giornalistica lei ha spesso assunto posizioni fuori dal coro, non di rado divenute poi condivise da ampie maggioranze. In diverse occasioni in particolare ha criticato l'operato dei famosi colleghi Enzo Biagi ed Indro Montanelli, di solito incensati dai mass media: può spiegare i motivi che l'hanno spinta ad arrivare a queste conclusioni su quei giornalisti?
R.) Mi limiterò a rispondere con poche parole: come Eduardo Scarfoglio fu definito a suo tempo “una penna d'oro intinta nel fango”, così Montanelli lo definirei una penna magari non proprio d'oro, diciamo d'argento, intinta nella manipolazione. Il suo criterio, come del resto quello di Enzo Biagi, era di apparire come qualcuno che critica i potenti, mentre in realtà ne faceva gli interessi. Il che aveva per lui un doppio vantaggio, e di peso: da un lato gli faceva evitare la sorte di altri giornalisti che invece certi poteri li avevano combattuti davvero... Basti pensare a Gaetano Baldacci, a Giovanni Guareschi e ai pesanti inconvenienti che gliene derivarono. E d’altro canto ciò gli assicurava una carriera piena di onori, anche se al prezzo di venir meno al dovere fondamentale del giornalista, che giustifica la libertà di stampa: quello di informare correttamente i cittadini su ogni questione d’interesse pubblico. D’altronde sembrava che l’impulso a manipolare le situazioni fosse proprio più forte di lui, quasi che provasse una gratificazione speciale nel riuscire a far credere alla gente il contrario di come stavano le cose... Doveva sentirsene molto valorizzato, come del resto Biagi. Questa sua tendenza irresistibile alla manipolazione la si nota anche nei suoi libri su soggetti storici, di cui mi è capitato di leggerne un paio. A conferma dei suoi ottimi rapporti con il potere, ogni tanto a Montanelli sfuggiva qualche frase rivelatrice: come quando scrisse che le estati le passava sempre invitato negli yacht di grossi personaggi... Uno che attaccava davvero i poteri non sarebbe stato invitato così facilmente e costantemente negli yacht...Montanelli insomma si appoggiava a tutti i potentati del momento: quando un potentato non era più tale, passava al potentato di turno. Per esempio, si atteggiava ad anticomunista ma a un certo punto...
D.) Già, dopo ci fu un'aspra rottura con Berlusconi, che l’aveva finanziato per anni: in che modo se la spiega?
R.) Col fatto che a un certo punto ebbe la sensazione che il potere reale in Italia si fosse esteso in buona parte ai postcomunisti grazie ad una specie di alleanza che si era consolidata tra certi industriali ed una parte della sinistra in funzione anti-Berlusconi. Nelle previsioni di Montanelli, grazie a quell’alleanza Berlusconi era già cotto. Solo che in realtà ad essere cotto prima fu lui, col fallimento del nuovo quotidiano che aveva messo in piedi.
D.) Lei è noto, tra l'altro, anche per avere spiegato in un libro le ragioni dell'innocenza di Andreotti riguardo al delitto Pecorelli, poi confermata dalla magistratura: può illustrare il perchè di quella sua posizione già all'epoca?
R.) Io sapevo per certo che per il delitto Pecorelli tutti gli elementi portavano in una direzione ben diversa da Andreotti. Pecorelli infatti mi aveva contattato quando ero già in Francia, sul fatto che all’epoca approfittando della mia assenza dall’Italia, certi magistrati avevano avuto la buona idea di lanciarmi condanne per pretesi reati a mezzo stampa per la bellezza di 19 anni di galera...Dopodiché avevano chiesto la mia estradizione in Italia alle autorità francesi che però respinsero la richiesta, anche abbastanza rudemente, senza darmi nessuna noia, senza neppure invitarmi a comparire per interrogarmi, niente...Avevano infatti subito ritenuto inattendibili quelle condanne. Fu un vero smacco a livello internazionale per quelle “autorità” italiane... e purtroppo anche per l’Italia.
D.) Anche perchè quelle condanne erano state emesse in contumacia?
R.) Certo, e per il fatto che, nonostante ciò, erano state dichiarate in Italia definitive ed esecutive. Cosa che per il diritto, ed in particolare per il diritto francese, non è ammissibile. Se si emette una condanna in assenza dell'imputato, nel caso che poi costui si presenti spontaneamente o sia catturato, si deve rifare il processo in sua presenza: si tratta di un principio fondamentale del diritto, valido in tutti i Paesi occidentali... ma non in Italia. E non a caso, trattandosi di un mezzo particolarmente agevole per realizzare abusi colossali. Basti dire che nelle carceri italiane ci sono oltre 5000 persone che vi sono tenute abusivamente a seguito di condanne “definitive ed esecutive” senza che mai abbiano visto i giudici che li hanno « condannati »...Ciò contro ogni principio del diritto, e malgrado il biasimo e il disprezzo manifestato costantemente dalle magistrature di tutti i paesi occidentali nei confronti della « giustizia » italiana a causa di questo fenomeno, e le continue condanne all’Italia emesse al riguardo della Corte europea dei diritti dell’uomo. E il bello è che la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione italiane hanno sancito nel 1993, con sentenze molto chiare, che la Convenzione europea dei diritti dell'uomo deve considerarsi integralmente legge italiana, che per di più prevale su qualsiasi altra norma italiana che ne sia in contrasto, anche se emessa successivamente. E inoltre che i tribunali italiani, nell’applicarla, devono attenersi alle interpretazioni che ne dà la Corte europea di Strasburgo. Ebbene, malgrado ciò, si assiste al fenomeno che i tribunali italiani se ne infischiano totalmente del dettato di quelle Corti Supreme, continuando tranquillamente a dichiarare «definitive ed esecutive» condanne emesse in contumacia.
D.) Dunque Pecorelli la contattò. E che successe?
R.) Siccome il mio caso confermava che qualcosa non andava nella giustizia italiana, mi domandò dunque se avevo altri elementi su questo problema. Gli mandai allora del materiale che dimostrava come certi magistrati di Monza (il procuratore capo, il suo vice, e il presidente del tribunale) favorivano dei giri illeciti su larga scala come la pornografia “hard” e certi petrolieri grossi evasori fiscali. E Pecorelli preparò, in base al mio materiale, una campagna su come funziona certa giustizia nel Bel Paese. Partiva appunto dal mio caso, che era lampante, con un articolo di ben 8 pagine sul suo settimanale OP intitolato esplicitamente "Scandalo a Palazzo di Giustizia" in cui accusava fra l’altro quei magistrati di Monza di favorire il giro della pornografia hard.
D.) Si trattava di un giro di pornografia pesante, di tipo malavitoso?
R.) Malavitoso o no, era comunque illegale, e la posizione di quei magistrati si trovava fortemente compromessa. Pecorelli tuttavia non sapeva che proprio il suo distributore, la Dipress di Milano (con cui aveva preso accordi solo da qualche settimana avendo rotto col precedente, Parrini di Roma) era proprio uno dei boss della pornografia hard....Così, quando gli mandò quel numero con l’articolo “Scandalo a Palazzo di Giustizia”, il distributore rifiutò di distribuirlo, ponendo come condizione a Pecorelli per distribuire quel numero, che lo ristampasse togliendo quell'articolo. Pecorelli “obtorto collo”, non avendo altra scelta sul momento, stette in apparenza al gioco, ristampando senza l’articolo il numero, che così venne distribuito. Intanto però si accordò con un altro distributore, e inserì l'articolo “Scandalo a Palazzo di giustizia” nel primo numero che doveva essere diffuso da questo. Ma quel nuovo numero con l’articolo che “non s’aveva a pubblicare” non venne mai distribuito, per la semplice ragione che Pecorelli fu tempestivamente ucciso da un killer.
D.) Quindi per lei ci fu una istantanea reazione di causa-effetto, in quel marzo 1979?
R.) Sono i fatti che lo dicono... Così rilasciai subito delle dichiarazioni in tal senso al Corriere della Sera indicando quella traccia precisa. Che tuttavia ci si guardò bene dal seguire, dirigendo invece tutto su Andreotti.
D.) Ma lei ha idea di chi potesse essere interessato a colpire Andreotti?
R.) Beh chi indirizzò tutto l’affare su Andreotti fu, com’è noto, quel magistrato poi divenuto deputato, Luciano Violante, che in tal modo otteneva due scopi: coprire i suoi colleghi di Monza evitando un grosso scandalo alla magistratura, e nello stesso tempo colpire un nemico politico. Quei magistrati di Monza comunque non poterono evitare noie per altre ragioni, sempre a seguito di una mia inchiesta, in cui misi in luce che avevano appunto favorito dei petrolieri grossi evasori fiscali. Dei carabinieri di Monza avevano infatti trovato dei documenti provanti che quei petrolieri riuscivano ad eludere il fisco con la complicità di alcuni grossi capi della Guardia di Finanza, facendo figurare falsamente il gasolio per carburante come gasolio per uso domestico, molto meno tassato, realizzando così evasioni miliardarie. Avevano allora passato quei documenti alla Procura di Monza, competente per territorio, che a sua volta avrebbe dovuto incriminare questi petrolieri e chi li favoriva. Ma quei magistrati li avevano scagionati, facendoli passare addirittura per vittime…Io feci allora un'inchiesta su questa faccenda, e la Procura di Milano intervenne incriminando quei giudici di Monza per favoreggiamento di questi petrolieri. Scoppiò così il famoso scandalo dei petroli che fece molto scalpore anche perché vi furono processarti e condannati il capo supremo della Guardia di Finanza, il suo braccio destro e l'ex braccio destro di Moro. Quanto a quei magistrati di Monza, ci fu una lunga e tormentata istruttoria a loro carico che passò dapprima a Torino e poi a Brescia, competente per i reati dei giudici operanti nella circoscrizione di Milano, che comprendeva anche Monza. Ebbene i magistrati di Brescia accertarono che i loro colleghi di Monza avevano effettivamente commesso i fatti di erano accusati, ma ebbero l’amabilità di scagionali affermando che li avevano commessi, sì, ma per... “mera sprovvedutezza” (testuale). Così poterono cavarsela, col solo danno di dover rinunciare a ogni ambizione di carriera, e si evitò che anche la magistratura risultasse coinvolta in quel clamoroso scandalo.
D.) Signor Surace, un suo interesse costante è stato quello della salvaguardia dei diritti umani, anche nelle carceri. Ultimamente ha dichiarato che ci sono ragioni per cui un'amnistia in Italia sarebbe non una concessione ma un atto dovuto: può spiegare le motivazioni di questa sua posizione?
R.) Il fatto è che l’Italia si trova in una situazione di assoluta illegalità nei riguardi dei detenuti. Certo i detenuti si trovano in carcere perchè si ritiene che abbiano violato la legge, ma il paradosso è che innanzitutto a violare la legge e la Costituzione è proprio lo Stato italiano, visto che sottopone i cittadini che si trovano nelle carceri a pene in realtà ben più pesanti di quelle permesse dalla legge e dalla Costituzione. Queste infatti impongono che le pene devono essere eseguite in condizioni tali da favorire il reinserimento del detenuto nella società, e che dunque innanzitutto non calpestino la dignità umana. Sicché si potrebbe dire che scontare una pena nelle condizioni attuali è in realtà come scontarne illegalmente il doppio. Per cui abbreviarla non è un concessione ma un dovere di giustizia, di equità. E l'unico modo per abbreviarla nelle condizioni attuali è appunto l’amnistia, visto che è evidentemente impossibile adeguare in tempi brevi le condizioni nelle carceri. A causa della suddetta situazione, lo Stato italiano è esposto ad essere accusato davanti ad un Tribunale Internazionale, ma paradossalmente nessuno lo faceva. Erano in tanti a parlare di amnistia, di “battersi per carceri umane”, ma non toccavano questo punto. L’ho allora toccato io con vari articoli e dichiarazioni alla stampa, e ho visto che in seguito se ne è fatto eco due o tre volte Pannella il quale, mettendo da parte il suo solito, confuso, bla bla, è stato per una volta chiaro, affermando che (cito testualmente) «il comportamento criminale dello Stato italiano diventa da tribunale penale internazionale e l’Italia resta in una situazione di flagrante criminalità. C’è un dovere, un obbligo di interrompere questo reato». Solo che ha subito dopo dimenticato di passare dalle parole ai fatti, e cioè denunciare certe “autorità” italiane davanti a un tribunale internazionale. Vero che fra il dire e il fare...In seguito perfino il cardinale Martino, che presiede il Consiglio vaticano di giustizia e pace, ha dichiarato a proposito dell’amnistia, su incarico del Papa (cito ancora testualmente): «Una cosa è la pena secondo giustizia, e un’altra è una pena che viola i diritti. La pena è privazione della libertà e dal legislatore è concepita come riabilitativa. Ma se è scontata in condizioni disumane, come avviene in Italia, alla privazione della libertà si accompagna ogni possibile vessazione. Invece di fare riabilitazione si scatena la ferocia». Più chiaro di così... Eppur nessun si muove.
D.) Ma, allo stato, quali reali possibilità potranno esserci per una eventuale emissione di un tale provvedimento?
R.) Bah, temo che prima si dovrebbe tornare al criterio del 50 per cento più uno dei voti parlamentari per approvarla, in luogo dello sciagurato 75 per cento che lo ha reso quasi impossibile, poiché ha messo il provvedimento dell’amnistia nelle mani di una minoranza di personaggi forcaioli (nei confronti degli altri) che hanno tutti i requisiti per andare essi in galera, come complici di una situazione giudiziario-carceraria pesantemente illecita che costituisce semplicemente un crimine contro l’umanità. Un'azione penale davanti ad un Tribunale internazionale era una cosa che bisognava fare da tempo. Vero che se ne comincia a parlare, tuttavia non ci si decide ancora a farlo...
D.) Ultimamente, mentre era ancora al governo la CdL, un progetto era stato bloccato in particolare dall'opposizione di Gianfranco Fini e della Lega Nord... Che ne pensa?
R.) Già, ma anche da parte di una componente della sinistra, basti pensare ad Anna Finocchiaro... Componente che è stata determinante visto che lo scorso gennaio l’amnistia non è stata approvata per soli quattro voti.
D.) Lei dirige anche una reputata scuola dell'arte marziale Ju-Jitsu, per cui è famoso anche in quanto sportivo... il Ju-Jitsu non è solo una pratica atletica, ma ha dietro di sè anche una antica sua filosofia di vita: può illustrare in cosa consistano i suoi tratti essenziali, compresa l'origine dello stesso Ju-Jitsu?
R.) Il Ju-Jitsu non è un'attività sportiva, è una disciplina marziale, bisogna fare differenza. Ha infatti lo scopo di mettere in grado una persona di difendersi da attacchi fisici anche da parte di una o più persone che non pongano limiti alla propria violenza, ed usa quindi delle tecniche molto sofisticate che vengono dal Giappone feudale, ma sono di stretta attualità anche per le esigenze del mondo moderno. Bisogna comunque fare attenzione, perchè purtroppo si sono diffuse, sotto il nome di Ju-Jitsu, delle pratiche in realtà sportive, con regolamenti, proibizioni... Per cui il termine Ju-Jitsu è utilizzato, a volte, non correttamente.
D.) E' allora una vera e propria tecnica di combattimento?
R.) Sì, di combattimento reale. Evidentemente, ad un certo livello, il Ju-Jitsu non solo permette di difendersi, ma di farlo senza ferire gravemente l'avversario.
D.) Cioè bloccare la persona senza ucciderla, senza danneggiarla in modo grave, giusto?
R.) Sì, e questo è anche molto pratico nel mondo d’oggi, perchè evita fra l’altro la possibilità di conseguenze giudiziarie. Se infatti uno ferisce gravemente o al limite uccide, dovrà poi risponderne in giustizia, e non sempre è facile dimostrare che ci si era in uno stato di legittima difesa, poiché o non c’erano testimoni, o i testimoni si sono “squagliati” o peggio sono legati all’aggressore oppure disonesti... In ogni caso si è in balìa di testimoni non sempre affidabili. Per cui essere in grado di bloccare senza ferire mette al riparo anche da queste spiacevoli eventualità. Certo questo criterio di neutralizzare, senza causargli danni seri, anche un aggressore che abbia intenzione di uccidere, è già in sé un concetto filosofico profondo che va ben al di là dello stesso criterio giuridico di legittima difesa. Le arti marziali giapponesi a un certo livello hanno infatti un codice, il “bushido” le cui principali regole sono amore della verità, coraggio fino in fondo e benevolenza verso l'umanità. Certo bisogna avere i mezzi per poterlo applicare, e il ju-jitsu autentico ne dà di particolarmente efficaci...
D). Pensa che questo codice etico abbia potuto influenzare anche la sua vita, viste pure le battaglie particolarmente rischiose che lei ha continuamente affrontato?
R.) Beh, quando uno è stato formato fin dall’infanzia a certi concetti, non può non esserne influenzato anche per il resto della propria vita...
D.) C'è una sorta di compassione di fondo, quindi, in questa pratica?
R.) Si tratta di benevolenza, di un atteggiamento a priori non ostile anche verso un avversario accanito, che comunque è sempre un essere umano. Naturalmente finchè ciò è possibile. Poichè se ci si trova per esempio aggrediti da più energumeni armati di coltelli o cose del genere, non si potrà fare a meno di usare altri criteri, non esitando ad agire, per esempio, con tecniche agenti sui loro punti vitali.
D.) Si sa che lei si trova molto bene a Parigi. Ma non vi si sente un po’ in esilio?
Esilio? Niente affatto. A Parigi ci venni a suo tempo volontariamente, e ci sono come a casa mia. Anzi, se permette, infinitamente meglio che in quella che dovrebbe essere casa mia, cioè l’Italia. A Parigi mi hanno colmato di onori proprio quando in Italia si faceva di tutto per... “catturarmi”. Comunque non ho dimenticato l’Italia e le infinite battaglie che vi ho fatto per migliorarne certi aspetti degradanti per un popolo di altissima civiltà quale è l’italiano. Naturalmente ci vado quando voglio, non riconoscendo a nessuno il diritto di impedirmi arbitrariamente di metter piede nella terra in cui sono nato, e per la quale mi sono tanto battuto per decenni. Per esempio nel 1994, quando c’erano ancora in piedi quelle volenterose condanne abusive per 18 anni di galera, ho arbitrato per due giorni interi, al Palasport di Rimini, le semifinali e la finale della Coppa del mondo WBI di Ju-Jitsu, davanti a 10.000 spettatori e alle telecamere. Vero che c’erano con me i miei fedeli assistenti francesi e italiani, tutti campioni di Ju Jitsu, e che quei diecimila spettatori erano tutti praticanti di arti marziali...Sicché se si fosse provato ad arrestarmi non sarebbe bastato un battaglione di poliziotti. Tanto più che i poliziotti e i carabinieri sono essi stessi in buona parte praticanti di arti marziali, e non sarebbe stato facile spingerli a tentare di arrestare un maestro modestamente stimato e benvoluto nel mondo intero. Comunque se in uno dei miei soggiorni in Italia ci si prova a ricadere nel vizietto di arrestarmi, tanto peggio per chi ci prova. Si è già visto cosa è successo quando ci si è provato. [Questo articolo è stato pubblicato sui giornali Deasport, Corriere di Aversa e Giugliano, Caserta24ore, L'Altra Voce, e sull'agenzia giornalistica Abc-Flash Paris] Antonella Ricciardi, 2-3 luglio 2006
Scandalo a Palazzo di giustizia. I sette exploits del giudice Cataldi, scrive "Abcnews.free.fr". L'Ordine dei giornalisti aveva radiato illecitamente dall'albo professionale un asso del giornalismo, il celebre intellettuale, scrittore e gran maestro di arti marziali italo-francese Stefano Surace; le cui battaglie civili (inchieste, polemiche e campagne di stampa) sono da quasi mezzo secolo uno straordinario esempio del giornalismo migliore, ed hanno stimolato decisive riforme in vari settori e paesi. Ma la magistratura (Corte di Appello di Napoli e Corte di Cassazione) è intervenuta stabilendo, con sentenza definitiva, che la radiazione era stata illecita, sicchè l'Ordine ha dovuto reintegrarlo. La "storica" decisione della Corte d'Appello - che ha definito con precisione per la prima volta le garanzie a cui l'Ordine è tenuto ad attenersi allorché promuove un procedimento disciplinare, e ha fatto dunque giurisprudenza - fece sensazione nell'ambiente giornalistico italiano ed europeo. Essa ha avuto difatti una importanza fondamentale per il corretto esercizio della libertà di stampa nel nostro paese. Grazie ad essa, in effetti, i giornalisti italiani si sentirono liberati dalla spada di Damocle della sospensione e della radiazione dalla professione senza potersi difendere - se "davano fastidio" a certi ambienti - che avevano sentito pendere costantemente sulla loro testa dopo la radiazione di Surace (la Corte ha stabilito fra l'altro che l'Ordine aveva radiato Surace senza neppure dire il perché, quindi in modo del tutto arbitrario). Quella minaccia aveva paralizzato per anni la stampa italiana su certi argomenti, sicché le attività inconfessabili di certi ambienti, senza più un valido controllo da parte della stampa, poterono dilagare indisturbate fino a straripare in modo intollerabile. Al punto che un gruppo di magistrati dovette ricorrere, per cercare in qualche modo di porvi un argine, alla famosa - anche se discussa per alcuni errori probabilmente difficili da evitare, data la situazione di assoluta emergenza - operazione "mani pulite" contro "Tangentopoli". Insomma, grazie a quella decisione della Corte d'appello, i giornalisti recuperarono di colpo la possibilità di esercitare degnamente la propria funzione, fondamentale per un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. In seguito i legali del Surace hanno logicamente citato l'Ordine per il risarcimento dei danni cagionati al giornalista da quella radiazione, che si era protratta per oltre 18 anni. Il processo per il risarcimento, affidato dapprima al giudice Milena Balsamo (Tribunale di Napoli, 4a sezione civile) venne poi passato a un altro, Giulio Cataldi, che ha emesso una singolare sentenza che, secondo autorevoli giuristi, è caratterizzata da ben 7 gravi violazioni di legge in sole quattro paginette. In essa, pur confermando l'illiceità del comportamento dell'Ordine, il Cataldi sostiene che Surace non avrebbe il diritto ad essere risarcito poichè l'azione sarebbe prescritta, ed anzi è lui a dover pagare all'Ordine oltre 50 milioni di lire per spese ed onorari! Nelle singolari intenzioni di quel giudice si dovrebbe quindi premiare il colpevole riconosciuto (l'Ordine) e punire proprio il danneggiato, ribaltando ogni criterio di giustizia e raggiungendo straordinari vertici di iniquità. Fra l'altro, per cercare di fondare in qualche modo la sua affermazione, il Cataldi giunge nella sentenza ad attribuire ad una norma di legge un testo in realtà inesistente! Ci si potrebbe chiedere fino a qual punto l'autore di una sentenza con sette gravi errori di diritto in quattro paginette, e che per affermare una tesi assurda si dà ad inventare addirittura il testo di una norma, sia in grado di rivestire una funzione delicata come quella di giudice senza pericolo per i cittadini e per la dignità della giustizia italiana anche a livello internazionale. Il Surace ha dunque impugnato la sentenza dinanzi alla Corte d'appello di Napoli, assistito da un collegio di giuristi coordinato dall' avv. Vincenzo Vano del foro di Milano, con studio a Milano e Napoli, ed espresso l'intenzione di inviare un esposto al Consiglio superiore della magistratura sull'operato del Cataldi. Un "affaire" particolarmente inquietante che ha suscitato viva sensazione, specie negli ambienti giudiziari e giornalistici, per le sue pesanti implicazioni sulle garanzie di equità dei processi in Italia, e sulla libertà di stampa. "Italia 2" ha dunque ritenuto di effettuare un'inchiesta approfondita in merito.
(Infos-Inter) - Questo affare riguarda un asso del giornalismo: il celebre intellettuale, scrittore e gran maestro di arti marziali italo-francese Stefano Surace, le cui battaglie civili (inchieste, polemiche e campagne di stampa) sono da quasi mezzo secolo uno straordinario esempio del migliore giornalismo, oltre ad aver stimolato decisive riforme in vari settori e paesi. Sua linea professionale costante, l'approfondimento e la denuncia giornalistica di gravi problemi di interesse pubblico, compresi i comportamenti devianti di chi riveste incarichi pubblici, elettivi e no. Il che è del resto la funzione fondamentale del giornalismo, quella stessa che legittima la libertà di stampa in un paese democratico. Memorabili le sue campagne su grossi scandali politico-economici, finanziari, immobiliari, sui rackets della droga, del gioco d'azzardo, dell'usura, sul celebre scandalo dei petroli, sugli abusi psichiatrici, sulle carceri, alcune delle quali furono determinanti per riforme in vari settori. Da ricordare anche la sua funzione di "garante" della stampa erotica italiana negli anni dal 1970 al 1974, attribuitagli per la sua solida reputazione di integrità morale non ancorata tuttavia a concetti arcaici in materia. Funzione assai delicata e anche rischiosa, per la quale aveva poteri legali che neanche i magistrati possedevano. Poté così bloccare per anni, talora con polso di ferro, quei personaggi (certi distributori ed editori) che per sete di guadagno intendevano far superare certi limiti alle loro pubblicazioni benchè vendute nelle edicole alla portata dei minori. Surace pilotò così, con prudenza e saggezza, quell'autentica svolta culturale che fu la graduale liberalizzazione della stampa erotica in Italia. Surace insomma faceva parte di quei giornalisti italiani che avevano la capacità e la volontà di informare il pubblico su come realmente andavano certe cose. E contro i quali fu lanciata, a un certo punto, una serie di "safari al giornalista scomodo"...Si cominciò con un altro grande giornalista, Gaetano Baldacci, il maestro appunto di Surace. Fondatore e direttore del quotidiano "Il Giorno", in sei mesi lo aveva portato a una tiratura quasi uguale a quella del "Corriere della Sera" che aveva messo quasi un secolo per raggiungerla (coi successivi direttori invece le vendite de "Il Giorno" calarono vertiginosamente). In seguito Baldacci fondò e diresse il settimanale "ABC", in cui tenne a concentrare buona parte dei giornalisti italiani "troppo vivaci". Ne fece in breve un settimanale che tutta la stampa europea ci invidiava come una referenza di giornalismo coraggioso e qualificato. Ebbene, a un certo punto contro Baldacci fu lanciata una incriminazione con ordine di cattura, e per non ritrovarsi in carcere dovette rifugiarsi in Libano e poi in Canada, che non avevano accordi di estradizione con l'Italia. Dopo qualche anno venne fuori che l'accusa era fasulla, la sua piena innocenza fu riconosciuta, poté tornare in Italia ma, ormai distrutto, dopo pochi mesi decedette. Anche l'editore che aveva ripreso "ABC" al suo espatrio, Enzo Sabàto, subì analoghe persecuzioni. Depredato della proprietà del settimanale in circostanze ributtanti e tenuto sempre sotto la minaccia di "fargli fare la fine di Baldacci", morì di crepacuore. Quanto a Surace, fu subissato addirittura di condanne per ... 18 anni di galera. Una pena da assassinio efferato per accuse di reati a mezzo stampa, singolare ricompensa per le battaglie civili che per tanti anni aveva sostenuto per il suo Paese con rischi non lievi. Surace conseguiva così il record mondiale assoluto del giornalista più condannato del mondo per accuse di reati a mezzo stampa, e l'Italia quello delle pene attribuite con questo tipo di accusa...Non si riuscì tuttavia a far fare a Surace la stessa fine di Baldacci e Sabàto. Espatriato oltralpe, la magistratura francese - notoriamente una delle più reputate del mondo - considerò tutte quelle condanne "giuridicamente inesistenti" in quanto emesse con modalità gravemente in contrasto coi principi fondamentali del diritto. Surace poté così stabilirsi a Parigi, al Quartiere Latino e le autorità, gli intellettuali, gli ambienti sportivi francesi, britannici, spagnoli e perfino giapponesi tennero a manifestargli la loro più viva stima e ammirazione. Sarebbe lungo elencare tutte le onorificenze, gli attestati di stima e simpatia di cui Surace è stato fatto segno in Francia e altrove anche dalle più alte autorità. Ci limiteremo a citare la prestigiosa medaglia della Città di Parigi attribuitagli da Jacques Chirac, attuale presidente della repubblica francese, decorazione molto raramente concessa a stranieri. Vi è inciso "Parigi a Stefano Surace", cioè che Parigi si onora ufficialmente di averlo come suo ospite privilegiato. Bel contrasto col grottesco atteggiamento di certe nostre "autorità" che si coprivano di ridicolo nella vana pretesa di fargli fare quei 18 anni di galera...La TV giapponese (canale "Fuji", il principale in quel paese) diffuse delle emissioni particolarmente elogiative su di lui. Un film, "Ju Jitsu Butokukai", venne girato in Francia sulle sue attività. Una serie di organismi di vari paesi (citeremo il World Butokukai Institute, la Federation Française de Ju Jitsu Butokukai e disciplines associées) lo hanno voluto loro presidente. Ed altri (la "British Martial Art Association", la spagnola "Kaizem Ryu") lo hanno accolto come membro d'onore a vita. Anche in Italia quelle singolari condanne a Surace suscitarono indignazione negli ambienti al corrente di come stavano realmente le cose. Nei corridoi del Tribunale e della Procura di Milano circolavano fra magistrati visibilmente compiaciuti battute come: "Surace volevano mandarlo a San Vittore, e invece se n'è andato a Saint Tropez ..." Una giuria di giornalisti, presieduta dal noto critico Mario Tilgher, premiò nell'82 il suo libro "Caro Pertini" come "miglior libro dell'anno". Giulia Borgese sul "Corriere della Sera" scrisse in terza pagina sulle sue attività di "inviato d'assalto" del settimanale ABC, e sui suoi "scandali nazionali di livello sociale e politico"". Sempre sul "Corriere della Sera" Glauco Licata lo descrisse "dinamico giornalista dal solidi principi etici" cui era stata attribuita "una condanna che neanche ad Al Capone... Ed ora aspetta a Cap d'Antibes che scoppi in Italia... un Wateragate". Scoppierà, invece, Tangentopoli, di cui in Francia è considerato il precursore. Il settimanale "Giorni-Vie Nuove" diretto all'epoca da Davide Laiolo, pubblicò un servizio su 10 pagine a firma Guido Cappato (numero del 16 maggio 1977). Dopo aver passato in rassegna una serie di celebri inchieste di Surace commentava: "Come si potrà notare, Surace appartiene alla categoria degli uomini scomodi". Naturalmente c'era da attendersi che l'Ordine dei giornalisti italiano reagisse anch'esso decisamente, come suo dovere istituzionale, contro quei 18 anni di galera lanciati contro un giornalista con accuse di reati a mezzo stampa, trattandosi di un attentato particolarmente grave alla libertà di stampa. Invece l'Ordine si scagliò stranamente proprio contro Surace, facendolo segno ad una misura di sospensione dalla professione che aveva l'effetto di bloccare istantaneamente la sua attività giornalistica. E poi addirittura lo radiò, senza mai dire di cosa lo accusasse. Surace potè così vivere all'estero per vari anni solo grazie ai risparmi di due decenni di intenso lavoro. E in seguito poté continuare grazie alla sua competenza ad altissimo livello in certe Arti Marziali, che gli permise di raggiungere in breve una nuova posizione di rilievo, sia pure in un campo apparentemente così diverso dal giornalismo. Intanto però, a seguito di quella radiazione, i giornalisti italiani si sentirono sotto la minaccia costante di essere "sospesi" e poi radiati dall'Ordine se "davano fastidio" a un certi ambienti politici ed economici dall'operato non precisamente confessabile. Se era stato così facile radiare Surace, il più agguerrito fra loro, sarebbe stato ancor più facile per gli altri. Quella di giornalista divenne di colpo, in Italia, la professione meno garantita del mondo. Le attività inconfessabili di quegli ambienti, senza più un valido controllo da parte della stampa, poterono così dilagare indisturbate. Basti dire che allorchè due giudici di Treviso avevano incriminato ufficialmente parecchi personaggi molto "in alto", fra cui il comandante in capo della guardia di Finanza e il suo braccio destro, nel quadro di quello che poi divenne il famoso "scandalo dei petroli in Italia", i corrispondenti da quella città dell'agenzia ANSA e di diversi quotidiani avevano inviato regolarmente, alle loro redazioni centrali, numerosi articoli sull'argomento. Ne avevano inviati per un anno, ma nessuno era stato pubblicato...Ad un certo punto tutto ciò divenne intollerabile, tanto che un gruppo di magistrati tentò di opporvisi con la famosa operazione "mani pulite" contro "Tangentopoli". Intanto la magistratura italiana interveniva anch'essa, come già quella francese, nella vicenda Surace. La Corte d'Appello di Napoli (presieduta da un insigne magistrato, Vincenzo Schiano di Colella Lavina, con relatore Carlo Aponte, consigliere Francesco d'Alessandro; integrata - come prevede la legge in questi casi - da due giornalisti, Lino Zaccaria e Francesco Maria Cervelli) stabilì che la radiazione del Surace era stata illecita e l'annullò d'autorità, evocando fra l'altro "gli obiettivi altamente sociali perseguiti nella sua attività, le sue campagne di stampa, i riconoscimenti ottenuti". E riscontrando nel provvedimento di radiazione "la mancanza di qualsiasi specificazione dei fatti che si imputavano al Surace". Surace era stato dunque radiato dall'Ordine senza che neanche si dicesse perchè... La "storica" decisione della Corte d'Appello fece sensazione nell'ambiente giornalistico italiano ed europeo. I giornalisti italiani si sentirono liberati dalla spada di Damocle della sospensione e della radiazione dalla professione senza potersi difendere che avevano sentito pendere costantemente sulla loro testa dopo la radiazione di Surace. Di colpo, recuperarono la possibilità di esercitare degnamente la propria funzione, fondamentale per un corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. L'Associazione napoletana della stampa si congratulò con Surace con lettera ufficiale. Il presidente dell'Ordine all'epoca, Saverio Barbati, non si vide rinnovato l'incarico che ricopriva da anni. Surace l'aveva poco prima esortato, in un'intervista "a darsi alla pastorizia, che ha molto bisogno di braccia". I membri del Consiglio dell'Ordine che avevano deciso quella radiazione si videro definiti sulla stampa "sicari sfortunati", mentre di Surace si scriveva come di "un grande eroe civile, un "maître à penser", e "à agir", non violento ma micidiale quando si tratta di difendere la verità, la giustizia e i diritti umani". Si verificarono perfino fenomeni di rigetto come l'iniziativa, in sede politica, di promuovere un referendum per l'abolizione dell'Ordine, visto ormai da molti come una minaccia per la libertà di stampa e dunque per una corretta democrazia. E in ogni caso nella categoria dei giornalisti sorse una larga esigenza di riforma profonda di questo organismo. Successivamente si sono avuti per Surace altri interventi della magistratura italiana, stavolta di Milano, che hanno spazzato via tutte le condanne che gli erano state volenterosamente attribuite. Surace è potuto quindi rientrare felicemente in Italia, anche se la sua principale residenza resta Parigi. La Corte d'appello avendo dunque annullato la radiazione, questa era da considerarsi come mai esistita. E siccome la sentenza era immediatamente esecutiva, l'Ordine regionale (della Campania) era tenuto a reintegrare senza ritardo Surace nell'Albo. Ma l'Ordine regionale cercò non di ottemperare a tale obbligo. Presentò un ricorso per Cassazione nell'intento evidente di tentare di giustificare il suo comportamento. Il ricorso tuttavia non toglieva nulla all'illegittimità dell'omissione, la sentenza della Corte d'Appello essendo già esecutiva. Per di più risultava talmente infondato ictu oculi che perfino l'Ordine nazionale si rifiutò di sottoscriverlo. E la Cassazione lo rigettò in data 8/11/91, l'Ordine regionale vedendosi anche condannato alle spese di giudizio. Visto che non si era ancora provveduto alla reiscrizione, il legale del Surace ingiunse all'Ordine, con lettera 16/11/93, di ottemperare alla decisione della Corte d'Appello (confermata per di più nel frattempo dalla Cassazione) reiscrivendo Surace all'Albo professionale entro 15 giorni. In mancanza, avrebbe provveduto come per legge. La lettera esprimeva anche la volontà di richiedere il risarcimento del danno. Poichè, malgrado la lettera, l'Ordine continuava a non ottemperare, ne inviò un'altra, datata 24/1/94, in cui ripeteva l'ingiunzione dando un termine stavolta di 10 giorni e specificando che in mancanza avrebbe intrapreso "un'azione giudiziaria in via esecutiva, con nomina di un commissario ad acta". A questo punto l'Ordine dovette provvedere, "obtorto collo", a registrare la reintegrazione del Surace a tambur battente, prima della scadenza dei dieci giorni (precisamente dopo 6 giorni, il 30/1/94); e dovette rilasciargli un tesserino professionale attestante che era "iscritto all'Ordine dal 1958" (ininterrottamente, essendo appunto scomparsa la radiazione). Il danno al Surace si era dunque esteso dal 28/5/75 (data della sospensione) al 30/1/94 (data della reintegrazione) cioè per oltre 18 anni. Ed era stato cagionato da una serie di atti illeciti commessi dall'Ordine e di atti dovuti invece omessi, sempre illecitamente. Vediamoli:
- Prima azione illecita commessa: emissione del provvedimento di sospensione.
- Seconda azione illecita commessa: apertura del procedimento disciplinare che causava già, di per sè, il prolungamento degli effetti della sospensione.
- Terza azione illecita commessa: emissione del provvedimento illecito di radiazione.
- Quarto illecito, stavolta omissivo: Mancato ottemperamento alla decisione esecutiva della Corte d'Appello che annullava la radiazione con conseguente obbligo per l'Ordine di reiscrivere senza ritardo Surace. Omissione di rilevanza anche penale che da sola ha prodotto un prolungamento del danno di ben 7 anni (dal 24/5/86 al 30/1/94).
Ciò che ha causato il danno al Surace è stato dunque un illecito prolungato, reiterato, palesemente permanente che ha messo arbitrariamente Surace nell'impossibilità di continuare la sua attività professionale, benemerita per il suo valore civico e sociale ma scomoda per certi ambienti potenti e senza scrupoli dagli interessi non precisamente confessabili, con i quali l'operato dell'Ordine è apparso, in questa vicenda, in perfetta assonanza. Stando così le cose, i legali di Surace hanno citato l'Ordine dei giornalisti dinanzi al tribunale di Napoli, perché risponda dei danni morali e materiali cagionati da quella serie di provvedimenti illeciti. Danni particolarmente rilevanti se si pensa che al momento della sospensione Surace era, secondo ricerche bancarie e previdenziali effettuate da un istituto specializzato neutrale, il giornalista di gran lunga meglio retribuito in Italia, se non d'Europa. E che il blocco indebito della sua attività giornalistica era durato oltre 18 anni. La sua successiva attività di maestro di arti marziali era certo particolarmente prestigiosa, ma i proventi economici che gli procurava non erano neanche lontanamente paragonabili a quelli della sua precedente attività giornalistica in Italia.
I legali del Surace hanno anche depositato un dossier in cui fra l'altro sottolineano come "i membri del consiglio dell'Ordine, col loro comportamento nei confronti di Stefano Surace, messo in luce dalla magistratura superiore con sentenza definitiva, hanno compromesso non solo la dignità, ma l'onore della categoria dei giornalisti; coprendo di vergogna se stessi, l'Ordine, e di conseguenza il giornalismo italiano che appariva rappresentato da simili personaggi". Vi pongono inoltre una serie di inquietanti interrogativi:
Com'è che l'Ordine ha avuto la possibilità di radiare per "indegnità". Uno dei giornalisti più degni che il paese abbia mai avuto?
"Ma allora i giornalisti italiani lavorano sotto la minaccia costante di essere "sospesi" e poi essere radiati dall'Ordine senza che neanche si dica il perché?
"Qual è dunque la funzione dell'Ordine dei giornalisti, di tutelare la categoria e i suoi membri, o di imbavagliarli?"
"E' per questo che i giornalisti italiani, anche i più quotati, sono apparsi per vari anni così silenziosi e "disciplinati" su certi argomenti di particolare gravità?"
"Si può, in queste condizioni, affermare che in Italia ci sia ancora libertà di stampa?"
"E' questa una delle cause del profondo deterioramento, cui abbiamo assistito in questi anni, della vita democratica nella Penisola, visto che in assenza di libertà di stampa qualsiasi democrazia non può che degenerare in tempi brevi".
"Oppure la radiazione di Surace è stato solo un episodio circoscritto, di cui si erano resi protagonisti certi personaggi "devianti", nel frattempo in gran parte allontanati dai vertici dell'Ordine dei giornalisti?"
Il testo del dossier è stato riportato integralmente in un libro di Walter Minardi edito a Parigi in francese, inglese e italiano dal titolo "Stefano Surace e i sicari sfortunati...". Si trattava ora, per il Tribunale civile di Napoli, di completare l'azione di ristabilimento della giustizia intrapresa dalla magistratura parigina e in seguito dalla Corte d'Appello di Napoli, dalla Corte di Cassazione e dai magistrati milanesi, attribuendo il giusto risarcimento a questo straordinario giornalista che ha sempre fatto onore al nostro Paese. Senonchè, le cose presero una piega piuttosto singolare...Il processo per il risarcimento fu in effetti affidato al giudice Milena Balsamo del tribunale di Napoli, IV sezione civile.
Poco dopo però la Balsamo fu trasferita a un'altra sezione dello stesso Tribunale (l'ottava), e al suo posto fu istallato un altro giudice, certo Giulio Cataldi. Dopo questa inusuale staffetta, il processo ha assunto aspetti decisamente surreali. Il Cataldi in effetti ha emesso una sentenza in cui non ha potuto negare che la radiazione del Surace era stata illecita, dato che era stato sancito dalla Corte d'Appello e dalla Cassazione in via definitiva. Ma vi sostiene che il diritto al risarcimento sarebbe ormai prescritto, poichè la citazione sarebbe stata presentata in ritardo. Cosicchè, anche se l'Ordine è colpevole della radiazione indebita, non si potrebbe procedere nei suoi confronti. E aggiunge che in realtà è Surace a dover dare dei soldi all'Ordine: oltre una cinquantina di milioni, a titolo di spese e onorari! Con ciò si premierebbe dunque il colpevole riconosciuto (l'Ordine) e si punirebbe proprio il danneggiato, ribaltando ogni criterio di giustizia e raggiungendo straordinari vertici di iniquità. È tuttavia risultato, ad un esame di autorevoli giuristi ed alla luce dell'orientamento costante della Suprema Corte, Sezioni Unite, che quella sentenza è basata interamente su 7 gravi errori di diritto, contenuti in quattro paginette... E che addirittura il Cataldi, in mancanza di meglio per puntellare la sua tesi, era giunto ad inventare nella sentenza, per una norma di legge, un testo in realtà inesistente... Un exploit, quello del Cataldi, che contrasta in modo stridente con l'azione intrapresa da alcuni anni da una lunga serie di magistrati degni italiani e francesi, a tutti i livelli compresi i più elevati, per ristabilire la giustizia per Surace e rimediare per quanto possibile al discredito per la nostra magistratura che è derivata internazionalmente dal suo caso emblematico. Qualcuno si è chiesto fino a qual punto l'autore di una sentenza con ben sette gravi violazioni di legge in qualche paginetta, e che altera addirittura in sentenza il testo di una norma, possa esser lasciato in una funzione delicata come quella di giudice senza pericolo per i cittadini, e per la dignità della giustizia italiana anche a livello internazionale. Il Surace ci ha dunque impugnato la strana sentenza dinanzi alla Corte d'appello di Napoli assistito da un collegio di giuristi coordinato dall' avv. Vincenzo Vano del foro di Milano, con studio a Milano e Napoli, e un esposto al Consiglio superiore della magistratura. Intanto ha appena terminato un libro che è la continuazione di "Caro Pertini" dal titolo "Cercate Surace..." di cui alcuni capitoli sono dedicati a questo " affaire ". Vediamole ora più da vicino, le sette violazioni del Cataldi.
Prima violazione di legge. Il danno al Surace, esteso per oltre 18 anni, era stato cagionato, come abbiamo visto, da un illecito permanente dell'Ordine, caratterizzato da una serie di atti illeciti commessi e di atti dovuti che invece erano stati omessi illecitamente. Precisamente:
- Prima azione illecita commessa: emissione del provvedimento di sospensione.
- Seconda azione illecita commessa: apertura del procedimento disciplinare che causava già, di per sè, il prolungamento degli effetti della sospensione.
- Terza azione illecita commessa: emissione del provvedimento illecito di radiazione.
- Quarto illecito, stavolta omissivo: Mancato ottemperamento alla decisione esecutiva della Corte d'Appello che annullava la radiazione con conseguente obbligo per l'Ordine di reiscrivere senza ritardo Surace. Omissione di rilevanza anche penale che da sola ha prodotto un prolungamento del danno di ben 7 anni (dal 24/5/86 al 30/1/94).
Ciò che ha causato il danno al Surace è stato dunque un illecito prolungato, reiterato, palesemente permanente che ha messo arbitrariamente Surace nell'impossibilità di continuare la sua attività professionale, benemerita per il suo valore civico e sociale ma scomoda per certi ambienti dagli interessi non precisamente confessabili.
Ora, per un illecito di tipo permanente la legge prevede che il danneggiato ha diritto a richiedere il risarcimento entro 5 anni dalla cessazione del danno. Al di là, si ha prescrizione. In questo caso dunque, poichè il danno era cessato il 30/1/94 (data della reiscrizione) c'era tempo fino al 30/1/99 per presentare tale richiesta. I legali del Surace la presentarono in effetti in data 20/2/98 (largamente dunque nei termini, 10 mesi prima della scadenza). Ebbene il Cataldi nella sua sentenza, pur ammettendo che la radiazione nei confronti del Surace era stata illecita vi sostiene tuttavia, contro ogni evidenza, che l'illecito dell'Ordine non era stato permanente ma... istantaneo, sia pure con effetti permanenti. Per cui Surace avrebbe dovuto presentare la sua domanda di risarcimento entro 5 anni non dalla cessazione del danno, ma dalla sentenza 24/5/86 della Corte d'appello; e cioè entro il 24/5/91. Siccome l'aveva invece presentata dopo tale termine (il 20/2/98) c'era prescrizione e non si poteva procedere contro l'Ordine. Si trattava di un ragionamento del tutto privo di fondamento, poichè l'illecito, come abbiamo visto, era stato macroscopicamente permanente. Con ciò il Cataldi commetteva la prima violazione di legge.
Seconda violazione di legge. In ogni caso il ragionamento del Cataldi non era valido neppure se l'illecito fosse stato davvero istantaneo. In effetti, per tale caso la legge stabilisce che la prescrizione va calcolata a partire non dalla data della sentenza della Corte d'appello, come affermava il Cataldi, ma dalla dichiarata definitività della decisione della magistratura (e cioè dalla sentenza 8/11/91 della Cassazione, che l'aveva sancita) come confermato costantemente dalla Cassazione stessa, Sezioni Unite. Con ciò il Cataldi commetteva una seconda violazione di legge.
Terza violazione di legge. In ogni caso, anche nell'ipotesi che l'illecito fosse stato istantaneo, la prescrizione era stata interrotta dalla lettera 16/11/93 in cui il difensore aveva espresso la volontà di richiedere il risarcimento del danno. Andava dunque calcolata a partire da tale data, sicchè il termine di 5 anni veniva a cadere il 16/11/98, ben dopo la data della presentazione della domanda (20/2/98) che restava così valida. Con ciò il Cataldi realizzava una terza violazione di legge.
Quarta violazione di legge. Il Cataldi affermava che, a seguito della sentenza della Corte d'appello, l'Ordine non era tenuto a reiscrivere senza ritardo Surace, poichè detta Corte aveva sì annullato la radiazione, ma non aveva ordinato esplicitamente all'Ordine di reiscriverlo. Per ottenere dunque la reiscrizione, Surace avrebbe dovuto presentare una domanda specifica, dopodichè l'Ordine aveva la facoltà di decidere se reiscriverlo o meno. E siccome Surace aveva presentato domanda in tal senso solo con una lettera 16/11/93, l'Ordine non aveva potuto reiscriverlo che poco dopo, in data 30/1/94. Ma si trattava di un'altra affermazione priva di fondamento. Poichè la Corte d'appello aveva annullato la radiazione, questa era da considerarsi come mai avvenuta. E siccome la sentenza era immediatamente esecutiva, l'Ordine regionale, a cui essa era stata regolarmente notificata, era tenuto a provvedere senza ritardo alla pedissequa registrazione della reintegrazione del Surace, senza alcuna facoltà di decidere il contrario. Doveva eseguire e basta. Inoltre, la lettera 16/11/93 non era stata affatto una "domanda di reiscrizione" ma un richiamo perentorio a reiscrivere Surace all'Albo professionale entro 15 giorni. A seguito del quale, e della successiva analoga lettera 24/1/94, l'Ordine dovette provvedere, "obtorto collo" come abbiamo visto, a registrare la reintegrazione del Surace a tambur battente (precisamente, dopo 6 giorni, il 30/1/94). Con ciò il Cataldi ha commesso una quarta violazione di legge.
Quinta e sesta violazione di legge. Per sostenere che l'Ordine aveva bisogno di una domanda del Surace per poterlo reintegrare, dopodichè aveva la facoltà di decidere se reiscriverlo o no, il Cataldi afferma di rifarsi agli artt. 46 e 55 della legge sull'ordinamento della professione di giornalista (legge 3/2/63 n. 69). Ma, al solito, del tutto infondatamente poichè questi articoli si riferiscono a casi ben diversi, quelli di giornalisti che siano stati radiati ma la cui radiazione non sia stata poi annullata dalla magistratura. Per di più, per cercare puntellare la sua tesi, il Cataldi attribuiva a detto art. 55 un testo in realtà inesistente...Con ciò, il Cataldi commetteva una quinta e una sesta violazione di legge.
Settima violazione di legge. Il Cataldi ha condannato Surace a pagare all'Ordine oltre una cinquantina di milioni a titolo di spese e onorari mentre, anche se ci fosse stata davvero prescrizione, l'equo criterio era di compensare le spese fra le parti. Commetteva con ciò una settima violazione di legge. Mica male come record...Ad maiora!
Stefano Surace: Saviano? un goffo traditore della propria terra..., scrive il 3 gennaio 2017 “Affari Italiani”. Saviano? Un goffo traditore della propria terra... che con le sue panzane sistematiche contro Napoli e il Sud fa il gioco di certi ambienti polentoni che l'hanno creato appositamente dal nulla. Dopo che l'altro manutengolo che avevano creato a quello scopo prima di lui, Pino Aprile, era stato ormai smascherato, con una piccola mano di ABCnews. E così - ha ora dichiarato ad ABCnews Stefano Surace, l'asso del giornalismo d'inchiesta e maestro di arti marziali di rinomanza mondiale - quei polentoni hanno ritenuto di rimediare creando questo Saviano e pubblicizzando urbi et orbi le sue fandonie fino a farle diventare il best seller mondiale della menzogna sistematica. Ed ora il Saviano ha provato a prendersela con Luigi De Magistris, il sindaco di Napoli... E ciò non a caso, visto che il De Magistris è diventato una specie di punta di diamante dei meridionali determinati a reagire alla depredazione e distruzione sistematica della propria terra e della propria gente da parte di quegli ambienti "padani". Ma a De Magistris, per smascherare il Saviano, sono bastate tre parole: "Non conosce Napoli" Sette guardie del corpo...!!! Ma il più bello è che al questo Saviano è stata attribuita una scorta di ben... 7 guardie del corpo, sostenendo che sarebbe sotto tiro mortale della camorra...Mentre la camorra è ben contenta che resti vivo e vegeto, poiché in realtà costui le fa una bella pubblicità facendola apparire mondialmente come praticamente invincibile...E addirittura, con le trasposizioni televisive, la mitizza agli occhi dei giovani e adolescenti, spingendoli magari a farne parte, o quanto meno ad emularla in gruppetti di minorenni aggressivi. Vedere al riguardo quel suo recente libercolo "La paranza dei bambini", che sarebbe meglio intitolare "Le spaparanzate del Saviano contaballe". In effetti costui sa bene che dalla camorra non corre alcun rischio visto che, invece di attenersi alle normali cautele usate da chi è sotto scorta, non fa che passare da un intervento pubblico all'altro, perfino dando lezioni in assemblee di studenti in certe università, e da un'allocuzione televisiva all'altra. Il che non gli sarebbe certo possibile se fosse davvero sotto tiro della camorra la quale, con quei comportamenti di costui, se volesse non ci metterebbe niente a farlo fuori, scorta o non scorta. Ma vediamo qualche dettaglio...Quegli ambienti polentoni hanno dunque preso una perfetta nullità (Saviano andava presentandosi come giornalista pur non essendo neanche iscritto all'albo) e l'hanno montato a tutto spiano, facendolo passare per un vero napoletano che conosce a fondo Napoli, i suoi abitanti, i suoi vari aspetti e quartieri... In realtà costui è nato effettivamente a Napoli, ma in una clinica dove sua madre si era recata apposta per partorirlo, ritornandosene subito dopo alla sua Caserta, località ben diversa da Napoli. Per cui questo Saviano non ha mai conosciuto praticamente nulla direttamente di questa complessa, affascinante e invidiatissima Napoli, unica al mondo, avendovi soggiornato e solo saltuariamente allorché vi aveva poi frequentato bene o male l'università. Tuttavia, in esecuzione di quella "missione" da manutengolo anti-Napoli e anti-Sud per la quale è stato creato appunto dal nulla, si è dato a lanciare una valanga di panzane l'una più grottesca dell'altra, attribuendo a Napoli e al Sud una generale criminalità che affermava falsamente aver constatato direttamente di persona. Omettendo scrupolosamente di precisare che, nella travagliata Penisola, il criminale che vi impera in realtà è proprio lo stato cosiddetto italiano. Stato raffazzonato un secolo e mezzo fa (1861) da un fecciume piemontese-lombardo, accozzaglia di gente primitiva e abbondantemente tarata, calata da quelle loro zone retrograde ed affamate per depredare e distruggere un Sud prospero e civile, rendendosi autori di un sistematico crimine contro l'umanità. Degni discendenti diretti di unni, ostrogoti, visigoti e simili, col loro odio viscerale verso i popoli civili che hanno in quel caso espresso contro una gente da millenni fonte primaria di cultura e civiltà per il mondo intero: bruciando villaggi, uccidendo e seviziando in massa uomini, donne, preti, bambini, distruggendo i raccolti agricoli, incendiando foreste compresi i villaggi e gli abitanti che vi si trovavano. Praticando metodicamente il terrore, il saccheggio, la tortura e sevizie inaudite contro inermi cittadini, gesta al cui confronto quelle famigerate delle SS naziste appaiono cosette da asilo infantile. Tutto ciò reso possibile dal fatto che, col decesso prematuro dell'efficiente Ferdinando II di Borbone, si era trovato proiettato sul trono delle Due Sicilie, a Napoli, Francesco II detto “Franceschiello”, giovane lontano anni-luce dall'efficacia dei suoi predecessori, essendo affetto da tare genetiche tipicamente piemontesi ereditate dalla madre, una Savoia. Sicché, grazie alla serie-record di idiozie commesse da questo Franceschiello - dettagliate da ABCnews in precedenti servizi - poté verificarsi il fatto fino allora inconcepibile che un Piemonte, zona fra le più sottosviluppate e malandate d’Europa - la cui popolazione, come quella della Lombardia, era fra l'altro ritenuta scientificamente campione mondiale di cretinismo clinico genetico - poté invadere un regno prospero, prestigioso e infinitamente più potente anche militarmente come quello delle Due Sicilie, annetterselo, depredarlo delle sue ingenti ricchezze e raffazzonare disastrosamente uno Stato cosiddetto italiano. Con effetti particolarmente distruttivi per le popolazioni meridionali, che da 154 anni si prolungano tuttora - basti pensare alla cosiddetta "terra dei fuochi - e che, essendo ormai del tutto insostenibili, rendono indispensabile un'urgente secessione del Sud da questo stato criminale fin da quando è nato. Da notare che nel Sud certi fenomeni fuori-legge come la camorra - in realtà ben poca cosa rispetto alla colossale criminalità dello stato - sono stati creati proprio da questo, che se ne serve per i propri fini, fra cui scaricare su di essi le proprie malefatte... Stato che contrasta questi fuori-legge solo se entrano in concorrenza coi propri misfatti o interessi, o magari (succede anche questo) cercano di opporsi a certi suoi abusi contro la popolazione. 9 volte più ricco dell'intera padania. Orbene, contro questa aberrante situazione la gente meridionale e vari suoi rappresentanti - Luigi De Magistris sindaco di Napoli, Vincenzo De Luca, Michele Emiliano, Marcello Pittella, Mario Oliveiro rispettivamente governatori di Campania, Puglia, Basilicata e Calabria - stanno ormai reagendo con un sincronismo che esprime bene lo slancio ormai generale della gente del Sud. Si tratta di un fenomeno di importanza capitale. Basti considerare che finora ogni iniziativa di qualsiasi dirigente meridionale valido veniva puntualmente bloccata in un modo o nell'altro, attraverso Roma, da quegli ambienti del nord che da 155 anni depredandolo il Sud. Si eliminava insomma a Sud sistematicamente ogni dirigente valido, risparmiando solo quelli disposti a fare i manutengoli di quegli ambienti. Si assiste ora invece al fenomeno di dirigenti meridionali che, benché siano state perpetrate cose incredibili per bloccarli, reagiscono decisamente ed efficacemente, appoggiati dalla popolazione. Il che terrorizza i suddetti ambienti polentoni, poiché il 60% delle loro risorse proviene tuttora dal Sud, sicché se questo si distacca rischiano di tornare alla loro atavica miseria. Basti dire che all'atto della cosiddetta "unità" il Sud era semplicemente 9 volte più ricco dell'intera polentonia: Due Sicilie 443,2 milioni di lire-oro, polentonia tutta intera (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Parma, Piacenza, Modena tutte insieme) 49,7 milioni di lire-oro. Insomma erano proprio dei poveracci questi polentoni, prima della cosiddetta "unità"...Situazione miseranda da cui sono poi potuti uscire solo grazie all’arrivo massiccio, in Lombardia e Piemonte, dei meridionali che, in linea con la loro tradizione di civilizzatori, hanno spinto quelle regioni al progresso. E così lombardi e piemontesi, dalla loro polenta fonte di pellagra e conseguente dilagante idiozia (che si aggiungeva al loro diffuso cretinismo clinico genetico scientificamente accertato) erano potuti passare ai salutari napoletanissimi spaghetti...Tuttavia i meridionali poterono far evolvere piemontesi e lombardi solo superficialmente, le tare di quella gente essendo appunto genetiche e quindi praticamente inestirpabili. Renzi vattene a casa... Non c'è dunque da sorprendersi se ora Saviano il manutengolo sia stato lanciato contro De Magistris, il quale parlando di "Sud ribelle", "Napoli capitale", "Renzi vattene a casa" tra la folla in delirio è diventato una sorta di punta di diamante dei meridionali determinati a reagire. Additando, in piena assonanza con lo spirito ormai generale dei meridionali, quegli ambienti "padani" come i peggiori nemici di Napoli e del Sud, e indirizzando a Renzi, capo del governo cosiddetto italiano, un bel "ti devi cagare sotto". Espressione ben adeguata rispetto agli insulti rabbiosi e le insolenze deliranti usati massicciamente contro Napoli e il Sud da quei polentoni per distogliere l'attenzione dalle loro malefatte, e dalle loro tare genetiche. Esemplare il caso di Donatella Galli, consigliere provinciale di Monza e Brianza in quota Lega Nord, che si era data a lanciare, come tanti suoi simili, contro i meridionali espressioni tipo "Forza Etna, forza Vesuvio, forza Marsili (i tre principali vulcani del meridione, compreso quello sottomarino...) distruggili". Sennonché questa tizia e suoi simili devono portare davvero iella alla loro parte, poiché i disastri tellurici si sono poi purtroppo effettivamente verificati, e particolarmente gravi, tuttavia non certo a Napoli e nel Sud ma proprio a nord (Emilia) e al centro fra Umbria e Marche (Norcia, Amatrice, Accumoli, Preci, ecc.). Comunque sia il Renzi che gli ambienti da lui rappresentati già si "cagavano sotto" abbondantemente, terrorizzati dall'idea che il Sud li molli, riappropriandosi della propria indipendenza, delle proprie risorse, riprendendo il proprio congeniale cammino di efficace progresso economico e culturale sconvolto da quella crimine cosiddetta “unità”, nel qual caso appunto le zone padaniche rischierebbero di ripiombare nella loro tradizionale miseria...Ed ora il De Magistris, dopo aver smascherato il Saviano semplicemente con quelle tre parole ("non conosce Napoli") è possibile che lo tratti ancora peggio di come ha trattato vittoriosamente il Renzi. Visto che il Saviano non solo è un nemico accanito di Napoli e del Sud, ma è ancor più spregevole del Renzi poiché è nato, bene o male, proprio nel Sud ed è dunque indiscutibilmente un turpe traditore della propria terra. C'è chi afferma che comunque in fondo questo Saviano un certo talento a scrivere ce l'ha... Ma ciò, date le circostanze, lo rende ancor più indegno, poiché invece di usarlo fra l'altro ad onore e difesa della propria terra, l'ha utilizzato a sua bugiarda denigrazione mercenaria. Da aggiungere che Stefano Surace, il giornalista e scrittore specializzato in inchieste di cui alcune hanno prodotto profonde riforme non solo in Italia, appare deciso ad aggiungere alla lunga serie di sue battaglie “impossibili” ma sempre vittoriose, quella per far recuperare l’indipendenza a questa sua amata terra delle Due Sicilie in cui è nato e si è formato, e di cui non tollera l’attuale drammatica situazione. E - grazie al suo carisma di combattente vittorioso e senza paura acquistato in vari decenni di battaglie di forte interesse pubblico non solo in Italia - è diventato per coloro che intendono difendere realmente gli interessi morali e materiali del Sud Italia un punto di riferimento, una fonte di ispirazione e suggerimenti anche strategici (frutto della sua straordinaria esperienza in conflitti particolarmente duri ma appunto sempre vittoriosi) per azioni da effettuare soprattutto in piena concordia fra i vari esponenti meridionali, mettendo da parte ogni deleteria rivalità. Indirizzando così la propria combattività tutti insieme contro il nemico comune, cioè i suddetti ambienti polentoni parassiti. Da ABCnews Europa (agence européenne de presse)
Dopo Salvini si scatena la Meloni: Saviano umiliato con tre parole, scrive “Libero Quotidiano" il 5 gennaio 2017. Esilarante sfottò di Giorgia Meloni su Twitter. La leader di Fratelli d'Italia prende in giro Roberto Saviano che dice di "sognare dei sindaci africani per salvare il mio Sud martoriato". "Vada a vivere in Africa allora", cinguetta la Meloni: "Così esaudisce il suo sogno e quello di diversi italiani". Ma la risposta dell'autore di Gomorra non si è fatta attendere, così sempre su Twitter, ribatte: "In Africa con Salvini a recuperare i fondi pubblici della Lega finiti in Tanzania e con Meloni a scusarsi per le atrocità nelle ex colonie". A Giorgia l'ultima parola: "Saviano purtroppo quando non copi cose scritte da altri, spari idiozie ciclopiche. Non hai un amico che possa aiutarti coi social?".
Giorgia Meloni. "Saviano dice che sogna sindaci africani. Vada a vivere in Africa allora. Così esaudisce il suo sogno e quello di diversi italiani".
"Saviano? Uno speculatore che fa soldi sulla camorra". L'affondo del sindaco di Napoli De Magistris contro lo scrittore di Gomorra, scrive Luisa De Montis, Venerdì 6/01/2017 su "Il Giornale". Non è nuova la divergenza di opinioni e la conseguente polemica fra lo scrittore Roberto Saviano e il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. Ma dopo le ultime prese di posizione di Saviano che nel commentare il ferimento di una bambina in una sparatoria ha parlato di una città in cui non c'è cambiamento, l'affondo dell'ex pm è duro, e arriva via Facebook. Il primo cittadino partenopeo mette nero su bianco che Saviano si arricchisce sulla pelle della città, e per questo non potrà mai ammettere che a Napoli le cose stanno cambiando. "Mi occupo di mafie, criminalità organizzata e corruzione da circa 25 anni, inizialmente come pubblico ministero in prima linea, oggi da sindaco di Napoli. Ed ho pagato prezzi alti, altissimi", premette de Magistris, che prosegue: "Non faccio più il magistrato per aver contrastato mafie e corruzioni fino ai vertici dello Stato. Non ti ho visto al nostro fianco. Caro Saviano, ogni volta che a Napoli succede un fatto di cronaca nera, più o meno grave, arriva, come un orologio, il tuo verbo, il tuo pensiero, la tua invettiva: a Napoli nulla cambia, sempre inferno e nulla più, più si spara, più cresce la tua impresa. Opinioni legittime, ma non posso credere che il tuo successo cresca con gli spari della camorra. Se utilizzassi le tue categorie mentali dovrei pensare che tu auspichi l'invincibilità della camorra per non perdere il ruolo che ti hanno e ti sei costruito. E probabilmente non accumulare tanti denari". Il sindaco ammette che "a Napoli i problemi sono ancora tanti, nonostante i numerosi risultati raggiunti senza soldi e contro il sistema, ma non è possibile che Saviano non si sia reso conto di quanto sia cambiata Napoli" e che lo scrittore sia "ignorante" per "mancata conoscenza dei fatti. Saviano - scrive de Magistris - non puoi non sapere. Non è credibile che tu non abbia avuto contezza del cambiamento. La verità è che non vuoi raccontarlo - prosegue il sindaco - Saviano è in malafede? È un avversario politico? Non ci credo, non ci voglio credere, non ne vedrei un motivo plausibile. Ed allora, caro Saviano, vuoi vedere che sei nulla di più che un personaggio divenuto suscettibile di valutazione economica e commerciale? Un brand che tira se tira una certa narrazione". E se Napoli e i napoletani "cambiano la storia, la pseudo-storia di Saviano perde di valore economico. Vuoi vedere, caro Saviano, che ti stai costruendo un impero sulla pelle di Napoli e dei napoletani? Stai facendo ricchezza sulle nostre fatiche, sulle nostre sofferenze, sulle nostre lotte. Che tristezza. Non voglio crederci. Voglio ancora pensare che, in fondo, non conosci Napoli, forse non l'hai mai conosciuta, mi sembra evidente che non la ami. La giudichi, la detesti tanto, ma davvero non la conosci. Un intellettuale vero ed onesto conosce, apprende, studia, prima di parlare e di scrivere. Ed allora, caro Saviano, vivila una volta per tutte Napoli, non avere paura". "Più racconti che la camorra è invincibile e che Napoli senza speranza e più hai successo e acquisisci ricchezza. Caro Saviano ti devi rassegnare: Napoli è cambiata, non speculare più sulla nostra pelle". In ogni caso, "senza rancore", "pensala come vuoi - conclude il sindaco - le tue idee contrarie saranno sempre legittime e le racconteremo, ma per noi non sei il depositario della verità".
I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.
Così i giornalisti fecero i killer della prima Repubblica, scrive Piero Sansonetti il 29 Dicembre 2016, su "Il Dubbio". La grande alleanza tra media e pm affondò un intero sistema politico. La Prima Repubblica era una cosa buona? Chi l’ha uccisa? Pierluigi Battista ha scritto un articolo sulla “Lettura” (il supplemento domenicale del “Corriere della Sera”) nel quale rimpiange quel periodo della storia recente del nostro paese, che fu il periodo del grande sviluppo economico e della affermazione della democrazia. E ne esalta molti aspetti positivi. Ieri Emanuele Macaluso, in uno scritto che abbiamo pubblicato sul Dubbio, ha fatto osservare che negli anni nei quali la prima Repubblica fu liquidata dall’inchiesta “Mani Pulite” i giornali certamente non la difesero. Vorrei andare un pochino oltre la giusta affermazione di Macaluso (che è stato tra i dirigenti più importanti di quella fase della vita repubblicana). Credo che i giornali e i giornalisti svolsero il ruolo di killer del sistema dei partiti e quindi della prima Repubblica. Assumendosi l’incarico di demolire una parte della Costituzione repubblicana, e cioè quella che delineava un sistema democratico forte e fondato sulla struttura dei partiti e dei sindacati. (Curioso notare che oggi quelli che ritengono intoccabile la Costituzione repubblicana sono o gli stessi o gli eredi di coloro che la demolirono 25 anni fa). I giornali e i giornalisti presero su di se, consapevolmente e baldanzosamente, una responsabilità diretta e macroscopica. Guidando la cacciata dei partiti dal potere politico, spianando la strada alla magistratura, e costruendo le basi materiali e teoriche per il giustizialismo, e cioè per quella ideologia robusta che – dall’inizio degli anni novanta – diventò (ed è ancora) l’ideologia nazionale, sostituendo l’ideologia dell’antifascismo, che nel primo mezzo secolo del dopoguerra aveva costituito l’elemento unificante dello spirito pubblico nazionale. Cosa fecero i giornali e i giornalisti? Usarono le inchieste della magistratura come artiglieria per sparare sul quartier generale. Decisero, con uso largo di grandi mezzi, di descrivere il Palazzo della politica come un luogo ignobile di ruberie e sotterfugi, abitato esclusivamente da malfattori e lestofanti. E subito dopo assunsero il ruolo di guida del paese, che era stato abbandonato dalla politica in fuga e che non poteva essere raccolto direttamente dai magistrati, modificando completamente la propria funzione intellettuale e civile, e preparandosi a partecipare al nuovo potere politico. Il disegno non riuscì del tutto perché quando la prima Repubblica sprofondò definitivamente, prima con un plebiscito che abolì la legge elettorale e quindici giorni dopo con il linciaggio in piazza di Bettino Craxi ( 18 e 30 aprile 1993), cioè con due strumenti tipici dell’insurrezione, ci fu la reazione ( imprevista) di un pezzo minoritario ma assai rampante della borghesia, guidato da Silvio Berlusconi, che deviò la rotta che giornali, magistrati e poteri economici ( soprattutto quelli che si radunavano attorno alla famiglia Agnelli) avevano previsto. E’ nata così, un po’ sbilenca, la seconda repubblica. In quella alleanza coi magistrati e la grande finanza, il compito dei giornalisti fu decisivo, e il modo nel quale si organizzarono molto ben studiato e definito. E’ vero che alla fine gli altri due membri dell’alleanza portarono a casa gran parte del bottino, e i giornalisti restarono a mani vuote, ma questo non ridimensiona il ruolo che ebbero di “punta di lancia” dell’operazione. Altre volte ho parlato come testimone diretto di quella vicenda. Ora, visto che il tema è tornato alla ribalta – e credo che sia un nodo decisivo della storia, non spettacolare, della crisi del giornalismo italiano e dello stato di subalternità e di inferiorità nel quale vive – voglio essere ancora più preciso. I principali giornali italiani avevano costituito un “pool”, rinunciando a quell’elemento decisivo, storicamente, nella vita dei giornali e del giornalismo, che è la competizione e la concorrenza. Quattro giornali firmarono un patto di ferro: “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “L’Unità” e “La “Repubblica”. Tranne Eugenio Scalfari, tutti gli altri direttori furono direttamente coinvolti in questo patto. Erano personaggi di primissimo piano, e contavano moltissimo nell’establishment, e furono tra i pochissimi che non furono travolti dall’” insurrezione”, anzi la guidarono. Paolo Mieli, Ezio Mauro, Walter Veltroni, che erano i direttori dei primi tre giornali, e un certo numero di capiredattori di Repubblica, il nome più noto è quello di Antonio Polito. Non ho mai potuto accertare se Scalfari sapesse e se approvasse. Ho solo un sospetto. Io all’epoca ero condirettore dell’Unità, e dunque – lo confesso – partecipai direttamente a molti colloqui e assistetti a tutto ciò che avvenne. Ogni sera, verso le sette, i direttori o i vicedirettori o i capiredattori, si sentivano per telefono e decidevano come fare le prime pagine, come dare le notizie, con quale forza, con quale gerarchia. Tutte le notizie, ovviamente, ma soprattutto le notizie che riguardavano il palazzo e l’inchiesta sulle Tangenti, che ogni giorno mieteva nuove vittime. Le “macchine”, come si dice in gergo, dei giornali furono rivoluzionate. I giornalisti non erano più titolari delle notizie, rispondevano a questa specie di “spectre” che era il supervertice dei quattro giornali. Il pool di direttori si interfacciava con in pool di giornalisti giudiziari, che aveva coinvolto anche giornalisti delle Tv, ed era alle dirette dipendenze delle Procure, e in particolare della Procura di Milano. Nessun giornalista giudiziario che non facesse parte del pool poteva più accedere a nessun tipo di notizia di giudiziaria, e rapidamente, per questa ragione, veniva eliminato dalla piazza. Il pool dei direttori – nel quale spiccava una specie di diarchia: Mieli che era il giornalista più autorevole, e Veltroni, che guidava un giornale ma era l’unico esponente della politica ammesso a questo consesso – aveva assunto anche vere e proprie funzioni legislative. L’esempio più clamoroso è quello del decreto– Conso. E’ un decreto legge varato dal Consiglio dei ministri il 5 marzo del 1993 ( come vedete, se fate attenzione alle date, di poche settimane precedente al referendum– plebiscito e al linciaggio di Craxi, cioè agli atti finali dell’insurrezione) nel quale il ministro della giustizia, Giovanni Conso ( giurista celebre e stimatissimo, ex presidente della Corte Costituzionale) disponeva la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti ( non degli arricchimenti personali) per porre un argine all’ondata giustizialista. Il decreto non fu bocciato dal Parlamento ma dal pool dei giornali. Ricordo che quel giorno all’ Unità era arrivato un articolo di un dirigente del partito, favorevole al decreto. Poi alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli latri direttori e si decise di affossare il decreto. L’editoriale fu corretto. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono (la potenza di fuoco di quei quattro giornali era grandissima e costringeva le altre testate ad adeguarsi). Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde. E quello fu lo squillo di tromba che diede il via all’ultima e definitiva offensiva che travolse gli argini e annientò la prima Repubblica e un’intera, e valorosissima, classe dirigente che aveva portato l’Italia ai grandi successi economici e alla conquista della democrazia piena e dello Stato di diritto. Le cose andarono così, e tanti miei colleghi possono confermare. Quali furono le conseguenze per la solidità della nostra democrazia è ancora oggetto di discussione. Personalmente credo che la democrazia fu fortemente indebolita. Da due elementi. Il primo è il dilagare dell’ideologia giustizialista, che ha travolto lo Stato di diritto. Il giustizialismo è una ideologia che non credo sia compatibile con la democrazia liberale. Il secondo elemento è lo strapotere che è stato assunto dalla magistratura e dall’economia, che ha messo in discussione lo Stato liberale. Non si è mai invece nemmeno discusso di quali furono le conseguenze per il giornalismo italiano. Io credo che in quei giorni il giornalismo italiano morì. Sepolto dal suo tradimento. Il giornalismo nel suo Dna ha l’obbligo di informare, ha la ricerca dell’oggettività, la terzietà rispetto agli scontri di potere. Il giornalismo ha l’obbligo di criticare il potere, di contrapporvisi. In quelle giornate tra il 1992 e il 1993 abiurò. Decise di farsi travolgere nelle lotte del potere e di diventarne parte attiva e anzi parte dirigente. Di accettare la subalternità ai magistrati e ai potenti dell’economia, nella convinzione di poter poi svolgere una funzione di guida nella nuova alleanza. Non gli fu affidata la guida, invece, ma solo una funzione servile. Non si è mai ripreso – credo – da quel crollo. Forse per questo oggi il giornalismo italiano è lontano mille miglia dal grande giornalismo europeo e americano. Loro hanno “Le Monde”, il “New York Times”, fanno informazione e cultura. Noi abbiamo “Il Fatto” (e molti altri simili), facciamo propaganda e ufficio stampa alle Procure.
Quella giornata particolare del 1992 in cui incontrai Di Pietro…scrive Francesco Damato il 30 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Il pm mi rassicurò che in nessuna delle carte spedite dalla procura alla Camera si può trovare uno spunto a carico dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi. All’onesto e autocritico racconto di Piero Sansonetti, ieri sul Dubbio, vorrei aggiungere una testimonianza sul ruolo a dir poco improprio svolto dai giornali negli anni terribili delle indagini giudiziarie sul finanziamento troppo a lungo illegale della politica. Terribili, come li ha giustamente definiti in un libro di meritato successo Mattia Feltri, rimbrottato dal padre, Vittorio, che diede in quei tempi il suo contributo all’imbarbarimento dell’informazione, scambiando spesso lucciole per lanterne, comunque trasformandosi in un megafono delle Procure, a cominciare naturalmente da quella di Milano. È proprio a Milano che scorre, nella primavera del 1992, quella giornata particolare, diciamo così, della mia esperienza più diretta di Mani pulite, che è rimasto il nome della vicenda giudiziaria costata la vita a un po’ di imputati, suicidi o no, e soprattutto alla cosiddetta prima Repubblica. Che pure non aveva certamente demeritato nella costruzione della democrazia in Italia dopo le tragedie del fascismo e della guerra. Quella giornata particolare del 1992 quando incontrai a Milano Tonino Di Pietro…Le agenzie trasmettono dalla prima mattina indiscrezioni provenienti dalla Camera, dove la giunta delle autorizzazioni a procedere è alle prese con le carte giunte dalla Procura ambrosiana sugli ex sindaci socialisti di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, sospettati di ricettazione delle tangenti gestite dal collega di partito Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio in flagranza di reato con un’operazione diretta da Antonio Di Pietro. Le indiscrezioni romane, in gran parte diffuse o attribuite poi, a torto o a ragione, al deputato ambientalista Mauro Paissan, ex direttore del Manifesto, considerano il leader del Psi Bettino Craxi, peraltro cognato di Pillitteri, già coinvolto nelle indagini. E quindi fortemente a rischio nella crisi che sta gestendo il nuovo presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro per la formazione del primo governo della legislatura uscita dalle urne del 18 aprile. Si sa che esiste un accordo addirittura pre-elettorale fra democristiani e socialisti per un ritorno di Craxi a Palazzo Chigi, da dove egli era stato sfrattato in malo modo nel 1987, dopo quasi quattro anni di governo, dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, sostituito poi da Arnaldo Forlani, vice dello stesso Craxi in quell’esperienza di capo del governo. Nel pomeriggio di quella giornata di primavera, tornando a piedi nella redazione del Giorno, che dirigo da tre anni, incontro per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro. Che allontana col cenno di una mano gli agenti della scorta per venirmi incontro e parlarmi. Ci conosciamo solo superficialmente, avendolo incontrato una sola volta a pranzo, all’inizio del mio incarico al Giorno, col comune amico Claudio Dini, presidente della Metropolitana Milanese. Debbo inoltre a Di Pietro una certa gratitudine professionale perché, pur conoscendo il modo non acritico in cui seguivo le sue inchieste, ha avuto l’onestà in una intervista di difendermi dalle accuse, provenienti anche dall’interno del mio giornale, di non divulgare col dovuto rilievo, diciamo così, le notizie della Procura. D’altronde era stato proprio Il Giorno a destare l’anno prima la curiosità della Procura con servizi di cronaca su ciò che accadeva negli ospedali per la macabra corsa delle agenzie funebri all’accaparramento dei clienti. E all’arresto di Chiesa, presidente della cosiddetta Baggina, ospedale e insieme casa di riposo, Il Giorno era stato il solo a sparare la notizia in prima pagina, per mia personale decisione: tanto che all’indomani, visti gli altri giornali, nella prima riunione redazionale chiesi, un po’ preoccupato, al responsabile della Cronaca se fosse sicuro della notizia nei termini da noi riferiti. Cosa, questa, che dopo qualche tempo – giusto per darvi l’idea del clima che stava montando – avrei trovato raccontato su un quotidiano come prova di un mio intervento censorio sulla redazione. Ma torniamo all’incontro con Di Pietro in quel pomeriggio. Tonino, come lo chiamano gli amici, allarga le braccia e mi esprime tutto il suo stupore per le notizie, anzi per le indiscrezioni diffuse dalle agenzie sul coinvolgimento del presidente. Ch’egli nomina così facendo cenno verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi di Craxi. Di Pietro mi assicura che in nessuna delle carte spedite dalla Procura alla Camera si può trovare uno spunto a carico dell’ex presidente del Consiglio. E mi anticipa che fra poco la stessa Procura emetterà una nota. In effetti dopo un paio d’ore viene diffusa una smentita dagli uffici giudiziari con la classica formula dell’estraneità di Craxi ‘ allo stato’ delle indagini. Formula che poi sarà usata dal capo della Procura, Francesco Saverio Borrelli, nella inusuale partecipazione alle consultazioni riservate del presidente della Repubblica per la formazione del nuovo governo. Che si risolveranno col conferimento dell’incarico a Giuliano Amato, anziché a Craxi. Nella riunione serale di redazione per la confezione della prima pagina decidiamo di titolare sul comunicato della Procura, destinando le indiscrezioni a carico del segretario socialista non ricordo più se al sommario o al catenaccio, come si chiama in gergo tecnico un rigo vistoso di sottotitolo: tutto a metà pagina, per dare più spazio agli arresti ormai di giornata. A tarda sera, mentre sto per scendere in tipografia a chiudere il giornale – altro gergo tecnico – mi chiama da Roma l’amico Ugo Intini, portavoce e consigliere di Craxi, per chiedermi la cortesia di dirgli come saremmo usciti. Alla lettura del titolo mi chiede un’altra cortesia: Posso farti chiamare da Roberto? Che è Villetti, direttore dello storico Avanti!, il quotidiano ufficiale del Psi. Villetti mi chiama dopo un quarto d’ora e non mi lascia neppure il tempo di salutarlo perché mi assale, letteralmente, con questa domanda: ‘ Ma è vero che esci titolando sulla smentita della Procura? Certo. È l’unica notizia vera. Il resto è un assemblaggio di condizionali, di sembra che, di pare. Vuoi che privilegi questa roba, utile solo a boicottare l’incarico di governo a Craxi?, gli rispondo. Roberto si traveste da fratello, non bastandogli più l’amicizia, e mi dice, accorato: ‘ Francesco, ma che fai? Non essere più realista del re. Questo ti nuoce professionalmente. Non reggo più a sentirlo. Lo saluto e fuggo via dal telefono. Sono sinceramente esterrefatto. Mi metto le mani fra i capelli pensando a qualche mese prima, a quella trattoria di Bari dove avevo trattenuto Bettino dall’intenzione che mi aveva espresso di cambiare il direttore dell’Avanti!. Non avevo neppure fatto tanta fatica. Mi era bastato chiedere a Craxi perché mai volesse fare di Roberto un martire. Il primo avviso di garanzia al leader socialista sarebbe arrivato verso la fine del 1992: il primo di una lunga serie. E dopo qualche settimana si sarebbe dimesso da segretario del partito scrivendomi, con quella sua grafia grande e frettolosa: ‘ Faccio come il generale Kutuzov. Indietreggio per poter poi attaccare’. Povero Bettino. Si illudeva di poter ancora fronteggiare la belva scatenata da quella che dopo, molto dopo, il buon Luciano Violante avrebbe sarcasticamente chiamato la carriera unica di pubblici ministeri e giornalisti. E che Piero Sansonetti ha efficacemente descritto raccontando delle telefonate che scorrevano ogni sera fra le redazioni dei maggiori giornali, compreso il suo, l’Unità, per consultarsi e uscire poi il più omogeneamente possibile. *** Fa bene Piero a dubitare della consapevolezza di Eugenio Scalfari in questa partita. Di lui ricordo nitidamente, senza bisogno di ricorrere all’archivio, l’editoriale sui decreti che, su iniziativa dell’allora guardasigilli Giovanni Conso, il primo governo di Giuliano Amato varò nel marzo del 2013 per la cosiddetta ‘ uscita politica’ da Tangentopoli. Che non sarebbe forse servita a salvare lo stesso la prima Repubblica – quella vera, non la Repubblica di carta di Scalfari – ma avrebbe probabilmente ridotto le perdite. Usciti peraltro da una lunghissima riunione del Consiglio dei ministri, sospesa una ventina di volte per consentire consultazioni telefoniche fra gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale, i decreti Conso furono giudicati positivamente da Scalfari. Che non aveva previsto le proteste della Procura di Milano, il cui capo lesse personalmente davanti alle telecamere una dichiarazione di forte dissenso, negando che quella roba lì rispondesse in qualche modo, come si era scritto da qualche parte, alle attese degli ormai stanchi inquirenti; spiegando che le nuove norme avrebbero invece danneggiato le indagini; minacciando infine ricorsi alla Corte Costituzionale. Tanto bastò al capo dello Stato per scomodare di domenica i suoi uffici al Quirinale e fare annunciare un suo motivato rifiuto di firmare i decreti legge e renderli esecutivi. Giocò, in particolare, contro uno dei decreti il fatto che, riformando la legge sul finanziamento dei partiti avrebbe fatto saltare un imminente referendum abrogativo della stessa legge promosso dai radicali. Se il decreto non fosse stato approvato dalle Camere entro i 60 giorni prescritti dalla Costituzione, il danno apportato al referendum – osservò Scalfaro – sarebbe risultato irrimediabile. Comunque motivato, l’imprevisto rifiutò della firma di Scalfaro segnò, dopo la resa della libera informazione e quella della politica, la resa anche delle istituzioni. Per la Repubblica, senza discontinuità purtroppo fra la prima che moriva e la seconda che si affacciava in quei giorni alle finestre del referendum elettorale contro il sistema proporzionale, fu un’altra storia. Per uscire dalla quale, con un riequilibrio fra politica e giustizia, entrambe al minuscolo per favore, chissà quanto altro tempo dovrà ancora trascorrere.
I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.
Filippo Facci condannato e sospeso per aver criticato l'islam. Scrive Filippo Facci il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano". La notiziola è che il Consiglio di disciplina dell'Ordine lombardo dei Giornalisti ha deciso di sospendermi per due mesi dalla professione e dallo stipendio, questo a causa di un articolo che pubblicai su Libero il 28 luglio 2016 e che fu titolato «Perché l'islam mi sta sul gozzo». Una giovane collega, che non conosco, lesse l'articolo - che ebbe un certo seguito - e ritenne di fare un esposto contro di me: c' è gente che in agosto fa queste cose. Il risultato, dopo un pacato processino, è questa condanna incredibilmente severa rispetto alle abitudini dell'Ordine: è una sentenza comunque appellabile e, da principio, avevo pensato di riservare ogni reazione alle sedi competenti, come si dice: poi ho letto le motivazioni del giudice estensore (un avvocato che si chiama Claudia Balzarini) e sinceramente non ce l'ho fatta.
Questo per due ragioni: la prima è temperamentale mia, la seconda riguarda puramente la libertà di espressione garantita dalla Costituzione, che non è solo affar mio. Anticipo solo questo: trovo riprovevole che il regolamento del Consiglio di disciplina permetta che una non-professionista, che ho diritto di giudicare di dubbio livello culturale e di forte condizionamento ideologico, possa privare un giornalista e relativa famiglia dei mezzi di sostentamento per mesi due: e questo, a mio dire, non per una palese violazione di alcuna legge (in particolare viene citata la Legge Mancino, quella che vieta la diffusione di idee fondate sull' odio razziale) bensì, sempre a mio dire, per le sue personali visioni del mondo. Ci sarebbe il problema, ora, di illustrare l'oggetto del contendere (l'articolo) senza che suoni come un pretesto per riproporlo tale e quale: suonerebbe provocatorio e non mi va. Quindi dovrete fidarvi di una sintesi dei concetti che esprimeva: e lo faceva con grande chiarezza, vi assicuro.
Unica premessa: il linguaggio era durissimo, volutamente durissimo: e questo come reazione all' impossibilità, oggigiorno, di esprimersi liberamente sull' islam con lo stesso comune linguaggio che si riserverebbe ad altri temi, senza dover porre tremila distinguo ogni volta: «Ho esagerato consapevolmente e lucidamente», ho detto durante l'audizione all' Ordine.
Dopodichè, passando all' articolo, in esso ho espresso il personale diritto di poter odiare l' islam, tutti gli islam, dunque gli islamici e la loro religione che giudico addirittura peggiore di tutte le altre: perché - anche su questo sono stato chiarissimo, durante il processino - io le religioni le detesto tutte, alla maniera dei razionalisti inglesi: non sono mai stato un teo-con, non m' interessa contrapporre una religione a un' altra: tanto che, su questo giornale, ho espresso critiche durissime anche contro il Papa e il Vaticano (forse l' estensore della sentenza non avrebbe gradito neppure quelle, scrivendo lei su Famiglia Cristiana) e questo senza che nessuno mi denunciasse all' Ordine. Certo, alla teosofia islamica ho riservato un'intolleranza particolare perché trattasi di un credo totalizzante e imperniato sulla sottomissione altrui, o - per fare un solo esempio - sulla considerazione della donna come essere inferiore. Dal mio articolo: «Io non odio il diverso: odio l'islam, perché la mia (la nostra) storia è giudaica, cattolica, laica, greco-latina, rousseiana, quello che volete: ma è la storia di un'opposizione lenta e progressiva e instancabile a tutto ciò che gli islamici dicono e fanno». Da qui un' intolleranza (mia) anche per dettagli che sono liberissimo, credo, di poter detestare apertamente: dalle moschee ai tappeti che puzzano di piedi, dai veli femminili al cibo involuto, dall' ipocrisia sull' alcol a cose più serie come «le teocrazie, il loro odio che è proibito odiare», soprattutto «quel manualetto militare che è il Corano», che a sua volta devo poter criticare esattamente, ritengo, come posso fare col Vangelo o chessò, col Mein kampf: che trattano idee o ideologie - tali sono anche le religioni - e non singole persone. Sempre dal mio articolo: «Odio l'islam perché l'odio è democratico esattamente come l'amare, odio dover precisare che l'anti-islamismo è legittimo mentre l'islamofobia no, perché è solo paura: e io non ne ho, di paura... Odio l'islam, ma gli islamici non sono un mio problema: qui, in Italia, in Occidente, sono io a essere il loro».
Bene. Ora qualche estratto dalla sentenza, del cui livello possiamo avere un'idea sin dall' incipit: «Facci ha respinto con fermezza l'accusa di razzismo. Questa è la premessa che solitamente accompagna tutte le affermazioni di carattere razzista». Chiaro: è come dire che dirsi innocenti, in tribunale, sia un primo indizio di colpevolezza: il livello è questo, e per non essere scorretti tralasceremo gli errori materiali di scrittura (sbagliano a scrivere «jihad», ma a ciascuno il mestiere suo). A ogni modo, «Le affermazioni contenute nell' articolo hanno un evidente carattere razzista e xenofobo»: e qui, francamente, c' è da averne abbastanza dell' espressione «razzista» adottata ormai come termine passpartout quando ha invece un significato etimologicamente e storicamente preciso, vedasi vocabolario: è l' idea che la specie umana sia divisibile in razze biologicamente distinte - con diverse capacità intellettive, valoriali o morali - con la convinzione che un raggruppamento razziale possa essere superiore a un altro. Questo è il razzismo, imparentato con la xenofobia che è, invece, una generica paura dello straniero. Ma se è vero che il mio articolo parla di idee, attenzione, «la parte peggiore è proprio quella che riguarda le idee e che consiste in un attacco e in un offesa ad un intero sistema culturale». E se anche fosse? Siamo al reato di vilipendio islamico? «Facci offende una religione e un intero sistema di valori. Non può non rilevarsi che, per l'islam, il Corano ha un valore diverso di quello (sic) che per le altre religioni rivelate hanno i libri sacri». Ergo, se abbiamo letto bene: il Corano non si può offendere, gli altri libri già di più. Mistero: resta che trattasi, l'articolo, di «attacco diretto, indiscriminato e generalizzato verso un gruppo di persona (sic) che costituisce un quarto del genere umano». Verrebbe da rispondere che gli idioti forse sono anche di più, tuttavia la Costituzione non ci impedisce di criticarli. Nell' insieme, è semplicemente pazzesco. Mi avessero detto «hai ecceduto nel linguaggio e allora ti sanzioniamo», forse avrei capito. Ma questa è un'altra cosa. E rischia, sissignori, di essere lo specchio di un'epoca. Filippo Facci
Facci sospeso perché rivendica il diritto all'odio. Sull'onda degli attentati in Europa, il giornalista rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Ora l'Ordine lo ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 17/06/2017, su "Il Giornale". L'Ordine dei giornalisti ha sospeso per due mesi dalla professione e dallo stipendio Filippo Facci, collega di Libero e noto volto televisivo. Nell'articolo finito sotto inchiesta, scritto nel luglio dello scorso anno, Facci rivendicava il diritto ad odiare l'islam e gli islamici. Un articolo molto duro, nella forma e nella sostanza, scritto sull'onda degli attentati fatti nel nome di Allah che in pochi giorni provocarono in Europa oltre cento vittime, la maggior parte delle quali a Nizza. Conosco Filippo Facci e lo stimo, come collega e come intellettuale. È un uomo talmente libero da non aver raccolto quanto il suo talento gli avrebbe permesso accettando solo qualche piccolo e umano compromesso. No, non c'è verso: lui si infiamma e parte in quarta senza remore e limiti. Per questo piace a molti lettori, meno a direttori ed editori. Figuriamoci ai colleghi invidiosi, ai notai del pensiero, ai burocrati del politicamente corretto. Filippo Facci non farebbe male a una mosca (al massimo è capace di farlo a se stesso) e per questo non mi spaventa che abbia rivendicato il «diritto all'odio» di una religione e di una comunità che hanno generato i mostri assassini dei nostri ragazzi. L'odio inteso - nell'articolo è ben spiegato - non come incitamento alla violenza, ma come sentimento contrario a quello dell'amore, «detestare» come opposto di «ammirare». I sentimenti non si possono contenere, ma evidentemente non si possono neppure scrivere. Tanto più se sei un giornalista, se non sei di sinistra, se pubblichi su un giornale di destra, se si parla di islamici. Il tema posto da Facci sul diritto all'odio (Travaglio, tanto per fare un esempio, lo teorizzò nei confronti di Berlusconi) è questione aperta nonostante sia stata affrontata nei secoli da fior di filosofi e da grandi intellettuali. Che a differenza dei colleghi del tribunale dell'Ordine di Milano non sono mai arrivati a un verdetto unanime (e qualcosa vorrà pur dire). Qui non parliamo di una notizia falsa o di fatti e persone specifiche. Siamo di fronte all'opinione di un intellettuale. Il problema non è condividerla o meno. È non censurarla, non soffocarla, non punirla, come abbiamo sempre invocato per chiunque, compreso per Erri De Luca quando istigò al sabotaggio della Tav. Tanti islamici, anche se non terroristi, anche se non lo dichiarano, odiano noi e i nostri costumi. Noi stiamo per premiarli dando la cittadinanza automatica ai loro figli. Però puniamo Facci che non fa mistero dello stesso, reciproco, sentimento. Mi spiace per lui e mi spiace per la categoria così ridotta. Ma soprattutto mi spiace per tutti noi.
Islam, culo e bavaglio, Vittorio Feltri il 17 Giugno 2017 su "Libero Quotidiano" difende Facci: perché ha il diritto di critica. Il nostro eccellente Filippo Facci, editorialista di vaglia, è stato «condannato» a due mesi di disoccupazione per aver pubblicato un articolo nel quale egli manifestava odio e disprezzo nei confronti dell'islam in genere. La dura sentenza non è stata emessa da un tribunale della Repubblica bensì dall' Ordine lombardo dei giornalisti, ente legittimato a punire gli iscritti anche se si limitano a usare un linguaggio considerato dai giudici (improvvisati) volgare e offensivo. Il che è arbitrario. Secondo i colleghi al vertice dell'Albo, Facci merita di essere sospeso dalla professione (chiamiamolo correttamente lavoro) non solo perché detesta i precetti del Corano, ma pure perché la sua prosa cruda non è gradita alla categoria, la quale si ispira al più vieto conformismo e, pertanto, respinge il lessico che contrasti col cosiddetto politicamente corretto. Ormai l'Ordine, pur di adeguarsi alla moda progressista, invece di badare alla correttezza dell'informazione, si preoccupa di imporre agli scribi i propri canoni estetici, per altro discutibili. In sostanza fa la guerra alle parole e ne trascura il significato. Inoltre entra nel merito delle opinioni e se non condivide quelle di un collega le boccia e le sanziona in barba alla Costituzione che, in teoria, le ammette tutte, salvo quelle del fascismo, la cui apologia è proibita. Filippo nel suo pezzo critica ferocemente la religione musulmana (e non solo questa) e coloro che la praticano. Ha ragione o torto? Non importa. Bisogna riconoscere che è un suo diritto non essere d'accordo con gli adoratori di Allah. D' altronde nessuno ha mai impedito agli anticlericali occidentali, italiani in particolare, di essere ostili al cattolicesimo, al cristianesimo. Si è mai visto un cronista perseguito dall' ordine in quanto auspica la sparizione dei preti? Non c' è quindi ragione di prendersela con Facci perché non tollera gli islamici, i cui costumi sono antitetici rispetto ai nostri. Gli si rimprovera di aver fatto ricorso a termini quali «culo» e «merda». Ma ciascuno ha il proprio vocabolario, bello o brutto che sia. Non c' è motivo di censurarlo. Il culo è una realtà che accomuna l'intero mondo animale, quindi anche umano. È il terminale dell'intestino. È obbligatorio ignorarlo? Quanto alla merda, sfido la corporazione a dimostrare con argomenti scientifici che è una invenzione di Filippo tesa a diffamare chi non sopporta la parità tra maschi e femmine e combatte la democrazia in favore dello Stato etico, da noi superato da secoli. Se la merda c' è, e le cloache ne sono piene, non si comprende per quale motivo sia innominabile. Non si cambia la società, amici redattori, ignorando la semantica e confinando all' indice certi sostantivi e certi aggettivi. Tra l'altro non è compito dei giornalisti migliorare ciò che avviene sulla terra; al massimo siamo attrezzati per descriverlo. Cosa che Facci fa egregiamente, e forse per questo gli tappano la bocca senza neppure provare imbarazzo. La libertà è un bene prezioso per tutti tranne che per i soloni dell'Albo, i quali, non riuscendo a beneficiarne (per convenienza?), pretendono di negarla a noi, sono persuasi sia un lusso inaccessibile per gente disinibita come Filippo.
Facci, l’assurda condanna dell’Ordine, scrive Pierluigi Battista il 18 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Il problema non è se Filippo Facci abbia scritto sul suo giornale castronerie o cose condivisibili. Il problema è che a decidere della liceità di ciò che ha scritto e addirittura a punirlo inibendogli per due mesi l’esercizio della professione sia chiamato un organismo per l’appunto nato nel clima del fascismo, in un’atmosfera per così dire poco favorevole all’ossigeno della libera stampa, e che si chiama Ordine dei giornalisti. Un organismo che infatti non ha eguali in tutto il resto delle democrazie occidentali, nessuna esclusa, che forse (forse?) con la libera informazione hanno una consuetudine più collaudata della nostra. Un organismo costoso e inutile, che si regge sul contributo coatto dei suoi iscritti, perché una norma liberticida, nata con il fascismo e purtroppo perfezionata nell’Italia antifascista, obbliga all’iscrizione nell’Albo dei giornalisti se si vuole esercitare, retribuiti e regolarmente assunti, la libertà di espressione in un giornale. Dicono i suoi difensori: ma anche gli avvocati, gli ingegneri, i medici e altri. Solo che gli avvocati, gli ingegneri, i medici hanno alle spalle un corso di studio, una piattaforma di conoscenze e di tecniche indispensabili per dimostrare la loro idoneità per professioni delicate per la vita di tutti. I giornalisti accedono all’Ordine dopo un esame una tantum consultando testi che, come nell’esame di guida, verranno dimenticati il giorno dopo l’acquisizione dell’obbligatorio tesserino. E soprattutto gli ordini degli avvocati, degli architetti, dei medici non mettono bocca sulle opinioni dei loro aderenti. In quello dei giornalisti, o meglio nelle burocrazie che ne detengono le leve, sì: c’è qualcuno, i cui titoli sono tutti da discutere e da vagliare, che si arroga il diritto di decidere cosa Filippo Facci, e tutti i giornalisti come lui, possa o non possa sostenere in piena autonomia e libertà. In un Paese passabilmente normale e liberale, se un giornalista commette un reato nell’esercizio della sua professione deve essere giudicato dalla giustizia al pari di tutti i cittadini. In Italia no: c’è l’organo corporativo che si sostituisce alla giustizia ordinaria e decide che Facci per due mesi non debba ricevere lo stipendio. Un’assurdità, che prescinde totalmente da quello che Facci ha scritto e può essere più o meno condivisibile. Ma in Italia, l’assurdo è normale.
Mentana difende Facci e litiga con i «webeti» «Aboliamo l'Ordine». Il direttore a fianco del collega sospeso: "No a chi sanziona le opinioni". Ma viene attaccato, scrive Luca Fazzo, Martedì 20/06/2017, su "Il Giornale. Guai a Filippo Facci, colpevole di odiare l'Islam; e guai anche a chi osa prendere le sue difese: anche se si chiama Enrico Mentana, dirige il Tg della 7, e alle spalle ha qualche decennio di carriera giornalistica che testimonia per lui. Ma non c'è niente da fare. Domenica sera Mentana sulla sua pagina Facebook attacca frontalmente l'Ordine dei giornalisti, che ha sospeso Facci - giornalista di Libero - per due mesi dalla professione e dallo stipendio per un editoriale considerato razzista: una manciata di ore, e Mentana si trova costretto a pubblicare un nuovo post per rispondere all'ondata di reazioni indignate piovutegli addosso, «direttore ma che cazzo dice?», e via di questo passo: tutte schierate contro Facci, quasi tutte contro Mentana, e in buona parte contro la possibilità stessa che un giornalista pubblichi le sue opinioni. «C'è gente - scrive Mentana nel nuovo post - che concepisce il ruolo del giornalista alla stregua di un altoparlante della stazione: annunci, notizie, nessuna opinione»: e ricorda che tutti i grandi del mestiere, da Montanelli a Bocca, furono anche portatori di opinioni forti. Per i suoi critici, il direttore conia la definizione di «analfabeti funzionali»: che richiama da vicino quella di «webeti», da lui stesso impiegata contro la demenza di molti commentatori via Internet. Quella di Mentana non è la sola voce che si è levata a difesa di Facci: prima Alessandro Sallusti sul Giornale, poi Pierluigi Battista sul Corriere. Ma è a Mentana che vengono riservate le contumelie più esplicite, in nome di una pretesa obiettività dell'informazione. E poco conta che Mentana non abbia in nessun modo condiviso le tesi di Facci, ma abbia posto il problema della libertà di opinione: «Io con gente che sanziona le opinioni non voglio avere nulla a che fare», scrive; e si schiera per l'abolizione dell'Ordine dei giornalisti, «ora che da inutile è diventato anche dannoso». Ma come è arrivato l'Ordine dei giornalisti a interdire per due mesi Facci? La sanzione dà conto della autodifesa di Facci: «Il giornalista Facci ha respinto con fermezza l'accusa di razzismo (...) egli ha precisato che il suo articolo si riferisce a idee e non a persone e che il suo odio è indirizzato all'Islam come patrimonio di idee». Scrive il Consiglio di disciplina: «Questo Consiglio non deve valutare se Facci sia o meno razzista ma se l'articolo da lui scritto appaia in linea con le regole che i giornalisti si sono date per evitare la diffusione di scritti che possono ledere la dignità delle persone appartenenti a razze o religioni diverse da quella maggioritaria e possano rafforzare e legittimare nei lettori opinioni d natura razzista». Ebbene: «le affermazioni contenute nell'articolo hanno un evidente carattere razzista e xenofobo (...) la parte peggiore dell'articolo è quella che riguarda le idee e che consiste in un attacco e in una offesa ad un intero sistema culturale (...) si ritiene pertanto che Facci con la sua condotta abbia compromesso la stessa dignità della professione, ridotta a grancassa dell'ostilità e del livore contro chi appartiene ad un'altra sfera culturale».
Radio Maria, l'OdG sospende padre Livio. Disse alla Cirinnà: "Ricordati che devi morire". Il prete giornalista si era scagliato in diretta contro la prima firmataria della legge sulle unioni civili: "Adesso brinda a prosecco, alla vittoria. Signora, arriveranno anche i funerali, stia tranquilla”. Ora arriva la condanna a sei mesi di sospensione. E la senatrice lo invita, scrive il 21 giugno 2017 "L'Espresso". Padre Livio Franzaga aveva tuonato parole bibliche contro il ddl, diventato legge lo scorso anno sulle unioni civili. Non aveva gradito e in diretta dai microfoni di Radio Maria aveva espresso tutto il suo disappunto: "Signora Cirinnà, arriverà anche il suo funerale. Glielo auguro il più lontano possibile, ma arriverà anche quello". Questa frase, e quelle a seguire avevano sollevato l'indignazione degli ascoltatori. Ora arriva la sospensione dell'Ordine dei Giornalisti. "Signora Cirinnà, arriverà anche il suo funerale. Glielo auguro il più lontano possibile, ma arriverà anche quello". Sono queste le parole usate dal direttore di Radio Maria Padre Livio Fanzaga per parlare del ddl sulle unioni civili e della senatrice che lo ha proposto. La frase, riportata sulle pagine Facebook degli attivisti per le unioni civili, sta sollevando l'indignazione degli ascoltatori. Lo stesso Fanzaga dice anche che la Cirinnà gli ricorda "la donna del capitolo 17esimo dell'Apocalisse". Personaggio biblico noto anche come la prostituta di Babilonia. Padre Fanzaga non è inoltre nuovo a uscite discutibili: nei giorni scorsi aveva definito le famiglie arcobaleno "sporcizia" e in occasione di Vatileaks aveva detto che i giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi erano "da impiccare". Monica Cirinnà adesso lo vuole incontrare. E scrive in una nota "Apprendo da fonti di stampa della condanna alla sospensione per 6 mesi dall'Albo di padre Livio Fanzaga, direttore di Radio Maria, a seguito della pronuncia dell'Ordine dei Giornalisti e del rigetto del suo ricorso alla Corte d'Appello di Milano, a seguito delle espressioni ritenute offensive nei miei confronti. Gli scriverò oggi stesso per invitarlo in Senato per un incontro in nome del dialogo tra le differenze e la riconciliazione, tema che considero centrale per la crescita culturale e civile della nostra società e sul quale ognuno di noi è chiamato a contribuire». Padre Livio sulle unioni civili si era espresso in diverse occasioni, definendo le famiglie arcobaleno "sporcizia" mentre Radio Maria aveva dato al ddl Cirinnà la colpa del terremoto.
Brunella Bolloli per Libero Quotidiano il 21 giugno 2017.
Vittorio Sgarbi, cosa pensa delle censure e delle sospensioni inflitte dall' Ordine dei Giornalisti come quella di due mesi alla penna di «Libero» Filippo Facci e quella di sei mesi a Radio Maria?
«È una forma di totalitarismo. Cioè a me va benissimo dire cose politicamente scorrette, però non c' è ragione per cui un islamico possa dichiarare il suo odio per i cristiani e un cristiano non possa dichiarare il suo odio per gli islamici. Può piacere o no, ma è normale che uno non la pensi come te».
Si chiama libertà di opinione.
«Esatto. Non bisogna fare necessariamente il giornalismo sopra le parti come se fosse il migliore possibile. Anche il giornalismo di parte è grande giornalismo, almeno per quelli che ti ascoltano, che ti leggono e la pensano come te. Quindi, è quasi incomprensibile pensare che ci sia un organo che ancora decide di sanzionare privando qualcuno della libertà di opinione solo perché la pensa in un modo diverso».
Si stabilisce un limite anche alla libertà di espressione?
«Senza dubbio. Si zittisce chi esprime un concetto altro rispetto alla massa allineata e schiacciata su un pensiero unico, per questo ho parlato di totalitarismo, come nei regimi».
Facci è stato sospeso dalla professione giornalistica perché le affermazioni contenute nel suo articolo, Perché l'Islam mi sta sul gozzo, sono state considerate razziste e xenofobe. Lei ha letto quel pezzo?
«Sì, ma il punto non è questo. La cosa assurda è un'altra».
Spieghi l'assurdità.
«È assurdo che l'atto che dovrebbe censurare la mancanza di democrazia e di tolleranza nello scritto di Filippo è un atto a sua volta intollerante e non democratico. Un atto arbitrario. Anzi: possiamo dire che la cacciata di Facci è il "metodo Facci". Cioè l'Ordine ha applicato a lui lo stesso criterio antidemocratico che, di fatto, gli contesta».
Hanno ancora senso queste sanzioni, in un'epoca in cui chiunque può scrivere ciò che vuole, ingiurie comprese, su Internet?
«No. Ripeto: se un islamico ha voglia di uccidere me, io potrò dire di avere voglia di uccidere lui? Poi sono entrambe delle puttanate, e in Rete è pieno, ma non è giusto limitare la libertà di ognuno di esprimere un parere, anche sgangherato che sia. Poi sanzionano Radio Maria che parla contro la legge Cirinnà e mi chiedo: perché non hanno tolto a Travaglio la patente di giornalista quando ha scritto, almeno venti volte sul suo giornale, che Napolitano era il garante del Patto tra Stato e mafia?».
Anche lei se l'era presa con un presidente della Repubblica...
«Io avevo detto che Scalfaro non aveva le palle e mi avevano accusato di vilipendio».
Quante volte è stato censurato?
«Ma io me ne sbatto i c....i».
Attentato alla libertà d’opinione. La libertà di stampa e di pensiero in Italia è stata cancellata, scrive il 23/6/2017 Vittorio Feltri. Chi esprime una opinione diversa da quelle in voga viene sanzionato dall’Ordine dei giornalisti, come se non bastassero le condanne della cosiddetta Giustizia, sempre pronta a minacciare con la galera i cronisti che descrivono, bene o male, la realtà nazionale. Persino Radio Maria, popolare emittente cattolica, è stata zittita dalla commissione disciplinare dell’albo, in primo grado, e da quella romana in secondo. Padre Livio Fanzaga, direttore bergamasco della citata antenna, è stato sospeso dalla professione per sei mesi, durante i quali dovrà tapparsi la bocca nonostante che la Costituzione garantisca a ogni cittadino il diritto di dire ciò che gli garba, ovviamente nel rispetto della legge che vieta calunnie e diffamazioni. Il motivo della punizione non sta in piedi. Il prete criticò aspramente la onorevole del Pd Monica Cirinnà, promotrice del riconoscimento ufficiale delle unioni civili. Per contestarla egli ricorse alla Bibbia, dicendo che la signora, la quale si definisce cattolica, avrebbe dovuto rispondere del suo operato al Padreterno dopo la propria morte. Cosa che per un credente dovrebbe essere scontata. Le parole del sacerdote, prelevate dal testo sacro, non potevano essere offensive per un soggetto che pratica la religione. Da quando in qua il testamento, vecchio o nuovo che sia, può essere interpretato in alcune sue parti quale serbatoio di insulti? Comunque, don Livio è stato incolpato, come se fosse concepibile che un sacerdote non sia autorizzato ad articolare (...) (...) un ragionamento a favore o contro qualcuno sulla scorta della Bibbia. Con tutta la buona volontà non riusciamo a capire il senso di un castigo tanto grave inflitto a un prete che predica da prete. Il problema è che l’Ordine è influenzato dalla ideologia conformistica della sinistra ed è rappresentato prevalentemente da progressisti impegnati a rispettare il politicamente corretto, che per loro è una sorta di Bibbia laica. Trattasi di una organizzazione corporativa medievale sopravvissuta al fascismo e modificata in peggio dal regime democristiano, il quale nel 1963 burocratizzò gli elenchi dei professionisti e dei pubblicisti in modo tanto rigido da renderli conventicole simili a cosa nostra nei metodi e nella sostanza. Ai vertici dell’Albo, come avviene in altre categorie, non si trovano nomi di giornalisti importanti, ma di mezze figure che poi si ergono con libidine a giudici di colleghi più importanti, godendo se riescono a incastrarli. Chi non sta in alto cerca di diminuire chi svetta. Se non posso mettermi al tuo livello, ti abbasso al mio. Questa è la logica imperante. Un uomo come don Livio, che ha trasformato una radiolina parrocchiale in una potenza capace di raggiungere ogni angolo della penisola, è una preda che ingolosisce chi dal mestiere ha ricevuto soltanto frustrazioni e nessun successo appagante. Questo mio discorso L’ordine sovietico dei giornalisti imbavaglia pure i preti. Dopo le assurde sanzioni a Senaldi e Facci di «Libero», sospeso per sei mesi don Livio, popolare patron dell’emittente cattolica, reo di aver attaccato la Cirinnà sulle nozze gay non è teso ad aumentare la simpatia che suscito nei signori dell’Ordine, ma sono convinto che sia lecito. Debbo ricordare di essere stato perseguitato nel 2000 allorché non mi presentai a un processo per aver pubblicato su Libero le foto (precettate) di ragazzi insidiati dai pedofili, e per ritorsione il consiglio disciplinare propose la mia radiazione che, in secondo grado, fu ridotta a semplice censura. Ciò per dire quale fosse l’animo verso di me. Venni processato anche perché ero presidente degli ippodromi milanesi, e assolto avendo fatto presente che Biagi e Montanelli erano stati rispettivamente consiglieri del Bologna calcio e della Fiorentina. Sorvolo sul caso Boffo, che mi costò tre mesi di sospensione. Acqua torbida passata. La commissione poi se la prese ancora con me illegittimamente per la storia della patata bollente, e si accanì sul direttore responsabile di Libero, Pietro Senaldi, censurato. Infine, ma l’elenco sarebbe lungo, Filippo Facci è stato sospeso per due mesi (privato dello stipendio) in quanto gli sta sul gozzo l’islam. Paradossale. Cancellata la libertà d’espressione. L’Ordine non fa la guerra solamente alle parole, ma anche alle idee che non digerisce. Andrebbe abolito subito. Ma la politica lo tiene buono perché lo usa come strumento di pressione e di oppressione. Coloro che non si adeguano siano bastonati.
Il giornalismo secondo Gramsci: 1500 articoli "contro", rivendicati fino al tribunale fascista. Raccolti in un volume appena pubblicato con la prefazione di Canfora e la postfazione di Frasca Polara. Un vero e proprio manuale della professione e le battaglie su molte testate. Fino all'Unità, della quale racconta la genesi del nome, scrive Giovanni Cedrone il 6 aprile 2017 su "La Repubblica". "Io non sono mai stato un giornalista professionista, che vende la sua penna a chi gliela paga meglio e deve continuamente mentire, perché la menzogna entra nella qualifica professionale". Queste parole, contenute in una lettera a sua cognata Tatiana Schucht dell'ottobre 1931, forse meglio di altre testimoniamo l'indomito spirito con cui Antonio Gramsci si è dedicato al giornalismo. Le parole sono contenute nell'ultimo volume dedicato al fondatore del Partito comunista "Il Giornalismo, Il Giornalista. Scritti, articoli, lettere del fondatore dell'Unità" a cura di Gian Luca Corradi (edito da Tessere). A 80 anni dalla sua morte, avvenuta il 27 aprile 1937, Corradi ha raccolto alcuni fra gli oltre 1.500 articoli che Gramsci pubblicò su varie testate (prima di essere recluso nel 1927) e alcune lettere, antecedenti e successive alla carcerazione, nelle quali tocca l'argomento della stampa periodica. L'ideatore del concetto di egemonia si conferma un pensatore aperto e non dogmatico e le sue intuizioni sul giornalismo stupiscono per l'attualità e la lungimiranza. Come sottolinea Giorgio Frasca Polara nella postfazione, "Gramsci avrebbe potuto insegnare, e bene, quel giornalismo serio, informato di cose serie, che oggi sta diventando una rarità non solo in Italia". Non bisogna dimenticare che il contributo di Gramsci al giornalismo italiano è stato enorme: oltre ad aver fondato "L'Ordine Nuovo" e "L'Unità", Gramsci scrisse per almeno una decina di giornali, tra cui "La Città futura", numero unico della Federazione giovanile socialista piemontese e "Energie nove", quindicinale diretto da Piero Gobetti. Luciano Canfora ricorda nell'introduzione le parole contenute nel verbale d'interrogatorio di Antonio Gramsci nel carcere giudiziario di Milano, datato 9 febbraio 1927, con cui lo stesso pensatore comunista dichiara di essere "pubblicista" prima ancora che "ex deputato al Parlamento". Sui "Quaderni" il fondatore dell'Unità traccia quasi un manuale del buon giornalista: parla di giornalismo "integrale", cioè quello che non solo intende soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma intende creare e sviluppare questi bisogni, rimarca poi la necessità per i giornalisti di "seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese". Un sano realismo lo porta a considerare i lettori da due punti di vista, sia come elementi "ideologici, trasformabili filosoficamente", sia come elementi "economici, capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri". Sottolinea come il contenuto ideologico di un giornale non sia sufficiente a garantire le vendite: conta anche la forma in cui viene presentato. Interviene su quella che chiama "l'arte dei titoli" in cui influisce l'atteggiamento del giornale verso il suo pubblico che può essere "demagogico-commerciale" o "educativo-didattico".
Le riflessioni teoriche di Gramsci si riflettono nella sua attività di pubblicista. Il fondatore del Pci non si occupava solo di politica, ma anche di costume, società, teatro, musica e storia. In una pagina del marzo 1916 di "Sotto la Mole", Gramsci contesta, ad esempio, l'assunto che la malavita organizzata sia solo al sud, un discorso che a 100 anni di distanza risuona quanto mai attuale. Nel maggio 1916 difende il maestro Toscanini per aver scelto una sinfonia di Wagner in un concerto al Teatro Regio di Torino, scelta che, con l'Italia entrata in guerra contro gli Imperi centrali, aveva provocato i fischi del pubblico. Scrive di teatro e in particolare la sua attenzione cade su Pirandello che per lui aveva il merito di creare "delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti della tradizione". Ragiona poi sul "carattere" degli italiani improntato, secondo lui, all'ipocrisia in tutte le forme della vita: nella vita familiare, nella vita politica, negli affari. "La sfiducia reciproca, il sottinteso sleale - sottolinea Gramsci - corrodono nel nostro paese tutte le forme di rapporti: i rapporti tra singolo e singolo, i rapporti tra singolo e collettività. L'ipocrisia del carattere italiano è in dipendenza assoluta con la mancanza di libertà".
Da un punto di vista storico, le pagine più interessanti sono nelle lettere, soprattutto quelle dal carcere, con il racconto della sua detenzione e le riflessioni sul giornalismo che occupano una parte importante della sua corrispondenza. In una missiva al Comitato esecutivo del Pcd'I del settembre 1923 svela perché fu scelto il nome "l'Unità" per il giornale da lui fondato. Aveva un duplice significato: innanzitutto richiamava all'unità tra operai e contadini, non soltanto nell'ambito del rapporto tra le classi, ma anche nel più generale tema della questione nazionale, "unità" tra nord e sud, tra città e campagna. Nella lettera a Vincenzo Bianco del marzo 1924 emerge il Gramsci "maestro di giornalismo", una pagina che forse qualsiasi giornalista alle prime armi dovrebbe sempre tenere a portata di mano. Prima di iniziare a scrivere - afferma Gramsci - bisogna predisporre uno schema e domandarsi cosa sia veramente importante. Consiglia poi di leggere "Il Manifesto dei Comunisti" che definisce "un capolavoro di chiarezza, di semplicità e di dialettica". Infine invita alla brevità ricordando l'esempio di Andrea Viglongo, suo collaboratore, che allenava a scrivere articoli di al massimo una colonna e mezzo.
La raccolta di scritti ha il grande merito di tracciare con chiarezza un aspetto del profilo di Gramsci forse meno noto, quello del Gramsci giornalista. Un aspetto che conferma, come giustamente sottolinea Canfora, quanto Gramsci sia davvero appartenuto alla cultura italiana di quegli anni molto più che ad una cultura di partito. Pensatore mai banale, marxista irregolare, oggi icona pop e studiato nelle università di mezzo mondo, Gramsci fu anche "maestro di giornalismo" i cui insegnamenti, a distanza di 80 anni, restano più che mai validi.
Ecco a voi una vera e propria perla andata in onda su Rainews24: durante la notte delle elezioni americane, Giovanna Botteri si è lasciata andare alla disperazione: «Che ne sarà di noi giornalisti se non riusciamo più a influenzare l’opinione pubblica?» Parole testuali: «Che cosa succederà a noi giornalisti? Non si è mai vista come in queste elezioni una stampa così compatta ed unita contro un candidato… che cosa succederà ora che la stampa non ha più forza e peso nella società americana? Le cose che sono state scritte, le cose che sono state dette evidentemente non hanno influito su questo risultato e sull’elettorato che ha creduto a Trump e non alla stampa!». Forse è per questo che la gente non si fida più di voi? Forse è per questo che non vendete più giornali? Forse è per questo che dovete andarvene tutti a casa?
Gramsci giornalista senza tabù. «Ci vuole l’articolo di un fascista». Il volume, curato da Gian Luca Corradi, raccoglie scritti, articoli e lettere del fondatore de «l’Unità». L’introduzione è di Luciano Canfora, la postfazione di Giorgio Frasca Polara, scrive Paolo Franchi il 30 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". «In dieci anni di giornalismo io ho scritto tante righe da poter costituire 15 o 20 volumi da 400 pagine», sostiene Antonio Gramsci il 7 settembre 1931, in una lettera a Tatiana Schucht dal carcere di Turi. In realtà, quanto agli anni di attività, sbaglia per difetto. Il suo primo articolo, così come il suo primo tesserino da giornalista, in qualità di corrispondente dell’«Unione Sarda» da Aidomaggiore, risale al 1910. Ne seguiranno, fino all’arresto, nel 1926, altri 1.500, in forma di editoriale, di commento, di corsivo, di critica teatrale e di quant’altro, sul «Corriere universitario», l’«Avanti!», il «Grido del popolo», la «Città futura», «Avanguardia», «Energie Nove» e vari altri giornali ancora, oltre che, naturalmente, sulle due testate storiche che fondò. Stiamo parlando, ovviamente, dell’«Ordine Nuovo» («Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza, agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo, organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza», scrisse, rivolto agli operai torinesi, sul primo numero, nel maggio del 1919), e «l’Unità», che volle chiamare così (correva l’anno 1924) a significare che doveva essere ben di più di un foglio di partito. Non solo. Al giornalismo, e ai giornalisti, Gramsci dedica, nei Quaderni del carcere, un’attenzione a dir poco sistematica, e riflessioni sovente di sconcertante attualità. Di giornalismo, e di giornalisti, c’è traccia assai ampia nelle sue lettere. Di tutto questo dà conto, nell’ottantesimo della morte, un’ampia e ragionata raccolta di scritti gramsciani, curata, per Tessere, da Gian Luca Corradi (Antonio Gramsci, Il giornalismo, il giornalista, con un’introduzione di Luciano Canfora e una postfazione di Giorgio Frasca Polara) che andrebbe letta e meditata, in particolare, da noi che facciamo questo mestiere, da chi di informazione, per un motivo o per l’altro, si occupa, e da chi più o meno professionalmente fa politica. Gramsci, annota giustamente Canfora, condivise con molti altri leader dell’Ottocento e del Novecento («da Cavour a Mazzini, a Marx, a Turati, a Lenin, a Jaurès», e per l’Italia aggiungerei almeno Benito Mussolini e Pietro Nenni) l’idea che impegno giornalistico e lotta politica fossero in una certa misura consustanziali. Ma considerò e rivendicò l’essere giornalista come il suo lavoro («Sono e mi chiamo Gramsci Antonio, pubblicista, ex deputato al Parlamento», si legge nel primo verbale di interrogatorio, datato 9 febbraio 1927). E fu in primo luogo la sua militanza giornalistica a consentirgli, ha ancora ragione Canfora, «un rapporto di costante e feconda dialettica con le correnti di pensiero, letterarie, artistiche, che si sprigionavano e si esprimevano in quegli anni». Di questo rapporto c’è, nel libro curato da Corradi, una ricchissima testimonianza diretta, cui non posso che rimandare i lettori. Qui vorrei segnalare un tema soltanto. Da uomo e da giornalista libero Gramsci si appassiona (eccome) alla fattura del giornale, alla grafica, al formato, alla scrittura degli articoli (fantastica una sua lettera a Vincenzo Bianco), ai problemi della tipografia e a quelli della distribuzione. Da detenuto a San Vittore, legge cinque quotidiani (ma pure il «Corriere dei Piccoli», «che mi diverte», il «Guerin Meschino», «cosiddetto umoristico», e la «Domenica del Corriere»), a Turi è costretto a ridurli a due, la «Gazzetta del Popolo» e il «Corriere»: e si deciderà presto a serbare solo l’abbonamento a quest’ultimo, perché gli altri quotidiani gli sembrano delle imitazioni mal riuscite del «Corriere», con tutti i suoi difetti, non ultimo «il parlare di antecedenti che non sono stati dati, come se il lettore dovesse conoscerli» (una malattia di cui non si è ancora trovata la cura). Sa benissimo che i quotidiani vivono poche ore, e quanto a lui, da libero cittadino, non ha mai voluto raccogliere i suoi articoli in volume, e nemmeno aderire alla richiesta del fascista Franco Ciarlantini, che nel 1924 gli ha chiesto di scrivere, per una sua collezione, un libro sull’«Ordine Nuovo»: anche se, annota nel 1931, «aver pubblicato un libro da una casa editrice fascista… era molto allettante». Ma il suo oggetto di riflessione è quello che chiama il «giornalismo integrale», che non intende solo «soddisfare tutti i bisogni (di una certa categoria) del suo pubblico», ma vuole «creare e sviluppare questi bisogni, e quindi suscitare, in un certo senso, il suo pubblico ed estenderne progressivamente l’area»: un giornalismo moderno, destinato a diventare «un’industria più complessa e un organismo civile più responsabile», che non può affidarsi a giornalisti formati solo attraverso la «praticaccia». Sostiene, Gramsci, che le stesse riunioni di redazione dovrebbero avere anche questa funzione per così dire pedagogica, diventando così «vere scuole politico-giornalistiche». Un’utopia? Forse sì, come ricostruisce, con arguzia, Frasca Polara. Ma, utopia o no, colpisce che l’idea gli sia venuta in mente, a Gramsci, leggendo in galera un articolo del fascistissimo Ermanno Amicucci. Molti anni prima, Gramsci aveva scritto da Vienna a Mauro Scoccimarro, a proposito di un’inchiesta sul fascismo per l’«Ordine Nuovo». Voleva vi si provocassero anche «giudizi di parte borghese», e faceva tra gli altri il nome di Mario Missiroli, che pure giudicava un «misirizzi». Ma trovava utile anche l’articolo di un fascista, e suggeriva il piemontese Pietro Gorgolini. Libero o in cattività, sapeva distinguere, scrive bene Canfora, «tra valutazione tecnica del mestiere del giornalista e giudizio etico-politico su di un personaggio o di una testata». Come si conviene ai giornalisti di razza.
Quando Ottone censurò l'agguato a Montanelli. Morto a 92 anni il giornalista che negli anni Settanta spostò a sinistra il Corriere emarginando Indro, scrive Daniele Abbiati, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale". I grandi giornalisti non amano i giornalisti, grandi o piccoli che siano. Qualcuno dice: perché li conoscono troppo bene. E forse non hanno tutti i torti. Piero Ottone, all'anagrafe Pier Leone Mignanego, morto il giorno di Pasqua all'età di 92 anni, è stato senza dubbio un grande giornalista. Lo dice la sua carriera, iniziata dal basso, dalla cara, vecchia gavetta, e salita fino all'empireo della poltrona più ambita, quella di direttore in via Solferino, al Corrierone. Primi passi in un altro Corriere, quello Ligure, nel 1945 e nella sua Genova, poi andatura più spedita alla Gazzetta del Popolo di Torino sotto la direzione di Massimo Caputo, dove diviene corrispondente da Londra. Segue la prima esperienza al Corriere della Sera, come corrispondente da Mosca nei delicatissimi anni Cinquanta e quindi come redattore capo. Nel '68, anno altrettanto delicato, più sul fronte interno che su quello internazionale, torna a «casa»: direttore del Secolo XIX, in gergo, il «Monono». A 44 anni, la formazione è ormai ultimata: scrittura solida, evidenti capacità direttive e di guida della macchina-quotidiano. Se ne accorgono anche a Milano, dove lo tengono sotto osservazione e, nel '72, decidono che è lui l'uomo adatto a subentrare a Giovanni Spadolini, autorevole ma grigio, colto ma cauto, troppo cauto. Giulia Maria Crespi vuole (e non soltanto lei...) un Corriere meno moderato, meno conservatore, più aggressivo, più à la page, insomma, in linea con l'aria che tira. E qui ritorniamo al punto di partenza, ai grandi giornalisti che non amano (eufemismo) i giornalisti, in questo caso i grandi giornalisti. Perché al Corriere, Ottone non ci mette né uno né due a scontrarsi con Indro Montanelli, l'inviato principe. Indro non accetta il nuovo corso che fa rima con sinistrorso, ritiene che il Corriere così facendo tradisca prima il proprio lettorato e poi, in subordine, l'elettorato anticomunista. Potete immaginare come abbia preso, l'anno dopo, nel '73, gli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini in prima pagina... Il dado era tratto: o Piero o Indro. «Guardando retrospettivamente forse fu un errore licenziarlo», ammise Ottone in una lunga intervista alla Repubblica, tre anni fa. Perché questo accadde, Montanelli non se ne andò dal Corriere, ne fu cacciato, dopo il casus belli di una sua intervista al Mondo in cui, come ricordava Ottone, invitava in sostanza la borghesia a divorziare dal quotidiano di via Solferino. Tutti sanno che senza quello strappo, noi oggi non saremmo qui a (ri)scriverne su queste colonne, visto che da lì, da quella clamorosa rottura, nacque, nel '74, questo Giornale. Auspicando il divorzio della borghesia milanese dal suo foglio di riferimento, Montanelli si propone come suo nuovo «amante». Un amante non occasionale, ma fedelissimo, irriducibile, coraggioso. Così, per tre anni le strade di Ottone e di Indro proseguirono seguendo tragitti lontani, divergenti. Il Corriere a spingere da una parte, il Giornale a resistere dall'altra, colmando il vuoto editoriale che si era creato. Ma c'era in agguato il fattaccio, nipote di un'ideologia distruttiva e figlio di un metodo criminale. E su questo fattaccio di cronaca nera i due big si ritrovarono l'uno contro l'altro: Indro in ospedale, Ottone a preparare la «prima». La mattina del 2 giugno 1977, Montanelli viene «gambizzato» dalle Brigate Rosse. Il giorno dopo, il Corriere titola: «I giornalisti nuovo bersaglio della violenza. Le Brigate Rosse rivendicano gli attentati». Il nome Montanelli è confinato nel lungo sommario (mentre più in basso c'è l'intervista di Enzo Biagi al collega ferito). E molti ripensano a quanto poco i grandi giornalisti etc etc. Poi Indro si rimette in piedi, e torna a correre con il Giornale. E, di lì a poco, anche Ottone esce dal Corriere. Dimissioni, questa volta. Passa alla Mondadori come consulente. Infine, alla Repubblica. Il destino ha voluto che morisse a 92 anni, come Indro. E su questo, purtroppo, non c'è più nulla da discutere.
Ma i giornalisti sono troppo di sinistra? Si chiedono Luigi Curini e Sergio Splendore di Lavoce.info il 20 ottobre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". I giornalisti italiani si collocano politicamente più a sinistra dei cittadini. Ne consegue una scarsa fiducia dei lettori nella carta stampata. Perché i giornali non reagiscono? Perché a leggerli e comprarli sono coloro che hanno una posizione ideologica in media più vicina a chi li scrive. Il difficile rapporto tra italiani e stampa. Stando ai sondaggi periodicamente effettuati da Eurobarometro, i cittadini italiani hanno poca fiducia nella carta stampata. Sostanzialmente più di un italiano su due esprime un giudizio negativo a riguardo: negli ultimi quindici anni la media del livello di fiducia verso la stampa è stata complessivamente del 43 per cento, quattro punti in meno del dato europeo nello stesso periodo. Le spiegazioni più ricorrenti riconducono la sfiducia al modello di giornalismo italiano contraddistinto da una propensione al commento, da un alto livello di parallelismo politico e da una stampa che storicamente si è indirizzata a una élite, producendo, come conseguenza, bassi livelli di lettura. In questo quadro, il rapporto tra giornalisti e cittadini rimane tuttavia in secondo piano. Un peccato, a dire il vero, dato che, in una importante ricerca che risale oramai a venti anni fa, si mettevano bene in luce le conseguenze relative alla possibile “discrasia” tra credenze politiche e ideologiche dei giornalisti rispetto ai loro lettori, senza peraltro controllare empiricamente la cosa. Abbiamo dunque voluto esplorare direttamente l’ipotesi mettendo in relazione tra loro i dati relativi al posizionamento politico dei giornalisti italiani raccolti durante la recente ricerca demoscopica The worlds of journalism study con quelli che si possono estrarre da Eurobarometro per quanto riguarda i cittadini italiani, sfruttando il fatto che in entrambi i sondaggi viene somministrata la medesima domanda relativa all’autocollocazione ideologica dei rispondenti lungo una scala che va da sinistra a destra. La figura qui riportata mostra il confronto tra le rispettive distribuzioni di preferenze ideologiche nello stesso periodo temporale (inizio 2015). Come si può facilmente osservare, la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani in generale. Quello che tuttavia ci interessa è capire la conseguenza di tutto ciò. Prendiamo un italiano che, magari dopo aver letto una serie di tweet o interviste televisive a vari giornalisti, si auto-percepisce complessivamente come lontano ideologicamente da questi ultimi (perché più a sinistra oppure, più plausibilmente, a destra rispetto a tali posizioni). Il cittadino presenterà anche una minore fiducia nella stampa? E se sì, in che misura? I risultati di una semplice analisi logistica mostrano che il fattore ideologico conta, e molto: pur controllando per tutta una serie di fattori considerati rilevanti in letteratura (come il genere, l’età, il reddito, il luogo in cui si vive, l’interesse per la politica e la stessa propria posizione ideologica del singolo rispondente) l’impatto della prossimità ideologica tra italiani e giornalisti non solo si conferma significativo, ma risulta assai rilevante (qui di seguito il link per chi è interessato all’analisi econometrica): la probabilità attesa di avere fiducia nella stampa passa, ad esempio, da poco più del 30 per cento per un italiano che si auto-colloca in modo molto distante dalla posizione media dei giornalisti, a un più che soddisfacente 65 per cento per chi presenta la stessa posizione ideologica registrata, sempre in media, dai giornalisti. I risultati della nostra analisi pongono però anche un ulteriore quesito: se è vero che la prossimità ideologica conta in termini di fiducia verso la stampa, perché la stampa in senso lato non reagisce in qualche modo a questa situazione? Qua le risposte possibili sono due, una ottimista e una meno. Per quanto riguarda la prima, ci si potrebbe (dovrebbe?) attendere che l’accentuata competizione sul mercato editoriale sia in grado presto o tardi di colmare l’apparente disequilibrio che emerge dalla figura sopra (e in parte è quello che sembra stia avvenendo nel panorama delle testate digitali). C’è un “ma”, tuttavia. Sempre i dati dell’Eurobarometro ci mostrano che i lettori più assidui dei giornali sono anche quelli che hanno una posizione ideologica in media più prossima ai giornalisti. Il che potrebbe condurre a un circolo che si auto-riproduce e si auto-rinforza: ovvero lo iato ideologico con gli italiani in senso lato (e la conseguente crisi di fiducia) non risulta alla fin fine davvero rilevante per il mondo editoriale, perché dopotutto chi legge (e compra) i giornali ha la stessa visione del mondo che ha chi ci scrive, e così via. Un apparente paradosso, con esiti complessivi.
La stampa è molto più a sinistra dei cittadini, in Usa come in Italia. Secondo uno studio, “la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani”, scrive Luciano Capone il 9 Novembre 2016 su “Il Foglio”. L’origine della vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, come molti hanno già segnalato, va ricercata nella ribellione non più sotterranea di una larga fetta della società nei confronti delle élite e di tutto ciò che puzza di establishment: partiti, banche, istituzioni, mondo accademico, corporation, attori, cantanti e soprattutto media. In queste elezioni presidenziali i giornali, settimanali e magazine che hanno espresso un sostegno ufficiale per Hillary Clinton sono stati 500, mentre gli endorsement a favore di Trump sono stati solo 25, in gran parte di piccoli giornali locali: tra i 100 quotidiani più diffusi nel paese, solo due hanno appoggiato il candidato repubblicano, alcuni si sono schierati per i democratici dopo decenni di neutralità e altri non hanno espresso una preferenza a favore ma hanno suggerito di votare “contro Donald Trump”, colui che poi ha vinto le elezioni. Naturalmente lo scollamento tra media e cittadini non è solo un fenomeno americano ma, come hanno mostrato il voto sulla Brexit e l’avanzata di tanti partiti definiti “populisti”, è un fenomeno che riguarda tutte le democrazie occidentali e in particolare l’Italia. Luigi Curini, professore associato di Scienza politica all’Università Statale di Milano, e Sergio Splendore, ricercatore nello stesso ateneo, in uno studio dal titolo “The ideological proximity between citizens and journalists and its consequences”, hanno mostrato con i dati quanto sia profondo il solco ideologico tra media e persone comuni, tra i concetti veicolati dai giornalisti e le convinzioni delle persone, e quanto questo divario sia all’origine della sfiducia dei cittadini nei confronti della stampa. Detto in parole povere, in Italia i giornalisti sono troppo di sinistra ed è anche per questo che, secondo i sondaggi effettuati da Eurobarometro, la credibilità dei giornali italiani è più bassa della già bassa media europea. I due politologi hanno messo in relazione i dati sulle preferenze ideologiche dei giornalisti, ricavati da una specifica ricerca demoscopica, con quelli dei cittadini ricavati dall’Eurobarometro, sfruttando il fatto che in entrambi i sondaggi viene posta la stessa domanda sulla collocazione ideologica lungo un asse che va da sinistra a destra. Il risultato è che “la distribuzione ideologica dei giornalisti italiani appare marcatamente posizionata più a sinistra rispetto a quella degli italiani”, hanno scritto gli autori sul sito Lavoce.info. La logica conseguenza è che maggiore è la distanza politica tra cittadini e giornalisti e maggiore è la sfiducia nei confronti della stampa e ciò vuol dire che chi legge i giornali ha una posizione ideologica più simile a quella dei giornalisti, “il che potrebbe condurre a un circolo che si auto-riproduce e si auto-rinforza: ovvero lo iato ideologico con gli italiani non risulta alla fin fine davvero rilevante per il mondo editoriale, perché dopotutto chi legge i giornali ha la stessa visione del mondo che ha chi ci scrive, e così via”. Salvo svegliarsi un giorno meravigliati e sorpresi del fatto che gli elettori fanno il contrario di ciò che scrivono i giornalisti. Tra l’altro il dato italiano è ancora più paradossale perché i giornalisti non sono solo ideologicamente schierati più a sinistra della popolazione in generale, ma sono molto più a sinistra anche rispetto ai propri lettori. Pochi mesi fa Curini ha pubblicato una ricerca simile sulle idee politiche dei docenti universitari, dal titolo “Experts’ political preferences and their impact on ideological bias”. Anche in quel caso i dati dicevano che la stragrande maggioranza degli studiosi intervistati è di sinistra. E se questa è una caratteristica comune nelle democrazie occidentali, cioè che l’élite accademica tenda ad essere progressista, la peculiarità dei professori italiani è che nel mondo sono quelli più a sinistra di tutti. Visto che in questi mesi in tanti hanno paragonato il successo di Trump a quello di Silvio Berlusconi, bisogna riconoscere che forse il Cav esagerava quando diceva che in Italia i professori e i giornalisti sono tutti comunisti, ma non si allontanava molto dalla realtà. O quantomeno dalla percezione dei cittadini, che poi lo votavano.
Di destra, quindi dimenticato. In memoria di Almerigo Grilz. A 30 anni dalla morte una mostra per il primo giornalista caduto dopo il 1945. E che i colleghi lasciano nell'oblio, scrive Gian Micalessin, Venerdì 19/05/2017, su "Il Giornale". Si chiamava Victor. L'incontrai nel novembre 2002 a Dondo, nel Nord del Mozambico. Durante la guerra civile degli anni '80 tra il governo filosovietico della Frelimo e i guerriglieri anti comunisti della Renamo era stato maggiore dell'esercito. Smessi gradi e divisa si guadagnava da vivere come responsabile della sicurezza della Gmc, una cooperativa rossa di Ravenna presente da decenni nel paese. Ero arrivato lì con il collega Franco Nerozzi e Giancarlo Coccia, storico corrispondente africano de il Giornale per cercare la tomba dell'amico Almerigo Grilz freddato da un colpo alla nuca il 19 maggio 1987 mentre filmava uno scontro tra Renamo e soldati del Frelimo. Bivaccavamo in quel campo grazie alla generosità di Claudio Conficoni, il manager, ex Pci, responsabile locale della Cmc. «Prendete auto e uomini che vi servono... fate come a casa vostra» ripeteva. E mi rideva in faccia se ricordavo che Almerigo Grilz era diventato giornalista dopo esser stato vice-segretario nazionale del Fronte della Gioventù al fianco di Gianfranco Fini. «Ora è morto sbottava - e se anche è stato "fassista" era prima di tutto italiano. Questo è quello che conta». Victor ascoltava silenzioso. Non spiaccicò mezza parola nemmeno quando arrivammo a Caia. Ma quando incominciai a studiare il terreno per capire dove Almerigo era stato colpito fu lui a portarmi nella radura ai margini della città, non lontano da uno zuccherificio. «Di solito disse i ribelli arrivavano da qua». Guardai l'ultimo filmato di Almerigo, le ultime immagini della sua cinepresa. Tutto corrispondeva. Victor sorrise. E fu lui, nonostante il pericolo, ad accompagnarmi a Gorongoza, la zona dove a 10 anni dalla fine delle ostilità la Renamo nascondeva ancora le armi. La zona dove i ribelli avevano sotterrato il cadavere di Almerigo dopo una lunga ritirata notturna. Lì all'imbrunire del 21 novembre 2002 trovammo il grande albero di Muthongo sotto cui riposava. Allora Victor m'abbracciò e mi sussurrò parole mai dimenticate. «Ero il comandante di Caia, forse c'ero pure io a sparare al tuo amico, ma ci tenevo ad aiutarti perché la guerra è finita e a nessuno interessa più se un giornalista stava con noi o con i nostri nemici. I morti sono tutti fratelli». Non qui in Italia. A Trieste l'Ordine dei Giornalisti, a cui Grilz era iscritto, ignora da 30 anni la richiesta d'accogliere una lapide con il suo nome accanto a quelle per l'inviato Rai Marco Luchetta e gli operatori Alessandro Ota, Dario D'Angelo e Miran Hrovatin, morti tra Bosnia e Somalia. Fuori da Trieste non va meglio. Grilz oltre ad aver raccontato guerre e guerriglie tra Afghanistan, Libano, Etiopia, Mozambico, Filippine, Cambogia e Birmania scriveva per il Sunday Times e firmava reportage trasmessi da Cbs ed Nbc negli Stati Uniti, da Channel4 in Inghilterra e dal Tg1 Rai qui in Italia. Eppure nonostante quel curriculum, nonostante sia stato il primo caduto su un campo di battaglia dal 1945 Almerigo Grilz continua ad essere un «inviato ignoto» per gran parte dei giornalisti italiani. Una damnatio memoriae sconcertante per una categoria che annovera con orgoglio colleghi come Adriano Sofri, condannato per l'omicidio Calabresi, Bernardo Valli, orgoglioso dei 5 anni trascorsi nella Legione Straniera e una legione di reduci della sinistra extraparlamentare come, Paolo Mieli, Toni Capuozzo, Enrico Deaglio, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Paolo Liguori, Andrea Marcenaro, Carlo Panella, Riccardo Barenghi e Lanfranco Pace. Ma i giornalisti si consolino. A destra non è andata meglio. Fini a Trieste pernottava regolarmente nella casa di Almerigo, ma una volta divenuto presidente della Camera, si è ben guardato dal muovere mezzo dito per sottrarre l'amico all'oblio collettivo. Poco importa. Di una vita conta la storia. La storia di un ragazzo che, unico tra le fila di una destra sclerotizzata, comprendeva, già negli anni '70, l'importanza dell'informazione e imbracciava macchine fotografiche e cineprese anche quando guidava cortei e manifestazioni. La storia di un giornalista che seppe trasformare la passione politica in passione professionale. La storia di un uomo che, non appena la politica smise di regalargli emozioni, l'abbandonò per trasferirsi sulle prime linee del mondo. Perché se il giornalismo era la sua passione, l'avventura era la sua vita.
Le immagini, i filmati e i racconti: omaggio dei compagni d'avventura. Oggi apre l'esposizione a Trieste con 90 pannelli su 35 anni di reportage. E a settembre sarà in edicola anche un fumetto, scrive Fausto Biloslavo, Venerdì 19/05/2017, su "Il Giornale". «La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (...) Fa freddo, l'erba è umida e c'è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l'effetto di una fiammata in gola» scrive Almerigo Grilz il 18 maggio 1987 sul suo diario di guerra dell'ultimo reportage in Mozambico. «In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (...) Il vocione del generale Elias (...) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!. In no time siamo in marcia». Per Almerigo sarà l'ultimo giorno di appunti. All'alba del 19 maggio, il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca mentre filma la scomposta ritirata dei guerriglieri della Renamo respinti dai governativi nell'attacco alla città di Caia. Grilz è il primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Trent'anni dopo Gian Micalessin e chi vi scrive, i suoi compagni di avventura nei reportage, gli dedicano a Trieste, la città dove è nato, la mostra fotografica Gli occhi delle guerra - da Almerigo Grilz alla battaglia di Mosul. Un'esposizione unica in Italia con 90 pannelli su 35 anni di reportage dall'invasione israeliana del Libano nel 1982 fino al caos della Libia, la terribile guerra in Siria e la sanguinosa battaglia contro il Califfo in Irak. La mostra e il catalogo contengono anche le foto scattate da Almerigo nel corso della sua breve, ma intensa attività in Afghanistan, Etiopia, Filippine Mozambico, Iran, Cambogia e Birmania. L'esposizione, che si inaugura oggi alle 18.30 con l'assessore alla Cultura di Trieste, Giorgio Rossi, al civico museo di guerra per la pace Diego de Henriquez rimarrà aperta fino al 3 luglio. Della mostra fa parte una selezione delle pagine più significative delle agende (Guarda la gallery con le immagini) che Almerigo Grilz utilizzava per annotare con precisione ogni momento dei suoi reportage corredando il tutto con disegni e mappe dettagliate. La futura vocazione e la passione del giornalista emerge pure dalle pagine dei Diari del giovane Grilz con un Almerigo adolescente che disegnava scene di battaglie storiche e descriveva gli avvenimenti della sua Trieste. Il pubblico potrà sfogliare anche le bozze del fumetto Almerigo Grilz - avventura di una vita al fronte (Ferrogallico editore), dalla passione politica al giornalismo, che verrà pubblicato in settembre. Un percorso nella memoria di un giornalista scomodo e volutamente poco ricordato per il suo attivismo a destra, nel Fronte della gioventù, negli anni Settanta, che non a caso Toni Capuozzo ha definito l'«inviato ignoto». Oggi alle 19.30 Almerigo verrà ricordato a Trieste anche in via Paduina davanti a quella che è stata la sede nel Fronte, l'organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. Al museo de Henriquez accanto alle foto scorrono i filmati realizzati da Almerigo con la cinepresa Super 8. E l'invito in studio nel 1986 di Ambrogio Fogar nel programma Jonathan dimensione avventura dove Grilz con Egisto Corradi, storica colonna del Giornale e Maurizio Chierici del Corriere della Sera parlano del mestiere di inviato di guerra e dei suoi pericoli. I video comprendono anche i reportage di oggi sui Paesi senza pace come Afghanistan, Siria, Libia, Irak realizzati grazie al progetto del giornale.it, Gli Occhi della guerra e al sostegno dei nostri lettori. E non manca il documentario L'Albero di Almerigo (guarda il video) che racconta la ricerca e il ritrovamento in Mozambico dell'antico albero ai piedi del quale riposa Almerigo Grilz. La mostra nel trentennale della sua scomparsa vuole essere anche un tributo ai reportage in prima linea, in un periodo di media in crisi e un omaggio non solo a Grilz, ma a tutti i giornalisti che hanno perso la vita sul fronte dell'informazione per raccontare le tragedie dei conflitti. Nel 1986 in Mozambico, un anno prima di morire, Almerigo annotava sul suo diario: «Mi sporgo fuori per filmarli: non è facile, occorre stare appiattiti a terra perché le pallottole fischiano dappertutto. Alzare troppo la testa può essere fatale».
I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto.
Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
CAPOLAVORI BOCCIATI LEVI O GRASS, UN RIFIUTO NON SI NEGA A NESSUNO. Scrive Paolo Mauri il 17 settembre 2012 su "La Repubblica". Ho letto con ritardo Lolita e Il Gattopardo ", scherzava Ennio Flaiano su l'almanacco del pesce d' oro del 1960, evocando in facili versi due casi letterari esplosi sul finire degli anni Cinquanta e che ancora durano, ma anche due libri accolti con una certa diffidenza e rifiutati dagli editori. Lolita fu respinto da Bompiani e da Garzanti che aveva già avuto i suoi guai con i tribunali per via dei Ragazzi di vita di Pasolini e fu pubblicato invece da Mondadori (editore piuttosto prudente per tradizione) con un forte successo di vendite. Del Gattopardo uscito nel dicembre del ' 58 da Feltrinelli nella collana diretta da Giorgio Bassani su indicazione di Elena Croce, si sa tutto: Vittorini lo aveva consigliato a Mondadori, ma Mondadori non aveva tenuto conto del parere del suo illustre consulente. Sempre Vittorini aveva invece escluso che un romanzo simile potesse figurare nei Gettoni, la collana di autori nuovi da lui diretta per Einaudi. Perché Einaudi non lo pubblicasse in un'altra collana non si sa: si sa invece che la lettera di rifiuto giunse al principe di Salina poco prima che morisse: non avrebbe mai saputo a quale successo era destinato il suo romanzo. Gian Carlo Ferretti pubblica ora presso Bruno Mondadori un libro singolare intitolato Siamo spiacenti che è, come dice il sottotitolo, la "Controstoria dell'editoria italiana attraverso i rifiuti dal 1925 a oggi". Informatissimo e titolare di molti altri lavori sulla nostra produzione libraria, specie di carattere letterario, Ferretti ha frugato a lungo negli archivi degli editori e nelle memorie degli scrittori e molto materiale ha raccolto di prima mano da vari testimoni e protagonisti, con una premessa: rifiutare i libri è una prerogativa degli editori e spesso, anche se non sempre, fa bene anche agli autori. Questo per dire che molti rifiuti risalgono semplicemente a quella che si chiama politica editoriale e infatti un libro rifiutato da un editore trova la propria strada presso un altro (è il caso di Pasolini di cui Mondadori rifiutò la raccolta di versi L' usignolo della Chiesa cattolica, bocciata poi anche da Bompiani, nonostante il parere favorevole di Vittorio Sereni e di fatto non accolse più tardi il Pasolini narratore lasciando che andasse da Garzanti). Ci sono però casi in cui non si tratta tanto di politica editoriale ma di miopia, come testimonia la vicenda di Se questo è un uomo di Primo Levi respinto da Einaudi per ben due volte: nel ' 47 il giudizio positivo di Natalia Ginzburg non è condiviso da Pavese, nel ' 52 Pavese è morto ma il rifiuto si ripete. Einaudi pubblicherà il capolavoro di Levi solo nel ' 58, con il successo che sappiamo. Nel frattempo la casa editrice De Silva diretta da Franco Antonicelli lo aveva pubblicato in duemilacinquecento copie. Sempre in quegli anni Einaudi (ma anche Vallecchi) rifiuta Casa d' altri di Silvio D' Arzo, che viene giudicato gracile. Sulla scheda di lettura Pavese annota: "Non m' interessa affatto. A morte". D' Arzo, scomparso a soli trentadue anni, diverrà poi un autore di culto. Per restare in casa Einaudi vi sono alcuni rifiuti riconducibili a Italo Calvino, alla sua proverbiale prudenza, ma anche al suo gusto e ad un certo disinteresse per la narrativa italiana di quegli anni. Memoriale di Paolo Volponi, per esempio, rimane per mesi nei cassetti di Calvino, senza che l'autore riceva un minimo cenno di assenso o di dissenso. Alla fine Volponi (sostenuto da Pasolini) dà il romanzo a Garzanti che lo pubblica nel ' 62. Tuttavia il rapporto con Garzanti si raffredda perché Volponi, scrittore di alto valore letterario, non sfonda sul piano delle vendite. In segreto Volponi darà anni dopo a Giulio Bollati, divenuto direttore della Einaudi, il suo nuovo romanzo, Corporale. Un tomo di oltre cinquecento pagine che Bollati fa arrivare nelle librerie senza annunci per mettere Garzanti di fronte al fatto compiuto. Tornando a Calvino c' è ancora da registrare la sua opposizione a Testori che aveva proposto I racconti della Ghisolfa nel ' 57. Testori si farà poi strada con Feltrinelli con grande rammarico di Roberto Cerati: un direttore commerciale molto speciale che oggi è presidente della casa editrice torinese. Ancora nel ' 63 Calvino non capisce la novità della Scoperta dell'alfabeto di Luigi Malerba, una raccolta di racconti che giudica "grezzi e con poca sostanza, mi pare neorealismo paesano stile 1946 ma senza lirismo". L' esordio di Malerba, forse proprio perché molto originale, fu respinto da diversi editori prima di trovare in Ennio Flaiano un lettore entusiasta che lo portò da Bompiani dove fu pubblicato nel ' 63. Insomma, come dice Ferretti più volte, c' è una Provvidenza laica che presiede anche al mondo del libro e aggiusta i pasticci combinati da editori e consulenti. Così se Alberto Mondadori dice di no a Gadda nel ' 48 per Il pasticciaccio, ci sarà Garzanti a subentrare sia pure diversi anni dopo, ma qui bisogna aggiungere che è anche a Gadda che va riportata la responsabilità di un difficile rapporto con l'editore, avviato fin dal ' 43. Sull' appunto di Gadda è lo stesso Alberto Mondadori a scrivere: troppi soldi. Tra l'altro Gadda gli chiede di liberarlo da un impegno con Vallecchi per la cifra di 210.000 lire. Ferretti ripercorre la sua controstoria editore per editore: anche dai rifiuti si capisce il taglio culturale e il farsi di una vicenda complessa con i suoi alti e bassi, nel senso che un progetto editoriale attraversa momenti diversissimi e certi giudizi sono spesso dettati dalla contingenza. Per non voler essere spregiudicato, Einaudi, per esempio, boccia nel ' 63 il libro inchiesta di Fofi sull' Immigrazione meridionale a Torino provocando il licenziamento di Raniero Panzieri e di Renato Solmi che lo avevano appoggiato. E per voler essere spregiudicato e vicino agli studenti in lotta, siamo nel ' 68, non pubblica il saggio di Giovanni Getto sul Barocco in prosa e in poesia portato in casa editrice da Guido Davico Bonino e per il quale era stato firmato un contratto: Getto, tra i più prestigiosi titolari di cattedra, è naturalmente oggetto di contestazione. Vicenda drammatica, come qualcuno ricorderà, perché Getto, già in profonda crisi personale, arrivò persino a tentare il suicidio. Il saggio fu subito accolto dalla Rizzoli e vinse nel ' 69 il Premio Viareggio. Qualche anno dopo fu sempre Rizzoli a pubblicare L' autobiografia di Giuliano di Sansevero di Andrea Giovene, di cui Ferretti non parla, anche se l'immenso volume deve essere stato respinto da più di un editore se è vero che l'autore dichiara di aver deciso di stamparlo in proprio dopo "un accenno di tentativi avanzati senza crederci". Il volume di Giovene fu inviato un po' a tutti quelli che contavano nel mondo letterario, ma senza nessun esito. Uno studioso finlandese lo lesse e lo fece pubblicare tradotto a Stoccolma. Il caso nacque così e Rizzoli lo stampò a sua volta in cinque volumi. Nonostante il successo, anche di critica, il libro scomparve fino ad una recente ristampa presso Elliot. Nel 1961 Valentino Bompiani si ritrova tra le mani un libro già stampato senza che lui ne sapesse nulla: è Il tamburo di latta di Günter Grass. Bompiani lo legge e lo manda al macero (cinquemila copie) nonostante fosse già stato annunciato dal Notiziario della Casa. I diritti vengono ceduti a Feltrinelli, la casa editrice più giovane e vivace in quegli anni, che lo pubblica l'anno dopo con un successo strepitoso. Sembra che a Bompiani avessero dato fastidio alcuni passi "scandalosi" e altri addirittura blasfemi nei confronti della Chiesa. (Ottimi elementi, si sa, per un incremento delle vendite). Anche molti dei bestseller del nostro passato prossimo hanno conosciuto il rifiuto editoriale. Lo stesso Ferretti, divenuto direttore editoriale degli Editori Riuniti, bocciò un libro di Andrea Camilleri, che era già stato accettato dal suo predecessore, Giuliano Manacorda. Persino La donna della domenica fu all'inizio respinto da Mondadori e da Rizzoli, ma solo per ragioni economiche (i due autori chiedevano un anticipo troppo alto). Poi Mondadori lo pubblicò con l'esito che conosciamo. Susanna Tamaro incassò ventisei rifiuti in dieci anni per le sue due prime opere, rimaste per altro inedite, nonostante l'appoggio di letterati influenti come Claudio Magris. Oggi gli esordienti si sono moltiplicati a dismisura: l'editoria appiattita sui consumi coltiva, in mancanza di meglio, scrittori piccoli piccoli, nella speranza che uno su mille divenga un caso. Ma l'essere pubblicati o anche solo l'essere respinti, non ha più il valore, pur sempre relativo, di un tempo. Alla fine i grandi rifiutati del secolo scorso restano quelli di sempre: Tomasi di Lampedusa e Morselli soprattutto. Di Tomasi abbiamo detto. Guido Morselli, che pure aveva degli estimatori di grande livello, non riuscì a vincere la sua lunghissima battaglia e si suicidò. Poi divenne un caso grazie ad Adelphi. Il record dei rifiuti spetta, comunque, a Giuseppe Cerone, malinconico caso di uno scrittore fantasma che si specializza nell' essere, appunto uno scrittore rifiutato e di questo narra, un po' come, ma in misura assai diversa, capita ad Antonio Moresco. Cerone tentò anche di entrare nel Guinness dei primati, ma anche lì fu respinto perché l'americano Bill Gordon aveva ricevuto più rifiuti di lui.
Quello che non si deve scrivere, scrive il 15 novembre 2014 "Varesedaybyday". Come si fa il giornalista in un giornale di provincia? Dove sta il confine tra ciò che posso e devo scrivere e quello che invece è da evitare? Queste sono alcune tra le domande che questo pomeriggio si sono posti i partecipanti al convegno tenutosi presso il Teatrino Santuccio di Varese. L’approccio etico al giornalismo, ovvero l’applicazione norme non scritte che tutti i professionisti dovrebbero rispettare per comunicare la notizia in modo veritiero e oggettivo, è un tema molto attuale. La preoccupazione dell’ordine per quelle che potrebbero essere le conseguenze di un approccio troppo personale al lavoro ha portato alla stesura di tredici carte deontologiche che tutelano, forse eccessivamente, i diritti delle persone citate negli articoli giornalistici. Queste carte hanno la presunzione di mettere per iscritto l’etica, quando invece l’uomo già sa cosa è bene e cosa è male, anche se talvolta è più comodo far finta di non sapere. Certamente in un articolo bisogna discutere di cose che interessano il pubblico, ma l’etica è un valore universale in rapporto stretto con il rispetto della persona. Gianni Spartà, ex cronista della Prealpina, afferma che “ogni uomo è nudo dietro le sbarre” e conclude citando Vittorio Garrieso: “non esiste un giornalismo oggettivo, ma uno onesto o disonesto”. Ognuno ovviamente filtra la notizia e la propone con il suo stampo personale, ma se è un bravo giornalista sa anche qual è il confine tra ciò che è vero, ciò che si deve e si può dire e ciò che è irrilevante. Così resta aperta la domanda: “Che cosa merita di essere notizia, ma soprattutto, come è meglio fare notizia?”
Libertà di stampa, così i giornali si dividono sulle accuse a Grillo, scrive l’Agi il 27 aprile 2017. Dal rapporto 2017 di Reporters sans Frontieres, l’organizzazione internazionale che ogni anno fa il punto sullo stato di salute dell’informazione nel mondo, emerge che l'Italia nella classifica annuale guadagna 25 posizioni passando dal 77/o al 52/o posto. Restano però "intimidazioni verbali o fisiche, provocazioni e minacce", e "pressioni di gruppi mafiosi e organizzazioni criminali". Tra i problemi indicati anche l'effetto di "responsabili politici come Beppe Grillo che non esitano a comunicare pubblicamente l'identità dei giornalisti che danno loro fastidio". La reazione del leader M5s al rapporto non si è fatta attendere: "Oggi ho scoperto di essere io la causa del problema di libertà di stampa in Italia. Lo afferma il rapporto di Reporters Sans Frontieres appena pubblicato", scrive Grillo sul suo blog. Ecco come hanno commentato i quotidiani italiani la vicenda:
"Chi di rapporto colpisce, di Rapporto perisce". Per poter dare più autorevolmente dei servi ai giornalisti che non la pensano come lui, Grillo ha spesso usato il Rapporto di "Reporter senza frontiere" sulla libertà di stampa che colloca l'Italia nelle posizioni di bassa classifica. Quest'anno le cose vanno un po' meglio. Ma se non vanno ancora bene, dicono gli estensori della ricerca, è anche per colpa delle liste di proscrizione che Grillo è solito pubblicare sul proprio blog con i nomi dei cronisti sgraditi. Insomma, chi di Rapporto colpisce, di Rapporto perisce. Ma ecco l'ennesima giravolta del grand'uomo. Trovandosi per una volta lui dentro la lista dei cattivi, prende cappello e ne attacca gli autori, fino a ieri portati a modello, accusandoli di essere passati al soldo dei giornali. Massimo Gramellini - Il Corriere della Sera
Reporters sans Report. Resta da capire come mai, quando le opposizioni criticavano la Rai occupata da B., gli organismi internazionali si preoccupavano non per chi la criticava, ma per chi la occupava, mentre oggi che le critiche vengono dai 5Stelle e dalle sinistre sciolte, cioè dagli esclusi dalla spartizione, il monopolio governativo sull'informazione non è più un vizio da combattere, ma una virtù da difendere. Il guaio è che ormai la percezione della realtà è talmente falsata dai gargarismi propagandistici sul populismo, le post-verità e le fake news, che anche chi la osserva dall'esterno è costretto a indossare occhiali deformanti. E giunge a conclusioni paradossali: se il pericolo per la stampa libera viene da chi critica la propaganda governativa, da sempre principale produttrice ed esportatrice di fake news, e non dal partito di governo che caccia la Berlinguer dal Tg3 perché non allineata, chiude Ballarò di Giannini perché non allineato e bombarda Report perché non allineato, allora anche in Turchia e in Russia la libera stampa è minacciata non da Erdogan e da Putin che arrestano i giornalisti scomodi (quelli che hanno la fortuna di non crepare in circostanze misteriose con largo anticipo sulla tabella di marcia) e chiudono i giornali di opposizione, ma da chi protesta contro gli arresti e le serrate. C'è una bella differenza - o almeno dovrebbe esserci - fra le opposizioni che criticano i Minculpop governativi e i governi che attaccano i pochi giornalisti e testate che sfuggono al loro controllo. Marco Travaglio - Il Fatto quotidiano
Prima era il verbo ora non vale più. Si capisce che a Beppe Grillo non faccia piacere, scoprire che nel rapporto annuale di Reporters senza frontiere sulla libertà di stampa in Italia c'è finalmente il suo nome, ma purtroppo tra le cause e non tra i rimedi della malattia dell'informazione. Grillo naturalmente non ci sta, a essere indicato come l'unico politico che condiziona la libera stampa. Lui che da otto anni a questa parte cita il rapporto di Rsf a ogni suo comizio, lui che al primo vaffa day ci spiega che la nostra informazione è inquinata, lui che promette notizie pulite e anzi pulitissime quando i Cinquestelle andranno al potere, non accetta di essere additato come il principale responsabile delle minacce ai giornalisti, addirittura accanto alla mafia e all'Isis. Sebastiano Messina - La Repubblica
La libera stampa? Chi la minaccia non è (solo) Grillo. Non ho mai avuto troppa fiducia in questa speciale classifica, né oggi mi sento minacciato da Beppe Grillo nonostante mi onori di ospite quasi fisso nella sua personale lista di giornalisti da mettere all'indice. Anche perché per passare dalle parole ai fatti è necessario sedere nella stanza dei bottoni, cosa che oggi, per fortuna non è. Semmai - come ho già avuto modo di dire - a limitare la libertà siamo noi giornalisti, soprattutto i colleghi che fanno tv che accettano, immagino liberamente, di trattare grillini a condizioni vergognose (niente contraddittorio, domande spesso concordate, ospiti in studio al massimo se scelti da loro in quanto simpatizzanti). Personalmente ho scritto di tutto su Beppe Grillo, compreso ricordare il suo passato di evasore fiscale, e non ho mai ricevuto una querela. A differenza di quanto accade con i magistrati, con i quali siamo in perenne contenzioso legale. Alessandro Sallusti - Il Giornale
I giornalisti sono scribacchini abilitati, ossia omologati, al servizio del potere editoriale di turno, genuflesso ad una certa ideologia cosiddetta di sinistra o ad una lobby economica mirante solamente all’esercizio del potere per usufruire di privilegi creatasi ad arte.
I motivi per cui un libro non viene pubblicato da un determinato editore sono assai variegati: l’ironico titolo del pamphlet dell’editor americano Pat Walsh promette di elencare «78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato». Insomma, non tutto quello che viene scritto arriva in libreria, scrive il 23 febbraio 2013 Oliviero Ponte Di Pino. «Ci sono i rifiuti per inaccuratezza, per insabbiamento o per incapacità. Ci sono i rifiuti per viltà, e quelli per prudenza. I rifiuti ideologici, i rifiuti sacrosanti, le ribellioni all’insipienza o all’arroganza. I rifiuti tecnici, quelli per cause di forza maggiore, quelli elegiaci che vorrebbero ma proprio non possono e già rimpiangono, quelli dovuti. I rifiuti basati su una poetica, o sulla linea di una casa editrice. I rifiuti spiritosi, imbarazzati, balbettanti, insinceri; i rifiuti sdegnati, e quelli che semplicemente dicono: non mi piace.» (Mario Baudino, Il gran rifiuto. Storie di autori e di libri rifiutati dagli editori, Milano, Longanesi, 1991, pp. 8-9)
I motivi per cui un libro non viene pubblicato da un determinato editore sono assai variegati: l’ironico titolo del pamphlet dell’editor americano Pat Walsh promette di elencare «78 ragioni per cui il vostro libro non sarà mai pubblicato» (mentre quelle «per cui invece potrebbe anche esserlo» sarebbero solo 14...). Insomma, non tutto quello che viene scritto arriva in libreria: secondo Xlibris, partner strategico della Random House Venture specializzato in pubblicazioni a spese dell’autore, per ogni libro pubblicato negli Stati Uniti ce ne sono nove che restano inediti (Harper’s Magazine, dicembre 2000).
Un libro può essere rifiutato perché, semplicemente, «non è abbastanza bello». Oppure perché l’autore «considera la sintassi un optional», o magari perché nella lettera d’accompagnamento esalta eccessivamente la genialità della propria fatica letteraria. Ma anche perché il genere o il tema dell’opera non rientra negli interessi della casa editrice, perché non è possibile trovare una collocazione adatta all’interno delle sue collane o perché è già in programma un titolo simile. Perché viene giudicato di qualità scadente. Perché viene ritenuto scarsamente vendibile o perché è troppo costoso da produrre. O semplicemente perché il gusto dell’editore non entra in risonanza con quel testo. Ovviamente le caratteristiche dell’opera devono corrispondere agli interessi culturali e commerciali della casa editrice, oltre che alla sensibilità di chi legge.
Tuttavia nella miriade di sigle che affollano il panorama editoriale italiano, la possibilità che un «manoscrittaro» riceva una certa attenzione è tutt’altro che remota: in questo settore i cacciatori di talenti, che hanno l’ambizione di scoprire il prossimo mega seller o il futuro Premio Nobel, sono molto numerosi. Inutile avvertire che già una prima occhiata sarà sufficiente a scartare buona parte del materiale che inonda le segreterie editoriali: è semplicemente impubblicabile, da chiunque. Il fatto che un titolo non sia ritenuto adatto da una casa editrice non significa che un altro editore, con caratteristiche e sensibilità diverse, non possa decidere di pubblicarlo, facendone magari un successo. La storia dell’editoria è ricchissima di libri che, scartati da uno o più editori, magari con giudizi perentori, hanno poi trovato il favore del pubblico. Tuttavia non è affatto scontato che quel titolo avrebbe avuto lo stesso esito con il primo editore: uno degli ingredienti più preziosi per il successo di un libro è l’entusiasmo della casa editrice. Tratto da Oliviero Ponte di Pino, I mestieri del libro, Tea, Milano, 2008
Le quote rosa in letteratura non bastano più, devono essere anche nere. C’è sempre una minoranza che si sente più discriminata. Altro che notte degli Oscar: da un sondaggio emerge che in America i libri vengono fatti e scritti da donne bianche (meglio se omosessuali). Polemiche multiculturali, scrive Simonetta Sciandivasci su "Il Foglio" il 2 Febbraio 2016. Chi controllerà che i discriminati non discriminino a loro volta? "Essere una donna non fa di te un'esperta della marginalizzazione di persone di colore o disabili": cruda assai Hannah Ehrlich, direttrice marketing e pubblicità della Lee&Low, la più grande casa editrice americana di letteratura per bambini (sul sito è specificato anche che è "multiculturale"). E, non paga, ha aggiunto che le signore in carriera, quelle emancipate che fanno i briefing e che Vecchioni cantava essere stronze come gli uomini, non per forza combattono, combatterebbero o combatteranno per l'accesso al potere (chiamiamolo emancipazione, è meno antipatico) di terzo sesso, minoranze etniche e varia umanità emarginata. Pensierini che arrivano a seguito della diffusione, oltreoceano, di un sondaggio che la stessa casa editrice ha condotto per misurare la temperatura delle pari opportunità nel settore e dal quale è emerso che il rosa ariano è la tinta unita del potere di chi fa e scrive libri. Degli intervistati (tra loro anche alcuni della venerata, influentissima Penguin Random House), il 78 per cento erano donne bianche, l'88 per cento donne bianche omosessuali e per il (trascurabile) resto neri, asiatici, ispanici: tutti concordi nell’affermare che il genere sessuale è ancora uno traino decisivo per una carriera. Dopotutto, lo scorso anno, una ricerca del Publisher's Weekly misurò che tra gli stipendi di uomini e donne c'era un gap tipo Death Valley, cioè 20 mila dollari in più per (l'ex?) sesso forte, mentre pochi giorni fa Barack Obama ha detto e scritto che "it's time for equal pay". Tuttavia, i sondaggi servono pure a leggere le percentuali che, nel caso dell'indagine della Lee&Low, palesano come l'editoria americana sia in mano alle donne, ma a un tipo preciso di donne: benestanti, bianche, omosessuali e decisamente poco interessate al multiculturalismo. Quest'ultimo dato non è un'inferenza pregiudiziale o arbitraria: si evince soffermandosi su storie e autori che vengono pubblicati. Lee&Low stima che, negli ultimi diciotto anni, i libri per l'infanzia con un contenuto "multiculturale" non hanno superato il 10 per cento della produzione editoriale. La letteratura non è politica, non può e non deve pretendere quote di rappresentanza: per quanto le ricerche e le rivendicazioni per l'abolizione delle differenze (Giovanni Maddalena, su questo giornale, ha vaticinato l'eliminazione di quella, per decreto, tra uomini e animali) ci escano dalle orecchie, Lee&Low si fa una domanda più importante, più fine. Domanda che, a sua volta, impone a noi di interrogarci su quanto e cosa ci toglie un'egemonia culturale, soprattutto quando contestarla è scivoloso, perché si tratta di un'egemonia erede di una sudditanza che in quel passaggio di eredità ha trovato il suo legittimo riscatto. Sul cosa perdiamo: il confronto con quello che non conosciamo, innanzitutto. Una lacuna incommensurabile, poiché per andare incontro all'ignoto, a chi non è coraggioso (cioè il 95 per cento della popolazione mondiale) serve la letteratura. E, anche, perdiamo la possibilità che tutti coloro che non sono bianchi, ricchi, femmine possano avere una voce e che quella voce scombussoli innanzitutto i bianchi, i ricchi e le femmine. Il femminismo posticcio, allora, ha tradito quello originario, inconsapevole com'è del fatto che nelle rivoluzioni "l'origine è la meta" (lo diceva quel cervellone di Karl Krauss), diventando lotta alla differenza da che era lotta per la differenza, ma ha pure tradito il nuovo conio della sua missione, arroccandosi nelle sue conquiste, anziché usarle per dare un megafono ad altri subalterni. “Donne d’Italia” (Bruno Vespa); “Il ‘900 è donna” (Lucrezia Dell’Arti); “Le nuove signore della scrittura” (Giorgio Ghiotti); “Il cuore nero delle donne” (Autori vari). Sono alcuni titoli di libri pubblicati di recente in Italia. Essendo, questo, un paese dove le sveglie della civiltà suonano invano, di certo non si può nemmeno azzardare l’ipotesi che l’editoria sia in mani femminili, ma, almeno, che le donne siano un filone letterario tra i più commerciali (quindi, prossimo alla noia seriale), possiamo lasciarcelo sfuggire.
I nemici della libertà di stampa, scrive Alessandro Gilioli su “L’Espresso” il 27 aprile 2017. «Esistono molti modi diversi per bruciare un libro: e il mondo è pieno di gente che corre su e giù con i fiammiferi accesi». (Ray Bradbury)
I nemici della libertà di stampa sono moltissimi, sapete? Molti di più di quanti ne conosca la nostra filosofia - o la nostra fede politica.
I nemici della libertà di stampa sono i mafiosi, certo, ma a volte pure i magistrati, gli uomini in divisa e ogni tanto perfino quelli in tonaca porporata.
I nemici della libertà di stampa sono quelli che vogliono imporre leggi speciali e diverse a seconda che un contenuto sia su carta o sul web.
I nemici della libertà della stampa sono le corporation del web che censurano contenuti facendo prevalere le loro private e arbitrarie policy sulle Costituzioni delle democrazie.
I nemici della libertà di stampa sono i paradisi fiscali che nascondono gelosamente patrimoni e reati, lontanissimi da ogni trasparenza, da ogni diritto di sapere la verità sui potenti del mondo.
I nemici della libertà della stampa sono i politici di tutti i partiti - tutti, tutti, tutti - che telefonano ai direttori e agli editori.
I nemici della libertà della stampa sono i politici che danno una notizia a un cronista oggi in cambio di un favore a lui o alla sua parte domani.
I nemici della libertà di stampa sono i politici che vogliono un tribunale per decidere quali news sono fake e quali no, che questo tribunale sia l'Agcom o una giuria popolare.
I nemici della libertà di stampa sono i politici, gli imprenditori e i potenti in genere che mandano le "diffide alla pubblicazione", ogni giorno una diversa, se volete ci faccio una Treccani.
I nemici della libertà di stampa sono i politici, gli imprenditori e i potenti in genere che minacciano, annunciano o fanno querele temerarie o infondate - più del 90 per cento delle querele intentate contro i giornalisti alla fine sono tali.
I nemici della libertà di stampa sono i politici, gli imprenditori e i potenti in genere che minacciano, annunciano o fanno cause civili altrettanto temerarie o infondate, e per fermarli basterebbe imporre loro di pagare la cifra che hanno chiesto, se alla fine risulta che hanno torto.
I nemici della libertà di stampa sono gli editori che non coprono legalmente chi scrive sui loro giornali, assunto o precario che sia.
I nemici della libertà di stampa sono gli editori che non pagano i giornalisti e non si accorgono che così ammettono che i loro contenuti hanno valore zero, e poi pretendono di vendere dei contenuti che loro stessi reputano a valore zero.
I nemici della libertà di stampa sono gli editori che hanno interessi fuori dall'editoria e usano i loro giornali per le proprie aziende.
I nemici della libertà di stampa sono gli editori che nella loro veste di imprenditori individuano la soluzione politica o il partito politico più conveniente ai loro interessi e indirizzano la loro testata in quella direzione.
I nemici della libertà di stampa sono gli inserzionisti che con la forza dei loro soldi ricattano e mettono a tacere ogni notizia a loro sgradita.
I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che per carriera, timore, convenienza o reverenza si adeguano al potente di turno o semplicemente hanno paura ad andare contromano rispetto al loro ambiente.
I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che di fronte a un dato di realtà contrario ai loro pregiudizi o alla loro visione delle cose, invece di rifletterci lo ignorano, lo sminuiscono, lo negano.
I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che non frequentano autobus, bar, mercatini e marciapiedi ma salotti, corridoi damascati e poltrone in pelle di gente potente.
I nemici della libertà di stampa sono i giornalisti che non si fanno domande, che non sono curiosi, che non sono autocritici, che sono pigri.
I nemici della libertà di stampa sono i lettori (utenti, ascoltatori, spettatori etc) che non si fanno domande, che non sono curiosi, che non sono autocritici, che sono pigri.
I nemici della libertà di stampa sono i lettori (utenti, ascoltatori, spettatori etc) che vanno sempre in cerca della conferma del proprio pregiudizio, e i giornalisti che glielo offrono su un piatto d'argento, in una spirale senza fine verso il peggio.
I nemici della libertà di stampa siete voi che quando un'inchiesta giornalistica tocca un politico che odiate è oro colato, quando tocca un politico che amate invece è spazzatura, gossip, complotto e manovra.
I nemici della libertà di stampa sono tutti quelli che - giornalisti, editori, lettori, utenti - si convincono di ciò che a loro conviene e così credono di aver salvato la buona fede, l'onestà intellettuale.
I nemici della libertà sono questi e molti e moltissimi altri.
Ognuno guardi a se stesso, e ai suoi amici piuttosto che ai suoi avversari, se la libertà di stampa gli è davvero più amica di ogni altra cosa.
Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri, Domenica 08/03/2015, su "Il Giornale". Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso, testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.
“Il Mulino mi ha rifiutato per motivi ideologici”. Lo storico Alessandro Orsini, il cui saggio sulle Br fu bocciato dall’editore bolognese: “Dimostrando che il terrorismo rosso degli anni Settanta è figlio legittimo del Pci ho infranto un tabù. E questo non è piaciuto agli ex comunisti”. Intervista di Tommy Cappellini. Tratto da Il Giornale dell’8 settembre 2010. Fa un po’ paura pensare che negli uffici della casa editrice il Mulino, una delle più importanti del nostro Paese, lo scontro ideologico che ha segnato la Guerra Fredda, gli anni Settanta e la Prima Repubblica sia ancora molto vivo e capace di influenzare la scelte editoriali. Tuttavia i rifiuti di pubblicare i saggi di Giovanni Orsina L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione al centrosinistra (in seguito accettato da Marsilio e in libreria a fine mese) e di Alessandro Orsini Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario (poi pubblicato da Rubbettino) lasciano intendere che al Mulino certe guerre ideologiche non siano ancora finite.
Professor Orsini, anche lei «vittima» di un rifiuto editoriale poco scientifico?
«Se il mio saggio non avesse avuto il successo che poi ha raccolto, sarei più cauto, ma a questo punto posso affermare che la stroncatura ricevuta da parte del Mulino non è stato un buon esempio di lettura editoriale. L’impressione che alcuni studiosi hanno ricavato leggendo la relazione di rifiuto è che sia stata viziata da un pregiudizio ideologico. So da alcune fonti che il Mulino si è poi pentito di aver rifiutato il libro».
Partiamo dal libro, allora.
«Ci sono voluti dieci anni di lavoro per portarlo a termine. La mia tesi è che le Brigate rosse siano il frutto più puro e coerente di una tradizione rivoluzionaria che affonda le sue profonde radici nelle sette di tipo gnostico nate nel Seicento, nell’ambito della Riforma, e, più in particolare, nella rivoluzione giacobina del 1793. Questo fenomeno ha poi trovato il suo pieno sviluppo nel marxismo-leninismo e nelle rivoluzioni bolscevica, cinese e cambogiana».
Come dire, le Br non erano quei quattro gatti che qualcuno pensava.
«Al contrario. La vulgata ha sempre affermato che dietro le Br, di volta in volta, non c’erano altro che la Cia o la Dc, interessate a creare le condizioni per un colpo di Stato di destra, oppure, sulla scia di Luciano Canfora, si è detto che le Br non erano altro che “quattro imbecilli, ignoranti e forse anche prezzolati”. Io sostengo che questa interpretazione meccanicamente dietrologica ci abbia allontanato dalla comprensione di un’esperienza drammatica che, per giunta, non fu solo italiana».
L’idea che se ne è fatto?
«In una sorta di rito di rimozione collettiva la sinistra ha sempre negato che le Br appartenessero al suo stesso universo culturale. Facevano invece parte appieno della tradizione della sinistra rivoluzionaria. Sono stato uno dei pochi che è andato a leggersi tutti i documenti disponibili che le Br hanno prodotto: rivendicazioni di omicidio, di ferimento, risoluzioni strategiche, commemorazioni di brigatisti uccisi dalla forze dell’ordine, lettere private e volantini. Si è sempre detto che le Br scrivevano in modo pedante, che leggere i loro scritti era una perdita di tempo, ma questa indagine era quantomeno doverosa per entrare nel loro universo mentale».
Cosa ne ha concluso?
«La “linea di lavoro” delle Br si inseriva consapevolmente in quella di Lenin, Mao, Pol Pot: cioè purificare la società capitalista attraverso un uso spropositato della violenza. Nel capitolo “Il ruolo del Pci nella nascita delle Br”, poi, prendo in considerazione il ruolo pedagogico del Partito comunista nella formazione del brigatismo rosso. Funzione necessaria, ancorché insufficiente, ma comunque concreta. Tale conclusione non poteva trovare d’accordo alcuni ex comunisti che si sono confrontati con il mio libro. Una volta presentato il libro al Mulino lo hanno respinto con una relazione breve, ideologica, poco argomentata, che pareva avesse come fine lo stroncare il saggio».
E lei che ha fatto?
«L’ho presentato a Rubbettino, che nel giro di pochissimo tempo lo ha pubblicato, considerandolo un libro di valore, con la prefazione del noto storico americano Spencer Di Scala. Rubbettino è poi stato contattato da importanti editori americani e ha firmato un contratto per la cessione dei diritti alla Cornell University di New York. Anatomia delle Brigate rosse sarà pubblicato, oltre che negli Stati Uniti, anche in Gran Bretagna, Canada, Australia, Sud Africa e in molti Paesi europei. Dopo la stroncatura del Mulino, il mio libro è stato definito “un libro di grande prestigio intellettuale” dal Journal of Cold War Studies, rivista edita dal Mit. Sono stato poi invitato a tenere lezioni, tra gli altri atenei, ad Harvard, al Mit, alla John Hopkins, alla Brookings di Washington. Ho già in programma un altro percorso di lezioni universitarie all’estero che toccheranno anche Gerusalemme. In Italia, invece, ho trovato molti guai».
Quali? Di fatto lei ha una voce su Wikipedia americana e nessuna su quella italiana…
«Alcuni professori italiani mi hanno sollecitato a costruire la mia carriera accademica all’estero affermando che le porte qui mi erano ormai precluse nell’ambito del mio settore di ricerca, la sociologia politica. Hanno inoltre aggiunto che in Italia pubblicare un saggio di valore non ha alcuna importanza se non si fa parte di una precisa lobby accademica».
Marta Russo: delitto a La Sapienza 20 anni dopo. Genesi di un libro rifiutato. La controinchiesta scottante sul delitto a La Sapienza sarà in vendita su Amazon. La firma Vittorio Pezzuto, scrive Patrizio J. Macci su "Affari italiani", Lunedì 10 aprile 2017. Venti rifiuti sommari, decine di mail che hanno solcato il web con motivazioni di una banalità sconcertante, risposte scompiscianti, rinvii e palleggiamenti. “MARTA RUSSO - Di sicuro c’è solo che è morta”, la corposa e documentissima contro-inchiesta scritta dal giornalista Vittorio Pezzuto in occasione del ventennale del celebre omicidio a "La Sapienza" (9 maggio 1997), sembrava destinata a non trovare alcuno spazio in libreria. Sarà invece proposta dal più grande editore internazionale dal 19 aprile: parliamo di Jeff Bezos, patron di Amazon. Basterà collegarsi allo store del sito e con un semplice clic acquistarne una copia, in versione sia cartacea sia e-book.
Un libro che per tutti non s'aveva da pubblicare. Intanto vi proponiamo un piccolo campionario delle motivazioni con le quali è stato di volta in volta rifiutato: uno "sciocchezzaio" che ci aiuta a comprendere lo stato attuale dell'editoria italiana e soprattutto le ragioni della sua profonda crisi.
FRASI FATTE, FRASI DETTE:
"Guardi, a noi questa storia interessa moltissimo e il suo lavoro di ricerca storica è stato veramente enorme”.
"Bene, mi fa piacere sentirlo."
"Però vede, lo stile del libro è troppo enfatico, ricorre a volte a frasi fatte e appare talmente schierato a favore dagli accusati che il lettore è spinto a parteggiare per il lavoro dei magistrati."
"Addirittura."
"Intendiamoci, consideriamo questa vicenda giudiziaria una vera schifezza però così non va. Che ne dice di mandarci fra qualche mese un proposal...".
"...un che? Intende una proposta?"
"Sì, insomma... La proposta di un capitolo asciugato con stile più asettico, più idoneo allo stile della nostra casa editrice. Se riscrive il libro in questo modo può darsi che poi il nostro consiglio di amministrazione si decida nel tempo alla sua pubblicazione."
"Grazie, ci penso su e le farò sapere."
CI VORREBBE UNA SPONSORIZZAZIONE:
"Buonasera, mi chiamo Vittorio Pezzuto e..."
"Sì certo, la conosco. Dica."
"Volevo proporle la pubblicazione di un libro-inchiesta sul caso Marta Russo. A maggio cade il ventennale dell'omicidio e poiché siete una casa editrice specializzata in saggi di cultura liberale..."
"... Mhh. Un libro del genere però non si ripaga solo col mercato. Occorrerebbe un sostegno, uno sponsor all'edizione..."
"Addirittura?"
"Eh sì. Il problema è che su questi temi c'è una forte concorrenza del web..."
"Del web?! Veramente la Rete è spesso sinonimo di insulti, approssimazione, fonti incerte..."
"Guardi, se proprio insiste può mandarmi una scheda dell'opera e nel caso le faccio sapere."
"Faccio prima a mandarle, per sua cultura personale, l'intero volume. Sono circa 500 pagine..."
"... Ah, una cosa corposa."
"Beh, sì. È un libro, mica un tweet."
L’EDITORE DI QUALITÀ:
"Guardi Pezzuto, diamo per scontato che il suo libro sul caso Marta Russo sia un capolavoro. Per quale motivo però dovremmo pubblicarlo?"
"Forse proprio perché, come dice lei, si tratta di un capolavoro."
"Ehh, fosse così semplice..."
L’EDITORE “MILANESE”:
"Buongiorno, mi chiamo Vittorio Pezzuto e ho avuto il suo numero da (...). La chiamo perché, dopo aver scritto qualche anno fa la biografia di Enzo Tortora, ho appena ultimato un'accurata contro-inchiesta sul caso Marta Russo in occasione del prossimo ventennale di questo omicidio che tanto ha diviso l'opinione pubblica. Mi rivolgo alla sua casa editrice perché mi dicono essere seria ma soprattutto perché da molti anni pubblica libri coraggiosi di denuncia...".
"Guardi, a parte queste note di colore che non interessano nessuno..."
"Sì?"
"...Io la inviterei a recarsi ogni tanto in libreria per vedere cosa viene pubblicato. Scoprirà che la storia che propone è molto vecchia”.
"Veramente in libreria mi capita di andarci, e vi scopro sempre nuovi libri sulla prima e sulla seconda guerra mondiale, per non parlare di nuovi tomi sulle Brigate Rosse, sulla morte di Pasolini, sul caso Moro...".
"Io la inviterei a non accostare il caso Moro a un banale episodio di cronaca nera che non ha avuto alcun risvolto politico e giudiziario!".
“Ma veramente...".
Venti anni fa il delitto Marta Russo. "Questo libro non s'ha da pubblicare". IL CASO LETTERARIO. Dopo "Applausi e sputi" dedicato a Enzo Tortora, Vittorio Pezzuto ha ultimato il suo lavoro su Marta Russo, uccisa la mattina del 9 maggio all'università La Sapienza. Ben dieci editori hanno rifiutato il manoscritto, "perché...", scrive Lunedì 7 marzo 2016 Patrizio J. Macci su "Affari italiani". L'anno prossimo cade il ventennale dell'omicidio di Marta Russo, la studentessa universitaria romana colpita da una pallottola in un viale dell'Università "La Sapienza" la mattina del 9 maggio 1997. Quale momento più adatto per portare in libreria un volume accurato che ricostruisca finalmente una storia che ha appassionato e diviso l'Italia? Il libro ci sarebbe già e il suo autore, il giornalista Vittorio Pezzuto, peraltro è già un autore conosciuto: per Sperling&Kupfer ha scritto anni fa "Applausi e sputi", la biografia 'definitiva' di Enzo Tortora che ha riscosso un ottimo successo di critica e di vendite, tanto che da questa è stata tratta poi una fiction di due puntate trasmessa in prima serata su Rai Uno. Pensava quindi che questa sua nuova opera, scritta con estremo rigore documentale ma dallo stile avvincente, potesse facilmente incontrare l'interesse delle maggiori case editrici italiane. E invece no. Con sua grande sorpresa, ha finora collezionato una lunga serie di cortesi rifiuti o eloquenti silenzi. Col paradossale risultato che questo libro che non riesce a trovare un editore si è così trasformato in un piccolo caso editoriale. Sollecitato a parlarne, Pezzuto sceglie con Affaritaliani il registro amaro del disincanto: "La buona notizia è che col decimo rifiuto mi considero ormai un vero scrittore".
Non sembra particolarmente abbattuto.
"Per carattere non mi arrendo facilmente. E mi considero semmai arricchito da questa esperienza: adesso penso di comprendere meglio i meccanismi che in gran parte regolano le scelte dell'editoria italiana nella saggistica".
E quali sarebbero?
"Pubblicare libri di personaggi televisivi confidando nell'affetto dei teleutenti, rincorrere i temi del momento con testi spesso buttati giù in fretta ma ben infiocchettati (adeguandosi al dibattito sui social network, scarsa profondità dell'analisi inclusa), proporre saggi critici contro i protagonisti politici del momento - ieri Berlusconi, oggi Renzi e in parte Salvini - che sappiano solleticare il lettore che 'odia' il potente di turno. Forse non è un caso che la saggistica resti la Cenerentola di un mercato editoriale in perenne crisi, di idee ancor prima che di vendite. Col risultato che in Italia si legge sempre meno. Spesso ci si reca in libreria per regalare un libro, non per leggerlo".
Torniamo al suo lavoro sul caso Marta Russo. Non sarà che questa storia è ormai troppo lontana nel tempo?
"Mi permetta allora di sorridere guardando i banconi delle librerie, sui quali vengono accatastati decine di saggi sulla seconda guerra mondiale nonché la quarantatreesima biografia di Hitler e la cinquantottesima biografia di Mussolini. Di quest'ultimo in queste settimane tre diverse case editrici propongono i diari scritti durante la Prima guerra mondiale. Roba freschissima, che immagino affascini centinaia di migliaia di potenziali lettori. E per carità di Patria sorvolo sulla continua emorragia di volumi dedicati al caso Moro così come sui dieci libri pubblicati in contemporanea nel quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini".
Può darci un'anticipazione sulle reali novità della sua controinchiesta?
"Mi sono avvicinato a questa storia senza pregiudizi, costruendomi un imponente archivio personale che comprende 18 faldoni contenenti i documenti dell'inchiesta e del processo (interrogatori, perizie balistiche, intercettazioni ambientali e telefoniche, trascrizioni delle udienze in Corte d'Assise), tutti i take Ansa sul caso lanciati dal 1997 al 2011 nonché circa 8mila articoli ed editoriali apparsi sui maggiori quotidiani e periodici. Ben presto mi sono accorto che i conti non tornavano: assenza di qualsivoglia movente, arma mai ritrovata, testimonianze dell'accusa fragili e contraddittorie, perizie balistiche ballerine (le due particelle di bario e di antimonio trovate sulla finestra della Sala assistenti non erano ad esempio residui di polvere da sparo ma molto probabilmente residui di frenatura d'auto), errori fondamentali nella lettura degli orari dei tabulati telefonici, ecc. Su tutto l'esigenza della Procura di trovare un qualsivoglia colpevole per rassicurare l'opinione pubblica già scossa da molti delitti insoluti nella Capitale. In coda al volume propongo anche due ipotesi alternative a quella ufficiale, sancita dalle reiterate sentenze di condanna (peraltro espiate per intero) di Scattone e Ferraro".
Quali sarebbero?
"Spiacente, per conoscerle dovrete leggervi il libro. Non ho infatti perso la speranza che prima o poi venga pubblicato".
È vero che il direttore della saggistica di una delle principali case editrici le ha detto che il suo libro è bellissimo ma che purtroppo questa storia non interessa più a nessuno?
"Verissimo. Va detto che è stato sfortunato. Pochi giorni dopo è esploso sulle prime pagine di tutti i quotidiani lo 'scandalo' di Giovanni Scattone, che si era visto regolarmente assegnare una cattedra a tempo indeterminato nella scuola pubblica. Mi sono così permesso di mandargli una cortese mail con il link all'home page del Corriere della Sera, limitandomi a osservare che probabilmente uno di noi due si era sbagliato. In quei giorni è infatti tornato alla ribalta nazionale un caso giudiziario che nella coscienza di molti è considerato ancora irrisolto".
Un altro editore le ha invece spiegato che non volevano pubblicare il volume perché temono che possa essere citato in giudizio.
"Valutazione legittima ma curiosa. Il mio libro riporta in effetti le critiche che decine di opinionisti e cronisti rivolsero all'epoca contro i magistrati inquirenti per le carenze della loro inchiesta. Non vennero querelati allora, non vedo perché vent'anni dopo debba esserlo un testo che riprende questi giudizi con tanto di citazione puntuale alla pagina. Che dire? Ho l'impressione che nella povera editoria italiana abbondi l'autocensura. Vien voglia di parafrasare un aforisma del grande Leo Longanesi: non è che in Italia manchi la libertà di stampa, semmai mancano gli editori liberi".
Nel motivare il proprio rifiuto, alcune case editrici le hanno invece spiegato che un'opera del genere non reggerebbe il mercato.
"Mi dovrebbero allora spiegare quante copie devi vendere per poter considerare un'opera riuscita dal punto di vista commerciale. Parliamoci chiaro: in Italia se un testo di saggistica supera le mille copie vendute è festa grossa. Io resto convinto che solo a Roma un libro sul caso Marta Russo ne venderebbe almeno cinque volte tanto. Ma forse il problema è proprio questo...".
In che senso?
"Nel senso che far uscire una contro-inchiesta nel ventennale della morte di Marta Russo scatenerebbe inevitabilmente interesse mediatico e polemiche, con lo strascico obbligato di decine e decine di articoli. Obbligando così i protagonisti dell'epoca (in primis poliziotti e magistrati) a una fastidiosa riflessione sul proprio operato".
Qualche sbaglio l'avrà pur commesso anche lei, no?
"Certamente. Vede, se avessi raccontato questa vicenda sotto forma di romanzo non credo che avrei avuto difficoltà a vedermela pubblicata. Intreccio avvincente, personaggi improbabili, colpi di scena a ripetizione: è un legal thriller che non può non appassionare. Ho commesso invece un errore imperdonabile: accantonare del tutto ogni fantasia e riportare con estrema fedeltà i fatti così come si sono effettivamente svolti, convinto come sono che non vi sia nulla di più inedito e scioccante di quanto è stato rimosso e fatto dimenticare. La verità spaventa".
No, il dibattito culturale no: infatti non ce n'è traccia. Si discute di populismo (senza populisti) e di Europa (solo con i filo-Ue). Per il resto la sfilata dei soliti noti, scrive Luigi Mascheroni, Mercoledì 19/04/2017, su "Il Giornale". Il fatto che Michela Murgia, insieme a Concita De Gregorio, sia la scrittrice in assoluto più presente alla fiera del libro di Milano (partecipa a dodici incontri in cinque giorni, wow!, un vero record), è la garanzia di come «Tempo di Libri», alla sua prima edizione, sia già identico alla brutta copia del Salone di Torino che vorrebbe farci dimenticare (quando la Murgia viaggiava solo a sei-sette presenze a edizione). E invece, così, la nuova fiera di Milano che comincia oggi ci ricorda che essere donna, televisiva, di sinistra, politicamente corretta e organica all'asse mediatico Repubblica-RaiTre-l'Einaudi antiberlusconiana- Feltrinelli è il profilo migliore per la «brava presenziatrice» da festival del libro. Olè. Bei tempi quando al Ligotto di Torino il programma era scandito dai nomi così radicalmente progressisti di Severgnini, Saviano, Fo (Dario o Jacopo), Daria Bignardi e Carofiglio... Infatti, sono gli stessi nomi di «Tempo di libri». Visto che in fondo qui si parla di romanzi, se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.
E così, per cambiare tutto rispetto al Salone di Torino, «Tempo di libri» è rimasto esattamente come ce lo potevamo immaginare prima ancora che fossero presentati ospiti, temi e incontri: organicamente orientato dal punto di vista politico-ideologico. Del resto, se non fosse stato così, non sarebbe stato un evento culturale. La cultura, o è di sinistra o non è.
Programma, programma! Si compulsi il programma prima di parlare! Ecco qui, programma online (). Gli unici politici presenti sono Enrico Letta, Laura Boldrini, Giuliano Pisapia e Lidia Ravera. Ah, già. I politici di sinistra sono gli unici che leggono e che scrivono, hanno ragione loro. Come non detto... Comunque c'è un doverosissimo ritratto letterario di Asor Rosa (modera Antonio Gnoli di Repubblica, strano). C'è una lezione giornalistica di Corrado Formigli (ma anche una di Carlo Freccero, dài...). C'è il tridente democratico Mazzantini-Mazzucco-Janeczek, uhmmmm... le quote rosa in narrativa... non vogliamo perdercele per nulla al mondo... Ci sono attori impegnati. Gifuni e Timi (strano che non ci sia Elio Germano...). Attenzione: c'è un bilancio su Tangentopoli 25 anni dopo. Olè! Da una parte Piercamillo Davigo e dall'altra... Come nessuno? E il contraddittorio? La memoria a senso unico. Obbligo di svolta a sinistra. La cultura è confronto, dibattito, anche scontro. Qualche esempio tratto dal programma di «Tempo di libri»? Beh, ci sono molti incontri sul populismo (senza populisti, ma con Revelli e Damilano). Due incontri sull'America di Donald Trump (senza trumpiani, ma c'è Alan Friedman). Tre sull'Europa (senza anti-europeisti, ma con la Boldrini). E quattro sul gender (senza cattolici, ma con Alessandro Cecchi Paone e Luxuria). Ah, giovedì pomeriggio si parla di eutanasia. Con Beppino Englaro. Per fortuna non siamo più ai tempi di Berlusconi al potere, altrimenti qualcuno tirerebbe fuori ancora il conflitto di interessi. Applicato ai libri ad esempio si può declinare nel fatto che la direttrice della fiera di Milano, Chiara Valerio, partecipa a nove incontri, presentando quattro volte il suo Almanacco del giorno prima (Einaudi), due volte Storia umana della matematica (Einaudi) e due Spiaggia libera tutti (Laterza). La sinistra libera tutto. Non c'è niente da fare. Manca solo la beffa. Chessò, un incontro su un autore di riferimento della cultura di destra, riscoperto da sinistra. Non so... a caso... Tolkien riletto da Michela Murgia... Cazzo, c'è anche quello. Domenica, alle 18,30. Sala Verdana. Coraggio. Tra meno di una settimana «Tempo di libri» è finito. No, non è vero... Stiamo scherzando. Dài, quando si parla di libri va tutto bene, basta che si faccia qualcosa per incentivare la lettura, invogliare i più giovani a cominciare a leggere e convincere i meno giovani che c'è sempre tempo per ricominciare. Una fiera dei libri è prima di tutto una festa. Inutile frignare sulla vecchia storia della sinistra snob e prendi-tutto e della destra ignorante e rosicona. In realtà, non esistono più né l'una né l'altra. E poi a «Tempo di libri» ci sono anche cose meno istituzionali, più curiose e scorrette. C'è ad esempio un ricordo di Witold Gombrowicz (venerdì alle 14,30), c'è il politologo francese Éric Zemmour che sui temi del multiculturalismo e dell'islamizzazione dell'Europa farà scintille (sabato alle 14,30) e c'è un incontro sulla traduzione italiana del Finnegans Wake di Joyce in cui è impegnata Mondadori da anni... Insomma c'è luce, in fondo in fondo. Il problema, però, è che in fondo al tunnel, finito «Tempo di libri», domenica 23, dal 18 maggio inizia già il Salone del libro di Torino. A pensarci bene, un incubo.
La serva serve”, scrive Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 28 aprile 2017. Evviva, siamo un paese libero e informato, grazie a una stampa scevra da condizionamenti e soprattutto a una tv affrancata da ogni pressione! Il rapporto di Reporters Sans Frontières ha scatenato un coro unanime e liberatorio di esultanza nel mondo politico e giornalistico per la scoperta che l’Italia passa dal 77° al 52° posto nella classifica dei paesi più liberi. Siamo sempre ultimi in Europa (eccetto Ungheria e Grecia), fra la Papuasia-Nuova Guinea e Haiti, ma questo è perché Grillo si ostina a ritenere serve le penne e le testate più indipendenti del mondo. Sennò saremmo primi. Chi lo dice? I partiti che controllano militarmente le tv assolte da Rsf e i giornaloni controllati dai padroni del vapore assolti da Rsf. Insomma il vino è buono perché l’ha detto l’oste. Tana liberi tutti – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 28 aprile 2017, dal titolo “La serva serve”. I conflitti d’interessi nelle proprietà editoriali? Leggende metropolitane. Il duopolio collusivo della Rai in mano al governo e di Mediaset in mano a B.? Fregnacce. I soldi pubblici per tenere artificialmente in vita giornali senza lettori in cambio di periodiche genuflessioni a Palazzo Chigi? Fake news. L’editto rignanese costato il posto a Giannini, Berlinguer, Mercalli e prossimamente a Ranucci e financo a Dall’Orto? Bazzecole. Le menzogne impunite che stampa e tv si rimpallano e rilanciano contro chi sta fuori dal giro? Post verità. Rsf assolve i giornaloni leggendo i giornaloni, che ricambiano i complimenti a Rsf, e il cerchio si chiude. Dev’essere un bel sollievo, per Repubblica-Espresso, La Stampa e Il Secolo XIX, che fino a un anno fa appartenevano a tre gruppi diversi e ora sono come il Giornalone Unico di Nanni Moretti, scoprire di averla fatta franca. Ma anche per il Sole 24 Ore di Confindustria, che taroccava copie vendute e abbonamenti. E pure per Caltagirone, l’editore purissimo che per spirito missionario costruisce anche qualcosina qua e là, dunque sperava tanto nelle Olimpiadi per il suo afflato decoubertiniano (localizzato sotto le Vele di Calatrava a Tor Vergata e nei cantieri della Metro C), poi ci è rimasto male per la fine di quel sogno virginale e, per contagio, il suo Messaggero se l’è presa con la sindaca Virginia. E anche l’Unità, salvata da quell’apostolo di costruttore passato da B. a Renzi, ma soprattutto a Gramsci, poi per puro caso ha fatto affari d’oro col Pd. Nemmeno una riga, su queste pinzillacchere, nel rapporto di Rsf. E nemmeno su Saviano, collaboratore della meritoria ong, che ha dovuto difendersi non solo dalle minacce della camorra, ma pure dagli insulti dell’Unità, che l’anno scorso lo definì “mafiosetto di quartiere” (parola di Rondolino). Ora che B. non c’è più, o almeno così dicono, tutto è perdonato (fuorché a Grillo, si capisce). E pazienza se Renzi fa le stesse cose di B., affidando le liste di proscrizione agli Anzaldi & Guelfi, degni eredi degli epurator Storace & Gasparri: infatti le loro liste, diversamente da quelle grilline, si avverano. L’altro giorno Anzaldi, capo-comunicazione di Renzi, si complimentava su Il Dubbio col direttore del Tg1: “Se Orfeo ha censurato Consip, vuol dire che è l’unico vero giornalista in circolazione: accorto e lungimirante”. Averne, di direttori così. Massimo Gramellini, sul Corriere, segnala il contrappasso di Grillo che prima usava Rsf per dare dei servi ai giornalisti e ora l’attacca perché danno del censore a lui. Già. Ma è proprio sicuro che, al netto di quel fascista di Grillo, la stampa italiana sia più libera e più bella che pria? Certo, criticare il sistema dalla prima pagina del Corriere, con un bel programmino su Rai3, dove puoi fare la marchettina al nuovo Sette dell’amico Beppe, è dura. Ma un po’ di prudenza non guasterebbe. Specie dopo un anno di propaganda a reti ed edicole unificate spacciata per informazione sul referendum costituzionale, una roba talmente nord-coreana da suscitare la rivolta del 60 per cento degli elettori. Ma ecco Repubblica, sempre al top. La settimana scorsa Sebastiano Messina chiedeva la testa di Sigfrido Ranucci, reo di leso Renzi, leso Benigni e leso vaccino: “Salvare Report da se stesso, allontanandolo velocemente dal sinistro latrato degli spacciatori di bufale”, dove il cane che latra bufale (quali?) era l’erede di Milena Gabanelli. Ieri, fischiettando, il Messina ci ha regalato un’antologia degli attacchi ai giornalisti. I suoi? Macché. Quelli di Renzi? Mavalà. Solo quelli di Grillo. Il quale ne ha dette e fatte di tutti i colori, ma ultimamente ha pure chiesto di smentire alcune bufale. Non – come scrive sul Corriere Goffredo Buccini – quelle dei “cronisti che osano infastidire la Raggi”, ma dei cronisti di Repubblica, Corriere e Messaggero che sono riusciti a tagliare tutti e tre la stessa frase da un sms di Di Maio alla Raggi, per ribaltarne il senso e potergli dare del bugiardo, mentre i bugiardi sono loro. E forse, fra chi denuncia una balla e chi la fabbrica, c’è una certa differenza. Ora però bando al pessimismo: festeggiamo anche noi la Liberazione della stampa da ogni giogo e censura (Grillo a parte). Lo dice anche l’editore più illuminato del bigoncio, reduce dall’annessione di Rcs Libri a Mondadori e dallo strepitoso flop del primo salone del Libro alla milanese: la presidentessa di Mondazzoli Marina Berlusconi. Che, intervistata dal sempre ficcante Daniele Manca del Corriere, annuncia la sua prossima missione: “Abbattere i muri pensati per sbarrare la strada alla libertà di espressione, alla libera circolazione delle idee e opinioni, al rispetto di chi non la pensa come noi”. E qui l’intervistatore sfodera tutta la sua temerarietà: “A chi sta pensando? A Trump? Alla Le Pen? A Grillo?”. La poveretta stava pensando all’editto bulgaro di suo padre. Ma il Corriere niente: non gliel’ha proprio lasciato dire.
Lo Stato sentenzia che le ONG non si toccano. E Saviano fa l’apologia di Al-Nusra dalla De Filippi, scrive Mauro Bottarelli il 28 aprile 2017 su "Rischio Calcolato". Come volevasi dimostrare, il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, ha capito suo malgrado cosa significhi toccare un nervo scoperto. Anzi, un filo dell’alta tensione. Dopo aver improvvidamente avanzato l’ipotesi che alcune ONG impegnate nel salvataggio dei migranti potessero essere finanziate dagli stessi trafficanti di uomini, ieri sera ha fatto una parziale retromarcia, dicendo che le sue sono ipotesi di studio e non prove, almeno al momento attuale. Atteggiamento sbagliato: un magistrato deve indagare in silenzio e, quando l’ipotesi accusatoria che persegue pare solida, allora parla. C’è però un problema: quante indagini quantomeno strampalate ha conosciuto questa stanca Repubblica, senza che il 90% della stampa e ben due ministri di punta, come quelli di Interno e Giustizia, sentissero il dovere di schierarsi preventivamente contro? Siamo sicuri che Minniti e Orlando sarebbero scesi in campo, se non si fosse trattato d immigrazione, ONG e accoglienza? Io no. Anche perché, se Catania ha esagerato nelle esternazioni, Roma (intesa come centro del potere) ha messo in campo una forza delegittimatrice che non si vedeva da tempo. Ad esempio, da quando una parte del pool Mani Pulite decise di dare un’occhiata ai rubli di Mosca in direzione Botteghe Oscure. Non c’è niente da fare: il potere in questo Paese non è solo cristallizzato, è una stalattite mortale per chiunque le si avvicini. Io capisco che Andrea Orlando, candidato alla segreteria del PD, abbia sentito l’impulso irrefrenabile di dire qualcosa di sinistra a poche ore dalle primarie di domenica ma, esattamente come il procuratore di Catania, anche lui avrebbe dovuto spogliarsi dei panni del ministro e parlare da dirigente di partito: invece no, è stato Largo Arenula a dire chiaro e tondo da che parte sta in questa vicenda. La quale, tra l’altro, è agli inizi, all’acquisizione di prove: ma, state certi, è anche alla fine. Il retromarcia di ieri sera di Buccaro parla la lingua di uno che ha capito come si sta al mondo e, vedrete, che tutto finirà in una bolla di sapone: le ONG ne usciranno più pulite dell’Olandesina del mitico spot sul sapone degli anni Settanta. Anche perché, guarda caso, le coincidenze si sprecano. Mentre il procuratore di Catania meditava su quanto detto al mattino ad “Agora” e si preparava alla mezza smentita all’Ansa dell’ora di cena, ecco che a Roma i pm avanzavano le richieste di condanna per “Mafia capitale”, mega-processo legato proprio all’attività di alcune coop e al duo Buzzi-Carminati, operanti nel settore dell’accoglienza: un comparto che “fa guadagnare più della droga”, come disse – intercettato – il ras delle cooperative, Salvatore Buzzi. La stessa formula usata da Buccaro per motivare la sua accusa di probabili pagamenti alle ONG da parte dei trafficanti, anche per colpire l’economia italiana. In un caso è Vangelo, anzi la madre di tutte le inchieste recenti, nell’altro trattasi pressoché di un mitomane. Eppure, come ci ricorda “Panorama” dell’8 febbraio 2017, nell’articolo di Chiara Degl’Innocenti, “Mafia Capitale è stata archiviata. Non sono emersi “elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio” e così la posizione di 113 indagati nell’inchiesta viene, appunto, archiviata perché il reato al centro di tutte le indagini, l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo 416 bis, non sussiste”. Insomma, se il procuratore di Catania ha ecceduto nelle esternazioni, forse trasportato dal clamore dell’inchiesta, quelli di Roma hanno forse ecceduto nel muovere delle accuse enormi: avete notizia di stampa indignata o, peggio, ministri che richiamassero alla continenza? Zero. L’unico magistrato fuori registro in Italia è Buccaro. Anzi, a essere fuori registro, è l’argomento della sua inchiesta: l’accoglienza non si tocca. Proprio poco fa, dall’inchiesta sul terrorismo di cui è titolare la procura di Brindisi sono scaturiti un arresto in Germania e un’espulsione: le persone coinvolte avrebbero avuto legami con Amis Amri, l’attentatore di Berlino, poi freddato a Sesto San Giovanni. Ma lo stesso Viminale, quello che ha visto il suo titolare entrare in tackle scivolato sull’inchiesta di Catania durante il question time alla Camera, non aveva confermato che Amri era un lupo solitario, senza alcun aggancio o complice in Italia? Come vedete, nel corso di un’inchiesta le cose possono cambiare. Solo per Zuccaro c’è la certezza che tutto sia già scritto: le ONG sono candide come vestali. Punto, lo certifica lo Stato. Ma se ieri è stato il giorno delle polemiche, domani sarà quello del rito di purificazione televisiva. Già, perché il sito di “Repubblica” ci informa, bontà sua, che domani sera sarà ospite ad “Amici” da Maria De Filippi il cantore della verità assoluta, Roberto Saviano, con una simil-piece dedicata indovinate a chi? Ai volontari che salvano i migranti! Lascio all’aulica prosa di “Repubblica” deliziarvi con i particolari: “L’audio di un bombardamento in Siria dopo gli applausi, le risate e il tifo. Sabato 29 aprile ad “Amici”, su Canale 5, Roberto Saviano porta il rumore della paura e della morte. Nello studio si crea un silenzio irreale… Il suo intervento nel programma di Maria De Filippi parte da un frammento dal documentario premio Oscar “Caschi bianchi”, per parlare della guerra “a tre ore di volo da qui” che in sei anni ha causato oltre 450mila vittime, e dei migranti. Nei giorni della feroce polemica sul ruolo delle Ong, Saviano mette al centro del racconto due storie esemplari, quella di Khaled Omar, 31 anni, volontario dei caschi bianchi che ha salvato centinaia di vite – ed è stato ucciso durante un bombardamento – e quella di Ileana Boneschi, 28 anni, l’ostetrica di Medici senza frontiere che fa nascere i bambini in situazioni estreme. Sotto le bombe, stremate dalla fame”. Che meraviglia assoluta, non vi pare? Nemmeno la “Cura Ludovico” di Arancia Meccanica era arrivata a tanto: tra un ballerino e un cantante, ecco il nuovo eroe dei Due Mondi che ci racconta le gesta dei meravigliosi volontari delle ONG. E cosa utilizza per farlo? gli “Elmetti bianchi”, ovvero la protezione civile di Al-Nusra, di fatto dei fiancheggiatori a pieno titolo dei terroristi operanti in Siria, come ormai dimostrato da decine di documenti! E il tutto, in prima serata del sabato su Canale5, rete ammiraglia di Mediaset: questo sì che meriterebbe l’apertura di un’inchiesta per apologia di terrorismo internazionale ma, state certi, finirà solo con un botto di auditel e la canonizzazione in vita di Saviano, demiurgo che plasma la kora del politicamente corretto e spaccia per eroici salvatori dei supporter dei tagliagole. D’altronde, hanno vinto l’Oscar. Siamo alla circonvenzione di incapace di Stato, Kubrick era un dilettante e Orwell un mitomane. Saviano poi parla di “guerra a tre ore da qui”, per farci capire quanto siamo insensibili, non come quegli angeli delle ONG: e dove cazzo era Saviano quando la sinistra di governo che ora si strappa le vesti contro la Procura di Catania apriva le sue basi militari per bombardare a un’ora da qui, in Serbia? E, vi assicuro, che dopo l’assalto al Parlamento macedone di ieri notte, debitamente silenziato dai media italiani (dovevano dare conto di Matteo Renzi che cantava “Ricominciamo” di Adriano Pappalardo durante una visita a Corviale), proprio quel fronte balcanico tornerà a farsi sentire: anche a livello di flusso di profughi, visto che dopo l’ingresso del Montenegro nella NATO, la Macedonia e la sua tratta di confine con l’Albania rappresentano il corridoio perfetto verso l’Europa e per la nascita del progetto pan-albanese di destabilizzazione tanto perseguito dagli USA. Non a caso, l’ambasciata statunitense di Skopje è stata attivissima nello schierarsi subito con i partiti di minoranza nel loro tentativo, questo sì golpistico, di fare eleggere uno speaker della Camera fuori dalle norme parlamentari. Mi sono rotto i coglioni di dover ribaltare la realtà distorta tutti i santi giorni, ve lo confesso. Ma non mi arrendo. Giuro che, parafrasando Nanni Moretti quando ricordava agli italiani che si meritavano la mediocrità da uomo medio di Alberto Sordi, io non mi merito Roberto Saviano. E la realtà, per quanto vi faccia ingoiare tonnellate di bocconi amari, alla fine emerge sempre. Come in Canada, dove il premier-sex symbol, Justin Trudeau, ha messo in pratica un po’ troppo in fretta la metafora di Ricucci, quella del lanciarsi facilmente in attività omosessuali con le terga altrui. E questi grafici ce lo mostrano: i canadesi, a parole accoglienti e sprezzanti di quel gretto vicino di casa che è Donald Trump, cominciano ad averne pieni i coglioni loro stessi di profughi. Come certifica il “Financial Times”, non “L’eco del balilla”, “il passaggio di migranti dal confine del Quebec è triplicato su base annua e anche il dato dell’Ontario è aumentato moltissimo”. E, come ci mostra questo grafico basato su un sondaggio della Reuters, ben il 46% dei cittadini canadesi è contrario alla politica del governo sull’immigrazione e chiede maggiori espulsioni. Di più, addirittura il 40% dice che l’immigrazione illegale rende il Paese meno sicuro. Che cazzo di razzisti questi canadesi, quando Saviano ci delizierà con un’intemerata contro questi Grizzly senza cuore? Magari a “Forum”, tra un litigio e l’altro sull’eredità di zia Mariuccia? Ma nessuna paura, è solo una sparuta minoranza di razzisti, le istituzioni canadesi sono sane, liberali e aperte verso chi scappa da Trump: insomma, mica troppo. Lo conferma Anthony Navaneelan, avvocato di Toronto che si occupa proprio di immigrazione: “Abbandonare una richiesta avanzata negli Stati Uniti e venire in Canada dopo una decisione negativa delle autorità statunitense o, ancora, non avanzare richiesta di asilo ma aver passato comunque molto tempo negli USA, sono tutti aspetti molto negativi. Più a lungo stai lontano dal tuo Paese di origine, più è difficile che qui le istituzioni decidano che tu sia un rifugiato”. Insomma, aperti sì ma coglioni no. Quella è una prerogativa italiana.
Ma anche in Germania c’è qualche rogna con gli atteggiamenti buonisti, come ci mostra questo grafico: i cittadini tedeschi hanno infatti scoperto, immagino con enorme gioia, che sono fino a 270mila i cittadini siriani che hanno maturato il diritto di portare tutti i membri della loro famiglia in Germania, questo su un totale di 431.376 che hanno presentato richiesta d’asilo nel 2015 e 2016. Auguroni. E se questi due grafici, elaborati da uno studio Vladimir Shalak della Russian Academy of Science, l’istituto che ha sviluppato il sistema di analisi dei contenuti per Twitter (Scai4Twi), ci mostrano come – dall’analisi di 19mila tweets originali – Germania e Austria siano i Paesi più aperti verso i rifugiati, invitati a recarsi lì attraverso il social, quest’altro ci mostra da dove sono generati quei tweets: USA e UK, solo il 6% viene davvero dalla Germania! Comunque tranquilli, non c’è nessuna pianificazione riguardo l’ondata migratoria, è tutto assolutamente spontaneo e figlio legittimo della fuga da guerre, fame, carestie, disturbi gastrici, suocere rompicoglioni e altre emergenze umanitarie. E, ovviamente, il procuratore di Catania è, a prescindere, un mitomane di Stato. Auguri, il futuro da schiavi sarà duro da sopportare. Ma ve lo siete cercato. Buon Saviano per domani sera, io ho altri programmi per il 29 aprile.
Saviano & Travaglio: Gli Scopiazzatori, scrive su "Ultima Voce" il 6 Aprile 2017 Gianni Lannes. Cosa accomuna Travaglio e Saviano? Saccheggiare il lavoro intellettuale altrui. Vi racconto una breve storia. Ecco una consorteria di furbetti che sperano sempre di farla franca e di non essere scoperti. Rubare non è un bene. Il plagio reca danno ai veri autori e poi non è etico. Alla voce furto delle opere di ingegno altrui troviamo la scuderia di Repubblica: Augias, Galimberti, Saviano, insomma pennette in salsa tricolore; una combriccola utile a chi comanda per orientare i consumatori, pardon, i lettori. Fanno pure i moralisti d’accatto (sic!) e vanno pure per la maggiore un giorno sì e l’altro pure nei salotti tv, ma poi si appropriano del lavoro altrui spacciandosi addirittura per scrittori e giornalisti. Facile, ad esempio pubblicare ovvero ricicciare inchieste sulle mafie che altri realizzano, rischiando concretamente la pelle. Nel 2011, capitò a più riprese, che Marco Travaglio, attuale direttore responsabile del Fatto Quotidiano, plagiasse integralmente intere mie indagini giornalistiche su don Verzé, il San Raffaele e Nichi Vendola, pubblicate qualche anno prima su TERRA NOSTRA, e poi ripubblicate dal medesimo senza citare la fonte e senza virgolette, sul settimanale L’Espresso e sul giornale Il Fatto Quotidiano. Travaglio non aveva avuto neanche il garbo di cambiare almeno il titolo, mentre il direttore del settimanale di De Benedetti fece finta di niente, invece di cacciarlo a pedate nel fondoschiena. Anche l’ordine dei pennivendoli era distratto. Travaglio si limitò ad inviarmi un’e-mail di scuse. E Saviano: il sedicente esperto di ecomafie? Peggio ancora, come ha attestato il procedimento giudiziario giunto in Cassazione – in ambito civile – intentato nei suoi confronti dagli autori di inchieste sulla camorra in Campania. Dopo il successo di vendite costruito a tavolino dalla Mondadori del piduista Berlusconi, il pompato dal sistema è approdato sull’altra sponda di Repubblica. E così ha preso a saccheggiare impunemente all’estero, prima di tutto in Albania, sperandola di farla franca, ma adesso è stato preso definitivamente in castagna da un giornale online nordamericano. In Italia, la brava Giulia Fresca aveva messo alle strette questo eroe da barzelletta già nel 2010, sulle pagine online di Articolo 21, mentre nello stesso anno il professor Alessandro Dal Lago aveva stroncato Gomorra nel memorabile saggio Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee. A scuola una volta, campioni del genere del furto letterario si bocciavano inesorabilmente, invece oggi si promuovono addirittura a paladini delle libertà civili. Che paradosso mentre i tempi correnti ammazzano l’etica. Gianni Lannes
Roberto Saviano. Contraddizioni o libertà. 21 aprile 2010. Proponiamo alla riflessione e alla discussione dei lettori di Nazione Indiana il seguente testo di Wu Ming tratto da Wumingfoundation/Giap. Ricapitoliamo: Berlusconi attacca Gomorra. Lo aveva già fatto, ma stavolta è più esplicito. Saviano giustamente fa notare che Berlusconi è proprietario della casa editrice che pubblica il libro, e chiama in causa quest’ultima: “Si esprimano i dirigenti, i direttori, i capi-collana”. Si esprime invece Marina Berlusconi, più in veste di figlia che di editrice. Saviano commenta la lettera di Marina senza abbozzare, senza toni concilianti, anzi, chiamando in causa la Mondadori con maggiore perentorietà. Il messaggio é: “Voglio sentire chi in casa editrice ci sta per davvero, voglio sentire chi la Mondadori la manda avanti”. La contraddizione si acuisce. Da autore Mondadori e autore di Gomorra, Saviano occupa una postazione strategica, e più di altri può chiamare al pettine certi nodi, nodi che riguardano anche noi. Far venire i nodi al pettine è tanto un dovere civico e politico, quanto un compito specifico dello scrittore. Pubblicando con Mondadori, Saviano ha generato conflitto. Conflitto non effimero, ma che opera in profondità. Comunque vada, é più di quanto abbia fatto l’opposizione. Se Saviano fosse rimasto in una nicchia di ugual-pensanti, nel ghetto dei presunti “buoni”, non avrebbe acuito nessuna contraddizione, né generato alcun conflitto. Stare simultaneamente “dentro” e “contro”, diceva l’operaismo degli anni Sessanta. “Dentro e contro” era la posizione, era dove piazzare il detonatore. Sia chiaro: l’alternativa non è mai stata “fuori e contro”. L’alternativa è sempre stata “dentro senza rompere i coglioni”, oppure “dentro senza assumersene la responsabilità”. Dentro fingendo di star fuori, insomma. Come tanti, come troppi. Un “fuori dal sistema” non esiste. Il sistema è il capitalismo, ed é ovunque, nel micro e nel macro, nei rapporti sociali e nelle coscienze, nelle giungle e in cima all’Everest. Noi abbiamo sempre detto – e ancora diciamo – che tutti quelli che combattono “il sistema” lo fanno dall’interno, dato che l’esterno non c’è. Il potere non è fuori da noi, è un reticolo di relazioni che ci avvolge, un processo a cui prendiamo parte, ma ovunque vi sia un rapporto di potere, là è anche possibile una resistenza. Sei anni fa WM1 spiegò, per l’ennesima volta, la nostra posizione sul “pubblicare con Einaudi”. Lo fece per filo e per segno su Carmilla. Lo fece perché è sempre stato nostro costume – e ancora lo è – rendere conto pubblicamente delle nostre scelte, soprattutto se ci viene richiesto dai lettori. Tra le altre cose WM1 scriveva: Negli ultimi anni, le polemiche “boicottomaniache” hanno rischiato di fare il gioco degli yes men, dei leccaculo: chi chiede agli autori di sinistra di “andarsene da Mondadori” non capisce che così facendo il loro posto nella casa editrice e nell’immaginario collettivo (una posizione a dir poco strategica) sarebbe preso da autori e manager di destra (i quali non vedono l’ora), con piena libertà di spargere la loro merda incontrastati. Queste frasi risalgono a due anni prima dell’uscita di Gomorra. Sono cose che, in seguito, lo stesso Saviano ha dichiarato in più occasioni, e diversi altri autori hanno ribadito, anche di recente. Da anni difendiamo questa postazione avanzata e scomodissima, esposti sia agli attacchi della destra sia a continue raffiche di “fuoco amico”. La nostra posizione sul pubblicare con Einaudi è identica dal principio, è la stessa dichiarata in quel vecchio testo e ancora prima. Non siamo noi il corpo estraneo alla tradizione e al catalogo Einaudi, come non siamo noi ad avere corrotto Tizio o Caio, ergo non siamo noi che dobbiamo levare le tende. Mettiamola così: se qualcuno vuole trafugarmi o usurpare qualcosa, io non rinuncio fin da subito, non gli lascio tutto in mano e tanti saluti. Io cerco di lottare, di resistere. Se poi il rapporto di forza é schiacciante, prenderò un fracco di botte, ma almeno avrò tentato. E’ meglio prenderle dimenandosi che prenderle stando fermi. In quelle note del 2004, WM1 descriveva un berlusconismo in forte crisi. I sintomi c’erano tutti, ma quell’analisi – sei anni dopo possiamo dirlo – li sopravvalutava. Eppure…Eppure sei anni fa la partita non era persa. Il berlusconismo arrancava, non sfondava, il logoramento era evidente. Non tutti i pozzi erano avvelenati. L’elenco di passi falsi, sconfitte e defaillances non ce l’eravamo sognato noi, erano tutte cose appena accadute. L’anno prima tre milioni di persone avevano marciato a Roma contro la guerra in Iraq. Due anni dopo, la “devolution” (la più grande scommessa del berlusco-leghismo, un’impresa storica di de-costituzionalizzazione del Paese) sarebbe stata bloccata dal voto referendario. Non sono falsi ricordi. C’era ancora un blocco sociale, una “forza storica” che si opponeva e impediva al berlusconismo di sfondare. Quella forza storica, però, da sola non bastava. Ed é stata boicottata, sabotata, massacrata prima dalla “opposizione” che dal governo. E inoltre ha commesso degli errori, continuando ad affidarsi a certi rappresentanti. Quel che è successo dopo lo sappiamo. Oggi tutto é più difficile, ma per noi la sfida, la sfida politica, è ancora “resistere un minuto più del padrone”. L’Einaudi é un campo di battaglia importante, e finché avremo munizioni e fiato continueremo a combatterci sopra. Ce ne andremo solo se e quando, presto o tardi, le condizioni si faranno intollerabili. E’ la strategia sbagliata? Tutto può essere. Ma é quella che abbiamo scelto e di cui rendiamo conto da sempre. Noi possiamo fare errori, scazzare previsioni, fare passi falsi, ma agiamo sempre con coscienza, prendendoci le nostre responsabilità, sottoponendoci al pubblico scrutinio, facendo autocritica. Dopodiché, le scelte di ciascuno verranno giudicate sul lungo periodo, commisurate ai risultati ottenuti sul campo, alla traccia lasciata, al contributo dato alla sopravvivenza di un barlume di senso nella propria e altrui vita.
Qualche parola su Saviano. Al di là di alcune mosse e prese di posizione stridenti e da noi non condivise, abbiamo sempre difeso e continueremo a difendere Saviano dagli attacchi stupidi o interessati. Saviano è un collega, un amico, un compagno di strada. Per questo gli abbiamo sempre detto le cose fuori dai denti, e abbiamo segnalato quali rischi gli facesse correre la sua trasformazione in comodo simbolo, vessillo rassicurante e buono per tutti i frangenti, abito d’indignazione pr’t-à-porter. Tra le altre cose, nel 2009 scrivemmo: … “Saviano è tutti noi”. Vada avanti lui ché ci rappresenta così bene. Soffra lui per conto nostro, è il destino che si è scelto. Bel ragazzo, tra l’altro. Saviano è l’uomo più strumentalizzato d’Italia […] La voce di Saviano è rimasta invischiata tra scelte fatte più in alto, politiche d’immagine e “stato delle cose” realpolitiko: Saviano con Shimon Peres con Donnie Brasco con Salman Rushdie con Veltroni, Saviano alla scuola di formazione del PD nel Mezzogiorno e così via. Dev’essere ben chiaro che Saviano non può comportarsi in altra maniera: ha davvero bisogno di questa ossessionante presenza pubblica, di questo over-statement di solidarietà anche pelosa, perché gli garantisce incolumità. Il paradosso è che, dietro il cordone sanitario, lo scrittore svanisce e resta solo il testimonial […] Saviano dovrà lottare con le unghie e con i denti per ri-conquistarsi come scrittore. Da qualche settimana, sui giornali e in rete, circola una pubblicità, un’immagine che abbiamo fin da subito trovato molto vera e perciò raggelante, perfetta rappresentazione del dispositivo che riproduce Saviano come soggetto non libero. Dal 2006, per continuare a vivere, Saviano ha dovuto agire perché non calasse l’attenzione: gli è toccato essere sempre visibile, essere una presenza costante nella sfera pubblica. In ogni momento, il forte rischio era che questo sovra-apparire lo inflazionasse, gli facesse perdere potenza. Di fronte a un calo di potenza, la tentazione è di rispondere “aumentando la dose”, per ottenere un effetto in un’opinione pubblica sempre più assuefatta e “tollerante”. Solo che, aumentando la dose, il problema si ripropone a un livello più alto e quindi più impegnativo, meno gestibile. Questo è il dilemma, e Saviano ne è sempre stato conscio: non è un caso che abbia spesso tentato di scartare, che sia sempre tornato a insistere sulla “scrittura”, sullo scrittore. Era il suo modo di fare resistenza, di non far chiudere il dispositivo, di non farsi legare definitivamente. Bene, può darsi che Saviano abbia trovato lo spiraglio. Può darsi che l’acuirsi della contraddizione-Mondadori gli stia fornendo un inedito spazio di espressione non pre-ordinata. Forse il dispositivo è entrato in una crisi almeno passeggera, perché sotto i nostri occhi Saviano “Ë diventato quel che è”. Mai come ora, mai in modo tanto eclatante, Saviano è stato quello che vediamo nella risposta a Marina Berlusconi: un uomo libero. Anche nella reclusione che sconta, un uomo libero. Comunque vada a finire con Mondadori, comunque vada a finire in generale, in questo momento Saviano è libero.
Ma quale icona di sinistra. Saviano, dettaglio imbarazzante: "A Buttafuoco disse che...", scrive il 5 Agosto 2016 Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Mi sono accorto con ritardo (mica pretenderete che uno si legga Saviano il 3 agosto!) che l'autore di Gomorra mi ha dedicato più di qualche riga sulla Repubblica dell'altro ieri, in un articolo dal titolo suggestivo: "Camorra, la fabbrica dei dossier". In realtà me lo ha segnalato un amico della Direzione investigativa antimafia con un sms divertito: «Se ti hanno arrestato sono disposto a verbalizzare le tue confessioni». Dopo di che ci ho messo un giorno a decrittare le frasi di questo Milionario dell'Anticamorra e ho scoperto che mi dà del giornalista «borderline» e, se ho tradotto bene dal savianese, mi accusa pure di essere contiguo alla camorra. Nella sua lenzuolata ha ricordato un mio scoop dei tempi in cui lavoravo per Panorama, riguardante un'inchiesta che coinvolgeva l'allora premier Silvio Berlusconi: una fuga di notizie per cui la procura di Napoli ha indagato per un paio d' anni anche su di me e sul direttore del settimanale mondadoriano Giorgio Mulè. I pm partenopei dispiegarono un vero e proprio dispositivo di «spionaggio» che consentì di ascoltare per settimane decine di migliaia di telefonate sulle utenze di diversi giornalisti di Panorama. Per questo fa sorridere che oggi Saviano mi appiccichi addosso, citando il pm Vincenzo Piscitelli, un'accusa di «spionaggio» che fa a pugni con il decreto di archiviazione del gip di Roma. Giudice che ha ereditato l'inchiesta da Napoli per la palese incompetenza territoriale degli inquirenti campani e che ha riconosciuto che io e Mulè non abbiamo fatto altro che il nostro lavoro. Le accuse a Berlusconi - Nell' articolo il criptico Saviano è poi partito per la tangente e ha raccontato del rapporto «assai stretto» che avrei avuto con l'avvocato Michele Santonastaso, ex difensore di diversi boss della camorra. Dal 2010 è rinchiuso in cella per i presunti rapporti pericolosi con i suoi assistiti e anche per le minacce rivolte allo stesso Saviano. Ma all' epoca in cui lo incontrai, nel 2008, era solo un legale e molti giornalisti avevano una certa consuetudine con lui, visti i nomi dei clienti. Un giorno per esempio lo incrociai in un bar mentre parlava con la collega Rosaria Capacchione, divenuta poi senatrice del Pd. I motivi per cui ho contattato Santonastaso sono limpidi e certificati. In particolare lo avevo cercato per provare a realizzare un'intervista con il più celebre latitante dei Casalesi, Antonio Iovine, detto O' Ninno. Conservo ancora copia delle domande che gli consegnai. Informai anche il capo della squadra mobile di Caserta del tentativo che stavo facendo e lui tra il serio e il faceto mi propose di imbottirmi di microspie. Ovviamente rifiutai considerando la cosa troppo rischiosa. Alla fine non so se Santonastaso abbia mai consegnato quel mio lungo questionario, di certo le risposte non mi arrivarono. In quegli stessi giorni Santonastaso mi confidò che aveva recuperato delle intercettazioni esplosive e che le avrebbe rese pubbliche. Nei brogliacci il pentito Carmine Schiavone parlava di presunte pressioni subite da pm e investigatori per fargli accusare Silvio Berlusconi. «Da quando stava quel piecoro di omissis che andava cercando che io accusassi Berlusconi. Eh, io gli dissi: ma chi c… lo conosce!», diceva in una telefonata Schiavone. All' epoca il presidente di Forza Italia era premier e la notizia era di grande rilevanza mediatica. Il praticante maldestro - Per potermi consegnare quei brogliacci Santonastaso decise di allegarli a un'istanza di rimessione, ovvero a una richiesta di trasferimento del cosiddetto processo Spartacus ad altre toghe. I tempi erano ristretti e l'avvocato chiese a un suo praticante, tale Davide, di redigere l'atto. La sera prima del deposito il giovanotto entrò nello studio di Santonastaso, dove ero seduto anche io, e iniziò a leggere il documento che aveva preparato. Il linguaggio era colorito e minaccioso e si rivolgeva direttamente a tre presunti nemici dei boss, che secondo Santonastaso imbrogliavano le carte della tenzone giudiziaria: il pm Raffaele Cantone, Roberto Saviano e la già citata Capacchione. Mi sembrò tutto improvvisato e pasticciato. I termini erano decisamente sopra le righe e il giorno dopo successe il patatrac che tutti sanno. L'avvocato dei boss lesse quello squinternato atto d' accusa in aula e subito i giornali rilanciarono la notizia delle minacce dei Casalesi a tre paladini dell'Anticamorra. Il risultato fu che a Saviano fu confermata la scorta che aveva dall' anno prima. Anche per colpa della fretta e di un praticante alle prime armi. Nel novembre 2014 per quelle minacce venne condannato il solo Santonastaso che evidentemente per i giudici non aveva mandanti. Ma io già lo sapevo e ne informai lettori di Panorama, quando decisi di intervistare l'avvocato sul putiferio che era scoppiato e di cui ero in piccola parte responsabile avendo tanto insistito per avere quelle intercettazioni. Nell' intervista (disponibile su Internet per chi voglia verificare come il taglio delle domande fosse di riprovazione rispetto all' iniziativa dell'avvocato) tentai in tutti i modi di far recitare un mea culpa a Santonastaso, che ammise: «Probabilmente il tono era sbagliato. Solo che a scrivere ero io e non i miei clienti. I casalesi non hanno minacciato nessuno, non avrebbero potuto farlo tramite me». I giudici lo hanno confermato. Il plagiatore - Peccato che quella innocua intervista nella testolina di Saviano, forse troppo impegnato a guardare puntate di Gomorra, sia diventata un messaggio inquietante o per lo meno questo mi sembra di aver inteso negli involuti periodi che Saviano ha propinato ai suoi coraggiosi lettori agostani. «O' premio Pulitzèr», come lo ha soprannominato qualcuno, pensa di svelare complotti che non ci sono e di trovare chissà che talpe. E se non fosse chiaro il suo intento, su Facebook esplicita sobriamente il concetto: «"Sbirri" venduti, giornalisti e faccendieri, ecco la rete di spioni che trama in segreto per politici e clan, compromettendo la democrazia». Bum! Io, il bravissimo collega napoletano Simone Di Meo e pochi altri giornalisti non identificati saremmo un rischio per la democrazia. Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere. Su Di Meo urge aprire una parentesi: è il giornalista che ha avuto la colpa di vincere con la sua casa editrice sino in Cassazione la causa intentata contro Saviano per plagio, perché «o' Pulitzèr» è anche un signor copiatore. Tanto che dall' undicesima ristampa di Gomorra, a pagina 141, è scritto nero su bianco che diversi passi del libro sono appunto di Di Meo, coautore a sua insaputa. Purtroppo due giorni fa Saviano non ha informato i suoi lettori, mentre attaccava Simone, di questo piccolo conflitto d' interesse. Comunque se il Saviano imbronciato (quanto gli piace ostentare la sua aria pensosa) scrive su di me falsità, io adesso vi voglio raccontare due o tre cose vere che so di lui e per esperienza diretta. Macho man e il braccino - Era il 2006 e in Mondadori, dove lavoravo, si favoleggiava di un libro su cui l'azienda puntava molto. Anzi moltissimo. Era di un giovanotto campano sponsorizzato da un grande critico letterario, campano pure lui, di nome Goffredo Fofi. Rita Pinci, all' epoca vicedirettore di Panorama, mi chiamò alla sua scrivania per affidarmi un delicato compito. Avrei dovuto leggere il tomo (bisogna dirlo: la più grande operazione di marketing editoriale degli ultimi vent' anni) e presentarlo in anteprima mondiale sul nostro giornale. Mi consegnarono una bozza cartacea, in gran parte riscritta e tagliata (l'originale, Saviano lo portava in giro con la carriola) dai fenomenali editor della casa editrice di Segrate. Iniziai il primo capitolo e dopo poche righe mi ero quasi appisolato. Con un occhio semiaperto domandai in Mondadori il numero di cellulare di questo Roberto, all' epoca uno sconosciuto ventisettenne, e dandogli del tu gli chiesi di scegliere in mia vece i capitoli più interessanti. Di mio pugno volli aggiungere un breve biografia. Gli domandai due o tre informazioni personali e lui, garbatamente, mi rispose. Tra l'altro mi disse che amava la pallanuoto (non era ancora un fanatico della boxe) e che era fidanzato. Lo scrissi. Apriti cielo. Quando gli rilessi la breve bio, lui, evidentemente già compreso nel personaggio, mi chiese di cancellare quei due particolari «da rivista di gossip». Gli dissi che non ci trovavo niente di disdicevole e lo lasciai che bofonchiava. Quando tornai al giornale il vicedirettore mi disse che Saviano aveva contattato i vertici dell'azienda per far togliere quelle due righette e che dai piani alti avevano telefonato al compianto direttore Pietro Calabrese. Ma le righette rimasero al loro posto. Con grande scorno del Nostro. Nel 2009 mi trasferii nella redazione di Roma e mi piazzai nella postazione di fronte a un vero scrittore, Pietrangelo Buttafuoco, che tutto divertito mi raccontava dell'imbarazzo di Saviano per l'essere diventato un'icona della sinistra, lui che era «un vero camerata». Ridendo mi leggeva alcuni passaggi dei loro scambi epistolari. Secondo lui Saviano aveva ambizioni superomistiche e sognava di andare a fare il paracadutista in Afghanistan al seguito dei carabinieri. Non so se fosse vero, ma un'amica dell'autore di Gomorra, che aveva la ventura di incontrarlo in privato e che lo conosceva da quando era studente, me lo descrisse più che come un pensoso intellettuale di sinistra, come un ardito con la passione per i pugni e gli approcci ruvidi verso le donne. L' ultimo aneddoto riguarda la premiata coppia Fabio Fazio-Saviano. I due insieme con la scorta di sette persone al seguito del Sommo Scrittore sostarono per pranzo in un lussuoso ristorante della Riviera di Ponente, di proprietà di un mio amico. La coppia scelse il tavolo migliore, mentre i bodyguard vennero fatti accomodare un po' distanti. Fazio si avvicinò allo chef: «Una portata a testa per quei signori la offro io» disse soddisfatto della sua magnanimità. Saviano nemmeno si alzò. E il mio amico li fulminò: «Le altre portate per la scorta le offrirò io». Ora vista la parsimonia di cotanto Autore, temo che non apprezzerà la mia richiesta di risarcimento danni. Ma purtroppo, io che non ho mai citato in giudizio nessuno, mi trovo costretto a farlo per l'enormità delle accuse. In attesa di incontrarlo in Tribunale, lo rassicuro: anche se ho visto più volte il Padrino, dall' 1 al 3, non sono un picciotto e i suoi libri non mi disturbano per il contenuto, ma solo perché sono mal scritti. Giacomo Amadori
IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.
Insultare la Boldrini è prova di «maschia libertà», scrive Piero Sansonetti il 16 Aprile 2017, su "Il Dubbio". Sul web troneggia la notizia degli affari d’oro che la sorella di Laura Boldrini combina sulla pelle degli immigrati. Questa sorella della Boldrini – dice il web – si chiama Luciana ed è la presidente di 340 cooperative di assistenza ai profughi. Chiaro che si mette in tasca i milioni. E chiaro anche che è stata Laura a indicarle la buona strada. E giù insulti. «Scandalo, scandalo!!! E i giornali, complici non ne parlano! Farabutta, farabutta!». Eh già: Boldrini è la casta, signori, vedete come è arrogante?. Però non è vero niente. Insultare Laura Boldrini è prova di «maschia libertà»? La sorella di Laura Boldrini è morta alcuni anni fa. La sorella di Laura Boldrini non si chiamava Luciana. La sorella di Laura Boldrini non presiedeva alcuna cooperativa ma faceva la restauratrice di opere artistiche. Non è vero niente ma sono veri, e bruciano, gli insulti che piovono a valanga sui social, nei post, nelle mail. In questa storia si congiungono due questioni, diverse, che spesso si mescolano. La questione delle fake news, ossia delle notizie false (quelle che una volta si chiamavano leggende metropolitane) e la questione, cosiddetta, del linguaggio dell’odio. Le leggende metropolitane sono una vecchia storia, non si sapeva come nascessero ma entravano nel cuore dell’opinione pubblica. Una volta si diceva che la moglie di Rutelli fosse la proprietaria di tutti i parcheggi con le strisce blu di Roma. Oppure che il tale leader politico avesse determinate abitudini sessuali, o una certa fidanzata o un certo fidanzato segreto, e cose simili. Tutto falso. Ma ci sono anche leggende metropolitane più pericolose, come quella – per citarne una storica – che gli zingari rubano i bambini, o che gli ebrei sono proprietari di tutti i posti chiave nell’economia di una città, o di una regione. Fino a qualche anno fa queste leggende “aleggiavano” e facevano danni, ma non potevano diffondersi, e soprattutto “inverarsi”, attraverso la potenza incontrollabile della rete. Ora il problema si è molto aggravato, perché non solo è sempre più difficile smentire le fake news, ma la proporzione tra notizie vere e notizie false si sta ribaltando. Le notizie vere diventano minoranza, e in questo modo il rapporto tra conoscenza e verità salta in aria.
È un problema? Si, è un problema serissimo, soprattutto perché al diffondersi dell’informazione non vera (quella che in Unione sovietica era ben organizzata dallo Stato, si chiamava “disinformazia” ed era un formidabile strumento di governo e di controllo sociale) si è sommato il dilagare del linguaggio dell’odio. Di che si tratta? Della convinzione sempre più diffusa che la misura del valore di ciascun odi noi – della nostra libertà, e del nostro coraggio, e della nostra capacità ideale – risieda nella forza d’odio che riusciamo ad esprimere. Usando modi di espressione violenti e mirando a demolire l’interlocutore col quale vogliamo dissentire, e umiliarlo, e ferirlo profondamente.
Gli avvocati italiani (e cioè il Cnf, il Consiglio nazionale forense) sono riusciti in queste settimane a organizzare un evento che avrà una notevole importanza: un G7 degli avvocati, che si svolgerà in settembre e metterà a confronto i rappresentanti delle avvocature dei sette paesi più industrializzati del mondo. E questo G7 degli avvocati avrà come tema dei suoi lavori proprio questo: come opporsi al linguaggio dell’odio senza mettere in discussione la libertà di parola, di pensiero, di espressione, di stampa.
Problema non semplice e che sicuramente riguarda molto da vicino il giornalismo italiano. Perché è chiaro che il dilagare della “disinformazia” e dell’odio è uno dei risultati della perdita di funzione del giornalismo. Il quale aveva tra i suoi compiti principali quello di mediare tra notizie e popolo, e dunque produrre informazione vera, verificata, di qualità, approfondita. Il giornalismo si è trovato spiazzato dall’improvviso successo della rete, e ha visto assottigliarsi il suo ruolo di mediatore e di “intellettuale”. Ma invece di elaborare una strategia di rilancio dell’informazione di qualità, ha preferito accodarsi al linguaggio dell’odio e alle fake news. Facilitato dalla retorica anti- casta. Le fake news e l’odio vengono usati come mazza per colpire la casta, cioè soprattutto i politici, e in questo modo si costruisce una gigantesca auto- giustificazione: “vado contro il potere dunque sono coraggioso – dunque ho ragione”. Il ruolo della verità sparisce. A dare la prova di correttezza e di giustezza non è il vero o il falso, ma il grado di rabbia e di attacco al presunto potere. Questa abitudine giornalistica – il caso Consip, con le clamorose balle che ha prodotto, è un esempio lampante e recente – è sospinta da un’ “onda” popolare, ma a sua volta è lei stessa il motore che alimenta quest’onda, e la protegge, e la giustifica, e la sostiene. Qual è la causa e quale l’effetto è difficile dire. È facile dire, invece, che se il giornalismo non si pone il problema di affrontare la propria crisi di identità, sarà difficile fronteggiare la barbarie del falso e dell’odio. E chi vorrà inondare di fango la Boldrini, o chiunque altro, potrà farlo liberamente e sentirsi eroico, libero e vero maschio.
Perché diciamo “migrante” anziché “immigrato”? Ce lo spiega la Boldrini, scrive Adriano Scianca il 18 maggio 2015 su “Il Primato Nazionale”. “Migrante”, participio presente del verbo “migrare”. Grammaticalmente, la parola indica un’azione che è in corso, che si sta svolgendo in questo momento, senza riguardo al passato o al futuro. Indica quello che stai facendo ora, non ciò che hai fatto o ciò che farai. Non c’è né origine né destinazione in un participio presente. Forse è per questo che il termine è stato scelto come definizione ufficiale delle masse sradicate che muovono il grande business dell’immigrazione. Finché la lingua italiana ha avuto una sua logica esistevano gli emigrati (chi lasciava una terra per andare altrove) e gli immigrati (chi si era mosso da casa sua e raggiungeva un nuovo luogo), che potevano anche essere le stesse persone ma viste da prospettive differenti. L’emigrato è andato da qui verso altrove, l’immigrato è arrivato qui da altrove. Resta comunque l’idea di un punto di partenza e di arrivo, lo spostamento è una parentesi limitata al fatto di raggiungere un determinato luogo.
Nei primi anni Ottanta, tuttavia, comincia a comparire nei documenti ufficiali della Cee la parola “migrante”. Il giornalismo italiano recepisce la novità a partire dalla fine di quel decennio, ma è in questi ultimi anni che la parola entra nel linguaggio comune, sospinta anche dall’eugenetica linguistica operata dal politicamente corretto.
I motivi del cambio sono spiegati dall’Accademia della Crusca: “Rispetto a migrante, il termine emigrante pone l’accento sull’abbandono del proprio paese d’origine dal quale appunto si esce (composto con il prefisso ex via da) per necessità e mantenendo un senso profondo di sradicamento su cui proprio quel prefisso ex sembra insistere […]. Migrante sembra invece adattarsi meglio alla condizione maggiormente diffusa oggi di chi transita da un paese all’altro alla ricerca di una stabilizzazione: nei molti transiti, questo è il rischio maggiore, si può perdere il legame con il paese d’origine senza acquisirne un altro altrettanto forte dal punto di vista identitario con il paese d’arrivo, restare cioè migranti”.
L’emigrante, nel nostro immaginario collettivo, è l’italo-americano o l’italiano che si è stabilito in Belgio o Germania per trovare lavoro. Persone che, per quanto siano riuscite a integrarsi, spesso solo dopo diverse generazioni, per noi restano sempre “italiani all’estero”, con un legame anche solo virtuale che non si spezza. Ma legami e appartenenze non sono visti di buon occhio oggi, potrebbero essere portatrici o suscitatrici di razzismo.
Aggiunge il sito della Treccani: “Emigrante, come dice l’etimo, sottolinea il distacco dal paese d’origine, calca sull’abbandono da parte di chi ne esce, come segnala anche l’etimologico e- da ex- latino. Ad emigrante, proprio per via di quel prefisso, ma anche a causa del precipitato storico che si è sedimentato nell’uso della parola, si associa l’idea del permanere di un’identità segnata dal disagio del distacco, e dunque l’allusione a una certa difficoltà di inserimento nella nuova realtà di vita […]. In ogni caso, migrante sembra adattarsi meglio alla definizione di una persona che passa da un Paese all’altro (spesso la catena include più tappe) alla ricerca di una sistemazione stabile, che spesso non viene raggiunta. In tal senso, il senso di durata espresso dal participio presente che sta alla base del sostantivo viene sottolineato: il migrante sembra sottoposto a una perpetua migrazione, un continuo spostamento senza requie e senza un approdo definitivo”.
Una “perpetua migrazione”: è questo il concetto chiave. E va interpretato alla luce di un ragionamento illuminante fatto a suo tempo da Laura Boldrini, secondo la quale il migrante è “l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi”. Anzi, secondo la Boldrini gli immigrati “sono molto più contemporanei di noi. Di me ad esempio che sono nata in Italia, sono cresciuta in Italia, ho anche lavorato fuori ma poi continuerò come tanti di noi a vivere in questo Paese”. Ecco quindi perché dire “migrante” anziché “immigrato”: perché indica una condizione di sradicamento generale, di continuo movimento, di nomadismo spirituale in cui forgiare il nuovo cittadino del mondo, rappresentato dall’immigrato ma al cui modello tutti ci dobbiamo ispirare. L’immigrazione è un esperimento di laboratorio, la creazione di un uomo nuovo a cui tutti prima o poi ci dovremo conformare, eliminando il peccato originale del radicamento per essere anche noi “più contemporanei” e cessare di pensarci come italiani, marocchini, cinesi o romeni. A quel punto, finalmente, nascerà l’homo boldrinicum, senza più origini né radici. Adriano Scianca
Boldrini regina del politicamente corretto: amica dei migranti ma lei non migra, scrivono il 15 Agosto 2016 Francesco Borgonovo e Adriano Scianca su “Libero Quotidiano”. È come il bambino di quella storiella, quello che indica il sovrano in veste adamitica e dice: «Il re è nudo». Anzi, no, il paragone non calza. Questa è un'altra favola. Qui non c' è il re, c' è una regina ed è vestita. È lei che guarda il popolo e urla: «Siete tutti nudi». È il motivo per cui perfino la sua corte la odia: parla troppo, parla troppo sinceramente, dice quello che sarebbe conveniente non dire, smaschera tutti i piani. Se sveli al popolo che lo stai riducendo in mutande, il gioco si rompe. Lei è Sua Maestà Laura Boldrini, la regina del politicamente corretto. Sul fatto che, anche nella metafora, lei sia vestita è meglio insistere, giusto per autotutelarsi: tre anni fa, per esempio, cominciò a girare in rete una foto di una donna nuda vagamente simile al presidente della Camera. Era un fake, una bufala. Ma chi la condivise sui social network si ritrovò nel giro di qualche giorno la polizia alla porta. È fatta così, lei, sta sempre allo scherzo. È una delle ragioni per cui, pur essendo l'incarnazione vivente del pensiero dominante, finisce per non riscuotere troppi consensi nemmeno in tale ambito: non solo parla troppo, ma è pure permalosa. Del resto, quando qualche anno fa decise di rendersi «più simpatica», la Boldrini scelse come consulente Gad Lerner. Uno di cui tutto si può dire tranne che sia «popolare» o, appunto, particolarmente simpatico. Basta questo particolare a rendere l'idea di quanta presa sulle masse sia capace di esercitare Laura.
Una così sarebbe capace di gettare discredito su qualsiasi causa appoggiasse. E se si tratta di una causa particolarmente impopolare, un certo tatto è necessario. Prendiamo la Grande Sostituzione. Significa che prendi l'Italia, scrolli via da essa gli italiani come se fossero formiche attaccate a un tramezzino durante un picnic, e ci metti dentro popoli venuti da altri continenti. È quello che sta succedendo, qui da noi e non solo. Ma non lo puoi dire così, altrimenti c' è il rischio che qualcuno si incazzi sul serio. Devi per lo meno girarci attorno, ammantare le tue argomentazioni di finto buonsenso, se possibile citare «gli economisti» o non precisati «studi americani». Laura no, non ce la fa. Lei è priva della malizia dei politici. Quando prova a ragionare in soldoni risulta goffa, come quando twittò: «Italia è Paese a crescita zero. Per avere 66 milioni di abitanti nel 2055 dovremo accogliere un congruo numero di #migranti ogni anno». Sì, vabbé, ma chi se ne frega di avere 66 milioni di abitanti qualsiasi nel 2055, possiamo anche essere 55 milioni di italiani senza dover portare l'Africa intera in casa nostra, no? A quanto pare, per Madama Boldrini non è così. Ma il meglio di sé, Laura lo dà quando parla a briglia sciolta. Una delle sue uscite più memorabili riguardò la confusione tra immigrati e turisti: «Non possiamo, senza una insopportabile contraddizione, offrire servizi di lusso ai turisti affluenti e poi trattare in modo, a volte, inaccettabile i migranti che giungono in Italia dalle parti meno fortunate del mondo, spesso in condizioni disperate», disse. Ma cosa c' entra? La Boldrini proprio non riusciva a capire che noi non «offriamo» servizi di lusso a nessuno ma che i turisti li hanno solo perché pagano per averli. Per gli immigrati, invece, è lo Stato a pagare. Ma la vera origine di queste gaffes è «filosofica».
Il top del Boldrini-pensiero risiede infatti nella sua visione del futuro in stile Blade Runner. Parliamo di quella volta in cui disse che il migrante è «l'avanguardia di questa globalizzazione» e, soprattutto, è «l'avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Capito?
Non si tratta di trasformare l'immigrato in cittadino europeo, come vorrebbe (vanamente) la retorica dell'integrazione. Siamo noi a dover diventare come lui. Noi dobbiamo integrarci con i suoi usi e costumi, o meglio con il rifiuto di ogni uso o costume, occorre solo abbandonarsi a un insensato nomadismo, all' abbandono generalizzato di ogni radice. Che l'obiettivo fosse quello di ridurre in miseria noi anziché di dare benessere a loro era già chiaro. Ma, appunto, è una di quelle cose che in genere si dicono con una certa prudenza. Laura no, lei non ha filtri. Del resto non è una politica di professione e non ha quindi le astuzie della categoria.
Laureata in Giurisprudenza, durante l'università ha dedicato metà del tempo allo studio, metà a viaggi nel Sud-est asiatico, Africa, India, Tibet: all' epoca preferiva ancora andare lei nel Terzo Mondo anziché portare il Terzo Mondo qua. Giornalista pubblicista, ha lavorato per un periodo anche in Rai prima di dar seguito alla sua vera vocazione: mettere radici nell' inutile carrozzone burocratico dell'Onu. Nel 1989, grazie ad un concorso per Junior Professional Officer, comincia la sua carriera alle Nazioni Unite lavorando per quattro anni alla Fao come addetta stampa. Dal 1993 al 1998 lavora presso il Programma alimentare mondiale come portavoce e addetta stampa per l'Italia. Dal 1998 al 2012 è portavoce della Rappresentanza per il Sud Europa dell'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNHCR) a Roma. Qui scopre il suo vero eroe: il migrante. Quando vede un migrante, Laura perde ogni freno: deve ospitarlo, mantenerlo, incensarlo. Arrivano orde di stranieri sui barconi? Lei vuol dare a tutti il permesso di soggiorno. Erdogan perseguita i turchi? Nemmeno il tempo di capire se ci saranno persone in fuga dal Paese che lei è già pronta a spalancare le frontiere. Tanto, che male può mai fare il Santo Migrante? Di sicuro non può essere un possibile jihadista, perché il terrorismo e l'immigrazione, per la Boldrini, non hanno alcun legame. E, comunque sia, i conflitti religiosi non esistono. Dunque, dal migrante non ci si può attendere che buone cose. Dopo tutto, egli è un po' il partigiano del nuovo millennio. Sì, Laura lo disse davvero, nel corso di un 25 aprile: «70 anni fa erano i partigiani che combattevano per la libertà in Italia, oggi capita che molti partigiani che combattono per la libertà nei loro Paesi, dove la libertà non c' è, siano costretti a scappare, attraversando il Mediterraneo con ogni mezzo». Combattono o scappano? Perché fare le due cose insieme non è possibile. In genere si usano i verbi come due contrari, anzi. O combatti, o scappi. Ma la logica, si sa, è un riflesso indotto dalla società patriarcale. Così come la grammatica. I suoi siparietti con i deputati che si ostinano a usare la «sessista» lingua italiana sono noti. Ma per lei è una crociata: «Sono arciconvinta - ha detto recentemente al Corriere della Sera - che la questione del linguaggio rappresenti un blocco culturale.
La massima autorità linguistica italiana, la Crusca, dice chiaramente che tutti i ruoli vanno declinati nei due generi: al maschile e al femminile. Ma la maggior parte accetta di farlo solo per i ruoli più semplici, e si blocca per gli altri». La Crusca le dà ragione. La Crusca: quella di «petaloso». Per la Boldrini, la politica è fatta solo di simboli, battaglie di principio, questioni formali. Un altro dei suoi chiodi fissi sono le pubblicità. «Certe pubblicità che noi consideriamo normali, con le donne che stanno ai fornelli e tutti gli altri sul divano, danno un'immagine della donna che invece non è normale e che non corrisponde alla realtà delle famiglie», disse una volta. Donne in cucina, che orrore, dove andremo a finire di questo passo? Praticamente non parla d' altro.
Nel maggio del 2013 auspicò orwellianamente nuove «norme sull' utilizzo del corpo della donna nella comunicazione e nella pubblicità» perché «se la donna viene resa oggetto nella sua immagine puoi farne quel che vuoi». Si sa, è un attimo passare dallo spot della crema abbronzante al femminicidio. Passarono pochi mesi e nel luglio 2013, si guadagnò più di qualche critica definendo una «scelta civile» quella della Rai di non trasmettere più Miss Italia. Nel settembre successivo tornò sul punto in un convegno, parlando di pubblicità e stampa. «Penso a certi spot italiani in cui papà e bambini stanno seduti a tavola mentre la mamma in piedi serve tutti. Oppure al corpo femminile usato per promuovere viaggi, yogurt, computer». Pubblicità obbligatorie con papà che cucinano: è praticamente il punto in cima alla sua agenda. Il femminismo caricaturale della Boldrini arriva al punto di distinguere gli attacchi politici a seconda del genere di chi attacca: «Per principio mi rifiuto di entrare in dispute tra donne che vanno a indebolire la posizione femminile. Se una donna mi attacca, mi aggredisce in quanto donna, non rispondo. Non mi presto». Ma che vuol dire? Se ti attacca un uomo rispondi, se lo fa una donna no? Questa non è discriminazione? Curioso strabismo. Non è l'unico caso.
Attenta alle parole degli spot, Laura è stata molto più di bocca buona nel soppesare il linguaggio del «Grande imam di al-Azhar Ahmad Mohammad Ahmad al-Tayyeb», invitato qualche mese fa a tenere una «Lectio Magistralis» sul tema «Islam, religione di pace» che si sarebbe dovuta tenere nella Sala della Regina di Montecitorio. E pazienza se lo stesso aveva esaltato gli attacchi suicidi contro i civili in Israele, se aveva detto in tv che alle mogli si possono rifilare «percosse leggere», se ai combattenti dell'Isis voleva infliggere «la morte, la crocifissione o l'amputazione delle loro mani e piedi» ma non - attenzione - perché siano degli assassini, ma perché «combattono Dio e il suo profeta», cioè perché non interpretano l'islam come dice lui. Le donne in cucina negli spot, no. Se vengono percosse leggermente dall' imam, invece, va tutto bene. Contraddizioni, ipocrisia? Non nel fantastico mondo di Laura. Dove tutti i migranti sono buoni. Anche perché tutti sono migranti. Francesco Borgonovo e Adriano Scianca
Chissà se madonna Laura Boldrini, papessa della Camera, ha letto di recente I promessi sposi e s'è dunque imbattuta in Donna Prassede, bigottissima moglie di Don Ferrante, convinta di rappresentare il Bene sulla terra e dunque affaccendatissima a "raddrizzare i cervelli" del prossimo suo e anche le gambe ai cani, sempre naturalmente con le migliori intenzioni, di cui però - com'è noto - è lastricata la via per l'Inferno, scrive Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano l'11 marzo 2014. Noi tenderemmo a escluderlo, altrimenti si sarebbe specchiata in quel personaggio petulante e pestilenziale descritto con feroce ironia da Alessandro Manzoni, e avrebbe smesso di interpretarlo ogni giorno dal suo scranno, anzi piedistallo di terza carica dello Stato. Invece ha proseguito imperterrita fino all'altroieri, quando ha fatto sapere alla Nazione di non avere per nulla gradito l'imitazione "sessista" della ministra Boschi fatta a Ballarò da Virginia Raffaele, scambiando la satira per lesa maestà e l'umorismo su una donna potente per antifemminismo. E chissenefrega, risponderebbe in coro un altro paese, abituato alla democrazia, dunque impermeabile alla regola autoritaria dell'Ipse Dixit. Invece siamo in Italia, dove qualunque spostamento d'aria provocato dall'aprir bocca di un'Autorità suscita l'inevitabile dibattito.
Era già capitato quando la Rottermeier di Montecitorio aveva severamente ammonito le giovani italiane contro la tentazione di sfilare a Miss Italia, redarguito gli autori di uno spot che osava financo mostrare una madre di famiglia che serve in tavola la cena al marito e ai figli, sguinzagliato la Polizia postale alle calcagna degli zuzzurelloni che avevano postato sul web un suo fotomontaggio in deshabillé e fare battutacce - sessiste, ça va sans dire - sul suo esimio conto (come se capitasse solo a lei), proibito le foto e i video dei lavori parlamentari in nome di un malinteso decoro delle istituzioni, fatto ristampare intere risme di carta intestata per sostituire la sconveniente dicitura "Il presidente della Camera" con la più decorosa "La presidente della Camera". Il guaio è che questa occhiuta vestale della religione del Politicamente Corretto è incriticabile e intoccabile in quanto "buona". E noi, tralasciando l'ampia letteratura esistente sulla cattiveria dei buoni, siamo d'accordo: Laura Boldrini, come volontaria nel Terzo Mondo e poi come alta commissaria Onu per i rifugiati, vanta un curriculum di bontà da santa subito. Poi però, poco più di un anno fa, entrò nel listino personale di Nichi Vendola e, non eletta da alcuno, anzi all'insaputa dei più, fu paracadutata a Montecitorio nelle file di un partito del 3 per cento e issata sullo scranno più alto da Bersani, in tandem con Grasso al Senato, nella speranza che i 5Stelle si contentassero di così poco e regalassero i loro voti al suo governo immaginario. Fu così che la donna che non ride mai e l'uomo che ride sempre (entrambi per motivi imperscrutabili) divennero presidenti della Camera e del Senato.
La maestrina dalla penna rossa si mise subito a vento, atteggiandosi a rappresentante della "società civile" (ovviamente ignara di tutto) e sventolando un'allergia congenita per scorte, auto blu e voli di Stato. Salvo poi, si capisce, portare a spasso il suo monumento con tanto di scorte, auto blu e voli di Stato. Tipo quello che la aviotrasportò in Sudafrica ai funerali di Mandela, in-salutata e irriconosciuta ospite, in compagnia del compagno. Le polemiche che ne seguirono furono immancabilmente bollate di "sessismo" e morte lì. Sessista è anche chi fa timidamente notare che una presidente della Camera messa lì da un partito clandestino dovrebbe astenersi dal trattare il maggior movimento di opposizione come un branco di baluba da rieducare, dallo zittire chi dice "il Pd è peggio del Pdl" con un bizzarro "non offenda", dal levare la parola a chi osi nominare Napolitano invano, dal dare di "potenziale stupratore" a "chi partecipa al blog di Grillo", dal ghigliottinare l'ostruzionismo per agevolare regali miliardari alle banche. Se ogni tanto si ghigliottinasse la lingua prima di parlare farebbe del bene soprattutto a se stessa, che ne è la più bisognosa. In fondo non chiediamo molto, signora Papessa. Vorremmo soltanto essere lasciati in pace, a vivere e a ridere come ci pare, magari a goderci quel po' di satira che ancora è consentito in tv, senza vederle alzare ogni due per tre il ditino ammonitorio e la voce monocorde da navigatore satellitare inceppato non appena l'opposizione si oppone. Se qualcuno l'avesse mai eletta, siamo certi che non l'avrebbe fatto perché lei gli insegnasse a vivere: eventualmente perché difendesse la Costituzione da assalti tipo la controriforma del 138 (che la vide insolitamente silente) e il potere legislativo dalle infinite interferenze del Quirinale e dai continui decreti del governo con fiducia incorporata (che la vedono stranamente afona). Se poi volesse dare una ripassatina ai Promessi Sposi, le suggeriamo caldamente il capitolo XXVII: "Buon per lei (Lucia) che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza". Poco dopo, sventuratamente, la peste si portò via anche lei, ma la cosa fu così liquidata dal Manzoni: "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto". Amen.
Sgarbi contro il vocabolario politicamente corretto della Boldrini, scrive il 4 gennaio 2017 "New notizie". Vittorio Sgarbi vs Laura Boldrini: il noto critico d’arte, che non si fa problemi a dire pubblicamente quello che pensa di ogni situazione che richiami la sua attenzione, ha preso di mira la Presidente della Camera, Laura Boldrini: non si tratta della prima volta, ricordiamo che quest’estate Sgarbi aveva demolito la sua decisione di istituire una fantomatica commissione parlamentare contro l’Odio. “La Commissione contro l’odio porterà a risultati sorprendenti. Riconosceremo finalmente i sentimenti di Totò Riina. Saremo indotti a giustificarlo e forse ad amarlo, anche se non lo abbiamo concesso ai suoi figli. Sì, esorcizziamo l’odio. Cerchiamo le radici del male. Perché odiare gli assassini del Bangladesh? Perché provare rabbia e rancore? Rispettiamo lo slancio religioso dei terroristi. Condividiamo il loro martirio, i valori reali che li ispirano” aveva allora criticato Sgarbi. Ma non si ferma qui: il noto critico, che ha tantissimi seguaci sui social e non solo, ha anche preso di mira il nuovo vocabolario della Boldrini, il cui scopo politico primario sembra essere quello di declinare al femminile ogni nome. Con buona pace della grammatica italiana. ‘Sindaca’ e ‘Ministra’ o addirittura ‘Presidente’, neologismi che sono già mutuati da alcuni organi di informazione. Per deridere questa “battaglia”, Sgarbi chiama il presidente della Camera Boldrina. “Napolitano ha detto una cosa semplice: che i ruoli prescindono dai sessi, che non si applicano ai sessi, che sono persone ma che essendo di genere femminile non diventano femminili, un persono sostiene Sgarbi.
La ministra Fedeli e i discorsi di Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto rischia di essere ridicolo anche quanto si propone obiettivi seri, come nel caso dei decreti delegati sulla scuola, scrive Gian Antonio Stella il 18 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". «Signore e signori, dottoresse e dottori, idrauliche ed idraulici, oboiste ed oboisti, sfogline e sfoglini…». Avanti così, Valeria Fedeli rischia di fare il verso a certi discorsi del mitico Totò. L’uso caricaturale del politicamente corretto, infatti, riesce ad essere ridicolo anche quando si propone obiettivi seri. E se la British Medical Association, come ha raccontato su il foglio Giulio Meotti, ha tracciato il solco in Gran Bretagna invitando «i medici a non parlare più di expectant mothers (mamme in attesa), ma di un più generico pregnant people (gente incinta), per rispettare l’eventuale natività gay» la nostra ministra dell’Istruzione si è incamminata lesta nel solco. Come spiega Tuttoscuola, infatti, dopo aver esordito alla ripresa delle lezioni dopo l’Epifania con un tonante «Care ragazze e cari ragazzi, bentornate e bentornati», la signora ha sfidato le scontate ironie della popolazione scolastica (che in queste cose sa essere feroce) con i testi definitivi dei decreti delegati. Dove ha sfondato la barriera del suono del politicamente corretto: «Ventinove (29) volte bambino è diventato “bambina e bambino”, quarantanove (49) volte alunno è diventato “alunna e alunno”, quarantasei (46) volte studente è diventato “studentessa e studente”». Un esempio? Nel decreto sull’inclusione spicca: «Valutato, da parte del dirigente scolastico, l’interesse della bambina o del bambino, dell’alunna o dell’alunno, della studentessa o dello studente…».
Il record, prosegue la rivista di Giovanni Vinciguerra, «è dentro il decreto sulla valutazione con 44 articolazioni di genere (per fortuna non c’erano le bambine e i bambini dell’infanzia, non compresi nella valutazione). Al secondo posto il decreto sull’inclusione con 32 articolazioni, seguito dal decreto della riforma 0-6 anni con 17 exploit tutti riservati ovviamente a bambine e bambini». E meno male che i sindacati, che sembrano a loro agio con la ministra-sindacalista, non si sono accorti d’una profonda ingiustizia: nei «già verbosissimi decreti» non ci sono distinzioni sul sesso dei docenti. Scelta che avrebbe imposto l’uso di professoresse e professori, maestre e maestri e così via. Domanda: al di là delle possibili proteste di chi davanti a un eccesso di precisazioni di genere potrebbe dichiararsi estraneo all’uno e all’altro sesso, è questo il famoso «rispetto» per gli studenti? Non sarebbe più rispettoso evitare loro di cambiare professori ogni anno o passare ore ed ore in edifici a rischio sismico e idrogeologico?
Politicamente corretto, la nuova religione della “sottomissione” al “non pensiero” del potere, scrive il 13 dicembre Giuseppe Reguzzoni su Tempi. Per la nuova religione non è vero ciò che è vero, ma ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico non è un’altra religione ma il pensiero stesso. Chi pensa è un potenziale nemico. Anticipiamo in queste pagine alcuni stralci del saggio Il liberalismo illiberale, dell’Editore XY.IT, in libreria in questi giorni. L’autore, Giuseppe Reguzzoni, è uno storico e giornalista, traduttore (tedesco, francese, inglese) anche di opere di papa Benedetto XVI. Collabora con l’Istituto Mario Romani dell’Università Cattolica di Milano. Il Politically Correct è il nuovo tabù e l’aura di timore che lo circonda è il nuovo senso del pudore, del tutto imposto ed eterodiretto. Preso alla lettera, “politically correct” richiama in qualche modo l’idea di “correct polity”, dunque una certa buona maniera di governare o, anche, di stare al mondo gli uni accanto agli altri, di costruire insieme la politéia, la comunità civile. (…) Il Politicamente Corretto è, nella prassi sociale di ogni giorno, un elenco implicito di divieti o, se si vuole, di dogmi indimostrabili. Il sacerdote del Politicamente Corretto non mira ad argomentare, ma a puntare il dito, con orrificato stupore, su chi osa mettere in questione la secolarissima sacralità del suo Credo. (…)
Già solo accennare alle grandi aree semantiche di cui si occupa questo moderno e laico tribunale dell’Inquisizione costituisce in qualche modo un reato: immigrazione, sicurezza, differenze di civiltà e di origine geografica e razziale, omosessualità, gender mainstreaming, temi identitari, domande esistenziali e fedi religiose sono oggi i nuovi “tabù”, ciò di cui è bene non parlare, anche se, inconsciamente, quando sopravvive un minimo di spirito critico, lo si vorrebbe fare. L’idea di tabù è stata sviluppata anzitutto dagli antropologi, come una sorta di proibizione rituale, implicita e inconscia, ma è stato Freud a evidenziare il nesso tra tabù e nevrosi. La nostra è una civiltà nevrotica, a tratti schizofrenica, che nega l’esistenza stessa del problema, confinandolo nei propri tabù. Il Politicamente Corretto è, appunto, il tabù rispetto alla ricerca e alla percezione della verità, tutta intera. C’è, tuttavia, chi di questi tabù usa consapevolmente per consolidare i propri disegni di potere. (…)
Il ministero orwelliano del condizionamento esiste e la sua forza sta nella sua apparente, superficiale, invisibilità. Come nel mondo immaginato da Orwell in 1984 la lingua, o meglio, la “neolingua” è strumento di potere. Solo che, a differenza che nel mondo distopico di Orwell, nel linguaggio politicamente corretto i termini sono in costante aggiornamento. Si dice e non si dice, attuando con efficacia forme di censura preventiva che ostacolano o impediscono ogni forma di pensiero critico personale, qui proprio come in 1984. (…)
Questi tabù, organizzati ectoplasmaticamente in quella realtà fluida e in continuo mutamento che è il Politically Correct, costituiscono la nuova religione civile della società globale. Qui sta il cambiamento in corso almeno da due decenni e coincidente con la crisi dei grandi sistemi politici di matrice ideologica, incluso il liberalismo e la sua pretesa di essere una sorta di via media. Qui sta il nocciolo della forma che il Politically Correct sta assumendo e il fatto che esso non sia ormai più solo un linguaggio, ma, appunto, un elemento di raccordo e coesione sociale, con tratti simili a quelli che Rousseau attribuiva alla sua religione civile.
Che la formulazione del modello del Politically Correct abbia avuto luogo prima negli Stati Uniti non è certamente un dato casuale. Rispetto all’Europa gli Stati Uniti, pur essendo un paese fortemente secolarizzato, restano tuttavia fortemente segnati da un ipermoralismo parabiblico, in cui Arnold Gehlen ha riconosciuto i tratti di «una nuova religione umanitaria». Dopo la Seconda Guerra Mondiale e, soprattutto, negli anni Sessanta del secolo scorso, il linguaggio puritano ha subìto una profonda mutazione a contatto con il linguaggio (neo)marxista veicolato dagli intellettuali della scuola di Francoforte o ispirato da loro, dapprima rifugiati negli Stati Uniti e poi installati nelle scuole e università occidentali. È stato soprattutto con le rivolte giovanili degli anni Sessanta che costoro hanno assunto il ruolo di sacerdoti del pensiero unico, esercitando un controllo progressivamente egemone sui media e sui sistemi scolastici ed educativi occidentali. Già le modalità con cui questo pensiero si è imposto presentano quei tratti di slealtà che sono caratteristici del linguaggio politicamente corretto, dal momento che la critica dell’autorità andava di pari passo con modelli di autoritarismo implicito: si contestavano le figure tradizionali dell’autorità, avvvalendosi dell’autorità che derivava dalle proprie cattedre e dai propri ruoli. Il politicamente corretto si presentava antidogmatico, imponendo però dogmi impliciti e indiscutibili, così come, nella sua versione sessantottina, si presentava come anticonformista, imponendo però nuove forme di conformismo radicale e disperato. In questo modo, sleale, il nuovo moralismo andava costruendo i suoi dogmi, e si avviava a trasformarsi in quella che Carl Schmitt definiva «la tirannia dei valori». (…)
D’altra parte è l’Occidente, nel suo insieme, dunque anche l’America, a divenire vittima di se stesso e dei propri complessi di colpa, evidenti nelle nuove forme di autocensura. Il bombardamento di slogan antirazzisti, multiculturali, antiomofobi ha assunto toni parossistici, quasi religiosi. Non si offrono ragioni, ma tabù indiscussi, e il solo sollevare questioni, anche minime, è considerato blasfemo. Il politicamente corretto, in quanto nuova religione civile, impone un credo indiscutibile e indiscusso. Nella nuova religione non si crede perché essa è ragionevole, ma solo per paura o per assuefazione. Lungo sarebbe l’elenco dei “dogmi” di questa nuova religione civile, più facile identificare nei grandi media, voce dei poteri forti, la nuova inquisizione, che sentenzia senza ascoltare e condanna attraverso mantra ossessivamente ripetuti. Per essa non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che si riesce a far apparire tale. Il nemico di tale tribunale non è un’altra religione civile, filosofica o rivelata, ma il pensiero stesso. Chi pensa, per il fatto stesso che pensa, è un potenziale nemico. Non affannatevi a pensare, a voler conoscere la realtà, lo facciamo noi per voi. Voi limitatevi a divertirvi o compiangervi e, soprattutto, adeguatevi.
La dittatura del politicamente corretto suppone delle società liberali o, se si preferisce, apparentemente liberali, dove sia almeno a parole garantita la possibilità di scegliere, magari cambiando canale tra reti, in realtà tutte omogenee al sistema. È il paradosso del liberalismo, che vive di presupposti che non è esso stesso in grado di generare, (…) è l’involuzione di un modello culturale e politico che, partito in nome della libertà, finisce per ritagliare quest’ultima a uso di chi ha il potere finanziario e politico. (…) Nel Politicamente Corretto tutto ciò che marca la differenza tra comunità e individui, finanche tra i due sessi, è percepito e indicato come un ostacolo imbarazzante. (…)
La laicità radicale, o laicismo negativo, mira finanche ad annullare i segni storici della presenza delle religioni in Occidente (dunque della religione cristiana) sostituendovi altri segni in linea con la propria visione del mondo. Alle comunità religiose è riconosciuto, al massimo, lo status di enti privati, senza alcuna pertinenza diretta con la realtà statuale. È quanto non ha mancato di constatare, e denunciare, papa Giovanni Paolo II lungo tutto il proprio pontificato: «Nell’ambito sociale si sta diffondendo anche una mentalità ispirata dal laicismo, ideologia che porta gradualmente, in modo più o meno consapevole, alla restrizione della libertà religiosa fino a promuovere il disprezzo o l’ignoranza dell’ambito religioso, relegando la fede alla sfera privata e opponendosi alla sua espressione pubblica. Il laicismo non è un elemento di neutralità che apre spazi di libertà a tutti: è un’ideologia che s’impone attraverso la politica» (Ai presuli della Conferenza episcopale della Spagna, in visita Ad limina Apostolorum, 24 gennaio 2005).
La campagna contro i crocifissi, sottoscritta anche da un altro Zagrebelsky, a nome del Consiglio d’Europa, non è che un elemento di questo complesso processo di sostituzione simbolica che pretende di investire la totalità del vivere civile e le sue espressioni non puramente individuali, come accade, esemplarmente, nella gestione del tempo e della sua dimensione pubblica. Per il momento la rimozione del calendario cristiano risulta ancora troppo complessa, ma val la pena di ricordare che essa è già stata sperimentata all’epoca della Rivoluzione francese e riproposta dai sistemi totalitari del XX secolo. La nascita di un calendario civile, con applicazione rigorosa di nuove forme di “precetto festivo” si colloca, a sua volta e in pieno, su questa medesima linea, dal momento che il calendario rappresenta la scansione ufficiale del tempo in una società. In Italia il 25 aprile, l’1 maggio e il 2 giugno hanno assunto funzioni che vanno ormai ben al di là della commemorazione civile di eventi storici importanti. Ci sono centri commerciali che sono aperti il 25 dicembre, Natale, ma non è possibile o è estremamente difficile che la stessa cosa avvenga il 25 aprile o il 2 giugno. Eppure, se il presupposto del laicismo radicale è che tutto è relativo e che, dunque, nessuna posizione debba essere considerata preminente, non si capisce bene su che cosa debba fondarsi la sacralità di tali ricorrenze “civili”.
Alle feste “comandate” del calendario civile, paragonabili alle solennità del calendario liturgico, si sommano le “feste di precetto” e le “memorie solenni”, come la giornata della memoria (ormai imposta in tutte le scuole, con cerimonie e iniziative culturali), l’8 marzo (festa della donna) o la festa della mamma o il 14 febbraio, san Valentino, festa degli innamorati. Queste ultime, laiche feste di precetto, tra l’altro, che pur non hanno il carattere di solennità nazionali, sono oggi elementi costitutivi di una sorta di calendario universale del Politicamente Corretto.
Tale calendario “civile”, non potendo annullare del tutto le festività religiose, tende a neutralizzarle. Così è avvenuto con il Natale cristiano, ormai scomodo sul piano dei dogmi della religione civile del Politicamente Corretto, che è stato trasformato in festa dei buoni sentimenti (con apertura dei negozi). D’altra parte, se internet è l’emblema della nuova società globale, quando si parla di calendario, è interessante osservare come il motore di ricerca Google ormai da anni scandisca il fluire dei giorni come una sorta di rubrica liturgica di questa nuova religione civile secolare, assumendo il ruolo di custode e guardiano della rete. Intorno al logo di Google abbiamo visto scorrere di tutto: dall’anniversario della nascita di Confucio, con tanto di costume mandarino stilizzato, a quella di Galileo, con allegato telescopio, e persino quello di Ludwik Zamenhof, ebreo polacco creatore dell’esperanto. Non sono mancati riferimenti alla nascita di Buddha, malgrado la scarsità di dati storici certi, e abbiamo potuto seguire quasi integralmente la scansione annuale delle principali festività ebraiche. Da qualche anno ci toccano anche gli auguri ai musulmani per l’inizio e la fine del Ramadan. Per par condicio il 25 dicembre ci si attenderebbe l’immagine di un piccolo presepe, ma non è mai stato così. Il massimo che ci è stato concesso è stato il grassone vestito di rosso, con tanto di renne al seguito, caricatura inventata dalla Coca Cola del vescovo greco anatolico Nicola di Myra.
Su Google sono costantemente e volutamente assenti i riferimenti al calendario cristiano in quanto cristiano, benché il motore di ricerca non abbia ancora rinunciato al calcolo degli anni dalla nascita di Cristo. I richiami alle feste cristiane sono “tabù”. Ma nella geografia politica dell’imbarazzo, Google non è che un elemento accanto a moltissimi altri, come il divieto esplicito del tradizionale augurio “Merry Christmas” sulle insegne di molti comuni inglesi o quello implicito nella stragrande maggioranza delle aziende europee ed americane, fino ad arrivare all’esclusione di presepi e alberi di Natale in alcune scuole statali italiane in nome della multiculturalità. La domanda che sorge spontanea è se davvero si tratti solo di imbarazzo o se, piuttosto, queste scelte non sottendano un disegno nascosto, non siano cioè l’espressione di una visione secolarista che si va imponendo come una nuova e non esplicita religio civilis, mascherandosi da laicità dello Stato che, addirittura, come in Zagrebelsky, dichiara di considerare pericoloso ogni contributo che le religioni possono offrire alla coesione sociale in quanto tale.
Le forze che agiscono dietro questo progetto sono molteplici e si muovono sulla base di processi anche molto differenti di autocoscienza. Sarebbe ingenuo, però, pensare a un movimento in tutto e per tutto spontaneo, di carattere culturale, quasi che la cultura e la mentalità dominante non abbiano nulla a che fare con le forme, indotte, del disciplinamento sociale. Un’analisi compiuta di questi processi è arrivata sinora più dalla letteratura distopica che dalla riflessione speculativa. Certo, la teologia successiva al Vaticano II non si è ancora confrontata in maniera seria con il tema del condizionamento socio-culturale come progetto di riscrittura della mentalità e della società. I sorrisini e le ironie quando si tocca il tema dell’influenza della massoneria sulla mentalità odierna la dicono lunga su questa profonda ingenuità (è davvero solo tale?). Eppure i testi e i documenti che mettono in guardia da un atteggiamento che cerca di mascherare l’ingenuità con la spocchia intellettuale non sono pochi. Una cosa è il complottismo, altra, e ben diversa, è la progettualità culturale sulla società, particolarmente quando essa non è esplicitata in programmi politici trasparenti, ma in forme di condizionamento legate ai soft power. (…)
Il cristianesimo non è una religione civile; il laicismo radicale, almeno implicitamente, sì. Si può discutere se e quanto le religioni possano contribuire alla religione civile di una nazione, ma, in una prospettiva cristiana, ciò implica che il termine “religione” sia inteso in senso quasi metaforico. E implica che la religione civile non si ponga in termini sostitutivi rispetto alle religioni storiche, ma ne accolga il contributo (…). Benedetto XVI, riassumendo una posizione che non può essere tacciata di integralismo fondamentalista, non dice che il cristianesimo è una religione civile, ma che esso ha una funzione civile. Non è la stessa cosa (…).
Per dirla con Carl Schmitt, si tratta di un processo di continua “neutralizzazione” dei riferimenti ideali. Alle religioni tradizionali si sostituisce la pura razionalità, sino ad arrivare a cercare un punto di coesione il più neutro possibile nell’economia e nella tecnica. Tra queste suggestioni di massa, quella che fluttua da un centro conflittuale all’altro, mantenendo la propria funzione mitica, è certamente l’idea di progresso. (…) In fondo, mentre il cosmopolitismo settecentesco era una dottrina filosofica, il globalismo contemporaneo ne è l’erede in forma “neutralizzata”. L’altro elemento, accanto al mito del progresso e della “neutralità della tecnica”, impostosi soprattutto dal Sessantotto, è quello dei diritti dell’uomo, interpretati evolutivamente proprio alla luce del mito del progresso, come ha acutamente dimostrato la professoressa Janne Haaland Matláry proprio in rapporto all’idea di dittatura del relativismo. Il concetto riprende un passaggio fondamentale dell’omelia di Benedetto XVI durante la celebrazione della Messa Pro eligendo pontifice, che ben riassume il carattere (pseudo) “religioso” di questa prospettiva. Il dialogo, per funzionare, implica l’esistenza di un vocabolario comune, in cui i termini fondamentali non vengano usati in maniera e con significati ambigui od equivoci.
Il relativismo etico dell’Occidente e il Politically Correct come sua implicita religione civile non sono in grado di realizzare questo dialogo dato che, nella migliore delle ipotesi, quel che ne deriva è solo una mera giustapposizione del diverso, una multiculturalità senza incontro e senza scambio. Anche i diritti dell’uomo, considerati in sé e per sé, non riescono a uscire dal rischio di un’interpretazione ambigua ed equivoca. A prescindere dal fatto che la maggior parte dei paesi islamici non riconosce la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, all’interno dello stesso Occidente è al centro di interpretazioni opposte che ne annullano il valore “universale”. Il punto è l’uso che oggi si sta facendo dei diritti dell’uomo. Da una parte sono divenuti la nuova Bibbia politica di una comunità sociale diversamente priva di qualunque riferimento ideale, dall’altra sono stati di volta in volta usati come la bandiera di un valore e del suo esatto contrario, per esempio, della difesa della famiglia tradizionale e della sua demolizione attraverso il riconoscimento dei cosiddetti matrimoni omosessuali. Nessuno in Occidente può oggi permettersi di andare contro i diritti dell’uomo, e allora si tenta di tirarli dalla propria parte, spostando il problema dall’applicazione dei diritti dell’uomo alla loro interpretazione.
La Dichiarazione ha una sua precisa collocazione storica e si tratta di un riferimento storico che ha qualcosa di miracoloso, di irripetibile. Si usciva dalla Seconda Guerra Mondiale e dagli orrori del nazifascismo (quelli del comunismo erano ancora ipocritamente occultati). La Dichiarazione Universale nacque come reazione al relativismo politico e legale della Germania hitleriana e, più in generale, delle ideologie totalitarie, con un implicito riferimento all’idea che stava alla base del processo di Norimberga. Ai criminali nazisti che si appellavano all’obbedienza agli ordini ricevuti dall’alto, si ricordava che esiste un’altra obbedienza, ben più decisiva. Sulla base di questa idea, per la prima volta nella storia, un tribunale aveva emesso delle condanne non perché gli imputati erano nemici, ma perché avevano violato questa legge di natura, quella a cui si ispirò la Dichiarazione.
Ora, perché questa legge possa davvero essere tale, in forza di quel “sentire comune” di tutta l’umanità a cui essa fa riferimento, bisogna che non possa essere modificata arbitrariamente dagli attori politici. Ma è proprio questa la crisi che sta investendo i diritti dell’uomo. Se essi sono solo una convenzione, modificabile col cambiare delle opinioni, allora i diritti non sono più tali, perché possono a loro volta essere modificati. Perché i diritti dell’uomo siano tali, devono essere al di sopra degli stati, (…) essi non possono neppure essere in balìa dei nuovi poteri transnazionali che cercano di svuotarli dall’interno reinterpretandoli in direzione di quel mostro ideologico che è il politicamente corretto. Le grandi lobbies del potere transnazionale non potendo negare i diritti in quanto tali, tendono a dissolverli considerandoli solo come delle mere convenzioni, delle questioni di maggioranza all’interno di un’opinione pubblica da loro dominata o egemonizzata. (…)
La strategia sottesa è quella del soft power, vale a dire del condizionamento dell’opinione pubblica da parte di agenzie internazionali di opinione, con meccanismi acutamente descritti da Haaland Matláry nel suo volume sui «diritti umani traditi»: si comincia a imporre la trattazione di certi temi, mettendo in conto il rifiuto della maggioranza ancora poco “illuminata”; si pretende che se ne parli come di “diritti civili”, magari facendo riferimento a “casi pietosi” e con l’appoggio di importanti figure del mondo dello spettacolo o dello sport; ci si appella al sostegno del mondo scientifico, di volta in volta identificato con qualche personalità di comodo e si ottengono, alla fine, delle “direttive non vincolanti” emanate da organismi transnazionali (come – aggiungiamo noi – potrebbe essere anche il Parlamento europeo). A questo punto il gioco è fatto e si può intervenire all’interno di ciò che resta dello stato nazionale appellandosi alle moderne conquiste dei paesi civili e al tale pronunciamento della tale commissione per chiedere il “diritto” al matrimonio omosessuale, alla sperimentazione sugli embrioni, alla clonazione eccetera. Nel frattempo si dilata il vocabolario delle maledizioni politicamente corrette per far sì che gli avversari nemmeno vengano ascoltati: razzista, omofobo, oscurantista, rozzo. (…)
È chiaro che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo è stata svuotata. Essa ha senso solo in quanto espressione del diritto naturale, cioè di quel diritto che viene prima di ogni forma di organizzazione statale e che è inviolabile: «Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione dei diritti e delle libertà in essa enunciati» (Art. 30). Mettere in questione il carattere universale di questi princìpi e il loro ancorarsi nelle «leggi non scritte e immutabili» del diritto naturale significa spianare la strada all’arbitrio e a nuove forme di totalitarismo. All’azione distruttiva del soft power Haaland Matláry oppone la necessità di riscoprire il valore fondativo e universale della ragione. La sua proposta di rivalutazione del diritto naturale indica in modo rigoroso un possibile percorso fondativo della categoria del “prepolitico” in un contesto culturale e sociale secolarizzato.
In una prospettiva cristiana, restano due questioni: quella di come l’avvenimento cristiano debba porsi di fronte a questa sorta di religione globale, incentrata sul mito del progresso e sulla relativizzazione dei diritti dell’uomo; quella del contributo alla coesione sociale che il cristianesimo è chiamato a portare nella vita delle nazioni e nelle relazioni internazionali.
Il punto non è solo il ruolo che le religioni possono svolgere all’interno delle società secolarizzate, ma, soprattutto, le condizioni perché queste ultime possano sopravvivere e non sprofondare in una violenza di tutti contro tutti. (…) Una corretta religione civile – sempre che si voglia ancora insistere su questa espressione di per sé ambigua – sarebbe, dunque, necessaria allo Stato liberale e democratico occidentale proprio in funzione della realizzazione di questi presupposti che esso non può darsi da solo, ma che può ricevere dalle forze più vive che esistono al proprio interno.
Senza negare l’evidenza di una società occidentale divenuta plurale (…), ma comunque bisognosa di riferimenti etici e ideali comuni, si tratta di relativizzare l’idea di religione civile, riconoscendole – con Benedetto XVI – un valore necessario, ma non sufficiente: «Il concetto di religio civilis appare così in una luce ambigua: se esso rappresentasse soltanto un riflesso delle convinzioni della maggioranza, significherebbe poco o niente. Ma se invece deve essere sorgente di forza spirituale, allora bisogna chiedersi dove questa sorgente si alimenta». Ecco, allora, le due tesi ratzingeriane, per una rilettura della laicità dello Stato e della religione civile a essa sottesa: «La mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità», espressione con cui si intende non solo la presenza di nuove comunità religiose, ma il contributo fattivo e vitale che le comunità possono dare, come «sale della terra» (che più avanti Ratzinger chiama anche «minoranze creative»), alla coesione sociale e civile, in rapporto con tutti i fermenti più vivi che operano all’interno della società. È evidente che per essere se stessa, l’esperienza cristiana chiede e necessita di non essere privatizzata e ridotta a puro elemento individuale e soggettivo. È altrettanto evidente che questa esperienza non deve temere di rapportarsi a un mondo divenuto plurale, rimanendo però se stessa sino in fondo. Diversamente, il concetto di religione civile resta «prigioniero in quella gabbia di insincerità e ipocrisia che è il linguaggio politicamente corretto».
Contro il fascismo di sinistra. L’occidente politicamente corretto è un élite vuota e secolarizzata che si crede eterna, dice Camille Paglia. “Il free speech era l’anima della sinistra degli anni Sessanta, poi è diventata una polizia del pensiero stalinista”, scrive Mattia Ferraresi il 6 Febbraio 2015 su "Il Foglio". “Quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”, dice Camille Paglia.
New York. Camille Paglia combatteva il politicamente corretto quando ancora non esisteva. C’era la cultura perbenista e censoria che veniva dagli anni Cinquanta, ma non esisteva ancora l’invisibile polizia del linguaggio del “fascismo di sinistra”, come lo chiama lei, che tracciava il confine fra il legittimo e l’illegittimo nel discorso pubblico non sulla base di un ben perimetrato codice morale, ma intorno alle linee incerte della libertà individuale. Non è con la coercizione che il politicamente corretto si è insediato. E’ stato un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza, articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti, non imposto con il manganello della buoncostume. E’ lo strumento di protezione degli indifesi, dei più deboli, delle minoranze oppresse, dicevano i suoi difensori, e l’argomento potrebbe essere ripetuto anche da Mark Zuckerberg per giustificare l’esclusione da Facebook dei testi che contengono la parola “frocio” (termine che compare in questo articolo al solo scopo di sfruculiare l’ottuso algoritmo).
Paglia è passata in mezzo a tutte le fasi della guerra del politically correct. Faceva il primo anno di università nello stato di New York quando gli studenti di Berkeley guidati da Mario Savio manifestavano per la libertà di parola, gettando i semi della controcultura; in tasca aveva sempre una copia di “Howl” (“la mia bibbia”, dice) il poema di Allen Ginsberg censurato per oscenità. Nel 1957 la polizia aveva perquisito – e contestualmente devastato – la libreria di San Francisco che con inaccettabile affronto aveva continuato a vendere il volume; nei primi anni Novanta, quando il politicamente corretto si è coagulato in un sistema di regole per lo più non scritte, diventando convenzione dopo essere stato pulsione, la femminista contromano era sulla copertina del New York magazine con uno spadone medievale davanti al Museo d’arte di Philadelphia: una “women warrior” a presidio della libera cittadella della cultura contro gli attacchi del politicamente corretto.
Non che lo schema del politicamente corretto oggi sia stato superato, anzi. Nella sua veste più minacciosa di “hate speech” – un politicamente corretto con il turbo – il canone che regola l’indicibile nel discorso pubblico è diventato pervasivo e meccanico, s’è infiltrato nella rete sotto forma di cavillosi termini d’uso che si accettano senza leggere; nelle università americane è sempre più frequente il fenomeno del “disinvito” di oratori che possono offendere la sensibilità di qualche gruppo minoritario; sul giornale di Harvard lo scorso anno una studentessa suggeriva di abbandonare la finzione della “libertà accademica” e di selezionare in modo finalmente esplicito quali eventi approvare e quali no sulla base della compatibilità ideologica con una certa tavola di valori che l’università di fatto promuove (e a parole nega). Il massacro islamista nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi ha rinfocolato il dibattito sulla libertà di espressione e sui suoi limiti. Per qualche settimana siamo stati tutti Charlie, poi l’occidente benpensante è tornato al suo business as usual: il New York Times non ha pubblicato le vignette di Maometto per non offendere i lettori musulmani, Facebook le ha censurate per non far arrabbiare il governo turco e l’editorialista David Brooks ha fatto notare un’indiscutibile verità: un giornale come Charlie Hebdo “non sarebbe durato trenta secondi” in qualsiasi università americana. Si sarebbero sollevate proteste indignate, minoranze offese avrebbero manifestato e finanziatori altrettanto offesi avrebbero protestato con argomenti molto più convincenti.
Lo stesso magazine che ritraeva Paglia fra armature medievali quasi quindici anni fa ha pubblicato di recente un saggio sul politicamente corretto di Jonathan Chait, opinionista di tendenza liberal, di cui il Foglio ha dato conto la settimana scorsa. Chait si scaglia contro la dittatura del politicamente corretto e per capire che ha messo il dito in una piaga insanguinata del dibattito basta leggere alcune delle violente reazioni all’articolo da parte di esponenti di minoranze e sottoculture che esigono protezione da parte della polizia del linguaggio. Il ragionamento dei critici suona così: Chait può permettersi di attaccare il politicamente corretto perché è un maschio-bianco-etero-ricco, se soltanto uscisse per un attimo dalla bolla di privilegio sociale in cui vive capirebbe che le regole per non offendere le minoranze sono un bene sociale imprescindibile. Questo tanto per dire dove può portare la foga iconoclasta del movimento anti-anti-politicamente corretto, che legge qualunque episodio come figura dell’universale dialettica fra oppressori e oppressi.
Il cuore del saggio di Chait, però, era il tentativo di dimostrare che il politicamente corretto non è figlio del liberalismo, ma ne è una perversione, un tradimento introdotto dalla sinistra radicale d’impostazione marxista e inclinazione totalitaria. Nello schema di Chait c’è una sinistra buona e liberale che disprezza la correttezza politica e innalza monumenti al “free speech”, e una sinistra cattiva che con un rasoio ideologico raschia via dal discorso pubblico ciò che è incompatibile con il suo pensiero, e usa come scusa la difesa delle minoranze.
La guerriera Camille Paglia prende a spadate questa rappresentazione, e in una conversazione con il Foglio ripercorre la genesi del politicamente corretto in seno (e non al di fuori) alla rivoluzione liberale: “La libertà di espressione era la vera essenza, l’anima della politica di sinistra degli anni Sessanta, che reagiva al conformismo e alla censura degli anni Cinquanta, alla quale si opponevano già prima gruppi radicali underground, i poeti Beat e gli artisti di San Francisco e del Greenwich Village. La libertà di espressione è sempre stato il mio principio e la mia motivazione centrale, parte dell’eredità dei filosofi dell’illuminismo che hanno attaccato con forza le autorità religiose e i privilegi di classe. Proprio per questo è stato incredibilmente scioccante per me il momento in cui i liberal americani hanno abbandonato il free speech negli anni Settanta e hanno inaugurato l’èra del politicamente corretto, per la quale soffriamo ancora oggi. Invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta, la sinistra è diventata una polizia del pensiero stalinista che ha promosso l’autoritarismo istituzionale e ha imposto una sorveglianza punitiva delle parole e dei comportamenti”.
La sottesa analogia con la dinamica che dalla rivoluzione giacobina e ai suoi ideali di liberté ecc. conduce al terrore è certamente politicamente scorretta, e Paglia da sempre mischia maliziosamente il registro dell’analisi a quello della provocazione (solitamente quando l’interlocutore pensa si tratti di provocazione in realtà è il frammento di un ragionamento calmo e lucido), rimane da spiegare il perché, e forse anche il come. Perché la sinistra ha abbandonato le sue aspirazioni di libertà per rintanarsi nel fascismo di sinistra? “Per capirlo – dice Paglia – dobbiamo innanzitutto esaminare il fallimento della sinistra nel comunicare e capire la maggioranza dell’America, il mainstream. Il documentario Berkeley in the Sixties, uscito nel 1990, mostra una serie di errori strategici fatti dalla sinistra, che, ad esempio, ha deciso di associarsi a movimenti che promuovevano il disordine civile. Questo ha portato a una reazione culturale fortissima, la quale ha contribuito al risultato delle elezioni del 1968: Richard Nixon è diventato presidente, ed è nato un enorme movimento conservatore a livello nazionale”.
Così la destra è riemersa sulla scena politica grazie alle contraddizioni interne della sinistra, mentre i liberal scottati dal l’arrivo di Nixon “si sono infiltrati nelle università”. Erano i primi anni Settanta, ricorda Paglia, “proprio quando ho cominciato a insegnare”. Questa sinistra che si è riversata nell’accademia “ha fatto pressioni enormi sugli organi di governo dei college per introdurre cambiamenti di sistema che poi sarebbero diventati la struttura base su cui è stato costruito tutto l’edificio del politicamente corretto: sono nati dipartimenti autonomi e autogestiti di studi femminili, studi afroamericani, chicano eccetera. Questi programmi ispirati dalla ‘politica dell’identità’ erano basati innanzitutto sull’ideologia, non su standard di qualità in termini di ricerca. I professori venivano assunti in quanto true believer e il dissenso da un codice approvato non era tollerato. Ero orripilata dai rigidi dogmi e dalla mediocrità intellettuale di tutto questo: oggi è la routine dell’accademia americana”.
I dipartimenti umanistici sono stati occupati dai discendenti della sinistra illuminata e liberale, non soltanto dai radicali marxisti, i quali invece occupavano inespugnabili e tuttavia isolate roccaforti universitarie. “Nei decenni – continua Paglia – i pensatori indipendenti che cercavano di fare carriera nelle humanities sono stati cacciati dalle università. Ho avuto a che fare con questo fascismo dottrinario in tutti i modi possibili. Esempio: il mio primo libro, ‘Sexual Personae’, che criticava l’ideologia femminista convenzionale, è stato rifiutato da sette editori prima di essere pubblicato nel 1990, nove anni dopo che avevo finito di scriverlo. Per fortuna quello era un momento in cui si stava discutendo del politicamente corretto sui media per via di certi codici linguistici imposti da università tipo la University of Pennsylvania. Non mi è dispiaciuto quando il magazine New York ha deciso di dedicarmi la storia di copertina, anzi se devo dire la verità l’idea della spada è stata mia”.
A quel punto, però, i dettami del politicamente corretto avevano penetrato a tal punto la cultura che i giornali di sinistra accusavano Paglia di essere una conservatrice (“accusa isterica che non aveva alcun senso: avevo appena votato per l’attivista ultraliberal Jesse Jackson alle primarie democratiche, sono ancora registrata per il Partito democratico e ho sostenuto, anche finanziariamente, il Green Party”) e la ragione della reazione convulsa, spiega, è semplice: “La sinistra è diventata una frode borghese, completamente separata dal popolo che dice di rappresentare. Tutti i maggiori esponenti della sinistra americana oggi sono ricchi giornalisti o accademici che occupano salotti elitari dove si forgia il conformismo ideologico. Questi meschini e arroganti dittatori non hanno il minimo rispetto per le visioni opposte alla loro. Il loro sentimentalismo li ha portati a credere che devono controllare e limitare la libertà di parola in democrazia per proteggere paternalisticamente la classe delle vittime permanenti di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. La sinistra americana è un mondo artificiale prodotto dalla fantasia, un ghetto dove i liberal si parlano solo con altri liberal. Penso che la divisione politica fra destra e sinistra sia moribonda e vada abbandonata, abbiamo bisogno di categorie più flessibili”.
Il “free speech” è un concetto morto nel cuore della sinistra, ma a morire, più tragicamente e meno concettualmente, sono anche i vignettisti che disegnano Maometto per rivendicare la libertà d’espressione. In America molti giornali mainstream non hanno voluto ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo, cosa pensa di tale scelta?
“Dato che le vignette di Charlie Hebdo erano disponibili in rete, non capisco perché i grandi giornali avrebbero dovuto ripubblicarle, esponendo i loro staff a potenziali pericoli da parte di fanatici senza scrupoli. I direttori poi possono anche indulgere in gesti nobili e simbolici, barricati come sono dietro sistemi di sicurezza molto più sofisticati di quelli della redazione di Charlie, ma di solito a pagare il prezzo più alto sono gli inservienti, le guardie, i custodi”. Un’esibizione di prudenza che non ci si aspetterebbe da un’intellettuale venuta fuori dalla sinistra, ma a ben vedere Paglia ha passato tutta la vita a combattere una élite che sbandierava la libertà come valore supremo; la femminista che combatte il dogma dell’uguaglianza dei ruoli e la lesbica che difende la differenza sessuale come base antropologica dell’occidente: “Guarda, sono una militante della libertà di espressione e un’atea, ma rispetto profondamente la religione come sistema simbolico e metafisico. Odio profondamente le becere derisioni alla religione che sono un luogo comune dell’intellighenzia occidentale secolarizzata. Ho scritto che Dio è la più grande idea che sia venuta all’umanità. Niente dimostra l’isolamento della sinistra dalla gente quanto la derisione della religione, che per la maggior parte degli uomini rimane una caratteristica vitale della loro identità. La magnifica ricerca di significato, dunque religiosa e spirituale, degli anni Sessanta si è persa nella politica delle identità dei Settanta. Le vignette di Charlie Hebdo erano crude, noiose e infantili, insultavano il credo di altre persone senza nessuna vera ragione artistica. Il massacro è stata un’atrocità barbara e la libertà di espressione deve essere garantita in tutte le democrazie moderne. Ma quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”.
Michel Houellebecq nel suo libro “Sottomissione” parla esattamente dell’assenza di un’alternativa secolare all’altezza dell’immaginario religioso, che finisce per affermarsi nella vuota libertà dell’occidente perché porta un surplus di significato. Paglia non ha letto il libro dello scrittore francese né lo farà. Nessuna antipatia particolare, soltanto “non leggo romanzieri contemporanei”. E qui Paglia s’infervora: “A meno che non abbiano una diretta esperienza da zone di guerra, gli scrittori odierni non hanno nulla da dirci sulla crescente instabilità del mondo di oggi. Cosa sa esattamente Houellebecq del presente a parte quello che tutti leggiamo sui media? Per capire il presente leggo sempre testi di storia e religioni comparate. Siamo in un periodo simile a quello del tardo impero romano, quando una élite sofisticata, secolare e con uno stile di vita sessualmente libero pensava che il suo mondo fosse eterno. Il suo vuoto spirituale era la sua condanna. Quella che è arrivata dalla Palestina era una religione di passione e mistero che valorizzava il martirio. L’occidente ha perso la strada, che cos’ha da offrire oggi? Può anche essere che il vecchio conflitto con il mondo islamico sia il fattore primario nel determinare la storia nel prossimo secolo. Ma non possiamo capire cosa sta succedendo senza tornare alle nostre radici culturali e ricostruire un senso di rispetto per la religione”.
Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale". «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un'abitudine tipicamente americana» l'aveva definita.
«L'appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d'Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l'invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L'idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», mentire con purità di cuore, «negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D'altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l'onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell'avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell'idea sartriana che l'uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l'uomo è un essere storico, e ciò che c'è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell'altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l'islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell'eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l'emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall'altro i cattivi»…Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po' più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all'ideologia dei diritti dell'uomo e a quella del progresso, e quindi l'ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l'impero del bene»... Si arriva così all'assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo. Naturalmente, c'è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l'hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c'è «l'uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell'essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest'ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.
L'ossessione politicamente corretta ammazza la cultura e l'Università. Salisburgo, tolta la laurea ad honorem a Lorenz per il suo passato nazista. La lettera di protesta dei professori di Oxford: stanno distruggendo il confronto tra le idee, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale". E l'uomo incontrò il politicamente corretto. Pochi giorni fa l'università di Salisburgo ha revocato al grande etologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la Medicina nel 1973 (morto nel 1989), la laurea honoris causa per il suo passato nazista. Studioso di fama mondiale per gli studi sul comportamento animale - e autore di uno dei testi più straordinari mai scritto sul valore della conoscenza e dell'informazione, L'altra faccia dello specchio - Lorenz si distinse fin dagli anni Trenta per la volontà di diffondere l'ideologia hitleriana. È curioso. Il passato nazista di Lorenz è noto da sempre (nel 1937 fece domanda per una borsa di studio universitaria facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo, nel '38 aderì al Partito dopo aver scritto sul curriculum che aveva messo «tutta la sua vita scientifica al servizio del pensiero nazionalsocialista», e nel '42 fu spedito sul fronte orientale e fatto prigioniero dai russi). Eppure Lorenz fu ritenuto meritevole del Premio Nobel nel 1973. E l'ateneo austriaco lo insignì del titolo onorifico nel 1983. Però, oggi, lo rinnega. Perché l'abiura non è stata fatta prima? Perché ora? Ha senso? L'onda lunga del politicamente corretto, nella corrente di risacca, finisce per travolgere la cultura del passato. Ma è quella del futuro che preoccupa di più. Lo tsunami scatenato da questo pericoloso atteggiamento sociale che piega ogni opinione verso un'attenzione morbosa al rispetto degli «altri», perdendo quello per la propria intelligenza, fino a diventare autocensura, rischia di fare immensi disastri. Ieri un gruppo di professori di «Oxbridge», cioè di Oxford e Cambridge, ha scritto una lettera aperta al Daily Telegraph per denunciare il politically correct che sta uccidendo progressivamente la libertà di pensiero ed espressione nelle università britanniche, indebolendone il ruolo di spazio privilegiato del confronto delle idee. Il casus belli è la campagna indetta per rimuovere la storica statua di Cecil Rhodes, ex alunno e benefattore dell'«Oriel College» (tanti ragazzi si sono fatti strada grazie ai suoi soldi), perché considerato l'ispiratore dell'apartheid in Sudafrica. Ma le sue colpe - fa notare qualcuno - non ne cancellano i meriti a favore del progresso. Un principio che può essere applicato anche a Lorenz in campo medico. O a Heidegger in campo filosofico. O a Céline in campo letterario. Ironia della sorte, e dimostrazione della stupidità insita nel politicamente corretto: l'ex studente che ha lanciato la crociata per la rimozione della statua, il sudafricano Ntokozo Qwabe, ha potuto studiare a Oxford grazie a una borsa di studio finanziata dalla Fondazione Rhodes.L'aspetto più inquietante della faccenda è che a farsi promotori dell'autocensura basata sulla correttezza politica, ad Oxford, non sono i professori, ma gli stessi studenti. Gli autori della lettera aperta, guidati dal sociologo Fran Furedi della University of Canterbury, da parte loro accusano le università inglesi di trattare i giovani come «clienti» che pagano rette salate (che è meglio non scontentare) e non come menti da formare e aprire al confronto. A Oxford un dibattito sull'aborto è stato annullato dopo che una studentessa ha lamentato che si sarebbe sentita offesa dalla presenza nell'aula di «una persona senza utero». Che, tradotto, significa «un uomo». Un comportamento da vera papera che avrebbe di certo incuriosito un etologo come Lorenz.
La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale". In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.
L’UBBIDIENTE DEMOCRATICO di Luigi Iannone. L’intento di questo libro è quello di misurare quanto sia marcato nelle singole vite e nei percorsi collettivi il nostro grado di assuefazione al conformismo. Viviamo un mondo in cui siamo allo stesso tempo attori e registi di una enorme sinfonia pervasa dal politicamente corretto tanto che per rintracciarne gli echi non dobbiamo fare molta fatica. Basta soffermarsi sugli accadimenti più banali, sui fatti di cronaca o di costume, sul linguaggio della politica o dei media. È sufficiente indugiare con animo libero su ognuno di essi per rendersi conto quanto sia difficile farne a meno. “Luigi Iannone, scrittore non allineato dalle frequentazioni raffinate, con questo libro ci accompagna nei sentieri poco battuti, lontani dal politicamente corretto. L’autore si propone di ricostruire un mosaico ‘differente’ tra presente, passato e futuro, per ribaltare schemi, épater le bourgeois, non facendo concessioni alla morale comune, ordinaria, canonica, maggioritaria nell’establishment e nell’immaginario collettivo progressista.” dalla prefazione di Michele De Feudis.
Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico <<(…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.
Libri. “L’Ubbidiente Democratico” di Iannone: per distinguersi dalla ridente polis dei corretti, scrive il 20 settembre 2016 Isabella Cesarini su "Barbadillo". Si spalanca con un’affermazione di Carmelo Bene, durante una puntata del Maurizio Costanzo Show – 1994, l’ultimo libro dello scrittore Luigi Iannone. Corsivo che diviene principio guida dell’opera L’Ubbidiente Democratico, nell’esergo del genio salentino: “Non me ne fotte nulla del Ruanda. E lo dico. Voi no. Non ve ne fotte ma non lo dite”. Si tratta di una dichiarazione, all’interno della quale non si trovano i caratteri di quel “corretto” che attualmente siamo tutti obbligati a indossare. Iannone si inoltra all’interno di un campo minato che pochi hanno l’ardire di calpestare. Il suo soliloquio si fa dapprima parola e poi pagina scomoda, poiché lontana da quello spazio così abusato e gremito del politicamente corretto. Una città immaginaria solo nel nome, zeppa di tante bravissime persone, altrettanti buoni propositi, tutti così realizzabili, ma solo nell’evanescenza dell’incompiuto. E guai a non pensarla come gli abitanti di questa ridente città: marchio d’infamia e foglio di via. In assenza di cotanto calore, l’apolide si ritrova rapidamente isolato, ma certamente sereno in compagnia di quelle idee ritenute così scomode. Pensieri come lampi; zampilli che attraversano anche gli autoctoni della lieta cittadella, ma restano sconvenienti e dunque la scelta ricade sulla comodità di restare distesi sul proprio personale divano del tacere. E rimanendo nel tema morbido del salotto, lo stesso scrittore confessa il suo – e non solo – incubo ricorrente. La vicenda onirica si svolge nel salotto più famoso e corretto d’Italia: la casa immacolata di Fabio Fazio. Cortese sino alla nausea, accogliente nelle ospitate degli abitanti della città ubbidiente: Fiorella Mannoia, Corrado Augias che in un altro alloggio ancor più confortevole illumina d’immenso Piergiorgio Odifreddi e Federico Rampini. Ancora un passaggio sull’agiata villa di Lilli Gruber che invita Roberto Vecchioni, Jovanotti e compagnia lealmente cantando. Un ripiegamento onirico, nello specifico meglio noto come incubo, dove i buoni e i giusti si avvicendano nelle notti turbate dello scrittore. Al risveglio, il tedio risulta meno onirico, ma ugualmente corposo. Quello di Iannone è un percorso che svela acutamente molte annose questioni e ripetuti meccanismi. Il cantante Simone Cristicchi è uno di quei casi, che da un certo punto in poi, entra di diritto nella categoria dei ripudiati dagli ubbidienti. Portando in scena lo spettacolo dal titolo Magazzino18, legato all’ostico argomento dei martiri delle foibe e il dramma degli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia, Cristicchi si fa velocemente indegno della residenza sotto la volta dei corretti. All’esterno di un tale phanteon di purezza, lo scrittore Iannone colloca una figura leggendaria che trattiene tutti i caratteri del mito: Hiroo Onoda. Non come l’icona di un eccesso idealistico, quanto la delicata e meritevole descrizione di una creatura, che da lontano, si rivolge direttamente alla nostra voce interiore. Accade in questo piccolo uomo, un’espressione dell’onore nell’aderenza a quella meravigliosa forma di amor patrio, stimato malamente come espressione desueta e oltremodo scorretta. Diverso il discorso per i nostri Presidenti della Repubblica, tutti, da un momento storico in poi, cittadini onorari della cittadella corretta. Non più latori del potere temporale, ma cavalieri senza macchia, custodi eterni del potere spirituale. Figure immacolate con vite prive di umani buchi neri: coerenza e sacralità. Dunque papi e non capi di Stato in odor di santità e non in tanfo di muffa. Iniziato dallo storico revisionista Ernst Nolte, allo spirito critico che si fa maniera di voler scomporre e sezionare anche il più ameno dei luoghi comuni, Iannone procede come un bulldozer verso le considerazioni scolastiche. Con uno sguardo nostalgico a quella che ritiene l’ultima degna del nome di riforma, nella persona di Giovanni Gentile, opera una non poco interessante distinzione tra scuola come istituzione e studio. Non necessariamente le due cose coincidono. L’autore stesso, si dichiara tanto avverso alla scuola, quanto devoto all’apprendimento e all’approfondimento. Caratteristica che si dovrebbe considerare virtù, anche in merito al fatto di essere stata patrimonio di molti nomi altisonanti. A fronte del fatto che personalità come Croce e Prezzolini non raggiunsero l’incoronazione in pianta di alloro, attualmente presunti rapper, assolvono il ruolo di oracolo. Il reietto dell’arcadica cittadella dell’ubbidiente, raggiunge l’apoteosi della sua posizione in una più che scontata affermazione: “Chi sbaglia, paga”. Un coro di indignati si leva davanti a una dichiarazione così poco chic, qualunquista e fuori da ogni apericena. E anche se il profano proclamatore, circoscrive il suo pensiero nella premessa, che alcuno deve essere trattato in maniera deprecabile, non risulta comunque socialmente accettabile. Ed è proprio in tale incrocio tra la tolleranza a oltranza e la volontà di ridurre al minimo gli effetti di ogni dramma che le due strade si confondono, sino ad annullarsi all’unisono. Al contrario, accolti con una certa deferenza sono coloro che Montanelli sintetizzava nel termine “firmatari”. Una categoria numerosa che pone la sua firma ovunque, contro o in favore, poco importa. L’atto apprezzabile prescinde la causa e premia l’atto: l’autografo. Nell’Eden degli ubbidienti, persino il tempo è differente: l’unico imperativo è nella rapidità. Elemento imprescindibile che qualifica ogni tipo di legame sentimentale, amicale o lavorativo. Ogni traccia di sequenzialità, qualsiasi tratto di gradualità, necessari alla civiltà, vengono prontamente inghiottiti dalla velocità che svilisce il naturale processo di crescita identitaria e comunitaria. L’autore ci porta, non privo di un tono amaro, finanche all’interno delle rovine di Pompei. Non vi è modo di uscire da un’impasse dove si gioca al rimbalzo di responsabilità tra ministri, soprintendenti, sotto, di lato o ad angolo, se non mediante un paradosso. Singolarità, che si dispiega nella sopravvalutazione di alcuna arte contemporanea, a scapito di meraviglie antichissime e intramontabili. Alla bellezza che naturalmente affascina, l’esempio in un’emozione provata di fronte alla grandezza di un Caravaggio, si preferisce cercare il significato ancestrale di un ortaggio steso a terra in qualche galleria d’arte nel mondo. Allora, il trionfo appartiene a quel lato deteriorabile, che si elegge a tutto, con le virgolette di occasione intorno alla parola arte. Nell’incontaminato mondo degli ubbidienti, lo scrittore ci guida altresì, nella spiegazione dell’uso di una certa tipologia di linguaggio. Il mansueto democratico adopera una lingua che si esaurisce tutta nel trionfo della premessa. Un’epifania che accoglie qualunque argomento, puntualmente preceduto da un mantra, una sorta di nenia: “premesso che non ho nulla contro…”. Un noiosissimo preambolo che scagiona preventivamente da qualsiasi accusa, eccezion fatta per quella di viltà. Poiché non vi è mai l’ardire e/o semplicemente l’onestà di dire ciò che intimamente si pensa. Troppo rischioso, eccessivamente inelegante e dannoso sino alla cacciata dal borghetto della compostezza. L’opera di Luigi Iannone figura un invito alla riflessione, all’ascolto di una voce dissenziente come arma di difesa dallo smottamento di informazioni che quotidianamente ci cade indosso. Un sovraccarico di notizie, dove difficilmente si trova la bussola per l’orientamento. Se risulta poco agevole farlo nelle strade, almeno si provi un tipo di ribellione, forse più adatta alla nostra società; insorgere verso quella diffusa e prepotente forma di conformismo che si fregia nel vezzo del mascheramento anticonformista. Lo spirito libero all’interno di una cittadina tutta edificata sulla compostezza democratica, tende ad apparire alla stessa maniera dello zio pazzo in Amarcord di Federico Fellini, nella splendida interpretazione di Ciccio Ingrassia. Iannone ci dona un sapiente parallelo cinematografico per descrivere la considerazione che abbraccia coloro che provano a non appiattirsi sulla melassa perbenista: i matti del paese. E se l’autore apre in Carmelo Bene, chi scrive si permette – solo dopo aver sollecitato la lettura di questo pungente pamphlet – di usarlo in conclusione da un estratto del Maurizio Costanzo Show – 1995: “Qualcuno ed era davvero anche lui un genio, ha detto che la democrazia è il popolo che prende a calci in culo il popolo, su mandato del popolo”.
Ecco come distruggere il politicamente corretto, scrive l'1/11/2016 “Il Giornale”. Ci voleva qualcuno che lo scrivesse e Luigi Iannone lo ha fatto: “provate a dire banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti”. L’idea del giornalista e scrittore, frequentatore abituale del pensiero di Jünger e amico personale del defunto Ernst Nolte, è balenata a molti, ma ci voleva il suo libro per esprimerla appieno. Il titolo è L’ubbidiente democratico. Come la civiltà occidentale è diventata preda del politicamente corretto (Idrovolante Edizioni, pp. 138, Euro 13) e spiega come “incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze”. E via con esempi eclatanti su cose che tutti sanno ma è meglio tacere, per non rischiare gli insulti di cui sopra. Quindi, vietato dire che la Kyenge è diventata ministro grazie al colore della sua pelle, che le quote rose sono una forma di sessismo alla rovescia, un contentino da dare alle donne, un po’ come piazzare un filo di perle su un severo gessato da ministro. Guai a dire che certi delinquono, perché Caino non si tocca e se Abele se la passa male sono fatti suoi: i criminali vanno capiti. Guai a toccare il capo dello Stato, che pare il Santo Patrono del politicamente corretto. Che di questo si tratta, e basta. Di una dittatura soft, che ha messo da una parte i buoni e gli intelligenti – ossia gli ubbidienti al credo unico imposto dalla vulgata radical chic – e dall’altra i cafoni, gli ignoranti, gli imbecilli, i puzzoni. Ossia, quelli che provano ancora a ragionare con la propria testa e non si lasciano influenzare. L’importante, però, è tacere. Per non fare la fine degli abitanti di Gorino i quali, non avendo voluto gli immigrati, sono i mostri del momento. Quelli di Capalbio, che pure non li hanno voluti, invece se la sono cavata. Chissà perché… ma questa, in fondo, è tutta un’altra storia.
Questo libro è un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Pensate di essere liberi di esprimervi come vi pare? Provate a esporre tesi anticonformiste durante una cena, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale". La libertà d'espressione è meravigliosa e noi tutti siamo convinti di poterla esercitare. Fino a quando scopriamo che le cose non stanno esattamente così. Infatti, per chi professa certe idee, non incendiarie ma comunque non allineate al pensiero unico, c'è la riprovazione del mondo culturale, che si esprime in due modi: il silenzio e l'insulto delegittimante. In libreria domina ormai il Saggio Unico, figlio del Pensiero Unico. È solare: su alcuni temi si può parlare in un solo modo, quello prescritto dal politicamente corretto. L'islam? È una religione di pace. Il libero mercato? Il vero responsabile di tutte le ingiustizie del mondo. L'accoglienza indiscriminata degli immigrati? Un dovere morale e una necessità per sostenere l'economia del Vecchio continente. A proposito, l'Europa? Una magnifica istituzione senza la quale saremmo ancora più poveri e perpetuamente in guerra come nel XX secolo. L'appartenenza al genere maschile o femminile? Uno stereotipo culturale da superare. Avere figli? Un diritto. L'adozione alla coppie omosessuali? Un diritto. L'eutanasia? Un diritto. Tutti abbiamo diritto a tutto. Abbiamo perfino diritto a dire che le cose elencate, o almeno alcune di esse, non ci trovano d'accordo. Ma se lo esercitiamo, ecco il nastro adesivo sulla bocca per impedirci di parlare e le accuse infamanti: ignorante, xenofobo, razzista, islamofobo, omofobo. Non se ne potrebbe almeno parlare, confrontarsi, dibattere? In teoria, sì. In pratica, no. Se non ci credete, guardate lo spazio occupato dalle idee anticonformiste nelle librerie, nei programmi televisivi, nei festival, nei convegni. È prossimo allo zero. Per questo, il libro di Camillo Langone "Pensieri del lambrusco. Contro l'invasione" (Marsilio, pagg. 180, euro 16; in libreria dal 3 giugno) è un'autentica rarità. L'autore, firma de il Giornale, mette in fila tutte le ideologie che considera rovinose per se stesso e per l'Italia. Ne esce un catalogo delle opinioni vietate dal politicamente corretto. Langone, spesso partendo dalla notizia di cronaca, a volte di cronaca culturale, colpisce senza paura proprio nei punti più controversi, e ci mostra che quando un'idea, perfino buona, viene trasformata in ideologia, produce disastri. Nel mirino ci sono i nuovi -ismi: l'ambientalismo, l'americanismo, l'animalismo, l'estinzionismo, l'esibizionismo, l'europeismo, l'immigrazionismo, l'islamismo... Pagina dopo pagina, gli intellettuali che vanno per la maggiore sono ferocemente dissacrati (vedi il teologo-non teologo Vito Mancuso alla voce ateismo). Al loro posto, autori che insegnano a pensare: Guido Ceronetti, Sergio Quinzio, Michel Houellebecq e altri. Cosa c'entra il lambrusco del titolo? Di fronte alla liquidazione dell'Italia, meglio rifugiarsi «nell'unico vero vino autoctono italiano» invece di ricorrere a «dozzinali vitigni alloctoni». Già, perché alla fine, il libro di Langone si e ci interroga su cosa significhi essere italiani ai nostri giorni. Per i nichilisti, nulla. Ma Langone non è un nichilista.
Dalle bandiere rosse ai dogmi del politicamente corretto, scrive Carlo Lottieri, Domenica 23/10/2016, su "Il Giornale". Quando crollò il muro di Berlino, in molti furono portati a pensare che l'età del socialismo fosse alle spalle e che il materialismo storico fosse destinato a finire nella spazzatura della storia. In parte, le cose sono andate così, se si considera che l'Unione sovietica si è dissolta velocemente, che la Cina è cambiata in profondità, che ormai gli ultimi fortini di quell'ideologia sono nelle mani di fratelli o nipoti di quelli che un tempo furono leader carismatici: da Fidel Castro a Kim Il Sung. Eppure il comunismo resta onnipresente, dato che larga parte della cultura contemporanea è pervasa da quella visione del mondo che ancora oggi esercita un potente influsso sulle categorie che utilizziamo per interpretare la realtà: sia nell'establishment di sinistra, sia nel populismo di destra. È sufficiente pensare al trionfo dello stupidario ecologista. È sicuramente vero che si farebbe fatica a trovare, nel pensiero di Karl Marx (proiettato verso il futuro e volto a esaltare il progresso industriale) una qualche legittimazione dell'ambientalismo dominante e delle nuove parole d'ordine: animalismo, coltivazione biologica oppure «chilometro zero». Eppure il legame tra il vecchio socialismo ottocentesco e questa nuova sensibilità è chiaro, poiché in entrambi i casi tutto si regge sulla condanna della società di mercato. Anche autori che oggi - a ragione - vengono considerati «di sinistra» (da John Maynard Keynes a John Rawls), definirono le proprie tesi alla ricerca di un'alternativa moderata e in qualche modo ai loro occhi «ragionevole» tra la pianificazione e il laissez-faire, tra l'egualitarismo assoluto e l'ineguale distribuzione conseguente alla lotteria naturale e allo svilupparsi degli scambi. Oggi il marxismo non ha più il peso che aveva quando Bertolt Brecht, Herbert Marcuse o Louis Althusser dominavano la scena culturale, ma le tradizioni ora egemoni si sono definite nel confronto con quelle idee e muovendo dall'esigenza di dare loro una risposta alternativa. Non c'è quindi da stupirsi se il dibattito pubblico e spesso la stessa legislazione tendono a considerare «ineguale» (e di conseguenza ingiusto) ogni rapporto contrattuale che abbia luogo tra soggetti che hanno posizioni economiche differenti. Il nostro sistema normativo - che prevede distinti diritti per i proprietari e per gli inquilini, per i datori di lavoro e per i dipendenti, per i produttori e i consumatori, ecc. - deriva il suo carattere fortemente discriminatorio dalla tesi secondo cui un dominio dell'uomo sull'uomo non si avrebbe solo quando qualcuno aggredisce o minaccia qualcun altro, ma anche quando due persone liberamente negoziano. Siamo tutti in una certa misura comunisti perché siamo tutti imbevuti dell'idea che una società dovrebbe eliminare le diversità, soddisfare ogni bisogno, innalzare i nostri gusti e allontanarci dall'egoismo, impedire che taluno guadagni miliardi e altri siano indigenti e senza lavoro. Non avremmo mai avuto alcuna legittimazione della coercizione statale, quando è strumentale a modificare l'ordine sociale emergente dalla storia e dalle interazioni sociali, senza il successo del pensiero socialista e senza un intero secolo di riflessione «scolastica» (con eresie, glosse e innesti di ogni tipo) attorno alle opere di Marx. Se il nazismo è ovunque condannato senza «se» e senza «ma», ben pochi esprimono la medesima riprovazione nei riguardi del socialismo: che pure ha causato un numero di morti innocenti perfino superiore. E questo si deve al fatto che le posizioni culturali mainstream sono in larga misura una revisione e una rilettura di temi di ascendenza socialista. S'intende certamente seguire altre strade, ma non è detto che gli obiettivi siano poi tanto diversi. Un dato da tenere ben presente è che se il marxismo è stato certamente una teoria a tutto tondo, sul piano storico-sociale esso è stato anche il catalizzatore di spinte tra loro diverse, ma accomunate dal voler esprimere un rifiuto radicale della realtà, identificata - a torto o a ragione - con la società capitalistica. Con argomenti variamente comunitaristi, egualitaristi, ecologisti, pseudocristiani e altro ancora, per molti anni gli spiriti rivoluzionari si sono ritrovati sotto le bandiere rosse essenzialmente per esprimere il più radicale rigetto delle libertà di mercato e di ogni ipotesi di un ordine economico-sociale senza una direzione prefissata. E se oggi, come sottolinea spesso Olivier Roy, circa un quarto dei terroristi islamisti francesi non ha genitori musulmani né ha radici nei Paesi arabi, questo probabilmente si deve al fatto che oggi il fondamentalismo incanala, in vari casi, un'analoga volontà nichilistica di distruggere ogni cosa. Le stesse librerie ci dicono, anche semplicemente osservando le copertine dei volumi in commercio, quanto il comunismo sia vivo e vegeto. In effetti, il successo di autori come Thomas Piketty, Naomi Klein, Thomas Pogge o Slavoj iek (solo per citare qualche nome à la page) può essere compreso unicamente a partire da un dato elementare: e cioè dal riconoscimento che l'Occidente è diviso al proprio interno da posizioni diverse, ma quasi ogni famiglia culturale si concepisce quale profondamente avversa alla proprietà, al libero scambio, all'anarchia dell'ordine spontaneo. Quando si consideri pure il «politicamente corretto», con il suo corredo di censure e proibizioni, è chiaro come si tratti in larga misura di una logica strettamente connessa a quel risentimento che ha alimentato, sin dall'inizio, l'egualitarismo socialista e la sua rivolta contro la natura. È chiaro che oggi nessuno si propone di spedire i dissidenti in Siberia e di disegnare piani quinquennali che governino dall'alto l'intera economia, ma il reticolato delle regole approvate dalle assemblee parlamentari delinea un quadro complessivo quanto mai illiberale: in cui si discrimina ogni libera scelta estranea al luogocomunismo e si pongono le basi per una società sempre più servile, assoggettata, priva di ogni capacità d'iniziativa. Carlo Lottieri
Bret Easton Ellis choc: il politicamente corretto uccide la nostra cultura. Lo scrittore americano e il critico Alex Kazami contro movimenti antirazzisti e nazi-femministe, scrivono Andrea Mancia e Simone Bressan, Martedì 4/10/2016, "Il Giornale". "Che diavolo è successo agli MTV Music Awards? Niente di inquietante o scioccante, nessuna Miley Cyrus strafatta che insulta Nicki Minaj sul palco, nessun tipo di provocazione e dunque nessun attimo di divertimento. Tutti invece, vanno d'amore e d'accordo nel celebrare quella falsa inclusività politicamente corretta che ormai è diventata terribilmente noiosa e che, probabilmente, è la causa del vertiginoso crollo nel numero di telespettatori che ha seguito lo show". A Bret Easton Ellis, lo scrittore americano autore (tra l'altro) di Less Than Zero e American Psycho, l'edizione 2016 dei Video Music Awards, organizzata lo scorso 29 agosto da MTV al Madison Square Garden di New York, proprio non è piaciuta. E durante l'ultima puntata del suo podcast ha letto integralmente un monologo del giovanissimo scrittore (e critico-provocatore) canadese Alex Kazami che spara a zero contro gli eccessi politically correct di una cerimonia ormai diventata un gigantesco spot per «Black Lives Matter», il movimento finanziato anche da George Soros che accusa le forze di polizia statunitensi di essere intrinsecamente razziste nei confronti della comunità afro-americana. Kazami, che non incarna esattamente lo stereotipo del vecchio trombone della destra conservatrice, visto che è un millennial di 22 anni dichiaratamente gay, è ancora più feroce di Ellis. "Il Black Lives Matter Sabbath che è stato rappresentato ai Video Music Awards 2016 rappresenta la fine della cultura per come la conosciamo. L'intero show è stato un'ode alla narrativa liberal secondo la quale, visto che i bianchi sono tutti cattivi, almeno una persona su due tra quelle inquadrate dalla telecamera deve essere una donna di colore, perché siamo costantemente angosciati dalla necessità di non terrorizzare una generazione di spettatori cresciuta con una dieta di spazi di sicurezza, auto-vittimizzazione e trigger warning (l'avvertimento che segnala la possibilità che un testo possa essere offensivo per qualcuno, ndr)". Una scelta, secondo Kazami, totalmente ipocrita e dettata soltanto da strategie commerciali: "MTV non vuole esporre il suo pubblico a un immaginario pop pericoloso, per paura di offendere qualcuno, a meno che questo immaginario non ricada sotto il mantello protettivo del politicamente corretto. Ma la musica pop deve essere offensiva, non politicamente corretta". "La maschera imposta allo show continua il giovane scrittore canadese è stata un melenso tentativo di dipingere ogni artista sul palco come un campione di bontà, indulgendo continuamente in riferimenti al movimento Black Lives Matter, alla brutalità della polizia, a Martin Luther King. Questo era il copione, il dogma a cui tutti hanno obbedito. Ed era palpabile il terrore che qualcuno potesse esprimere un'opinione contraria al dogma. È proprio questo che sta uccidendo la nostra cultura: la paura di essere puniti per non aver aderito integralmente a questa ideologia collettiva del politicamente corretto". Il principale obiettivo delle critiche di Ellis e Kazami, con ogni probabilità, è stata l'interminabile performance di Beyoncé (vincitrice addirittura di otto premi), che nella sua coreografia ha esplicitamente fatto riferimento agli afro-americani uccisi dalla polizia (con i ballerini che crollavano al suolo dopo essere stati colpiti da una luce rossa) e che sul red carpet ha sfilato insieme alle madri di Mike Brown, Trayvon Martin ed Eric Garner, i tre uomini di colore che con la loro morte sono diventati il simbolo di «Black Lives Matter» (e una scusa per la guerriglia urbana scatenata dal movimento in molte città americane). Ellis, in ogni caso, non è nuovo alle polemiche sugli eccessi del politicamente corretto e dei social justice warriors. Ad agosto, sempre sul suo podcast, se l'era presa con le "femministe isteriche" e "naziste del linguaggio" che avevano attaccato il critico musicale del Los Angeles Weekly, Art Tavana, per un presunto articolo "misogino" sulla cantante (e modella) Sky Ferreira. Per Ellis, queste femministe di nuova generazione sono diventate "nonnine aggrappate alle proprie collane di perle, terrorizzate dal fatto che qualcuno possa pensare qualcosa, su un qualsiasi argomento, che non sia l'esatta replica delle loro opinioni". "Queste piagnucolose narcisiste afferma Ellis utilizzano l'altissimo tono morale tipico dei social justice warriors, sempre fuori scala rispetto alle cose per cui si offendono. E si stanno trasformando in piccole naziste del linguaggio, con le loro regole di indignazione prefabbricata, invocando la censura ogni volta che qualcuno scrive, o dice, qualcosa che non aderisce completamente alla loro visione dell'universo". "Questa sinistra liberal che si auto-proclama femminista conclude l'autore di American Psycho è diventata così iper-sensibile da essere ormai entrata in una fase culturale di autoritarismo. È qualcosa di così regressivo e lugubre da assomigliare terribilmente a un film di fantascienza distopica, ambientato in un mondo in cui è permesso un solo modo per esprimersi, in un clima di castrazione collettiva che avvolge tutta la società".
Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. Il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".
Annalisa Chirico fra femminismo e provocazione, scrive Benedetto Marchese su “Città della Spezia”. L'autrice racconta a Cds il suo libro "Siamo tutti puttane" presentato anche nella rassegna "I grandi temi" di Bocca di Magra: "Quote rosa? Solo se c'è competenza". “Provocare significa sciogliere il proprio pensiero e lasciarlo libero di muoversi e concepire qualcosa per noi e per gli altri. Nella società di oggi c'è una cautela estrema che frena tutto questo”. Ospite nel salotto di Bocca di Magra di Annamaria Bernardini De Pace e della sua rassegna letteraria dedicata quest'anno proprio alla provocazione, la giornalista e saggista Annalisa Chirico sintetizza così il filo conduttore della manifestazione nella quale ha presentato il ultimo libro “Siamo tutti puttane” (sottotitolo “Contro la dittatura del politicamente corretto”), senza distinzioni di genere e ispirato dal Processo Ruby. “Seguendo le udienze – racconta a Cds la collaboratrice di Panorama e Il Foglio – mi sono resa conto che l'imputato non era più Berlusconi ma quelle ragazze le cui vita privata veniva vivisezionata e giudica di fronte al grande moralizzatore pubblico. Era diventato un processo al senso del pudore e il codice morale si stava sostituendo a quello penale, si parlava solo di gusti sessuali. Il mio libro – prosegue – è invece un grido di rivolta contro il moralismo e il politicamente corretto: ognuno ha il diritto di scegliersi la vita che vuole, e di lavorare per realizzare i propri sogni, anche rischiando di farsi del male”. Edito da Marsilio e pubblicato dopo i precedenti “Condannati preventivi” e “Segreto di Stato – il caso Nicolò Pollari”, il libro delinea anche il pensiero dell'autrice sul femminismo e il ruolo della donna nella nostra società. “Ho concluso il mio dottorato con uno studio sul corpo della donna – prosegue – e mi ritengo una femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione: ciascuna di noi può sentirsi Madonna o puttana ma non deve sottostare a delle regole. Sono critica verso le Taleban-femministe che hanno fatto di quel processo solo una battaglia politica contro Berlusconi per poi sparire subito dopo. Negli anni Settanta le femministe scendevano in piazza al fianco delle prostitute, oggi troviamo una parte di quella sinistra sui palchi a puntare il dito contro altre donne che ritengono degradate e che discriminano. Un movimento che è diventato braccio armato della politica e che è stato respinto, sempre nella stessa area, da coloro che quarant'anni fa avevano lottato per i diritti delle donne. Si sono occupate delle “Olgettine” ma non delle arabe o italiane che vivono segregate. Un problema che riguarda tutto l'Occidente che non si preoccupa di tutelare ad esempio le eroine di Kobane che vengono lasciate sole a combattere contro l'Isis”. Chirico, origini pugliesi e romana d'adozione, non si sottrae poi ad un commento sull'episodio avvenuto pochi giorni fa su una spiaggia di Fiumaretta con vittima una giovane ripresa con il compagno in un video che ha girato sugli smartphone di mezza Val di Magra ed è finito anche sui giornali. “Dobbiamo capire che le giovani d'oggi sono molto più disinibite e se da un lato queste cose possono accadere normalmente, dall'altro dovrebbe esserci un limite da parte di chi le pubblica o le condivide”. Attratta fin da piccola dalla politica e con un passato fra i Radicali di Pannella l'autrice rivela invece una distanza convinta dalla militanza: “Ne sono stata interessata, ora la seguo solo per mestiere, ho votato poche volte e mi sono astenuta sempre senza pentimento. Le quote rosa in politica? Scegliere donne competenti è importante – conclude – farlo solo per rispettare la parità è del tutto inutile”.
Chi è Annalisa Chirico, la paladina del femminismo liberale. La giovane scrittrice e opinionista ha pubblicato un libro dal titolo esplicito, “Siamo tutti puttane”, nel quale polemizza contro il femminismo radical-chic di certa sinistra e invoca la libertà per un nuovo femminismo, scrive I.K su "Gossip di Palazzo" venerdì 23 maggio 2014. 28 anni dalla penna tagliente, aspetto piacente che male non fa, autodefinitasi “liberale, tortoriana, radicale” sulle pagine delle sue biografie online, sul proprio sito personale e sul blog di Panorama "Politicamente scorretta" che gestisce personalmente, dottoranda in Political Theory a alla Luiss Guido Carli di Roma: Annalisa Chirico è una delle giovanissime opinion-maker della carta stampata e dell’editoria digitale che stanno mettendo a dura prova le giornaliste di una volta grazie ad una buona dose di sfacciataggine e femminile tracotanza. Sulla sua pagina Facebook ci sono moltissime foto con tutti i sostenitori e acquirenti famosi del suo nuovo libro, …La giovane scrittrice e fidanzata di Chicco Testa si scaglia contro le femministe post sessantottine. Autrice di due libri, uno contro l’abuso della carcerazione preventiva “Condannati preventivi” e l’altro sul caso Niccolò Pollari e i segreti di stato tra Usa e Italia, Annalisa Chirico è in questi giorni sulla bocca della politica e del costume italiano per la pubblicazione di un terzo libro dal titolo decisamente esplicito di “Siamo tutti puttane” nel quale, come ha spiegato in un’intervista a Dagospia, rivendica il diritto di ciascuno di farsi strada come meglio può senza dover per forza incappare in trancianti giudizi operati sulla base della morale altrui. Nello specifico mirino del libro della Chirico, lanciato in pompa magna anche grazie all’appoggio una campagna mediatica via Twitter (#SiamoTuttiPuttane è l'hashtag dedicato) con personaggi famosi quali cantanti, giornalisti provocatori come Giuseppe Cruciani e svariate partecipazioni televisive, sono finite le cosiddette taleban-femministe dell’intellighenzia di sinistra, guidate da Lorella Zanardo di Se non ora quando e dalla presidente della Camera Laura Boldrini: il libro, ha spiegato Annalisa Chirico, è nato proprio dall’indignazione che le montava dentro durante il processo alle olgettine, le ragazze prezzolate da Berlusconi per i famosi festini nella villa di Arcore gestiti da Nicole Minetti. A ogni udienza m'incazzavo di più: quelle ragazze, chiamate in qualità di testimoni, in realtà erano imputate, e non per reati del codice penale, ma per i loro costumi privati. Quelle toghe stavano violando i diritti di ragazze che avevano avuto la colpa estrema di accarezzare il potere cercando di inseguire i loro sogni. Embé? Chi siamo noi per giudicare i sogni degli altri? Le taleban-femministe giudicano. Annalisa Chirico ne ha per tutti, specialmente per quello che lei chiama "il boldrinismo" della politica: Io sono femminista, ma il loro è un femminismo perbenista che celebra il modello di donna madre e moglie. Hanno restaurato il tribunale della pubblica morale. Il berlusconismo non t'impone come vivere. Il pericolo del boldrinismo invece è che vuole importi come vivere. E in merito alla sua relazione con Chicco Testa, sessantaduenne ex presidente di Enel e giornalista su molte testate italiane? Annalisa Chirico si riconferma sprezzante del giudizio altrui: Non è l’uomo più vecchio con cui sono stata.
GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.
Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.
Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.
Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.
“Frocio” non si dice. “Figlio di troia” sì, scrive Francesco Merlo il 26 gennaio 2016 su "La Repubblica". Dunque “frocio” non si può dire e “figlio di troia” sì? E “siciliano mafioso” non è razzismo, mentre “zingaro di merda” lo è? E se fosse ridicolo tutto questo affanno del perbenismo italiano nel compilare classifiche di legittimità dell’insulto? Non si può infatti applicare il politicamente corretto all’ingiuria, non esiste l’offesa sterile, non ci sono parolacce detergenti e anzi spesso il più turpe vaffanculo, quando è lanciato sotto stress e non quando diventa progetto politico, disinnesca il pugno. Le male parole come sfogo, come valvole liberatrici durante uno scontro sul campo di gioco, o sulla strada o persino in Parlamento, fanno muro ai ceffoni, disarmano gli istinti violenti, impediscono le botte, sono l’unico modo di darsele di santa ragione senza farsi male. E chissà se per Mandzukic è più offensiva la parola “zingaro” o la parola “merda”? Ed è più politicamente scorretto Sarri, che ha dato del finocchio a Mancini, oppure Mancini che aveva assolto se stesso quando aveva dato del “finocchio” ad un cronista? E’ infatti una giostra il mondo del politicamente corretto. Basta un piccolo cambio di scena e l’ingiuriante diventa ingiurato come nel film i Mostri dove Vittorio Gassman, pedone sulle strisce, si indigna e si ribella perché gli automobilisti, mentre gli sfiorano il sedere, gli gridano. E Gassman incede su quelle strisce a passo volutamente lento e abusa dell’asilo politico che gli offre il codice della strada: come Mancini, “ci marcia”. Ma poi quando sale sulla sua cinquecento il mostro Gassman sfreccia su quelle stesse strisce mostrando le corna ai pedoni. Più ancora della strada, lo sport è metafora di guerra, la vita combattuta con altre armi, non la politica astrusa e neppure la cultura dei privilegiati, ma il mondo dei sentimenti, materia forse non semplice ma sicuramente selvatica: il mondo del turpe eloquio. E però Konrad Lorenz tratterebbe De Rossi come uno dei suoi spinarelli e non certo come un razzista. Anche Freud sorriderebbe dinanzi alle accuse di omofobia a Sarri. Per non dire di Lévi-Strauss che si sentirebbe beato davanti a tanti selvaggi. Tanto più che, con un formidabile testa-coda, il politicamente corretto avvelena anche i selvaggi. Ieri, nelle tante trasmissioni radio, persino gli ultrà romanisti si sono impasticcati di politicamente corretto e, dando vita alla figura ossimorica dell’ultra per bene, dell’estremista formalista, per salvare il loro De Rossi hanno solennemente stabilito che non essendo Mandzukic uno zingaro non può sentirsi offeso dalla parola zingaro. Con questa logica se dici puttana a una puttana la offendi, se invece lo dici a una signora, va bene. L’importante infatti è non ledere i diritti della minoranza sfruttata (le puttane) anche a costo dell’onore della maggioranza (le signore). Insomma sei un gran maleducato, ma politicamente corretto; sei un vero facchino ma non sei un razzista. Applicando questa logica anche all’ingiuriato, solo un frocio si arrabbia se gli dicono frocio. Dunque se Mancini si arrabbia vuole dire che è frocio? La giustizia sportiva, per trovare delle attenuanti a Sarri, ha accolto questa stramba tesi degli ultrà e ne ha fatto una fonte di legge condannando l’allenatore del Napoli a solo due giorni di squalifica, e per giunta in coppa Italia, a riprova che la nostra giustizia sportiva coniuga le regole con l’humus, la legge con gli umori, in nome del popolo italiano politicamente corretto, vale a dire della curva sud che strologa di diritto, del bar sport dove il tifoso-fedele si traveste da laico. Come si vede, il politicamente corretto della plebe, che di natura è scorretta, è alla fine un pasticcio, è l’innesto del birignao nella suburra. Come se Marione Corsi, l’ex terrorista dei Nar, divo della più importante radio romanista (dice), conducesse “Che Tempo che fa” al posto di Fabio Fazio. Infine c’è la televisione che amplifica e rende caricaturale il politicamente corretto perché costringe a mentire, non conosce sfumature, insegna a parlare con la mano davanti alla bocca e dunque a occultare il corpo del reato, come ha ben spiegato ieri Spalletti, il nuovo allenatore della Roma. Alla Camera dei deputati sono stati vietati per regolamento gli zoom proprio per evitare la lettura del labiale e dunque le indiscrezioni rivelatrici, le schermate dei siti porno visitati mentre si discute della Finanziaria, l’ingrandimento del display del cellulare di Verdini terminale di traffici e commerci, le parolacce dette e scritte nei pizzini che gli onorevoli si scambiano tra loro. E certo non ci piace che sia stata oscurata la casa di vetro della democrazia. Ma una vota Dino Zoff raccontò che dovendo subire un rigore, il suo allenatore Trapattoni gli impartì un ordine in forma di consiglio: buttati a destra perché quello lì calcia i rigori sempre sulla destra. Al momento del tiro, Zoff per istinto avrebbe voluto andare a sinistra, ma prevalse l’obbedienza al Mister. Fu gol. E Zoff scomodò il cielo con una bestemmia e con un insulto secco e forte contro Trapattoni. Lo avesse ripreso la televisione, Zoff sarebbe passato alla storia del calcio come un insolente e un blasfemo, nemico di Dio e del proprio allenatore. Ecco dunque l’ultimo pasticcio del politicamente corretto: la televisione condanna alla trasparenza che però tanto più sembra fedele quanto più è infedele perché travisa mentre mostra, deforma mentre informa. E’ allora meglio nascondersi al politicamente corretto? Oppure è meglio comportarsi come profetizzava Italo Calvino? Conosco un omosessuale che vive in un piccolo paese e che all’insulto “frocio”, che ogni tanto gli capita di subire, reagisce con orgoglio.
Insultare una fascista (incinta) non è reato, scrive Gian Marco Chiocci il 2 febbraio 2016 su “Il Tempo”. Giorgia Meloni non ha bisogno di avvocati d’ufficio, la conoscete, sa difendersi da sola. Ma quel che la fogna di internet le sta vomitando addosso dopo l'annuncio del bebè in arrivo, imporrebbe una risposta dura e bipartisan che a distanza di 48 ore ancora non s'è vista. Madri, padri, figli di, parenti prossimi o trapassati: di insulti familistici la politica si alimenta ogni giorno ma non se n'erano sentiti rivolti a un feto. I cultori della doppia morale, della superiorità intellettuale, culturale ed esistenziale, ci regalano sovente perle di ironia che a parità di sarcasmo, se rivolte a un'immigrata, una lesbica, una politica di sinistra, scatenano reazioni veementi, rimostranze parlamentare, raccolte di firme e sit-in in girotondo. Prendete la Boldrini. Impegnata com'è a far rispettare l'articolo determinativo femminile, "la" presidente della Camera ha espresso solidarietà all'ex ministro solo quando Fabio Rampelli (l'ombra lunga di Giorgia) ha evidenziato la sua partigianeria nell'esprimere solidarietà solo a chi non la pensa come la leader di An. Va detto che anche le politicanti di centrodestra si sono fatte riconoscere. Hanno tergiversato fino a quando non s'è mossa la Carfagna, dopodiché qualcuna ha preso coraggio e s'è indignata. Insomma, se la Bindi è più bella che intelligente, giustamente il mondo s'indigna con Berlusconi. Ma guai a scandalizzarsi se esponenti democratici condividono su facebook Madonna Meloni che concepisce senza peccare oppure ritwittano quel gentiluomo di sua sobrietà di Vladimir Luxuria che cinguetta sperando di tramandare la specie («auguri e figli trans»). Ti sentirai rispondere che è satira, sarcasmo, ironia. Ma sì, minimizziamo. Ridimensioniamo l’accaduto. Lo facevano anche i katanga dell’autonomia operaia quando sprangavano i missini e si difendevano così: «Uccidere un fascista non è reato».
Un orrore sul sito dell'Annunziata: giusto insultare il figlio della Meloni, scrive “Libero Quotidiano” il 3 febbraio 2016. Sull'Huffington Post di Lucia Annunziata un intervento di rara violenza contro Giorgia Meloni. A firmarlo è Deborah Dirani, che si definisce "donna, prima. Giornalista, poi". Nel mirino la leader di Fdi-An, bersagliata da insulti e sfottò dopo aver rivelato di essere incinta. E la signora Dirani, de facto, spiega che la Meloni si merita questo tipo di linciaggio. Chiarissimo l'attacco del suo articolo: "Giorgia Meloni è incinta. Giorgia Meloni è una delle responsabili della degenerazione della politica del mio Paese. Di quella politica fatta di esclusione, di negazione dei diritti, di slogan populisti e di intolleranze culturali". Dunque, la Dirani aggiunge che la Meloni "è incinta e io sono ben contenta, dico sul serio". E subito dopo riprende a manganellare: "Ma la gravidanza non fa di lei una persona migliore, non la trasforma magicamente in una donna aperta al diverso da sé. Resta esattamente quella che è e raccoglie esattamente quello che tanto si è prodigata a seminare: intolleranza". Insomma, l'intolleranza raccolta dalla Meloni in questi giorni - ricordiamolo: insulti e sfottò al nascituro, qualcosa di vergognoso che non c'entra nulla con la politica - sarebbe dovuta alla presunta intolleranza del personaggio Meloni. Quale intolleranza? Si suppone il sostenere politiche di destra, una roba che la signora Dirani non può tollerare, tanto che nello stesso, improponibile e violento, commento si spinge a scrivere: "Buona gravidanza, Giorgia Meloni e... Speriamo che sia femmina (volevo aggiungere anche comunista!)".
Mancini e il politically correct che tarpa le ali alla libertà d'espressione. Froci, zingari, clandestini e handicappati non esistono più. La "neolingua" impone gay, rom, migranti e diversamente abili e ora invade anche i campi di calcio, scrive Francesco Curridori, Mercoledì 20/01/2016, su "Il Giornale". “Sarri è un razzista, uomini come lui non possono stare nel calcio. Mi son alzato per chiedere al quarto uomo del recupero. Lui ha iniziato ad inveire contro di me, dicendo ‘frocio e finocchio’ Sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Persone come lui non possono stare nel calcio, se no non migliorerà mai. Ha 60 anni, si deve vergognare”. Con queste parole Roberto Mancini rischia di inguaiare Maurizio Sarri. I due allenatori hanno avuto un brutto battibecco al termine della partita di Coppa Italia e l’insulto scappato al coach del Napoli rischia di costargli caro. Secondo le norme della Figc chi ha “stop "un comportamento discriminatorio e ogni condotta che comporti offesa per motivi di sesso" rischia quattro mesi di squalifica che andrebbero scontati anche in campionato. Mancini ha rotto la regola aurea del calcio che può essere riassunta con la frase di un celebre film: “ciò che avviene dentro il miglio verde rimane dentro il miglio verde” e così il web si è diviso su Twitter tra chi scriveva #iostoconMancio e #iostoconsarri. Siamo all’apoteosi del politicamente corretto. Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center ha chiesto un incontro con il presidente del Napoli, Auelio De Laurentis e Carlo Tavecchio, presidente della Figc perché “uno sport così popolare non può permettersi messaggi di violenza". Siamo sicuri che molti di questi benpensanti di sinistra che si indignano per un “frocio” scappato in un campo di calcio, dove gli insulti e le bestemmie sono di casa, sono scesi in piazza a difesa della libertà d’espressione quando l’Isis ha fatto la strage di Charlie Hebdo. Fintanto che si insulta la Chiesa cattolica o qualcuno dipinge un Gesù Cristo immerso nella pipì tutto va bene ma se si dice frocio, zingaro, clandestino, cieco o handicappato allora apriti cielo. Nella neolingua dei benpensanti frocio deve chiamarsi “gay”, il clandestino “migrante”, cieco diventa "non vedente", zingaro “rom” e l’handicappato si trasforma in “diversamente abile”. Come se anche i cosiddetti “normodotati” non siano diversamente abili tra loro. Non tutti gli uomini “comuni” hanno le stesse abilità e anche chi non è in sedia a rotelle, nella maggior parte dei casi, ha abilità diverse se messo a confronto con Rocco Siffredi e Stephen Hawking. Chi vive in sedia a rotelle, chi non vede o chi non sente è, invece, portatore di uno o più handicap, ossia di svantaggi cui non si è ancora è posto il giusto rimedio con un adeguata opera di abbattimento delle barriere architettoniche. Eppure la sinistra cosa si accinge a fare? Una proposta di legge per aumentare le pensioni d’invalidità, al momento ferme a poco più di 200 euro? No, la preoccupazione di Sel è quella di cambiare la dicitura “handicappato” in “diversamente abile” dal testo di legge 104, come conferma al giornale.it da Erasmo Palazzotto, promotore della proposta di legge che arriverà in Parlamento presumibilmente a febbraio. Se si va avanti di questo passo si dovrà chiedere a Iva Zanicchi di cambiare la sua canzone da “dammi questa mano, zingara” a “dammi questa mano, rom”. Dire “frocio” fa scandalo proprio nel momento in cui il governo depenalizza il reato di ingiuria tanto che persino Vittorio Sgarbi, per protesta, ha abbandonato una trasmissione tivù senza insultare nessuno. A breve sarà impossibile anche dare del “cornuto” all’arbitro. Preparatevi al marito con una moglie “diversamente fedele”… Siamo alle comiche finali del politicamente corretto.
Sarri e il solito coro del "Politicamente corretto" a giorni alterni, scrive "Il Piccolo D'Italia il 20 gennaio 2016. Fonte: Fabrizio Verde, Francesco Guadagni e Alessandro Bianchi per L’Antidiplomatico. In occasione della partita di calcio tra Napoli e Inter, valevole per la qualificazione alla semifinale della Coppa nazionale, è entrata in azione la solita ipocrisia e doppia morale di marca italica. Evento scatenante, un litigio tra i tecnici delle due compagini calcistiche Maurizio Sarri e Roberto Mancini. Quest’ultimo, allenatore dell’Inter, nel dopo partita ha lanciato accuse di razzismo nei confronti del tecnico toscano che allena la squadra partenopea, colpevole di averlo apostrofato con i termini ‘frocio’ e ‘finocchio’. Per Maurizio Sarri, che dichiara di non ricordare le parole esatte ma si è scusato a telecamere spente nello spogliatoio dell’Inter prima dell’accusa mediatica di Mancini, si è trattato di una caduta di stile, questo è fuor di ogni dubbio. Ma è l’intero contesto di abnorme colpevolizzazione dell’allenatore del Napoli ad essere oggettivamente fuori luogo. Innanzitutto bisogna ricordare che l’Italia è il paese dove in occasione di ogni partita di calcio vengono gridati i più beceri cori razzisti nei confronti della città di Napoli e dei suoi abitanti, nel generale disinteresse di giornalisti e addetti ai lavori, che fanno a gara nel minimizzare questi atti di razzismo, declassandoli a semplici sfottò da stadio, senza tener contro del retroterra culturale che vi è dietro a questi slogan beceri e razzisti. Si tratta degli stessi personaggi che da ieri cercano di ergersi a improbabili moralizzatori del mondo del calcio. Si tratta, si sa, del solito “politicamente corretto” creato ad arte. Che dire poi dello stesso Roberto Mancini che si è precipitato ai microfoni della Rai a denunciare indignato delle offese ricevute, dopo aver provato nello spogliatoio del Napoli a venire alle mani con il tecnico toscano? Si tratta dello stesso Mancini che nel 2000 intervenne in difesa del suo amico Sinisa Mihailovic, il quale aveva definito il centrocampista dell’Arsenal Vieira un «negro di merda», con queste testuali parole riportate dal quotidiano ‘La Repubblica’: «Nel corso di una partita l’agonismo esasperato può portare a momenti di tensione e di grande nervosismo. Credo che anche qualche insulto ci possa stare. L’importante è che tutto finisca lì». Lo stesso Mancini che da allenatore del Manchester City rischiò di finire alle mani con ben due suoi giocatori Adebayor e Tevez. Il primo accusato di fingere un infortunio poi rivelatosi vero, il secondo per divergenze tecnico-tattiche. Il litigio tra il tecnico di Jesi e l’attaccante argentino trovò il suo culmine quando Mancini affermò nei confronti di Tevez ‘l’elegante’ frase «go fuck your mother». Insomma, il tecnico che ieri si è tanto scandalizzato non ha nulla da invidiare alle tante teste calde che popolano il calcio mondiale. In ultima analisi è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che da anni ignorano il più becero razzismo, le ruberie, i macroscopici brogli e quant’altro accade nel mondo del calcio. E, infine, un ultimo punto, il più importante perché non parliamo più di qualcosa attinente ad un gioco, è curioso notare come quegli stessi giornalisti che ieri si sono affrettati nel crocifiggere un allenatore per un insulto proferito in un momento di grande concitazione e nervosismo, siano gli stessi che ignorano e tollerano ogni giorno lo stupro di diritti, democrazia e della nostra Costituzione che avviene ogni giorno. Lo stato in cui versa un’Italia sempre più schiacciata della dittatura europea neoliberista dipende anche, e soprattutto, dal coro del “politicamente corretto” dei bombardatori umanitari a giorni alterni.
Quella sinistra "politicamente corretta" che da settant'anni deride e insulta i gay. Togliatti offendeva Gide mentre la rivista diretta da Berlinguer inseriva gli "invertiti" fra i nemici di classe. Fino alle scivolate di D'Alema e Bersani, scrive Cristina Bassi, Martedì 18/04/2017, su "Il Giornale". «A froci!», «finocchio», «culattoni», «checca squallida»: la destra, certo, si è spesso messa in (cattiva) luce quando si è trattato di insulti omofobi e battute da trivio. Post-missini e leghisti in testa. E se la Dc usa per decenni la maldicenza, pure Beppe Grillo scivola su un «At salut, buson!», rivolto a Nichi Vendola dal palco di Bologna (2011). Ma arrivano dalla sinistra progressista le invettive più insidiose contro i gay. A volte vaghe: «È mollezza borghese». Altre dirette: «Deviati», «pederasti», «invertiti». Altre ancora subdole: le unioni omosessuali? «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano questi?», si chiede D'Alema nel 2006. «È meglio che un bambino cresca in Africa piuttosto che con due uomini o due donne», dichiara un anno più tardi Rosy Bindi, madre del ddl sui Dico. Dopo Stai zitta e va' in cucina, saga del sessismo a Palazzo, il giornalista di SkyTg24 Filippo Maria Battaglia pubblica Ho molti amici gay - La crociata omofoba della politica italiana (Bollati Boringhieri).
Partiamo dal dopoguerra. Nel 1950 Palmiro Togliatti sul mensile Rinascita si scaglia, sotto pseudonimo, contro André Gide che si è ricreduto sul comunismo. A sentirlo parlare, sostiene il segretario del Pci, «vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov'è specialista». E un anno prima: «Se quando ha visitato la Russia nel 1936 gli avessero messo accanto un energico e poco schizzinoso bestione che gli avesse dato le metafisiche soddisfazioni ch'egli cerca, quanto bene avrebbe detto, al ritorno, di quel Paese!». Mentre il mensile della Fgci Gioventù Nuova, diretto da Enrico Berlinguer, se la prende con Jean-Paul Sartre: «Un degenerato lacchè dell'imperialismo, che si compiace della pederastia e dell'onanismo». Riflette l'autore: il messaggio dell'apparato è che «tra i comunisti non c'è posto per gli omosessuali, invertiti e pederasti (usati spesso come sinonimi) sono solo gli avversari borghesi».
C'è l'espulsione dal Pci di Pier Paolo Pasolini «per indegnità morale» nel 1949. Francesco Rutelli che nel 2000 da sindaco di Roma ritira il patrocinio al Gay Pride perché si tiene nei giorni del Giubileo. E la reazione di Giancarlo Pajetta nella seconda metà degli anni '80. A Botteghe Oscure nota facce nuove: «Incuriosito, si avvicina, scoprendo che si tratta della prima delegazione gay accolta in via ufficiale nella sede comunista. E prima le puttane, e adesso i finocchi si sfoga, scuotendo la testa ma che c... è diventato questo partito?». Arrivando ai giorni nostri, ecco la sinistra «diversamente omofoba». Nel 2009 Bersani manifesta «forti perplessità» sulle unioni gay. È bene, spiega, regolare un fenomeno cresciuto «a dismisura». Però «poi non è che lo chiamo matrimonio omosessuale perché non sono assimilabili». Ancora: «È mai possibile che i problemi dell'Italia siano i Pacs e la Tav?, si domanda nel 2006 l'ex premier Massimo D'Alema (...). Prima di aggiungere, significativamente: Ci siamo fatti incastrare a discutere di questioni marginali rispetto ai problemi del Paese». Pochi mesi dopo aggiungerà che il matrimonio tra omosessuali «offenderebbe il sentimento religioso di tanta gente». Nel 1995 aveva dichiarato: la coppia omo non può «essere considerata una famiglia».
A sinistra la «tolleranza repressiva» ha lasciato il posto al silenzio imbarazzato: «C'è una generazione di gente brillantissima che viene dal Pci che non ha mai fatto coming out racconterà nel 2012 la deputata dem Paola Concia Donne e uomini, personaggi di primo piano di quel partito. Se avessero dichiarato pubblicamente la loro omosessualità avrebbero fornito carburante alla sinistra». Non solo: «Alcuni colleghi del Pd (...) ogni volta che mi vedono parlare con una donna, si strizzano l'occhio e dicono che ci sto provando (...). Pregiudizi che trovano conferma nel 2011 quando la deputata annuncia che si sposerà in Germania con la compagna. Che si dice in questi casi?, le domanda Rosy Bindi». Infine Vendola che confessa: «È stato forse più facile dire la mia omosessualità ai preti che al partito».
Da Che Guevara a Orlando, tutte le contraddizioni del mondo gay, scrive Adriano Scianca il 14 giugno 2016 su “Il Primato nazionale”. Il 14 giugno 1928 nasceva a Rosario, in Argentina, Ernesto Guevara de la Serna, destinato a passare alla storia, col nomignolo di Che, per l’apporto dato alla rivoluzione comunista cubana e per essere stato, dopo l’instaurazione del regime castrista, uno dei suoi principali esponenti. Di lui si è detto e scritto tutto. Non è neanche una novità sconvolgente quella per cui, nella visione guevarista dell’uomo nuovo, non ci fosse posto per l’omosessualità: che il Che sia stato l’artefice della creazione di veri e propri campi di concentramento per omosessuali, in cui finirono anche molti simpatizzanti per la rivoluzione, è cosa ben documentata. Eppure il brand guevarista va forte proprio in quei settori che vorrebbero fare l’esame del dna a chiunque sia anche solo in odore di “omofobia”. Beninteso, non vogliamo frettolosamente liquidare qui la rivoluzione cubana con un giudizio piccolo-borghese limitato ai suoi “crimini”, ma certo la contraddizione stride, e parecchio. Non è la sola, se restiamo in campo “lgbt”: al recente gay pride di Roma, per esempio, sono stati fotografati dei cartelli che inneggiavano al boicottaggio dei prodotti israeliani e alla libertà della Palestina. Ben fatto, la causa palestinese gode di tutta la nostra simpatia. Ma, anche qui, non si può non ragionare in punta di coerenza: Israele è uno Stato estremamente gay friendly, cosa che è difficile dire della controparte palestinese e del mondo musulmano in genere. È questo il motivo per cui, dopo la strage di Orlando, il pensiero dominante è andato in tilt: un musulmano, figlio di immigrati, che fa strage di gay. Come uscirne? Sel, in Italia, ha risolto la questione, dando la colpa al fascismo, ma questa è patologia psichiatrica e va lasciata quindi agli specialisti. Abbiamo detto del gay pride: non è forse quella una contraddizione ambulante? Uno sfoggio identitario per rivendicare diritti e uguaglianza. L’espressione di una sottocultura trasgressiva per reclamare l’accesso al perbenismo borghese. Un ostentato “siamo diversi da voi” per far capire alla gente “siamo uguali a voi”. Ora, questo micro-viaggio che parte da Che Guevara e arriva non a Madre Teresa, come la Chiesa immaginaria di Jovanotti, ma allo stragista di Orlando passando per i carri chiassosi del gay pride, cosa vorrebbe dimostrare? Nulla, se non che l’ortodossia politicamente corretta, che ha nelle rivendicazioni lgbt la sua punta di lancia più avanzata, è un sistema logico fallace e un sistema etico claudicante. E che la dittatura del pensiero unico è innanzitutto una dittatura del non pensiero. Adriano Scianca
Omofobia sinistra. Era il 1934 quando Klaus Mann, il figlio dello scrittore Thomas che ebbe una vita signorilmente intensa e signorilmente angosciata, scrisse un pamphlet contro la persecuzione dei “pederasti”. Persecuzione degli omosessuali da parte della sinistra. Sì, perché se oggi negli stereotipi c’è l’omofobia di destra e l’omofilia di sinistra, un tempo, e non fu molto tempo fa, c’era l’omofobia di sinistra e l’omofilia di destra. Klaus Mann denuncia “l’avversione nei confronti di tutto quanto è omoerotismo che nella maggior parte degli ambienti antifascisti e in quasi tutti gli ambienti socialisti raggiunge un livello intenso. Non siamo molto lontani dall’arrivare a identificare l’omosessualità con il fascismo. Su questo non è più possibile tacere”, scrive Giulio Meotti il 22 Luglio 2013 su “Il Foglio”. E ancora: “Come mai sui giornali antifascisti leggiamo parole come ‘assassini e pederasti’ abbinate quasi con la stessa frequenza con cui vengono abbinate sui fogli nazisti le parole ‘traditore del popolo ed ebreo’? La parola ‘pederasta’ viene usata come un’ingiuria”. Né in “Arcipelago Gulag” di Alexander Solzenicyn, né nei “Racconti della Kolyma” di Varlam Salamov, c’è una parola per raccontare la sorte degli omosessuali nei campi sovietici. Sono chiamati, semplicemente, “gli infamati”. In un’opera di divulgazione del commissariato sovietico di Pubblica sicurezza del 1923, intitolato “La vita sessuale della gioventù contemporanea”, si legge che l’omosessualità è “una forma di alienazione” che sarebbe scomparsa, naturalmente o meno, con l’avvento del comunismo. La morale sessuale della sinistra ha sempre oscillato fra la critica radicale delle istituzioni borghesi, a cominciare dal matrimonio, e quella delle “degenerazioni” del costume, segno della corruzione che veniva dalle classi dominanti e capitalistiche. Nel 1862 il proclama della “Giovane Russia” postulava l’abolizione del matrimonio “fenomeno altamente immorale e incompatibile con una completa eguaglianza dei sessi”. La critica di Engels (“Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”) indusse la prima generazione di rivoluzionari russi a considerare la famiglia come una “istituzione superata”. August Bebel scriveva che “il soddisfacimento dell’impulso sessuale è un affare privato di ciascuno proprio come il soddisfacimento di ogni altro impulso naturale”. Ma quando una militante bolscevica, nel 1915, stese un pamphlet favorevole al “libero amore”, Lenin rispose che questa era una concezione borghese, non proletaria. Parlando con Klara Zetkin, nel 1920, definì “completamente antimarxista e per di più antisociale la famosa teoria secondo cui, nella società comunista, la soddisfazione dell’istinto sociale e dell’amore è una cosa semplice e insignificante come bere un bicchier d’acqua”. Queste teorie e i conseguenti comportamenti si erano diffusi nella prima fase rivoluzionaria, negli ambienti intellettuali delle grandi metropoli, dominati dallo spirito dissacratore dei futuristi, che consideravano l’omosessualità solo un modo diverso di bere un bicchier d’acqua. A mano a mano che il potere sovietico si estese alle campagne, con la guerra civile e la Nep, la situazione mutò radicalmente. La famiglia tradizionale tornò a essere il modello e ogni “devianza” fu condannata.
Si cominciò con l’attacco di Bucharin alla diffusione fra i giovani di “gruppi decadenti e semiborghesi con nomi come Abbasso l’innocenza, Abbasso il pudore” e si finì con l’inserire nel codice penale la condanna ai lavori forzati per l’omosessualità. Gli intellettuali comunisti occidentali si adeguarono. Uno dei testi più noti di Bertolt Brecht, “Ballade vom 30 Juni”, presenta Hitler e Ernst Röhm come amanti di letto, usando l’accusa di omosessualità per screditare il nazionalsocialismo. Si arriverà, con il giornalista Georges Valensin, a dichiarare che nella Cina di Mao “l’omosessualità non esiste più” (l’Espresso, 20 novembre 1977).
Il Pcf si distinse nell’attacco a “intellettuali degenerati” come André Gide, l’autore di “Si le grain ne meurt”, l’autobiografia dove confessa come in una psicoterapia le “brutte abitudini” di bambino onanista all’Ecole Alsacienne o le crudeltà di adulto libertino inflitte alla madre. “Ce vieux Voltaire de la pédérastie”, scrisse di lui Ernst Jünger, che così sintetizzò il suo nichilismo scettico redento dall’eleganza dello stile. Gide l’alfiere dell’individualismo antiborghese, il custode del classicismo che disse “Je ne suis pas tapette, Monsieur, je suis pédéraste”. Ma anche il militante dell’antifascismo infatuato per breve tempo del comunismo e che, sontuosamente accolto nel 1936 a Mosca, ritornò in occidente per scrivere “Retour de l’Urss” e “Retouches à mon retour de l’Urss”, i libri in cui riferì quello che aveva visto realmente nella Russia staliniana. Divenne così “Gide, il traditore”, “il bieco reazionario”, “il servo dei padroni”, “il nemico della classe operaia”: questo il campionario di epiteti pubblicati a caratteri cubitali contro l’omosessuale antesignano. “Quelle sue calunnie, assurde e ignobili, contro il paese guida del comunismo internazionale, sono la bava avvelenata di un degno figlio della piccola borghesia, di un alleato dei nostalgici nazisti e delle camicie nere”, scrivevano i giornalisti dell’Humanité, il quotidiano del Partito comunista francese. E i loro colleghi della Pravda, organo del Partito comunista sovietico, rivolgendosi ai lettori militanti: “Sapete perché il signor Gide ce l’ha tanto con noi e con i nostri compagni? S’è indignato, poverino, ha provato un disgusto indicibile, quando si è accorto che i comunisti di Mosca non sono pederasti”.
Quando a Stoccolma, nel 1947, diedero al settantottenne Gide il premio Nobel per la Letteratura, Jean Kanapa arriverà a dire che dieci anni prima lo scrittore aveva provato disgusto per i bolscevichi “accorgendosi che essi non erano pederasti”. Nel 1949 Dominique Desanti lo descrisse vecchio di ottantun anni “con già sul viso la maschera della morte”, circondato da giovani ammiratori che avevano trovato nei suoi libri la stessa liberazione che altri trovavano a Place Pigalle. Nel coro di mostrificazione di Gide non mancherà la voce di Palmiro Togliatti, il segretario del Pci che sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, dal giorno del suo ritorno in Italia, nell’ottobre 1943, a quello della sua morte a Jalta, nell’agosto 1964, svolse il suo magistero culturale sulle pagine di Rinascita. Nel maggio 1950, scriverà a proposito di Gide: “Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti fra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l’assenza di partiti di opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e il terrorismo, vien voglia di invitarlo a occuparsi di pederastia, dov’è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente”.
Il 20 febbraio 1951, all’indomani della scomparsa di Gide, l’Humanité pubblicherà un necrologio intitolato “Un cadavere è morto”. E’ lo stesso Kanapa che nel 1947 riassunse la posizione ufficiale del Partito comunista francese in un saggio intitolato “L’esistenzialismo non è un umanesimo”, in cui si arriva a sostenere che “il significato sociale dell’esistenzialismo è la necessità attuale per la classe sfruttatrice di addormentare i suoi avversari” e che Jean-Paul Sartre era un “pederasta che corrompe la gioventù”. In Italia si seguì un doppio binario. Gli omosessuali non venivano ammessi nel partito e quando venivano scoperti, come nel caso famoso di Pier Paolo Pasolini, venivano espulsi in base alla norma sulla “condotta esemplare” contenuta nello statuto comunista. C’è ad esempio il caso di Pietro Secchia, sul quale cominciarono a circolare voci soltanto dopo che, morto Stalin e fuggito il suo più stretto collaboratore, fu esautorato dal suo ruolo di capo dell’Ufficio quadri, quello che vigilava sulla vita, anche privata, di “compagni e dirigenti”. Sul piano pseudoscientifico pesarono a lungo le teorie biologiche di Andrei Lissenko, che sosteneva una specie di superiorità razziale del proletariato nel quale “fenomeni di devianza”, come l’omosessualità, potevano sussistere solo come il risultato della contaminazione di altre classi. Nel Partito comunista, di omosessualità non si parlerà a lungo. Nel convegno del 1964 dedicato a “Famiglia e società nell’analisi marxista” si accenna polemicamente, lo fa Umberto Cerroni, “alle false alternative teoriche del ribellismo sessuale”, mentre la ricognizione della “esperienza sovietica” di Luciana Castellina arriva a criticare “gli eterodossi, gli innovatori” come sostenitori “del ritorno a una tematica crepuscolare, in difesa del privato e dei suoi tenui sentimenti”. Ancora nel 1979 Antonio Roasio, uno dei fondatori del Partito comunista a Livorno, non trovava di meglio che criticare l’Unità per “l’eccessivo rilievo” dato all’omosessualità in un numero del quotidiano e che “comunque la si giudichi, l’omosessualità non può essere considerata un aspetto della libertà sociale”.
C’è poi la storia, quella vera, del “Che”, Ernesto Guevara. Una storia che in pochi raccontano oggi e che le stesse associazioni omosessuali militanti hanno sempre nascosto. Con il passaggio di poteri da Batista a Castro, nel 1959, Guevara venne nominato procuratore militare con il compito di reprimere “gli oppositori della rivoluzione”. Nei tribunali finiscono per espressa volontà del Che molti religiosi, tra cui l’arcivescovo dell’Avana, e moltissimi “maricones”, gli omosessuali. Il Che realizza campi di lavori forzati ed elabora i regolamenti dentro le galere del regime, che fissano le punizioni corporali per i più facinorosi, come i lavori agricoli eseguiti nudi. Alcuni reduci racconteranno di “maricones” uccisi personalmente, con colpi di pistola alla tempia, dal leggendario guerrigliero. Perché nella Cuba comunista tanto amata in occidente, il castrismo ha perseguitato gli omosessuali chiamandoli “pinguero” (marchetta) e “bugarrón” (uno che cerca sesso spasmodicamente). E se nella Cuba di Batista i gay stavano male e basta, fu tra il 1965 e il 1968, dopo la rivoluzione, che ci fu il trionfo delle Unidades militares de ayuda a la producción, veri e propri lager con guardie armate e filo spinato. Ci finivano dal “poeta finocchio” all’“attore effeminato”, tutti in divisa blu, sottoposti a marce durissime, cibo scarso, ma anche “cure” con gli elettrodi attaccati ai genitali. Il comandante Ernesto Guevara fu lì uno degli aguzzini.
Granma, l’organo ufficiale del Partito comunista cubano, nell’aprile 1971 scriveva per esempio che “il carattere socialmente patologico delle deviazioni omosessuali va decisamente respinto e prevenuto fin dall’inizio. E’ stata condotta un’analisi profonda delle misure di prevenzione e di educazione da rendere efficaci contro i focolai esistenti, inclusi il controllo e la scoperta di casi isolati e i vari gradi di infiltrazione. Non si deve più tollerare che gli omosessuali notori abbiano una qualche influenza nella formazione della nostra gioventù. Siano applicate severe sanzioni contro coloro che corrompono la moralità dei minori, depravati recidivi e irrimediabili elementi antisociali, ecc.”. L’omosessualità è trattata alla stregua di un virus patogeno. Nel 1979 gli atti omosessuali vennero decriminalizzati a Cuba, ma i gay continuarono a venire accusati di essere “oppositori del regime”, sbattuti in galera senza processo, mandati a morte in quell’isola magnifica che descrive Claudio Abbado. Il quotidiano Juventud rebelde pubblica una foto di un impiccato, un “gusano”, un verme, e sui pantaloni c’è scritto “homosexual”. Nel 1984 Néstor Almendroz e Orlando Jiménez Leal producono il documentario “Cattiva condotta”, dove raccontano la persecuzione del regime castrista contro i gay. Racconta lo scrittore Guillermo Cabrera Infante: “La persecuzione degli omosessuali dei due sessi fu una persecuzione di dissidenti. Gli omosessuali deviano dalle norme borghesi. I comunisti sostengono le coppie convenzionali, il matrimonio… L’omosessualità minaccia tutto ciò, perciò gli stati totalitari la temono”. Ancora l’articolo 303 del codice penale del 30 aprile 1988 punisce chi “manifesti pubblicamente” la propria omosessualità con pene che variano tra i tre mesi a un anno di prigione o una multa che va da cento a trecento cuotas per coloro che “infastidiscono in modo persistente gli altri con proposte amorose omosessuali”. In occidente, dove oggi vige l’omofilia militante e avanza la censura antiomofoba, l’omosessualità è stata sempre una questione di emarginazione. Nell’emisfero comunista, e nel pensiero della sinistra europea, l’omosessualità era destinata a scomparire. Assieme ai froci. Una “soluzione finale” contemplata in un articolo che Maksim Gorkij, la bandiera degli scrittori sovietici, l’amico di Lenin, il padre del realismo socialista, pubblicò il 23 maggio 1934 contemporaneamente sulla Pravda e sull’Izvestia, sotto il titolo “Umanesimo proletario”: “Nei paesi fascisti, l’omosessualità, rovina dei giovani, fiorisce impunemente; nel paese dove il proletariato ha audacemente conquistato il potere, l’omosessualità è stata dichiarata crimine sociale e severamente punita. Eliminate gli omosessuali e il fascismo scomparirà”.
SINISTRISMO E RADICAL-CHIC.
Radical chic. Locuzione: Che riflette il sinistrismo di maniera di certi ambienti culturali d'élite, che si atteggiano a sostenitori e promotori di riforme o cambiamenti politici e sociali più appariscenti e velleitari che sostanziali.
Ecco come smascherare i radical chic 2.0 (in 12 punti), scrive Francesco Maria Del Vigo il 26 agosto 2014 su "Il Giornale". Qualche giorno fa, sul Giornale, ho pubblicato una lista in nove punti sui tic dei radical chic on line. Questa è la versione integrale:
La foto del profilo non è (quasi) mai una loro foto. Sarebbe troppo nazionalpopolare. Mettono solo frammenti di film di qualche regista polacco mai distribuiti fuori dalla circonvallazione di Varsavia.
Quando scelgono una loro immagine deve essere schermata da almeno cinque o sei filtri, avere delle velleità artistiche e magari ritrarre solo una parte del viso. Espressione sempre preoccupata per i destini del mondo. Il sorriso è bandito come un retaggio del ventennio berlusconiano.
L’oroscopo è un vizio da portinaia. Ma se si tratta di quello di Internazionale no. Lo condividono su tutti i social come se fosse il Vangelo.
Le foto delle vacanze vanno bene solo se si è nel terzo mondo o in un campo profughi. Pose obbligatorie: sguardo corrucciato, camuffati da indigeni e nell’atto di solidarizzare con gli abitanti del luogo. Il colore (degli abitanti del luogo) deve essere intonato alla nuance dei sandali Birkenstock.
Su Twitter parlano tra di loro di cose che capiscono solo loro. Sublimazione del sogno radical chic: l’esposizione mediatica del salotto (ovviamente etnico) di casa propria.
Sì al selfie, ma solo se ha un significato sociale e politico. Possibilmente con un cartello in mano che sostiene la battaglia di qualche gruppo di contadini ugandesi. Ancora meglio se su iniziativa di Repubblica.it.
La Reflex. Più che uno strumento fotografico è un monile, una collana da appendere al collo. Condividono e scattano foto solo con voluminosissime – e costosissime – macchine fotografiche professionali. Preferiscono Flickr a Instagram, troppo plebeo.
Il meteo è il prolungamento della politica coi mezzi della natura. Se piove non è colpa del governo ladro, ma dello scioglimento dei ghiacci dovuto al capitalismo diabolico. Condividere (sui social) per educare.
Il cibo non esiste. Esiste solo il food. Da fotografare e condividere sui social solo a tre condizioni: che sia a km 0 (va bene anche se è stato coltivato nella rotatoria di Piazzale Loreto), etnico o equo e solidale.
La petizione on line è la nuova e comodissima forma di contestazione. Va bene per risolvere tutti i problemi: dal cambio degli stuoini nel condominio (meglio sostituirlo con un piccolo kilim) alla fame nel mondo. Basta un click. Tutto il nécessaire è su Charge.org.
Film, libri, giornali. Tutto in lingua straniera. Molto chic condividere video di serie tv in lingua originale non ancora trasmessi in Italia. Appena oltrepassano le Alpi diventano rigorosamente pacchiane.
Anche Youporn è troppo pop. Forse anche sessista, potrebbe addirittura essere di destra con quello sfondo nero… Meglio ripiegare su siti soft porn o intellettual-erotici. Ammesso anche spulciare tra le pagine osè di Tumblr.
Le 9 differenze tra tamarri e radical-chic, scrive il 4 novembre 2014 Enrico Matzeu. (Gli stilisti mi evitano, le pr non mi invitano ai party più glamour. Scrivo sull’Oltreuomo per vendicarmi di loro.) La giungla umana è fatta di tante specie diverse, di tanti tipi umani che vengono costantemente tenuti sotto osservazione da antropologi e ornitologi. Tra queste specie, due meritano di essere analizzate con cura certosina: i Tamarri e i Radical-chic. Due categorie che come i binari della transiberiana non si incontreranno probabilmente mai. Entrambe le categorie si schifano a vicenda ed entrambe vanno orgogliose delle loro variopinte peculiarità. Ho provato con cura e garbo a sottolineare le differenze tra gli zarri e gli snob, nei nove ambiti dove emerge al meglio la loro personalità. Le 9 differenza tra Tamarri e Radical-chic:
1. Abbigliamento. I Tamarri doc vogliono stare comodi e si infilano i pantaloni della tuta anche per il matrimonio del cugino di ottavo grado (ah no, lì indossano i pantaloni della festa in finto acrilico traslucido). Le donne non rinunciano ai leggings, mai, neanche quando i leggings rinuncerebbero volentieri a loro. Entrambi portano con ossessione i gilet imbottiti, come fossero costantemente a bordo della Costa Concordia. I radical-chic invece portano la giacchia in velluto a costine anche in spiaggia, con camicette alla coreana e le immancabili Clarks. Per le donne l’abito asimmetrico di qualche stilista giappo-svedese è d’obbligo nell’armadio.
2. Vacanze. I Tamarri amano il sole più di se stessi e se d’inverno passano il tempo libero stesi su un lettino abbronzante, d’estate preferiscono di gran lunga le sdraio di polipropilene di Rimini e Riccione. I più internazionali svernano invece a Ibiza o Mykonos, sfoggiando costumini con sospensorio annesso o bikini tigrati. I radical-chic temono il sole più dell’ebola e se una volta amavano Capalbio ora preferiscono di gran lunga il Museo d’Orsey di Parigi o al massimo qualche sperduta isola del Mediterraneo a mangiare crudité di pesce e piatti bio.
3. Borse. I Tamarri amano indubbiamente accessori griffati, evidentemente griffati. Le donne non rinunciano al bauletto Louis Vuitton (meglio se tarocco) e gli uomini al borsello di Gucci (meglio se rubato). Per i radical-chic le borse sono unisex. Sia uomini che donne infatti usano quasi esclusivamente borse in tela, meglio se di qualche festival filosofico-cinefilo-letterario, ai quali probabilmente non sono neanche mai stati.
4. Ristoranti. Per i Tamarri sushi is the new pizza. Si abbuffano come bambini del Biafra in un qualsiasi all you can eat del quartiere e più ordinano più si sentono dei giusti. I radical-chic hanno smesso di mangiare il sushi da almeno tre anni. Ora si dedicano alla cucina vietnamita, alle hamburgerie dove si ordina con l’IPad o da Eataly, dove un ordine costa come un IPad.
5. Tatuaggi. I Tamarri si tatuano con gusto tutto il corpo come fosse una tela impressionista (nel senso che fa impressione). Partono con un tribale sui bicipiti e finisce che si colorano anche la mano con il viso della nonna defunta. Le iniziali del proprio amato sono indispensabili e diventano un marchio a fuoco come per le vacche. I radical-chic invece si dividono tra quelli che vogliono il tattoo old school, con marinai e sirene (che neanche nei Pirati dei Caraibi), oppure puntano sui tatuaggi minimalisti, fatti di disegni stilizzati o schizzi di Mirò.
6. Occhiali da sole. Un Tamarro come si deve si distingue anche e soprattutto da un paio di occhiali da sole. Per la regola che più grosso ce l’hai (l’occhiale) più sei figo, al Tamarro tipo piace esagerare, con montature che invadono la faccia, peggio di Putin con l’Ucraina, e lenti specchiate che ti riflettono pure le adenoidi. Il radical-chic non rinuncia ai suoi Rayban, meglio se tartarugati, pieghevoli, vintage, in limited edition e con la cordicella al collo. Sia mai li perdano.
7. Musica. Da adolescenti la musica dance è per i Tamarri come l’insulina per i diabetici: questione di vita o di morte. Crescendo, si affezionano ai neo melodici italiani, possibilmente amici della De Filippi o con almeno un paio di date in America Latina. I radical-chic citano De André, Guccini e Battiato ogni tre per due, spesso confondendoli tra loro e odiano tutto ciò che è pop (talvolta addirittura i pop-corn). Frequentano club con musica dal vivo e non si perdono i concerti dei gruppi più indie del momento, anche di quelli che non conoscono.
8. Libri. Diciamocelo, i Tamarri leggono più volentieri le riviste scandalistiche (o scandalose) dei libri, però se proprio devono entrare in una libreria ne escono con la biografia di qualche calciatore, qualche libro di aspiranti motivatori e naturalmente il libro dell’Oltreuomo. I radical chic millantano sempre letture impegnate e impegnative e sui loro comodini ci sono pile e pile infinite di libri, tra i quali si leggono titoli di Kafka, Hesse e Tolstoj, ma in fondo, messo al contrario, un po’ nascosto c’è sempre una delle novità letterarie di Fabio Volo. I radical-chic in salotto hanno sempre l’ultimo libro fotografico di Oliviero Toscani. Ottimo soprammobile.
9. Sport. La palestra è per i Tamarri come la Mecca per i musulmani. Quando entrano però loro non si tolgono le scarpe perché devono sfoggiare le ultime sneakers giallo fluo con i lacci fucsia e le canotte ascellari. Bicipiti, tricipiti e addominali devono essere tonici e tirati più della pelle di un tamburo e sfoggiati sotto a camicie e t-shirt aderenti dal dubbio gusto. I radical-chic boicottano la palestra perché la ritengono anticostituzionale e preferiscono di gran lunga la corsa, possibilmente al Central Park di New York o il tennis, perché si possono indossare quei gonnellini tanto chic.
Radical chic. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Radical chic è un'espressione idiomatica mutuata dall'inglese per definire gli appartenenti alla borghesia che per vari motivi (seguire la moda, esibizionismo o per inconfessati interessi personali) ostentano idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale o comunque opposte al loro vero ceto di appartenenza. Per estensione, la definizione di radical chic comprende anche uno stile di vita e un modo di vestirsi e comportarsi. Un atteggiamento frequente è l'ostentato disprezzo del denaro, o il non volersene occupare in prima persona quasi fosse tabù, quando in realtà si sfoggia uno stile di vita che indica un'abbondante disponibilità finanziaria o improntato al procacciamento dello stesso con attività che, qualora osservate in altri, un radical chic non esiterebbe a definire in modo sprezzante, come volgarmente lucrative. Inoltre tale atteggiamento sovente si identifica con una certa convinzione di superiorità culturale, nonché con l'ostinata esibizione di tale cultura "alta", o la curata trasandatezza nel vestire e, talora, con la ricercatezza nell'ambito di scelte gastronomiche e turistiche; considerando, insomma, come segno distintivo l'imitazione superficiale di atteggiamenti che furono propri di certi artisti controcorrente e che, ridotti a mera apparenza, perdono qualsiasi sostanza denotando l'etichetta snobistica. La definizione radical chic fu coniata nel 1970 da Tom Wolfe, scrittore e giornalista statunitense. Il 14 gennaio di quell'anno, Felicia Bernstein, moglie del celebre compositore e direttore d'orchestra Leonard Bernstein, organizzò un ricevimento di vip e artisti per raccogliere fondi a favore del gruppo rivoluzionario marxista-leninista Pantere Nere (alcuni membri delle Pantere Nere furono invitati al ricevimento). Il party si tenne a casa dei Bernstein, un attico di tredici camere su Park Avenue (un ampio viale di Manhattan). Tom Wolfe scrisse un ampio resoconto sulla serata, descrivendo in modo molto critico gli invitati, rappresentanti dell'alta società newyorchese. Ne risultò un articolo di 29 pagine pubblicato sul New York Magazine dell'8 giugno 1970. In Italia, l'espressione fu ripresa da Indro Montanelli nel celebre articolo Lettera a Camilla, in forte polemica con la giornalista Camilla Cederna, quale ideale rappresentante dell'italico "magma radical-chic", superficiale e incosciente culla degli anni di piombo. In seguito, egli chiarì che la vera destinataria della lettera aperta era invece Giulia Maria Crespi, allora padrona del «Corriere della Sera» e amica della Cederna, con la quale i dissidi sarebbero sfociati, l'anno seguente, nell'allontanamento di Montanelli dal quotidiano di via Solferino, dove lavorava sin dal 1937. A parte l'adozione del neologismo, l'argomento era già stato affrontato da Montanelli in vari scritti, nei quali lamentava la frivola ideologia sfoggiata da certa borghesia ricca e pseudo-intellettuale lombarda, facendone anche un ritratto tragicomico nella pièce teatrale Viva la dinamite! (1960).
Cosa sono i radical chic? Scrive Luca Sofri il 29 agosto 2014 su "Il Post". In teoria non "sono": abbiamo trasformato noi un'espressione inventata da Tom Wolfe nel 1970 e che ormai è usata lontanissimo dal suo senso. Nella rituale e un po’ ammuffita terminologia del dibattito pubblico italiano prospera da decenni con minore o maggiore frequenza l’espressione “radical chic”, usata prevalentemente in modo offensivo e dispregiativo, per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune anacronistico attribuirebbe ai militanti di sinistra. Proprio perché il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni aggressive, la coerenza del suo uso non è di solito rilevante: è diventato un insulto come un altro. Ma la sua storia è interessante, così come quella della nebbia semantica in cui è poi finito ora che viene usato spesso a caso e per mille cose diverse tra loro. Il termine “Radical chic” è formato dalla parola inglese “radical” – che vuol dire “radicale” nel senso dell’intensità dell’attivismo e degli obiettivi politici – e da quella francese “chic”, “raffinato”. Nella definizione del dizionario Treccani è sia un aggettivo che un sostantivo, e indica: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». L’Oxford Dictionary precisa (in inglese “radical chic” è un concetto, non una persona): si tratta «dell’ostentazione», molto alla moda, di idee e visioni «radicali e di sinistra». Radicale, per moda. Wikipedia esplicita un terzo elemento: al concetto di “radical chic” è associata anche la ricchezza. Il “radical chic” appartiene «alla ricca borghesia» o proviene «dalla classe media» e «per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (come il comunismo) o comunque opposte al suo vero ceto di appartenenza». Spiegazione che si può sbrigativamente riassumere nella frase “fai il comunista con il maglione di cachemire” (sinistra in cachemire è una delle diverse varianti usate per concetti simili, come gauche-caviar o champagne socialist). La versione inglese di Wikipedia dice che il “radical chic” è un esponente della società, dell’alta società e della mondanità impegnato a dare di sé un’immagine basata su due pratiche: da una parte quella di definire sé stesso attraverso la fedeltà e l’impegno ad una causa, dall’altra a esibire questa fedeltà perché quella stessa causa è alla moda e qualcosa di cui si preoccupa (anche tra i ricchi). Per il termine “Champagne socialist” Wikipedia spiega una cosa uguale e simmetrica: non un ricco che si atteggia artificiosamente a persona di sinistra, ma uno di sinistra che è ricco e ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri. Nell’uso comune, in italiano, “radical chic” è usato per definire entrambi i casi. L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort. Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo. L’espressione fu ripresa sul Corriere della Sera il 21 marzo del 1972 da Indro Montanelli in un famoso articolo intitolato “Lettera a Camilla” e rivolto a Camilla Cederna, la giornalista italiana che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato innocente dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969. Montanelli descrisse Cederna così. «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza […]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga». Montanelli, con la sua sgradevole descrizione contribuì già allora in realtà a far scivolare il concetto originario di “radical chic” verso la confusione condivisa che sta oggi intorno a questa espressione. Che rapidamente fu fatta propria da chi a destra voleva accusare qualcuno di sinistra di scarsa coerenza e successivamente adottata nelle polemiche interne alla sinistra quando il mondo cominciò a cambiare e gli elettori di sinistra smisero di essere prevalentemente “proletariato” in senso stretto. Negli ultimi anni, con lo sviluppo di maggiori contraddizioni nella sinistra italiana di fronte a grossi cambiamenti, ma anche legata a tradizioni radicate, l’accusa è tornata a essere usata molto proprio a sinistra come contraltare di tutti i richiami alla “vicinanza al territorio”, “ai problemi della gente”, stimolata dai fallimenti delle dirigenze politiche della sinistra in questo periodo. E un generale antintellettualismo in grande crescita è stato un altro fattore che ha alleato nell’uso del termine sia leader della sinistra radicale che politici e stampa di destra, per attaccare da parti opposte gli esponenti della sinistra più riformista. Così oggi “radicalscìc” è diventato un insulto di uso comunissimo e destinato a persone dai redditi più vari e dalle posizioni più articolate. Con la contraddizione che oggi i principali destinatari dell’epiteto sono persone che hanno posizioni niente affatto radicali, anzi sono gli oppositori della sinistra radicale: l’uso più convincente del termine negli anni passati è stato quello destinato a Fausto Bertinotti, un uomo in effetti elegante e di modi garbati, coi pullover di cachemire e posizioni di estrema sinistra; mentre quando lo si dice per esempio a persone come Matteo Renzi, per niente radical e nemmeno straordinariamente chic, il senso è definitivamente stravolto.
Il corso per diventare un vero radical-chic. Sul web impazza una locandina che promette fantomatiche lezioni. L'obiettivo: incarnare perfettamente lo stereotipo nel minor tempo possibile, scrive il 6 Dicembre 2013 "Libero Quotidiano”. Il radical-chic. Una figura che accompagna gli "anni duemila". Rigorosamente di sinistra (ma critico con la sinistra stessa), snob ma finto alternativo, con la puzza sotto al naso, un po' terzomondista ma elitario, molto tollerante soltanto a parole, il radical-chic è odiato da tutti: da chi non lo è e da chi, invece, ne incarna lo stereotipo. Già, perché il radical-chic, essenzialmente, disprezza e denigra, ottenebrato da una sorta di nichilismo illuminante di cui lui, e solo lui, è dotato in abbondanza. Non è semplice essere un radical-chic. Ci vogliono anni di studio, le giuste frequentazioni, una certa inclinazione. Ma da oggi imparare è possibile. Almeno questo è quanto promette una locandina che circola sul web, e che nel tam-tam di Twitter e Facebook ha già avuto un certo successo. Si tratta del "Primo corso di Radical Chic". Sottotitolo: "L'unico corso con attestato riconosciuto a livello nazionali". La promessa: "Impara tutti i segreti per sc... le donne più insipide del sistema solare in sole 10 lezioni da dieci ore". L'omaggio: "I primi 10 iscritti riceveranno in omaggio la guida Diventa buddista in un'ora". I contenuti - Nel mirino, insomma, tutti gli stereotipi molto radical e altrettanto chic: quello appena citato buddismo, quello sulle donne (quelle radical-chic, sia chiaro) molto insipide e quello relativo all'ambizione (malcelata) dei radical-chic, ossia fare l'amore il più possibile (anche se le parole usata per indicare la "circostanza" è ben più volgare). La locandina entra poi nel merito del corso, in cui si imparerà "come curare al peggio barba e capelli", "come metterci ore a capire come vestirsi per sembrare uno che si butta addosso la prima cosa nell'armadio". S'apprenderà poi "l'importanza del velluto a costine e del cachemire", e verrò chiarito l'amletico dubbio: "Clarks o mocassini?". E ancora, verrete illuminati sull'"importanza dell'abbinamento aperitivo-bio e musica jazz", nonché su "tutti i vini buoni, i cantautori, teatri, viaggi da citare", e sempre in termini di viaggi due regioni non avranno più segreti grazie al corso di geografia "dettagliato di Toscana e Umbria". Altri temi utili per la formazione: "Pere e formaggio, parliamone" e "le migliori supercazzole da pronunciare per fare colpo al primo approccio". Quindi una lezione su "tutte le parole più impressionanti, quali: Flaubert, sushi, Moleskine e tante altre!". Infine un seminario su "come raggiungere in bicicletta le mostre di fotografia, presentazioni di libri e sale d'essai più scrause dell'intera Ue" e "come mettere in atto la rivoluzione del salotto di casa propria". Il tutto, conclude la locandina, con una "quota d'iscrizione promozionale a 5.000 euro per il primo ciclo di lezioni (Iva esclusa)".
Ebbene sì, siamo radical-chic, scrive Eugenio Scalfari il 10 aprile 2012 su “L’Espresso”. L'etichetta che la destra populista ci affibbia come un insulto, per noi è diventata un motivo d'onore. Perché si riferisce a una cultura laica, eterodossa e ironica. Che guarda a Voltaire, Keynes, Einstein e Roosevelt. Fino a qualche tempo fa per definire un tipo bizzarro e "con la puzza sotto il naso" rispetto alle mode e ai comportamenti altrui si usava la parola snob. Non c'era altro modo e altro termine. Sebbene l'origine di quella parole fosse "sine nobilitate" il significato semantico era cambiato, anzi si era capovolto. Lo snob una sua nobiltà l'aveva: disprezzava l'uomo medio, la cultura tradizionale, i luoghi comuni, l'oleografia del passato. Disprezzava anche i buoni sentimenti o comunque li metteva in gioco. Spesso gli artisti erano definiti snob quando rompevano le regole del consueto. Quello che fu marcato con questo termine con maggiore insistenza degli altri fu Oscar Wilde, un po' per il suo modo di pensare e di scrivere e molto per la sua dichiarata e ostentata omosessualità che gli costò la prigione e l'esilio. Ma anche Dalí, anche Ravel, i surrealisti e molte "avanguardie" furono giudicati esempi di snobismo e perfino Proust, "lo sciocchino del Ritz". Durante il fascismo e la sua cultura muscolare i giornali satirici descrivevano lo snob come un gentleman passatista con le ghette sulle scarpe e il monocolo all'occhio. Adesso però quella definizione è stata sostituita da un'altra: non si dice più snob ma invece radical-chic. Non è un sinonimo, c'è qualche cosa in più ed è una dimensione politica: il radical-chic è di sinistra. Di una certa sinistra. Per guadagnarsi quella definizione deve stupire e spiazzare anzitutto la vera sinistra che, per antica definizione, si identifica con l'ideologia marxista. Togliatti - tanto per dire - non è mai stato neppure lontanamente considerato un radical-chic né Berlinguer, né Amendola o Ingrao. Bertinotti? Lui sì, gli piacciono i salotti, gli piacciono i pullover di cashmere e va spesso in giro con Mario D'Urso che è uno "chic" riconosciuto. Ma i veri radical-chic sono gli amici e i consimili di Camilla Cederna. Dunque stiamo parlando di noi, che fondammo questo giornale 57 anni fa e ne facemmo quello che è ancora oggi, un giornale di ricerca costante della verità, di denuncia delle brutture e delle malformazioni del malgoverno, di difesa dell'etica pubblica e di impegno civile. Accoppiando però, nel linguaggio, nella grafica, nella scelta delle fotografie, una vena di ironia e di autoironia, una leggerezza di stile che nulla doveva avere del sermone da sacrestia. Vedi caso: il partito radicale nacque nelle stanze del "Mondo" e de "l'Espresso" nel 1956, visse sei anni e si sfasciò nel '62. Marco Pannella e i suoi amici, che ne facevano parte, decisero di continuare con lo stesso "logo" del cappello frigio, dandogli però un contenuto più libertario che liberale. I radical-chic sono una definizione coniata dalla destra populista e qualunquista che però ha trovato qualche corrispondenza anche nel marxismo ufficiale. Quando il gruppo de "Il Manifesto" fu espulso dal Pci, c'era contro di loro una vaga ma percepibile aura di puritanesimo luterano contro un'eterodossia che irrideva gli schemi ideologici e amava Lichtenstein, la musica di Schönberg e perfino - perfino - i salotti. Non erano affatto radical-chic quelli del "Manifesto" ma tali li considerò la segreteria del Pci che li buttò fuori. Quanto a cultura i radical-chic sono illuministi e voltairiani, tra i loro personaggi di culto campeggiano Einstein, Keynes e Roosevelt. La definizione di radical-chic all'inizio gli sembrò insultante ma adesso se ne sentono onorati vista la sponda da dove proviene.
Radical choc, scrive Annalena Benini il 15 Aprile 2011 su “Il Foglio”. Alberto Asor Rosa si è sbagliato: pensava di essere a una cena après-concert, in cui ci si ritrova nel proprio ambiente, sicuri di essere compresi nella teorizzazione mondana del colpo di stato. Purtroppo il professore stava sbadatamente scrivendo su un quotidiano, e in questi casi diventa “complicato far capire a chi è fuori dall’ambiente come simili bisogni apparentemente volgari siano assoluti” (lo scriveva Tom Wolfe nel 1970 in “Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”, a proposito della necessità dei rivoluzionari dell’East Side di avere un posto dove andare il fine settimana, in campagna o al mare, di preferenza tutto l’anno, ma necessariamente da metà maggio a metà settembre). L’urgenza di un golpe da salotto è pari, per intensità, almeno all’impresa della ricerca dei domestici (in “Radical Chic” dovevano essere bianchi, per non urtare i sentimenti delle Black Panther durante i party). Sono cose futili e grevi insieme, quindi allarmanti: bisogna pensare intensamente a Mario Missiroli, storico direttore del Corriere della Sera, quando diceva: “In Italia non si potrà mai fare la rivoluzione, perché ci conosciamo tutti”, per non prendere completamente sul serio le incitazioni al golpe contro Silvio Berlusconi di uno scrittore Einaudi. L’idea di avvalersi dei Carabinieri e della Polizia di stato (per congelare le Camere, sospendere tutte le immunità parlamentari e dare alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilire d’autorità nuove regole elettorali), è geniale, perché consente di salire sul cellulare della Polizia e andare alla guerra civile con lo chauffeur, ristabilendo così la più profonda vocazione democratica senza seccature di parcheggio o di tassametro. Ci sarà però il problema di come vestirsi: non si può esagerare con le mise da teatro, troppo frivole, che potrebbero per sbaglio richiamare certe serate berlusconiane, ma non si può nemmeno arrivare vestiti tipo “boccone del povero”, con una qualche orribile accoppiata dolcevita-jeans (data anche l’età veneranda dei golpisti), quindi il consueto abbigliamento accademico è da preferire: un tweed, per esempio, ma se i Carabinieri marciano sul Parlamento dopo mezzogiorno, il tweed è già inadatto. Bisognerà accordarsi per un’ora sobria, ma non da levatacce di operai con le borse sotto gli occhi e cattivi caffè preparati da mogli scarmigliate: le dieci e mezzo del mattino, ecco l’ora perfetta per un golpe, dà un senso di attivismo e di zelo, ma rilassato, un po’ come gli orari delle lezioni all’università. Sarà elettrizzante e romantico (purché a debita distanza dal popolo e dalle provocazioni sulla sovranità dei cittadini e del Parlamento), sarà finalmente una cosa fatta come si deve, senza mezze misure, con la gente giusta, gli sguardi severi, le barbe curate, i baffi bianchi, foto intense nei risvolti di copertina, certi deliziosi cocktail après-golpe. Resta però quel piccolo tarlo, che già impensieriva i radical chic di Tom Wolfe nelle donazioni alle Black Panther: la rivoluzione non è fiscalmente detraibile.
Libri. “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” de La Via Culturale, scrive il 29 aprile 2017 Jaap Stam su "Barbadillo. Il 24 aprile è uscito “Radical Chic. Conoscere e sconfiggere il pensiero unico globalista” (ed. La Vela, pp 176, euro 12), l’ultimo libro di Alessandro Catto, blogger su Il Giornale e fondatore del blog “La Via Culturale”. Di seguito pubblichiamo un estratto del libro, che elabora una forte critica verso il pensiero unico. “Populismo, demagogia, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: termini che ultimamente vengono utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre un argine al processo di globalizzazione. E’ il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, tribune politiche e istituzioni in maniera impropria e di impedire un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Sono i paradossi di chi, antifascista in assenza di fascismo, in un’astratta idra di internazionalismo del mercato giustifica e promuove le peggiori distorsioni ai processi democratici e ai diritti sociali dei popoli occidentali. In capitoli brevi, ironici e frizzanti si fa luce su un fenomeno, quello liberal, che sta subendo una profonda ridiscussione ma che ancora oggi non è pienamente conosciuto, nemmeno dai suoi contestatori. Il presente volume analizza la nascita, la crescita e lo sviluppo di una sinistra che spesso ha finito con l’adottarne lo stile e i contenuti, astraendosi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Radical Chic è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura, vengono sfatati in modo leggero e divertente tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria”.
Ecco “Radical Chic”, il libro contro il pensiero unico politicamente corretto, scrive Alessandro Catto il 3 maggio 2017 su “Il Giornale". Si chiama Radical Chic ed è il nuovo libro de La Via Culturale. Edito dalla casa editrice La Vela, è il libro ideale per capire il vero retroterra politico e culturale del pensiero unico politicamente corretto. Dall’istruzione all’economia, dalla storia all’attualità, dalla geopolitica alla cultura vengono sfatati tutti i miti pro-global ai quali siamo quotidianamente esposti e le loro pretestuose retoriche, sempre più incapaci di nascondere il distacco tra l’alto e il basso della nostra società, tra chi con il cosmopolitismo imperativo per tutti ci guadagna e chi, ogni giorno, perde diritti, spazi democratici e possibilità di emancipazione a casa propria. Populismo, fascismo, chiusura mentale, provincialismo: nel volume si parla anche dell’abuso di questi termini, utilizzati in maniera dozzinale contro chi cerca di porre dei paletti alla retorica della globalizzazione. Il paradosso di una democrazia accettata solamente quando corrisponde agli auspici di una classe autodefinita democratica e tollerante ma capace di occupare spazi informativi, culturali e politici in maniera impropria, impedendo un reale e aperto confronto sui rischi del presente. Nel perenne paravento dell’antifascismo in assenza di fascismo, la storia di una pseudosinistra che spesso ha finito con l’astrarsi pure dalla sua missione storica, quella della difesa delle fasce sociali più deboli e del lavoro. Un libro di 170 pagine suddiviso in brevi e frizzanti capitoletti, di facile lettura e privo di approcci accademici o troppo complessi, fruibile da tutti e capace di fare veramente luce su di un fenomeno, quello liberal e politically correct, così importante nel presente dell’Europa ma ancora poco conosciuto, soprattutto da chi tenta di costruire una alternativa.
Quei radical chic della sinistra da salotto schierati dalla parte dei tassisti del mare…, scrive Franco Busalacchi il 2 maggio 2017 su "I Nuovi Vespri". Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista, sarà perché mio zio ha fatto la resistenza in Lombardia con in tasca la tessera del PCI firmata da Palmiro Togliatti, ma io a questi nipotini di Bertinotti li manderei tutti, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sarà perché mio nonno fu assassinato da un fascista e mio zio (suo figlio) fece la Resistenza, muovendosi per tutta la Lombardia con in tasca una tessera del Partito comunista datata 1943, firmata da Palmiro Togliatti e rinnovata nei due anni successivi, rischiando di essere fucilato sul posto se l’avessero beccato; sarà per la conseguente aura che si è respirata sempre in casa mia, ma quando io sento uno di questi nostri comunisti con la barca e la erre moscia, mi incazzo come un animale. Tutti questi radical chic, nipotini di Bertinotti, il quale ancora, tra una rivoluzione in salotto e un’altra, percepisce una cospicua, aggiuntiva indennità come ex Presidente della Camera dei deputati, io li porterei una bella mattina, prima dell’alba, a raccogliere pomodoro nelle serre e nei campi in sostituzione di quei migranti il cui arrivo è per loro una benedizione. Sepolcri imbiancati che fanno del buonismo a buon mercato una bandiera con la quale coprono la loro ipocrisia. Tutti dalla parte dei tassisti del mare che speculano sulle disgrazie altrui. A questo si è ridotto il messaggio del Sol dell’avvenir: “Impossibilitati fare rivoluzione per mancanza tempo, auspichiamo e ribadiamo… Ci vediamo stasera da Giangi”. Ve li immaginate questi manichini azzimati capeggiare una sfilata (non una marcia, ovviamente) contro la Beretta, la Agusta, la Oto Melara, gruppi economici che vendono armi a quelli che sparano sulle popolazioni che sono costrette lasciare i loro Paesi? Per carità! Troppo complicato. “Primavera d’intorno brilla nell’atria e per li vampi esulta. E’ tempo di granite e di brioscine. Al bar si pontifica meglio davanti ad un Cuba libre ornato di un parasole in miniatura.
Se li sentisse Lèon Bloy!
Quel razzismo immaginario dei radical-chic. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che i buonisti replicano solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo, scrive Ennio Castiglioni il 28 Aprile 2017 su "Il Populista". Pascale Bruckner ci ha spiegato come esista un “razzismo immaginario”. Per soffocare la libertà, il dibattito si grida subito al razzismo e si trascinano le persone in tribunale come nei regimi totalitari. I Governi e le multinazionali ci vogliono così nascondere come sia in atto un piano per modificare profondamente l’occidente e far sparire gli italiani. Se vi sembra poco…Mentre dalla Libia, dove ci sarebbero tra 700mila e un milione di migranti, continua l’invasione con ben 37mila arrivi nei mesi più freddi dell’anno, il Governo con grande solerzia prepara l’accoglienza. È scritto a chiare lettere nel DEF (Documento di economia e finanza) 2016 l’intento di favorire, piuttosto che arrestare questo esodo mirato. Si cerca di reperire le risorse necessarie a sostenere un flusso migratorio di circa 310mila unità, con un profilo crescente per i prossimi 15 anni. L’escalation della cacciata degli italiani è talmente evidente che si può replicare solo con la solita accusa ad minchiam di razzismo. Se nel 1994 gli immigrati regolari erano 500mila, nel 2016 sono oltre 5 milioni e si vuole consentire l’ingresso ad altri 310mila all’anno per i prossimi 15 anni, nel 2031 ci saranno quasi 10 milioni di immigrati, il 17% della popolazione, mentre chi avesse la fortuna (o la sfiga) di campare fino al 2065 vivrà in un’Italia dove uno su tre sarà immigrato. Ormai le navi delle varie Ong non si limitano più al salvataggio in mare, ma si spingono nelle acque libiche dove regolarmente prelevano i migranti per trasportali sulle coste italiane. Il tutto con la complicità dei canali di informazione ufficiali e con un Governo che si guarda bene dal mobilitare la Marina Militare o la Guardia Costiera. Molti politici italiani, mentre si fingono commossi di fronte alle immagini di morte nel Canale di Sicilia continuano ad essere al servizio delle multinazionali, che versano enormi somme di denaro alle loro Fondazioni. Queste immense società dove il profitto e la speculazione finanziaria hanno ormai oscurato la figura dell’uomo e cancellato ogni questione morale, necessitano di un costante apporto di manodopera a basso costo, di giovani braccia da sfruttare. Se diamo un’occhiata oltre Oceano vediamo ben 97 società del settore tech, Apple, Google, Facebook, Microsoft, Netflix, Snap e così via, che hanno chiesto ai tribunali di bloccare l’esecuzione dei decreti presidenziali, voluti da Donald Trump, per regolare l’immigrazione. Avrebbero potuto avanzare al grido “Non toglieteci gli schiavi!” L’Italia, se non dovesse accadere qualcosa, ad esempio un Governo a guida Salvini, diventerà ben presto un Paese di braccianti africani, di religione islamica, da utilizzare per pochi euro all’ora. Chi dice questo viene accusato di essere uno sporco razzista? Beh, francamente, con la posta in gioco, chi se ne frega!
LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.
Fake news, il veleno che piegò Mia Martini, scrive Domenica 14 maggio 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Ventidue anni fa, di questi giorni, moriva la cantante Mia Martini. Una morte misteriosa, al culmine di una vita privata e di un percorso artistico segnati dalla maldicenza: dicevano portasse iella, non volevano mai pronunciare il suo nome. Proviamo a leggere questa vergognosa storia con gli occhi di adesso. Mia Martini è stata prima vittima di due fake news (dicevano portasse male per un tragico incidente in cui persero la vita due musicisti della sua band e per il crollo di un telone che copriva il palco su cui doveva esibirsi) e poi di bullismo. Un bullismo feroce, consapevole e adulto: quello di certi suoi colleghi, di certi impresari, di certi giornalisti. Mia è vissuta per anni nella post verità, nel regno delle bufale e delle cattiverie. E non c’erano nemmeno gli algoritmi dei social media a rilanciarle. Di fake news e bullismo si può morire, è bene saperlo. Ieri come oggi. Sono veleni iniettati per privare la vittima di ogni difesa. In ebraico c’è un’espressione forte per indicare la maldicenza, lashon hara (malalingua). È considerata una colpa gravissima, che Dio non tollera: «Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo» (Levitico 19:16). Nelle nostre società laiche e illuminate, il reato ha sostituito il peccato. Ma il rito tribale e persecutorio della maldicenza è sempre lo stesso, amplificato oggi dal «popolo del web».
Fake news, bufale e dintorni, scrive Paolo Campanelli il 17 maggio 2017. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. L’amore per le bufale è un curioso concetto. Certo, c’è chi spaccia notizie con titoli dubbi o incompleti per far andare persone sui propri siti e guadagnare soldi, c’è lo Schierato Politico Estremo che s’inventa storielle inverosimili per favorire la propria posizione, ma molte, troppe false notizie vengono semplicemente buttate nella rete e lasciate a loro stesse. Prima di andare oltre, c’è da fare una chiara differenza: la bufala è differente dal giornale di satira; dove la prima è disinformazione, i secondi fanno ironia con situazioni chiaramente grottesche e impossibili, il Vernacoliere è lo storico giornale cartaceo, mentre Lercio è uno dei più famosi siti internet al riguardo. Il problema sorge quando le fonti delle bufale si fingono giornali di satira. Ma una cosa è dire che il politico “presunto corrotto” di turno ha un indice di gradimento del 215% nelle carceri, cosa impossibile già matematicamente oltre che improbabile dal punto di vista della necessità di fare rilevazioni, o prendere qualche istantanea da una fiction o un cartone animato e aggiungerci sotto una didascalia che la faccia sembrare presa da un momento critico nei libri di storia e aggiunto il colore, un’altra è incolpare il gruppo di immigrati di turno di aver fatto danni ad un palazzo storico aggiungendo la foto di qualche resto archeologico cittadino o dei veri e propri ruderi tanto comuni nel territorio italiano. Quella delle bufale recentemente soprannominate Fake News (seguendo la denominazione americana diventata famosa per via del costante usa da parte del loro Presidente, è una situazione che si autoalimenta, una persona che crede a varie bufale diventa più suscettibile ad altre, creando un loop di cecità dalla quale il credulone non si riesce a liberare, al grido di “metti tutto in discussione”. Tralasciando però la seconda parte “e analizza i risultati metodicamente per non farti ingannare nuovamente”. Il caso più eclatante degli ultimi tempi è stata quello di “Luciana” Boldrini: sorella di Laura, presidente della Camera dei Deputati, accusata di aver speso, solo nell’ultimo anno, ingenti somme pubbliche nell’accoglienza di immigrati oltre a ciò già fatto dal governo. In realtà Lucia Boldrini, pittrice, è morta da più di trent’anni. E il punto di origine della bufala non lascia alcun dubbio, si trattava di un attacco a base di “fango politico” in piena regola. Ricostruendo il percorso di alcune delle bufale dalla diffusione più rapida infatti, si giunge ad una cerchia di persone che le creano “professionalmente”, fin troppo spesso collegati con medie e piccole industrie e con gruppi politici; dove l’obbiettivo dei secondi è chiaramente quello di ottenere il voto di persone facilmente influenzabili anche al di fuori dei sostenitori del proprio partito, per le aziende si tratta di manovre più subdole: incrementare la vendita di prodotti “alternativi” mettendo in circolo l’informazione di come i prodotti più diffusi creino problemi all’organismo o all’ambiente, talvolta persino con informazioni parzialmente corrette. La storia degli acidi a base di limone che circolava a inizio 2013 è emblematica, in quanto prendeva in considerazione che il succo di limone è effettivamente una sostanza acida utilizzata come sgrassatore e come anticoagulante in ambito medico (acido citrico), ma nelle percentuali di purezza e quantità in cui si trova negli alimenti è comunque inferiore all’acidità dei succhi gastrici. Gli effetti più estremi di una bufala possono essere sottovalutati, vedendo come molte possano essere risolte con una semplice e rapida ricerca su un qualsiasi browser internet, ma tre sono i giganteschi esempi di una bufala fuori controllo: l’omeopatia, i vaccini e l’olio di palma. Omeopatia e vaccini richiedono conoscenze chimiche di un livello al di sopra di quello del cittadino medio, e comunque prenderebbero troppo tempo, l’olio di palma, invece, pur se segue gli stessi schemi, è un “concetto” estremamente più comprensibile. Fino a un paio di anni fa, nessuno si interessava all’olio di palma, eccetto le industrie alimentari; l’olio di frutti e semi di palma è sempre stato utilizzato in Africa e medio oriente per una moltitudine di usi, fra cui la preparazione di cibo, anche sostituendo oli e altri tipi di grassi, come ad esempio il burro, sapone, ed infine, nel caso del Napalm e del biodiesel, come componente di armi e di carburanti rispettivamente; una delle peculiarità dell’olio di palma è che ha una grande percentuale di grassi saturi, e quindi può essere confezionato in un panetto simile al burro a temperatura ambiente, che ne semplifica la lavorazione quando si ha a che fare con gli enormi quantitativi industriali. Tuttavia, con l’aumento della richiesta nel XX secolo, la coltivazione della palma ha portato a un incremento delle colture a discapito di altre produzioni, e di deforestazione. A questo si aggiunge che il consumo smodato di quest’olio ha effetti deleteri sull’organismo, identici all’eccesso di burro e di grassi. A partire dalla metà del 2014, però, cominciò a girare la notizia che “l’olio di palma fa male”; In breve tempo, espandendosi a macchia…d’olio, la notizia lasciò tutta l’Europa terrorizzata. I reparti di marketing delle grandi aziende, però, presero la palla al balzo, e scrissero chiaramente sui loro prodotti che non contenevano olio di palma, anche su quelli che non lo avevano mai utilizzato. Eccetto la Ferrero, che forte della sua posizione, e della sua cremosità, affermò fermamente che la Nutella, e tutti i suoi fratelli dolciari, avrebbero continuato a usare l’olio di palma nelle loro ricette, poiché parte essenziale nella creazione del gusto e non come araldo dei mali dovuti all’eccesivo consumo di dolci (arrivando persino a fare test di laboratorio). Questo ha indubbiamente posto il potenziale bersaglio della “bufala” di fronte ad un inatteso dilemma tra l’ansia indotta dalla pressione mediatica ed il consolidato piacere della adoratissima crema di nocciole. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. La costituzione, infatti, delinea la libertà di informazione, che è legata a doppio filo con la libertà di opinione degli utenti, e con l’obbligo per chi fornisce le informazioni di, attendibilità, cioè di dimostrare che si tratta di fatti avvenuti. Due concetti che non possono e non devono sovrapporsi l’uno all’altro, ma che non hanno alcuna limitazione se semplicemente messi in rete e spacciati per “Fatto”. Dei passi contro la disinformazione e le bufale sono stati fatti sia dai governi di vari paesi, fra cui dei timidi passi anche in Italia, che dai privati, prevalentemente dai social network, ma a questo deve corrispondere un minimo di attività da parte dell’utente, il cosiddetto “Fact Checking” (o in italiano, controllo delle fonti), particolarmente da parte di chi si è “laureato all’università della vita” e da chi si è ritirato dagli studi, conscio di una minore abilità in ambito di studio e comprensione.
Rai, Alfano denuncia autori e conduttori Gazebo: "Mi diffamano da tre anni". Lo annuncia una nota di Alternativa Popolare: "Non si è trattato di un singolo atto ma di una intera campagna durata anni a spese del contribuente", scrive il 20 maggio 2017 "La Repubblica". Angelino Alfano denuncia autori e conduttori del programma Rai Gazebo (condotto da Diego 'Zoro' Bianchi su Rai3) per diffamazione, in sede civile e penale: lo annuncia una nota di Alternativa Popolare, il partito del ministro degli Esteri. "Ieri, con i soldi degli italiani, due milioni e mezzo di euro per il 2017!!!, si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico". La nota spiega che: "Ieri, con i soldi degli italiani - due milioni e mezzo di euro per il 2017 - si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico. Il presidente di Alternativa Popolare, Angelino Alfano, annuncia, dunque, di avere dato mandato ai propri legali per denunciare autori e conduttori di Gazebo in sede civile e in sede penale". È quanto si legge in una nota. "Alla denuncia, Alfano allegherà i riferimenti diffamatori a lui rivolti durante gli ultimi tre anni di puntate televisive di Gazebo, per dimostrare ciò che sarà facile dimostrare: non si è trattato di un singolo atto diffamatorio - che sarebbe stato comunque grave - ma di una intera campagna diffamatoria durata anni a spese del contribuente e con una pervicacia diffamatoria che rende plateale il dolo, l’intenzionalità, la tenace volontà di creare un danno alla persona e all’area politica che rappresenta. Il punto è reso ancor più grave dall’enorme sproporzione che vi è, all’interno del servizio pubblico, tra lo spazio dedicato alla diffamazione da questa trasmissione e lo spazio dedicato alla informazione, in altre trasmissioni Rai, sulla medesima area politica e sulla stessa persona che la rappresenta. Infine, è stata la stessa Rai 3, pochi giorni fa, a sottolineare che tale trasmissione è un mix tra informazione e satira, con questa frase contenuta nella nota che era stata diffusa e che riportiamo qui fedelmente: ’... programma caratterizzato dal mix di satira e informazione che ne definiscono l’identità...’. Quindi, se è già stato ampiamente superato il confine della satira traducendosi in diffamazione, a maggior ragione tutto ciò nulla ha avuto a che fare con l’informazione. Ultima considerazione amara: questa diffamazione non può che essersi svolta con la azione o la dolosa e persistente omissione di una intera catena di comando che, dalla rete sino ai vertici massimi, ha consentito questi abusi. Anche costoro, nei limiti del legalmente consentito, saranno, da Alfano, chiamati a rispondere sia nel giudizio civile che nel giudizio penale. Alfano fa presente, infine, di essere giunto a questa amara determinazione dopo tre anni di paziente sopportazione di questo scempio che ha fatto il servizio pubblico, nella speranza che vi fosse un operoso ravvedimento nella diffamazione". L'annuncio della denuncia arriva a pochi giorni dall'ultima polemica: Alternativa Popolare aveva negato l'accredito a Gazebo per partecipare alla conferenza stampa sulla legge elettorale convocata nella sede del partito di Alfano.
“Casa Renzi”, la soap opera infinita del Fatto Quotidiano, scrive Lanfranco Caminiti il 17 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Consip e la miseria del giornalismo: quando l’informazione diventa pettegolezzo e spettacolo di bassa lega. Quel che conta è la cornice narrativa e non più i fatti.
‘Ofiglie: Tu ha da riciri ‘ a verità, ggiura. Ggiura ca nun ricuordi.
‘ O pate: T’o ggiuro, nun m’arricuord nniente.
‘ O figlie: Ggiurale ‘ ncoppa a Maronna ‘ e Pumpei.
‘ O pate: ‘ O ggiuro, ncoppa a Marunnina nuost’. Nun m’arricuordo nniente.
‘ O figlie: E nun mmiettiri ‘ a mmiezzu ‘ a mamma. ‘ Nce fa’ passa’ nu guaie.
‘ O pate: No, t’o ggiuro, ‘ a mamma, no.
‘ O figlie: Statte bbuono. E accuorto.
Non è un dialogo spoilerato dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione della saga dei Savastano, insomma della fiction Gomorra. Piuttosto una verace traslazione, dal toscano del “giglio magico” al napoletano più proprio della notitia criminis (tutto ruota intorno il napoletano imprenditore Alfredo Romeo), dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione di intercettazioni intorno “casa Renzi” – secondo la sceneggiatura di Marco Lillo, casa di produzione Il Fatto Quotidiano. La quale casa di produzione pubblica (cioè spoilera, fregando il segreto delle procure) un fitto e drammatico dialogo tra figlio e padre Renzi riguardo l’incontro con uno degli imputati del caso Consip. Come se fosse, appunto, la conferma di quanto ha sempre sostenuto – un appalto “mafiosizzato”, in cui imprenditori, facilitatori, politici e commissari si tengono insieme da un patto scellerato di corruzione – e non, piuttosto, quanto è lampante, evidente. Che cioè, l’allora presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico non ne sapesse proprio una beneamata mazza, e che, pure, tutto quest’ambaradam è stato costruito “ad arte” per colpirlo. Come è possibile questo, cioè che l’una cosa venga spacciata per l’altra? È possibile per lo stesso meccanismo per il quale se un personaggio muore in una stagione di una fiction può capitare che risorga due stagioni dopo: quello che conta cioè è la “cornice narrativa”, per un verso, e la disponibilità dello spettatore, per l’altro. E anche la cosa più inverosimile, cioè che un morto resusciti, viene passata per buona. Vedete, è la stessa risposta di Marco Travaglio quando gli si fa notare che tutto è un po’ illegittimo. E lui che dice? Non è questo che conta, è la “sostanza” che conta. La “sostanza” è solo il racconto. La tensione drammatica del dialogo tra figlio e padre Renzi c’è tutta. Un figlio deve chiedere conto al padre di un certo comportamento. Di un episodio, di una cosa. È un uomo fatto, ormai, e l’altro è sulla strada del declino. È un destino, questo, che prima o poi tocca tutti. Ma non a tutti tocca prendere di petto il proprio padre, incalzarlo di domande, metterlo all’angolo perché sia limpido, almeno per una volta, per questa volta. Accenna a qualcosa d’altro – e toccando proprio un tasto che sa l’altro ha proprio a cuore, la fede – per fargli capire che non è proprio aria, che non sorvolerà come magari altre volte è accaduto. Sa che il padre indulge alla bugia, magari piccola piccola, di quelle che si dicono per il bene – è un insegnamento che i cattolici conoscono a perfezione. O forse solo all’omissione. Lo ha fatto con lui, chissà quante volte quand’era piccino, e adesso ancora, adesso che è l’uomo più potente d’Italia, lo ha fatto con un suo braccio destro, Luca Lotti. «E non farmi dire altro», questo dice Matteo Renzi a suo padre. L’altro sa di cosa stia parlando il figlio, capisce, tace. Non farmi dire altro: è una frase forte, potente. Terribile. Matteo Renzi è un maschio alfa, un capo branco. Ha fatto presto, forse anche troppo presto, a misurare la sua forza, i suoi denti, la sua zampata con i vecchi capi del suo branco – non erano di già sdentati. Li ha rottamati a cornate, a unghiate, a morsi. Per quello che era la storia del suo partito era poco più di un cucciolo – la gerontocrazia vigeva sovrana nei partiti comunisti d’occidente. Eppure, quel cucciolo – all’inizio guardato con sufficienza nella sicurezza di domarlo al primo impatto – ha mostrato che era impastato di smisurata ambizione e forza. S’era addestrato in casa, prima. Forse presto, troppo presto, aveva già preso a cornate il proprio padre. Il primo, probabilmente, a essere rottamato. Vedete, in letteratura, c’è il complesso di Edipo, l’amore del figlio verso la madre e l’ostilità verso il padre, e il complesso di Elettra, per spiegarlo dalla parte delle bambine, e il complesso di Giocasta, l’amore morboso di una madre per il figlio. Ma non c’è letteratura, e nominazione, per un complesso del padre verso il figlio. Quell’uomo è tornato adesso come un incubo. E anche gli altri – quelli che ha rottamato politicamente – sono tornati come un incubo. Tutto troppo presto: nei racconti tutto questo accade quando il personaggio è ormai in agonia, negli ultimi giorni di vita, in cui rivede a ritroso la propria storia e tutti quelli che ha “fatto fuori” per il potere, quel dannato potere, tornano come fantasmi malmostosi. Chi sta accelerando il corso degli eventi narrativi? Qual è la manina che scrive? Che di soap opera si tratti è ormai evidente. Gli ingredienti ci sono tutti. Il malloppo, anzitutto, ovvero: l’avidità. E poi, il militare infedele, le carte false, il giudice che non decide su fatti e reati ma se gli atteggiamenti di uomini e donne siano o meno integerrimi, le gazzette ciarliere, gli azzeccagarbugli, la famiglia, quella naturale e quella allargata della Massoneria, e soprattutto: isso, issa e ‘ o malamente. Dove isso e issa è abbastanza facile identificarli, in Renzi e in Maria Teresa Boschi. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, certo, a parte l’appartenere entrambi i personaggi principali, le dramatis personae, allo stesso “pacchetto di mischia”. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, tranne il fatto che siano due giornalisti – de Bortoli e Lillo – le “gole profonde”. Scrivono e trascrivono, orecchiano e intercettano, alludono e illudono. A un certo punto, combaciano pure. Nella tempistica, intendo. Escono allo scoperto.
Sono loro, i due scrivani, ‘ o malamente? Due persone, in carne, ossa e testata, per un solo personaggio? Qualcosa si va sfaldando nella storia. Il militare infedele – che avrebbe dovuto “sacrificarsi” – va in giro a raccontare come sono andate davvero le cose. A chi rispondeva. Gli era stato ordinato di fare così, non è farina del suo sacco. Quasi, dice, ho solo obbedito agli ordini. E addita il responsabile. È stato il magistrato che indagava a voler lasciare intendere che i servizi segreti si stessero interessando della cosa – non c’è proprio traccia di questa storia, ma un faldone che racconta di come probabilmente i servizi segreti si sarebbero potuti interessare di questa storia. E le trascrizioni un po’ abborracciate, in cui l’uno veniva scambiato con l’altro, e quello che aveva detto l’uno veniva messo in bocca all’altro, beh, sì, quelle forse sono state un mio errore – dice l’infedele – però, dovete capirmi, ero sotto stress, quello – il giudice – voleva dei risultati e io non avevo in mano niente. Lo chiamava di notte, mentre compulsava ancora le sudate carte, il giudice Woodcock al capitano Scarfato per chiedergli conto di cosa fosse riuscito a concludere quel giorno? O lo chiamava all’alba, mentre iniziava a compulsare le sudate carte, per incitarlo a concludere finalmente qualcosa quel giorno? Che qua, di risultati, se ne vedevano pochini. Ah, che stress per il povero capitano. A un certo punto deve aver capito che sarà solo lui a pagare, a finire a dirigere il traffico a Forlimpopoli, e non ci sta. Tutto l’impianto narrativo rischia di impazzire come la maionese. E qua ‘ o malamente iesce ‘ a fora.
Banca Etruria, Renzi contro De Bortoli: "È ossessionato da me". Renzi in campo per blindare la Boschi: "Che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". E attacca De Bortoli: "Ha un'ossessione per me", scrive Sergio Rame, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". "Ferruccio de Bortoli ha fatto il direttore dei principali quotidiani italiani per quasi vent'anni e ora spiega che i poteri forti in Italia risiedono a Laterina? Chi ci crede è bravo". In una intervista a tutto campo al Foglio, Matteo Renzi va all'attacco dopo le indiscrezioni sul salvataggio di Banca Etruria pubblicate dall'ex direttore del Corriere della Sera sul nuovo libro Poteri forti (o quasi). "De Bortoli ha una ossessione personale per me che stupisce anche i suoi amici". "Quando vado a Milano, mi chiedono: ma che gli hai fatto a Ferruccio? Boh. Non lo so". Nell'intervista al Foglio l'ex premier non fa sconti a De Bortoli: "Forse perché non mi conosce. Forse perché dà a me la colpa perché non ha avuto i voti per entrare nel Cda della Rai e lo capisco: essere bocciato da una commissione parlamentare non è piacevole. Ma può succedere, non mi pare la fine del mondo". Per Renzi "che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". "Praticamente tutte le banche d'Italia hanno visto il dossier Etruria in quella fase. Come pure il dossier Ferrara, il dossier Chieti, il dossier Banca Marche. Lo hanno visto tutti e nessuno ha fatto niente", continua Renzi. Che, poi, aggiunge: "Ferruccio de Bortoli ha detto falsità su Marco Carrai. Ha detto falsità sulla vicenda dell'albergo in cui ero con la mia famiglia. Ha detto falsità sui miei rapporti con la massoneria. Non so chi sia la sua fonte e non mi interessa. So che è ossessionato da me. Ma io non lo sono da lui. È stato un giornalista di lungo corso, gli faccio i miei auguri per il futuro e spero che il suo libro venda tanto". Renzi è convinto che, quanto prima, "si chiariranno le responsabilità a vari livelli". "E - avverte - se c'è un motivo per cui sono contento che la legislatura vada avanti fino ad aprile 2018 è che avremo molto tempo per studiare i comportamenti di tutte le istituzioni competenti. Cioè, competenti per modo di dire. Non vedo l'ora che la commissione d'Inchiesta inizi a lavorare. Come spiega sempre il professor Fortis, vostro collaboratore, Banca Etruria rappresenta meno del 2 per cento delle perdite delle banche nel periodo 2011-2016. Boschi senior è stato vicepresidente non esecutivo per otto mesi e poi noi lo abbiamo commissariato: mi pare che non sia stato neanche rinviato a giudizio. Se vogliamo parlare delle banche, parliamone. Ma sul serio".
Sulla propria pagina Facebook, De Bortoli replica ricordando all'ex premier che "avendo detto due volte no alla proposta di fare il presidente, non era tra le mie ambizioni essere eletto nel cda della Rai". E incalza: "Visto quello che sta accadendo, ringrazio di cuore per non avermi votato. Non avrei potuto comunque accettare avendo firmato un patto di non concorrenza". Poi continua: "Io non ho mai scritto che è un massone, mi sono solo limitato a porre l'interrogativo sul ruolo della massoneria in alcune vicende politiche e bancarie. Ruolo emerso, per esempio, nel caso di Banca Etruria. Ho commesso degli errori, certo". Nel libro ne ammette diversi in oltre quarant'anni. Come quello, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sul caso JpMorgan-Mps, della data di un sms solidale inviato da Marco Carrai a Fabrizio Viola, "licenziato" poi dal governo. "Non so quali falsità siano state scritte sul soggiorno a Forte dei Marmi nell'estate del 2014 - continua - mi aspetterei invece da Renzi che chieda scusa al collega del Corriere che, in quella occasione, stava facendo il suo lavoro e alloggiava nell'hotel. L'inviato venne minacciato dalla scorta che gli intimò di andarsene. E gli faccio i miei migliori auguri per il suo libro che uscirà a breve".
Giornalismo del controregime, scrive Piero Sansonetti il 13 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Le fake news sono diffuse dai social network o comunque dalla rete? No. Le fake news sono diffuse principalmente dai giornali e dalle televisioni. I social vengono a rimorchio, le rilanciano. Ma non sono loro a costruirle. Almeno, non sono loro a costruire le fake importanti. La responsabilità della creazione delle bugie e del loro uso come arma politica e di disinformazione ricade soprattutto sui grandi quotidiani e sui grandi giornalisti. Giornalismo di contro- regime Cioè, giornalismo di regime. Proviamo un inventario di avvenimenti recenti. Caso Guidi, con annesse dimissioni della ministra. Caso Consip, con annessa richiesta di dimissioni del ministro Luca Lotti. Caso Ong, con annessa richiesta di limitazione dell’azione dei soccorsi ai migranti sul Mediterraneo. Caso De Bortoli, con annessa – ed ennesima – richiesta di dimissioni della ministra Maria Elena Boschi. Su questi quattro casi i giornali italiani e i principali talk show televisivi hanno vissuto per mesi e mesi. Con titoli grandi in prima pagina e – alcuni – con vere e proprie campagne di stampa, molto moraleggianti e molto benpensanti. Certo, soprattutto del “Fatto Quotidiano” – che quando offre ai suoi lettori una notizia vera succede come successe a Nils Liedholm quando per la prima volta in vita sua sbagliò un passaggio: lo Stadio di San Siro lo salutò con una ovazione… – ma anche di parecchi altri giornali che godono di alta fama. Ora vediamo un po’ come sono finiti questi quattro casi.
Guidi: mai incriminata. L’inchiesta giudiziaria che la sfiorò, Tempa Rossa, conclusa con il proscioglimento di tutti. Era una Fake. Federica Guidi è scomparsa dai radar della politica.
Consip, l’inchiesta è stata trasferita a Roma, le accuse al padre di Renzi erano fondate su una intercettazione manipolata da un carabiniere, anche le notizie sull’ingerenza dei servizi segreti (evidentemente mandati da Renzi per ostacolare le indagini) erano inventate da un carabiniere e l’informativa al Pm che riguardava queste ingerenze era stata scritta su suggerimento dello stesso Pm che avrebbe dovuto esserne informato. Fake e doppia fake.
Ong, l’ipotesi del Procuratore di Catania che fossero finanziate dagli scafisti è stata esclusa dalla Procura di Trapani da quella di Palermo e da svariati altri magistrati. Fake. Intanto l’azione di soccorso ha rallentato.
De Bortoli. Sono passati ormai quattro giorni da quando, per lanciare il suo libro sui poteri forti, l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore ha diffuso la notizia della richiesta di Maria Elena Boschi all’amministratore delegato di Unicredit di comprare la banca nella quale lavorava il padre. Boschi ha smentito nettamente. Anche la banca ha dichiarato che non risulta niente. De Bortoli ha fatto mezza marcia indietro, poi ha accusato Boschi e Renzi, o almeno i loro ambienti, di essere massoni, ed è andato in Tv, senza portare neppure uno straccio di prova delle sue accuse ed evitando il confronto diretto con gli avvocati della Boschi. Tranne improvvisi colpi di scena, appare evidente un po’ a tutti che l’accusa di De Bortoli è infondata, altrimenti, ormai, avrebbe fornito degli elementi a sostegno della sua tesi. Anche qui possiamo dire: fake.
La questione invece del complotto massonico a favore di Renzi, denunciato da de Bortoli, non è definibile esattamente una fake, è solo qualcosa di già visto tante volte nella politica italiana. In frangenti non bellissimi. Il più famoso complotto massonico – per la precisione giudaico-massonico, anzi: demo-pluto-giudaicomassonico – fu denunciato da Mussolini, nel 1935, per favorire la persecuzione dei massoni e poi lo sterminio degli ebrei. Non ci fa una gran figura De Bortoli a tornare sul quel concetto, peraltro senza avere proprio nessun indizio sulla appartenenza di Boschi o di Renzi alla massoneria. E in ogni caso andrà segnalato il fatto che la massoneria non è una associazione a delinquere. Furono massoni, in passato, un gran numero di Presidenti americani, tra i quali Washington e Lincoln, furono massoni poeti come Quasimodo e Carducci, furono massoni Cesare Beccaria, Mozart, Brahms, e svariate altre centinaia di geni, tra i quali moltissimi giornalisti di alto livello, parecchi dei quali del Corriere della Serra. Possibile che un giornalista colto e autorevole come De Bortoli scambi la massoneria per Avanguardia Nazionale? Eppure De Bortoli ha trovato grande sostegno nella stampa italiana. In diversi giornali e in diverse trasmissioni Tv la sua “ipotesi di accusa” alla Boschi è stata ed ancora in queste ore è presentata come dato di fatto: «Lei che ha svelato la richiesta della ministra…». Una volta esisteva la stampa di regime. Ossequiosa verso i politici, soprattutto, e in genere verso l’autorità costituita. Ora esiste la stampa di anti- regime. O di contro- regime, che però funziona esattamente come la stampa di regime. Anche perché ha dietro di se poteri molto forti. Non solo un pezzo importante di magistratura ma uno schieramento vasto di editori, cioè di imprenditoria, diciamo pure un pezzo robustissimo della borghesia italiana. De Bortoli oggi è sostenuto da quasi tutti i mezzi di informazione, e si può pensare tutto il bene possibile di lui, tranne una cosa: che sia un nemico dei poteri forti. De Bortoli, per definizione, è i poteri forti. Lo è sempre stato, non lo ha mai negato, nessuno mai ne ha dubitato.
La stampa di contro-regime funziona esattamente così. Non è una stampa di denuncia ma una stampa che costruisce notizie e le difende contro ogni evidenza e logica anche queste crollano. Nei regimi totalitari questa si chiamava “disinformazia” ed aveva un compito decisivo nel mantenimento al potere delle classi dirigenti. Ora si chiama fake press e ha un ruolo decisivo nella lotta senza quartiere che è aperta nell’establishment italiano per la conquista del potere, di fronte alla possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza nel ceto politico. L’avanzata dei 5 Stelle ha provocato un terremoto. Pezzi molto grandi, autorevoli e potenti proprio dei poteri forti si predispongono a dialogare coi 5 Stelle, prevedendone, o temendone, l’ascesa al governo. Questo movimento tellurico squassa la democrazia e devasta i meccanismi dell’informazione. Esistono le possibilità di resistere, di fermare il terremoto, di reintrodurre il principio di realtà – se non addirittura di verità – nella macchina dei mass media che lo ha perso? Non è una impresa facile. Molto dipende dai giornalisti. Che però, nella loro grande maggioranza, oggi come oggi non sembrano dei cuor di leone…
Ferruccio, per favore, se hai le prove mostrale, scrive Piero Sansonetti il 12 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Boschi-Banca Etruria si sta sgonfiando. Finirà nel dimenticatoio come il caso-Guidi, il caso-Lupi, il caso Madia? Il caso-Boschi si ridimensiona. Molti giornali di destra hanno mollato la presa dopo la parziale marcia indietro di Ferruccio De Bortoli, che ha spiegato di non aver mai sostenuto che la Boschi fece pressioni indebite su Unicredit per salvare Banca Etruria. Eppure nel suo libro c’è scritto che «Boschi chiese a Ghizzoni (amministratore delegato di Unicredit) di valutare l’acquisto di Banca Etruria». Resta in campo, al momento, solo Il Fatto Quotidiano che ieri si è lanciato in soccorso di De Bortoli sostenendo di avere le prove della colpevolezza della Boschi. Lo ha scritto enorme, in prima pagina, con l’inchiostro rosso: «Boschi mente: ecco le prove». E ha pubblicato un servizio d Giorgio Meletti nel quale si parla di una riunione a casa del papà della Boschi, dirigente di Banca Etruria, con gli amministratori della stessa Banca Etruria e di alcune banche del Nord. A questa riunione – dice Meletti – che si tenne nel marzo del 2014, partecipò anche la Boschi. Il servizio di Meletti è fatto molto bene e sembra assai informato, anche se naturalmente occorreranno dei riscontri. E tuttavia resta una domanda: ma Meletti non accenna nemmeno all’ipotesi che a questa riunione, o ad altre riunioni, partecipò Ghizzoni. E allora perché mai questo fatto dovrebbe provare che De Bortoli ha ragione? Ieri de Bortoli ha partecipato alla trasmissione televisiva “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber. Ha detto che la vicenda di Banca Etruria è tutta una vicenda di massoneria. Un paio d’anni fa aveva detto la stessa cosa del governo Renzi. Né allora né adesso, però, ha citato elementi di prova, o almeno di indizio. Più che altro è sembrata una sua sensazione. Se anche le accuse alla Boschi di aver tentato di spingere Ghizzoni a comprare la Banca dove lavorava il papà dovessero basarsi solo su una sua impressione, non sarebbe una buona cosa. Questa vicenda può concludersi in tre modi. O De Bortoli si decide a portare le prove della sua affermazione, e allora il governo Gentiloni va a gambe all’aria. O De Bortoli queste prove non le ha, e davvero ha scritto il libro solo basandosi su voci raccolte in ambienti vicini a Unicredit, e allora ci troveremmo di fronte a un capitolo nerissimo per il giornalismo italiano. Oppure può succedere che i due contendenti capiscono che è meglio non esagerare nel duello, anche perché l’uno e l’altra hanno dietro le spalle forze abbastanza potenti e capaci di far male, e in questo caso anche “Il Fatto” abbasserà i toni e tutta la storia passerà in cavalleria. Come è successo col caso-Guidi, col caso-Lupi, col caso Madia. E’ sicuramente la terza l’ipotesi più probabile. E non è una bella cosa, né per il giornalismo né per la politica.
Quelle cene con Ligresti per tornare in via Solferino. La vacanza dell'ex direttore nel resort in Sardegna, scrive Domenica 14/05/2017, "Il Giornale". Le cronache raccontano di aragoste a quintali per gli ospiti illustri di Salvatore Ligresti al Tanka Village di Villasimius, in Sardegna. Vecchie storie, un'altra epoca, uno splendore e una leggerezza che ormai non ci sono più. Alla corte dell'ingegnere, quando i tempi del crack Fonsai erano ancora molto lontani, accorrevano in tanti, per lo più personalità del mondo politico e istituzionale, ministri, generali, prefetti, sottosegretari, direttori. Andare al Tanka era un po' lavorare, perché lì si tessevano le relazioni pubbliche che contavano e che portavano spesso alle poltrone importanti. Relazioni rigorosamente trasversali, bipartisan si direbbe oggi. Il Tanka, insomma, veniva considerato un po' una prosecuzione dell'ufficio. Anche se molti scroccavano pure la vacanza, visto che pochi alla fine pagavano il conto. Qualcuno, quando poi se n'è parlato sui giornali, ha persino negato di esserci stato. Non si sa mai. Tra i tanti che negli anni sono passati per il bellissimo villaggio sardo un tempo regno della famiglia Ligresti c'era anche l'ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Correva l'estate del 2008. All'epoca non guidava più il quotidiano di via Solferino, che aveva già diretto per sei anni, dal 1997 al 2003, ma era già in trattativa per tornarci e si muoveva in quella direzione. C'è chi lo ricorda, infatti, ospite di Ligresti, proprio lì, nel resort di Villasimius, dove l'ingegnere amava organizzare cene speciali per i suoi ospiti di riguardo. Quell'estate il giornalista trascorse qualche giorno al Tanka e tutte le sere sedeva al tavolo di Ligresti, in quel periodo ancora saldamente al vertice di Fonsai, azionista di peso del patto di sindacato dell'editore del Corriere della Sera. Per poter tornare al timone di via Solferino, insomma, era quello il posto giusto dove mangiare aragoste in compagnia e dove valeva la pena trascorrere qualche giorno di vacanza. Di lì a qualche mese, infatti, de Bortoli tornò al comando del giornale milanese, dove è poi rimasto fino al 2015. E pensare che in quei giorni d'estate furono in molti a stupirsi di vederlo al Tanka, tra i clientes di Ligresti. C'è anche chi lo ricorda bersaglio di amichevoli sfottò sull'argomento da parte di chi sedeva con lui al tavolo dell'ingegnere e che sapeva bene perché fosse lì. Pare che lui non gradisse le prese in giro sull'evidente motivo della sua presenza in quel luogo. Era tanti anni fa. Un'altra epoca, appunto.
Il libro di de Bortoli e la memoria corta sul "Corriere" indipendente, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". Ho letto Poteri forti (o quasi), il libro di Ferruccio de Bortoli già direttore del Corriere della Sera e del Sole24Ore - edito da «La nave di Teseo», di cui si parla in questi giorni per il clamore suscitato dal capitolo che svela l'interessamento della ministra Boschi presso Unicredit per agevolare il salvataggio della banca di papà, la Etruria. «Memorie di oltre quarant'anni di giornalismo», recita il sottotitolo di copertina. E questo basta per mettere l'autore al riparo da critiche su eventuali errori ed omissioni nel racconto che corre fluido come si addice alla penna di un grande giornalista e direttore. Perché di «memoria» ognuno ha la sua e ha il diritto di centellinarla a suo piacimento, che sia per amnesia o per calcolo. Non so perché Ferruccio de Bortoli abbia deciso di raccontarsi a soli 64 anni. Di solito l'autobiografia salvo casi di conclamato narcisismo o ragioni economiche arriva a chiudere una carriera, non a rilanciarla. Svelare retroscena, dare giudizi su uomini viventi e potenti si presta a ritorsioni pericolose. Conoscendo la cautela dell'uomo, grande e cauto navigatore, mi vien quindi da pensare che de Bortoli consideri conclusa la sua brillante carriera, almeno nel giornalismo attivo e di vertice. Fatti suoi, ovviamente. Ma torniamo al libro. De Bortoli vuole farci credere di essere stato per dodici anni (in due tranche, 1997-2003, 2009-2015) a capo di un giornale tempio della libertà e sentinella di democrazia, arbitro imparziale delle partite alcune violente e drammatiche - che si giocavano nel Paese. È la vecchia tesi, retorica e falsa, della sacralità del Corriere della Sera, giornale in cui ho lavorato per diversi anni e che quindi ho ben conosciuto dall'interno. Il Corriere è stato il primo, e per lungo tempo unico, grande e ricco giornale nazionale e per questo ha allevato e ospitato le migliori firme del giornalismo e della cultura per oltre un secolo. Fin dalla nascita, il vestito è stato a libera scelta da qui la sua apparente indipendenza - del direttore e dei giornalisti, ma il cappello è sempre stato attaccato dove padrone voleva: monarchico durante la monarchia, fascista sotto il fascismo, antifascista alla caduta del regime, piduista all'epoca della P2, filo-Fiat sotto il regime di Agnelli, benevolo, negli anni più recenti governati da Bazoli, con il sistema finanziario e bancario vincente. Quest'ultimo è un club di miliardari i cui membri, come tutti i padroni, sono conservatori, ma hanno la necessità di apparire progressisti per non avere rogne nel loro espandersi nell'ombra (in Francia la chiamano «sinistra al caviale»). Tutto ciò non significa che de Bortoli non sia stato un direttore libero. Lui, nato in altro mondo (la sua era una solida e umile famiglia), sognava e studiava fin da giovane racconta chi l'ha frequentato in quegli anni di entrare in quell'ambiente dorato ed esclusivo. Sulla plancia del giornale degli Agnelli prima e dei banchieri poi è stato quindi perfettamente a suo agio. Più che di indipendenza parlerei quindi di coerenza.
Non è poca cosa, la coerenza, cioè la fedeltà alle proprie idee. Ma perché non dirlo? Perché evitare, in una biografia di oltre duecento pagine, di scrivere due righe sul suo essere stato un giovane e convinto comunista, sia pur di quelli che, essendo intelligenti, avevano capito che più che le piazze era meglio frequentare i salotti, che le parole potevano essere più utili e potenti delle spranghe alle quali, infatti, l'uomo, a differenza di tanti compagni, non si è mai neppure avvicinato. Nel libro la fede politica di de Bortoli la si deduce solo dal fatto che le offerte di lavoro che narra di aver ricevuto (presidente Rai, sindaco di Milano, direttore del Corriere) gli arrivavano sempre da politici o banchieri di sinistra (una, in verità, da Letizia Moratti, ma era appunto per dirigere il Tg3). Essere di sinistra è infatti la non misteriosa precondizione per dirigere il Corriere della Sera, altrimenti non si spiega come a giornalisti altrettanto bravi (penso a Montanelli prima di lui e a Vittorio Feltri suo quasi coetaneo) sia stata negata tale possibilità. Anche l'attuale direttore, Luciano Fontana, non a caso professionalmente e culturalmente nasce e cresce all'Unità. De Bortoli (con Paolo Mieli, con il quale si è avvicendato più volte al comando) è stato la faccia presentabile dell'antiberlusconismo militante, la lunga mano della sinistra politica e affaristica (che nel libro, giustamente, si vanta di aver frequentato con reciproca stima e soddisfazione) per manipolare l'opinione pubblica in punta di regole («la notizia è notizia», ama ripetere il direttore, quasi a scusarsi). Noi tutti sappiamo che cosa de Bortoli che oggi ci rinfresca la memoria anche con aneddoti curiosi - è stato libero di scrivere e far scrivere, non cosa non ha pubblicato (potere questo più importante del primo). E, forse, non lo sa neppure lui, perché in un giornale l'acqua inevitabilmente scorre dove il direttore (e il padrone) traccia il solco. Escludo in modo categorico che de Bortoli sia mai stato servo di qualcuno, ma socio ho il sospetto di sì. Forse pure dei magistrati che davano la caccia a Silvio Berlusconi. Nel libro c'è un lungo paragrafo di elogi a Ilda Boccassini («ne ammiro il coraggio, per fortuna il Paese ha toghe come lei, coraggiosa e preparata»). Dice di averla incontrata tante volte, la chiama per nome, «Ilda», incurante di poter così suscitare anche solo un sospetto sull'origine di tanta abbondanza di informazione che il Corriere ha sfornato durante il caso Ruby («una inchiesta per la quale è stata ingiustamente attaccata», scrive senza aggiungere che l'imputato, Berlusconi, è stato assolto per non aver commesso il fatto e che, quindi, non fu una grande inchiesta). Di Berlusconi scrive con distacco: «Il Cavaliere non si arrese mai all'idea che un giornale liberale non stesse per definizione dalla sua parte». Per la verità il Corriere della Sera è stato «per definizione» contro Berlusconi, il cui dubbio è lo stesso che negli ultimi cinquant'anni hanno avuto in tanti: come ha fatto un giornale che si dice liberale a farsi soggiogare dal Pci, dal sindacato interno (un vero Soviet con diritto di censura), fino a strizzare l'occhio alla non pacifica rivoluzione sessantottina? Cosa c'era, nel 1994, di liberale nello sperare che Occhetto prendesse il potere a scapito di un partito davvero liberale come Forza Italia (io c'ero, dietro le quinte, e l'apparente equidistanza era tifo vero)? Cosa c'è stato di liberale nel fare un endorsement, alla vigilia del voto del 2006, a firma del direttore (Paolo Mieli, prima volta nella storia di quel giornale) a favore di un governo Prodi-Bertinotti? Cosa c'è stato di liberale nell'avere un pregiudizio profondo nei confronti non solo di un liberale come Silvio Berlusconi, ma di chiunque emergesse in qualsiasi campo (arte, letteratura, musica, perfino lo sport) e non fosse dichiaratamente di sinistra? La risposta è semplice: Il Corriere, da un secolo a questa parte, non è un foglio liberale. È un camaleonte che ha ingannato, e inganna tuttora, i suoi non pochi lettori liberali (e tutti i politici liberali che bramano di apparire sulle sue colonne). Il Corriere di de Bortoli è stato, lo ripeto, «per definizione» e con un abile gioco di doppi pesi e doppie misure, contro tutto ciò che non era omologato al clan. Tra i suoi editori nel consiglio di amministrazione Rcs - De Bortoli ne ha avuto uno mal visto dai salotti della sinistra e simpatico alla destra: Salvatore Ligresti. E, guarda caso, è l'unico che nelle sue memorie stronca anche con un certo cattivo gusto: «Mi sono trovato a disagio a sedermi a tavola con la sua famiglia». Ora, è vero che Ligresti era un personaggio atipico, che è fallito malamente. Ma sono certo che la sua coscienza non è meno linda di quella di diversi suoi soci apparentemente «per bene» tanto cari al direttore. Certo, è facile vantarsi, con un eccesso di civetteria, dell'amicizia di Mario Draghi: «Una sera camminavo per Parigi, mi suona il telefonino: ciao Ferruccio, sono Mario...». Facile liquidare l'appoggio entusiasta dato dal Corriere al disastroso governo Monti dando un paio di buffetti al Professore oggi in disuso. Facile svelare solo oggi l'aggressione subita da un cronista del Corriere da parte di Matteo Renzi, taciuta quando l'aggressore era potente primo ministro. Insomma, è facile continuare la narrazione della favola di un Corriere della Sera vergine e nelle mani di coraggiosi paladini senza macchia con fonti disinteressate. Facile e pure legittimo. Ma, almeno io, non ci casco.
I LAVORI MEDIA FREELANCE.
Che cosa è come lavorare sui media di Freelance Media, scrive Rachel Deahl il 2 marzo 2017. La maggior parte delle persone capisce che cosa è un freelance, ma ha diverse connotazioni in diverse industrie. È interessante notare che nei media ci sono diversi lavori di freelance che puoi ottenere. Puoi lavorare come una libera professione a tempo parziale, lavorare con un orario ridotto, o puoi essere un freelancer a tempo pieno, lavorando come scrittore freelance, fotografo o illustratore. È anche possibile lavorare a tempo pieno e freelance sul lato, facendo progetti qui e là.
Quali sono i vantaggi dei lavori di Media Freelance?
Il più grande vantaggio di lavorare come freelance è la libertà che ti dà. Un freelance non è legato alla loro scrivania, o ad un programma da 9 a 5. E, nel mondo dei media, il freelance di lavoro potrebbe consentire di fare progetti diversi da quello di un impiegato a tempo pieno. Le assegnazioni di freelance ricevono spesso differiscono da quelle che lavorano a tempo pieno, poiché un freelance ha la capacità di viaggiare e trascorrere più tempo su un progetto. Ad esempio, ad una rivista molte funzioni sono assegnate a scrittori freelance, poiché i redattori a tempo pieno spesso non hanno il tempo di spendere fuori dall'ufficio di fare la storia.
Quali sono gli svantaggi dei Lavori Media Freelance?
Sia che tu sia freelancing a tempo pieno o part-time nel mondo dei media, il più grande svantaggio di lavorare come freelancer è il fatto che non ti offre alcuna sicurezza. Il freelance può essere difficile perché la maggior parte dei liberi professionisti non riceve la copertura sanitaria a meno che non abbiano un contratto specifico con un'azienda (e quindi hanno una posizione indipendente freelance a tempo pieno). L'altro grande problema con il freelance è che non puoi contare su un flusso costante di reddito. Avere un lavoro a tempo pieno significa poter contare su un paycheck costante. Un freelance non ha quel lusso.
Come si passa da Freelance a tempo pieno?
Per diventare un freelance di lavoro a tempo pieno devi valutare dove sei nella tua carriera e quali sono le vostre esigenze. Avete i contatti necessari per ottenere un flusso costante di assegnazioni? Quanti soldi si può ragionevolmente aspettarsi di fare? Hai bisogno di un'assicurazione sanitaria? Queste sono tutte le domande che qualcuno deve affrontare prima di poter avviare freelance a tempo pieno. Molti liberi professionisti, in varie sezioni dei media, lavoreranno a tempo pieno per anni, creano contatti all'interno del loro settore e assumono posti di lavoro indipendenti da parte, prima che essi effettivamente assumano il profitto e diventino freelance a tempo pieno. Una cosa che ha bisogno di un libero freelance ha forti legami con le persone che assegnano il lavoro che fanno. Ad esempio, i grandi autori di riviste freelance hanno spesso forti legami con alcuni editor che contano su più assegnazioni. Una volta che hai certe persone a cui puoi fare affidamento per darti il lavoro, puoi comodamente arrivare ad un punto dove puoi cercare altri posti di lavoro e portare ancora più incarichi potenziali e più soldi. A causa della natura rischiosa del lavoro freelance, è molto difficile sviluppare una carriera di freelance riuscita a meno che non stiate lavorando nei media per qualche tempo. Esistono eccezioni per ogni regola - per esempio, se sei un famoso romanziere, puoi spesso ingannare un lavoro di scrittura freelance peluche a causa della tua statura - ma la chiave del successo di freelance è sfruttare l'esperienza e la reputazione creata lavorando In quel campo.
Il giornalismo freelance è morto (di fame), scrive Elisabetta Ambrosi il 30 giugno 2017 su “Il Fatto Quotidiano”. “Lance libere” di colpire, criticare, inveire contro le ingiustizie e i mali del mondo. Così, romanticamente, si potrebbe tradurre la parola free lance, che nel giornalismo sta a indicare persone che non vogliono dipendere da un giornale, ma conoscere e osservare il mondo con i propri occhi e scriverne in maniera indipendente, libera e in totale assenza di vincoli. Nel mondo anglosassone il freelance è una figura rispettata, le redazioni hanno addirittura stanze dedicate a loro. Sono giornalisti e fotografi che realizzano servizi anche importanti, pagati molte centinaia di euro perché, comunque, i giornali che li comprano, oltre ad acquistare reportage e articoli di qualità, non versano contributi e tasse. In breve, non hanno i costi che hanno con i propri dipendenti. Per questo, com’è giusto che sia, un lavoro di un esterno viene pagato di più. Da noi la situazione è sempre stata diversa. I freelance si chiamano più facilmente “collaboratori”, anche se in teoria questa parola sarebbe più appropriata per persone che hanno un altro lavoro e quando possono e vogliono scrivono anche per i giornali. Invece così non è. Da noi, i collaboratori sono giornalisti veri e propri, semplicemente non hanno un contratto. Vivono dei pezzi che scrivono, fuori dalle redazioni, nelle loro case, chi può permetterselo nei coworking. Negli anni sono diventati migliaia e migliaia, e presto saranno la maggioranza dei giornalisti italiani, anche se i lettori – e i politici – di questo poco o nulla sanno. Ci sono stati anni in cui fare il freelance in Italia era ancora possibile, perché gli articoli erano dignitosamente pagati e la frequenza di scrittura era assidua. Col passare del tempo, la crisi dei giornali di carta e il passaggio al web, i compensi sono stati drasticamente ridimensionati (mentre i giornali hanno cominciato a premere sugli interni, che pure hanno i loro problemi, perché scrivessero di più). E poi ancora, negli ultimi anni, tagliati in maniera selvaggia, arrivando a cifre con le quali non è possibile sopravvivere. Spiccioli, sui quali comunque bisogna togliere i contributi, le tasse, le spese per l’assicurazione medica per chi ce l’ha, la formazione obbligatoria (in parte a pagamento), la strumentazione che serve (computer, cellulare, videocamera). In pratica, tolte le spese, non rimane quasi nulla di che vivere. Tutto questo è successo per vari motivi. Da un lato, la crisi delle vendite, le scarse entrate di pubblicità, che ancora non consente ai giornali web di sopravvivere (specie per quei giornali seri che continuano le loro inchieste e non si fanno comprare), ancora la follia delle notizie date in abbondanza senza far pagare nulla e abituando il lettore italiano medio a pretendere notizie imparziali, ricche e continue senza dare nulla in cambio. Dall’altro lato, la precarizzazione selvaggia del nostro mercato del lavoro, che ha consentito praticamente qualunque forma di (non) contratto. L’appartenenza a un Ordine, in questo senso, non ha in alcun modo arginato questo fenomeno, anzi ha contributo a fare ombra su ciò che succedeva nel nostro settore. Mentre il mondo – e i governi – credevano o facevano finta di credere che la presenza di un Ordine bastasse a garantire chi ne faceva parte. Niente di più falso. Da ultima parte, l’incredibile disinteresse dei sindacati verso il mondo dei freelance: un’indifferenza gravissima, colpevole, continua. Per tagliare un compenso a un collaboratore non serve neanche una telefonata, basta una mail, e nessuno, ma davvero nessuno, se ne accorge. Eppure, i dati ci sono. Basterebbe andare a vedere le retribuzioni annuali medie degli iscritti alla Gestione separata dell’Ipgi 2, l’ente previdenziale dei lavoratori autonomi dei giornali, per capire in che situazione di disperazione vivono migliaia di giornalisti che magari firmano in prima pagina: poche migliaia di euro l’anno, nessuna tutela in caso di malattia – quella malattia che pure è finalmente stata garantita ai lavoratori autonomi, ma paradossalmente solo se non appartenenti ad un Ordine – niente ferie, nessuna pensione. Il sindacato dei giornalisti, la Fsni, tutela esclusivamente i lavoratori dipendenti, arrivando persino ad auspicare – è stato il caso della trattativa per la crisi del Sole 24 ore – il taglio di tutte le collaborazioni per salvare gli interni. D’altronde, è stata proprio la Fsni a firmare un accordo vergognoso, quello che ha sancito la fine dei free lance, invece che la loro tutela, nel giugno del 2014 con la Fieg (gli editori), il governo (sottosegretario all’Editoria Luca Lotti) e l’Inpgi, ma senza la firma dell’Ordine dei giornalisti, un fatto davvero inverosimile. Questo accordo sull’“equo” compenso, tanto per fare un esempio, stabiliva tariffe minime di 20,8 euro lordi per un pezzo dei quotidiani, di 6,25 euro per le agenzie. “Neanche i soldi per il pane” aveva dichiarato in quella occasione il presidente dell’Ordine, facendo un esempio inequivocabile: una persona che scrivesse 432 articoli in un anno (praticamente più di uno al giorno, una cifra impossibile) guadagnerebbe 6.300 euro l’anno lordi. E queste sono, d’altronde, le cifre che la maggior parte dei giornalisti lavoratori autonomi percepiscono. A loro però viene chiesto il massimo della disponibilità, il massimo della rapidità, il massimo dell’esattezza e ricchezza di notizie, esattamente come si chiede a un interno, che guadagna dieci volte tanto. E il lettore che legge, o che commenta sul web, protestando, criticando, invitando l’autore a darsi all’ippica e via dicendo non sa che, magari, quel giornalista ha percepito pochi euro, se non, talvolta accade anche quello, proprio nulla. Della situazione dei giornali e del mondo giornalistico, dove da un lato hai un Fabio Fazio che percepisce milioni, dall’altro un freelance iperformato e magari di talento che ne guadagna venti a pezzo, nessuno parla, perché sono gli stessi giornali a non volerla denunciare. E perciò, forse, è una delle forme di ingiustizia che viene meno indagata ed esposta alla luce del sole. Esclusi dalle redazioni, chiusi nelle loro case, privi di un rappresentante dei loro diritti all’interno delle redazioni, mai consultati, primi a saltare e ad essere tagliati, senza tutele, senza ferie, senza pensione. Isolati, incapaci di unirsi, di scioperare, anche (ma d’altronde come?). Questa è la situazione della maggioranza dei giornalisti italiani, di cui forse sarebbe giunto il momento di parlarne perché, tra poco, questo sistema non sarà più sostenibile. Nel frattempo, quelli che non si rassegnano a morire di fame, e che non sono troppo anziani, si riciclano come uffici stampa, comunicatori o altro ancora. Ma con la morte nel cuore, perché il giornalismo, nonostante tutto, è un mestiere che si sceglie per passione. E per questo lo si vorrebbe continuare a fare. Basterebbe poco, basterebbero condizioni minime migliori.
Siamo condannati a un futuro da freelance, ma potremmo scoprirci più felici. Negli Stati Uniti già ora un terzo dei lavoratori collabora da esterno con le imprese, a tempo pieno o parziale. Nel giro di pochi anni si potrà arrivare alla metà della forza lavoro totale. Non è necessariamente uno scenario da incubo, a leggere le ultime indagini sul tema, scrive Fabrizio Patti su “L’Inkiesta” il 5 Aprile 2017. Robot e Big Data non sono tutto. Se si guarda alle forze che stanno stravolgendo il lavoro, in tutto il mondo, si trova molto altro. Per esempio che siamo alla vigilia di una trasformazione potenzialmente di massa: quella dei lavoratori dipendenti in freelance. Un paio di anni fa un‘analisi di Edelman Intelligence per i network Freelancers Union e Upwork aveva calcolato che poco meno di un terzo dei lavoratori statunitensi si già poteva considerare un “freelance”. In un aggiornamento di qualche mese fa la cifra, stimata attraverso un’indagine a campione su 6mila persone, era salita al 35 per cento. Si sta procedendo verso la profezia annunciata dalla stessa organizzazione dei lavoratori autonomi americana, che si arrivi entro il 2020 addirittura ad avere il 50% di forza lavoro etichettabile come freelance. Già oggi si parla di cifra enorme, pari a 55 milioni di persone negli Usa, che però va un po’ spacchettata. Lo studio di Edelman parla di 19 milioni di freelance puri, ossia persone che non hanno un datore di lavoro e che fanno lavori in autonomia sulla base di progetti. Altri 15 milioni sono lavoratori “diversificati”, che hanno un lavoro part-time principale che integrano con lavoretti (per esempio come guidatori di Uber). In 13,5 milioni sono stimabili i “moonlighters”, quelli che hanno un secondo lavoro dopo uno a tempo pieno. Infine altri 3,6 ciascuno sono i gruppi rappresentati da piccoli imprenditori che si identificano come freelance (per esempio chi ha creato una microimpresa di web marketing) e da lavoratori con un singolo datore di lavoro ma per lavori saltuari o comunque di breve durata. È la famosa america della Gig economy. La definizione di freelance e l’entità di questi dati sono discutibili. Se si guarda al caso italiano, un recente punto sul tema a cura di Truenumbers aveva definito con il termine “freelance” un lavoratore autonomo senza dipendenti e identificato 3,45 milioni di persone, pari al 13,8% della popolazione attiva italiana. Il trend, in ogni caso, è netto. I confini tra interno ed esterno delle aziende si stanno sgretolando, principalmente grazie alla tecnologia. Il fenomeno è stato ripreso da un recente studio di The Boston Consulting Groupsulle 12 forze che stanno cambiando radicalmente il modo in cui le organizzazioni lavorano. L’analisi va calata soprattutto nel contesto americano, ma dà indicazioni anche per il resto del mondo. Una di queste forze è l’“accesso alle informazioni e alle idee”. Quando, grazie a costi di hardware e software che continuano a scendere, anche nel cloud computing, qualsiasi persona può essere connessa, lavorare da remoto e scambiare dati in tempo reale, c’è ancora bisogno di avere impiegati fissi? Come nota Bcg, in molte grosse società di IT quasi metà dello staff a tempo pieno è composta da contractor esterni. Questa è una parte della storia. C’è poi il fatto che oggi «le soluzioni più innovative sono sviluppate da persone in giro per il mondo che si uniscono in comunità online, piattaforme su internet ed ecosistemi digitali». Tutto questo stravolge i modelli tradizionali non solo di impiego, ma anche del finanziamento delle nuove imprese, di sviluppo di nuovi prodotti e di gestione del ciclo di vita dei prodotti. Comunità di crowdsourcing come Kaggle e InnoCentive permettono alle società di “affittare” i talenti senza troppi investimenti iniziali. Invece di assumere impiegati a tempo pieno, le società possono creare dei team di progetto con le competenze richieste. Così un gigante delle assicurazioni come Allstate sta organizzando tramite Kaggle delle competizioni per risolvere delle sfide legate al proprio business. «Una di queste gare ha portato a un algoritmo per le previsioni delle richieste di risarcimento che è del 271% più accurato del modello esistente di Allstate», nota Bcg. Comunità di crowdsourcing come Kaggle e InnoCentive permettono alle società di “affittare” i talenti senza troppi investimenti iniziali. Invece di assumentere impiegati a tempo pieno, le società possono creare dei team di progetto con le competenze richieste. «Le statistiche si possono discutere, ma il trend è chiaro ed è guidato da quello che le persone vogliono: lavorare in occupazioni diverse, non tradizionali, con più flessibilità», commenta a Linkiesta Grant Freeland, global leader della practice “People & Organization” di Bcg. «È un trend guidato anche dal fatto che le aziende cercano sempre più expertise in profondità su temi specifici che non possono essere trovati all’interno delle imprese in ogni momento. Ed è guidato dal fatto che si vuole avere flessibilità sia dal lato della offerta che della domanda di lavoro», ha aggiunto, a margine di un incontro nella sede di Milano della società dedicato ai nuovi modi di lavorare e a come le aziende possono creare modelli organizzativi più agili. Tra le 12 forze individuate dalla società di consulenza, sei riguardano appunto l’offerta di talento, cioè quello che sta succedendo sul versante dei lavoratori. Uno di questi trend riguarda da vicino la crescita dei freelance ed è quello dell’‘imprenditorialità e individualismo”. L’indipendenza, è la tesi, sta diventando un fattore di motivazione dominante per i Millennial (i nati tra i primi anni Ottanta e la metà degli anni Novanta) e per la nuova Generazione Z, quella dei nati dopo la metà degli anni Novanta. «Queste persone giovani tendono a essere annoiate nel fare lo stesso tipo di lavoro per lunghi periodi e sono particolarmente interessate a carriere indipendenti. Messi nelle condizioni dalle piattaforme e dagli ecosistemi digitali, molti stanno scegliendo l’imprenditorialità e l’auto-impiego rispetto ai tradizionali impieghi nelle imprese», si legge nello studio. Il contesto, va ricordato, è quello statunitense, dove le percentuali di disoccupazione giovanile non sono paragonabili con quelle italiane. «Tra quelli ancora interessati ai lavori nelle imprese - si legge ancora - molti sono propensi a sperimentare nuove idee, prendendo lunghe pause nella carriera, e perfino a lavorare part-time come volontari o come freelance in ambiti completamente nuovi. Uno studio recente ha fatto emergere che il 79% dei giovani della Generazione Z vogliono integrare l’istruzione con il lavoro e che il 42% si aspetta di diventare un imprenditore». Tutto questo si sposa ad altri trend legati all’offerta di talento, come il crescente desiderio di lavorare di più da casa (più di un quinto degli impiegati si dice disposto a rinunciare fino al 5% dello stipendio per poter lavorare uno o due giorni da remoto). E come la preferenza netta per compensazioni che permettano di conciliare vita e lavoro rispetto alle tradizionali compensazioni economiche (come i bonus di produttività). Se nel 2014 solo il 53% di loro dichiarava di esserlo per propria scelta, nel 2016 la percentuale era crescita al 63 per cento. E il 79% dichiara che lavorare da freelance è meglio che lavorare da dipendente. Sul lato delle opportunità, «i freelance - continua lo studio - ne vengono fuori con il beneficio aggiuntivo di essere ben connessi con gli sviluppi che avvengono nel settore nel suo complesso, a differenza degli impiegati, che invece tendono a essere più presi da dinamiche interne». È davvero un mondo così roseo? La realtà dei lavoratori freelance italiani parla di infinite difficoltà nel valorizzare il proprio lavoro, di ritmi di lavoro intensissimi e di pagamenti che arrivano con ritardi biblici. Lo stesso Grant Freeland, di Bcg, riconosce che è molto difficile dare una risposta univoca di fronte a trasformazioni che creano molte opportunità per alcuni e tagliano fuori molti altri (le ultime lezioni americane sono lì a dirlo chiaramente). Tuttavia la fotografia scattata dall’indagine commissionata dalla Freelancers Union (associazione fondata da Sara Horowitz) mostra dei miglioramenti nelle condizioni di vita di chi si definisce freelance. Se nel 2014 solo il 53% di loro dichiarava di esserlo per propria scelta, nel 2016 la percentuale era crescita al 63 per cento. E il 79% dichiara che lavorare da freelance è meglio che lavorare da dipendente, perché i lavoratori autonomi si sentono più rispettati, dotati di potere (empowered) e felici di iniziare ciascun giorno. In uno dei risultati più sorprendenti emerge anche il fatto che una larga parte dei freelance americani dichiara di lavorare la giusta quantità di ore di lavoro, con una media di 36 ore settimanali. L’80% di loro avrebbe anche una copertura sanitaria - questione quanto mai cruciale per i freelance americani - anche se una parte minoritaria mette da parte fondi per le pensioni integrative. Se questo fosse il futuro anche in Italia ci sarebbe da metterci la firma. Ma l’Oceano, in questo caso, è davvero enorme.
MEDIA COPROFILI E COPROFAGI.
La coprofilia è una parafilia caratterizzata dal particolare interesse per gli escrementi che diventano oggetto di piacere e, in alcuni casi, di eccitazione sessuale. Nelle pratiche erotiche BDSM e fetish consiste in una serie di giochi connessi alla defecazione. In alcuni casi la coprofilia può essere correlata alla coprofagia; ciò accade soprattutto nell'ambito di giochi sessuali espletati all'interno di una relazione improntata a sadismo o masochismo, come espressione di sopraffazione o sottomissione di un partner nei confronti dell'altro, spesso con forti connotati di umiliazione. La pratica viene chiamata scat.
Papa: «Si usano i media per sporcare gli avversari, è coprofilia». La denuncia di Bergoglio nell’intervista al settimanale cattolico belga «Tertio». Il Papa ha anche sottolineato che in Europa mancano veri leader «come Schumann, De Gasperi e Adenauer che si impegnarono contro la guerra», leader che vadano avanti, scrive Valentina Santarpia il 7 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera". I media «possono essere tentati di calunnia, e quindi essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione»: la durissima critica al mondo dell’informazione arriva da Papa Francesco, in un’intervista al settimanale cattolico belga «Tertio». «I media - ha denunciato Bergoglio - devono essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere, senza offesa, per favore, nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno». Secondo Bergoglio, sono due le eventualità in cui le informazioni possono danneggiare qualcuno, le «tentazioni» che portano i media lontani dalla loro missione, che è quella di «costruire opinione e fare bene immenso». La prima si verifica quando una persona «magari nella sua vita, in precedenza, nella vita passata, o dieci anni fa, ha avuto un problema con la giustizia, o un problema nella sua vita familiare», ma forse ha «già pagato con il carcere, con una multa o quel che sia»: in questo caso «portare questo alla luce oggi è grave, fa danno, si annulla una persona!». Un’altra deviazione è la «disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione dire solo una parte della verità e non l’altra». Per il Papa, «questo è disinformare. Perché tu, all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio». «La disinformazione - ha osservato nell’intervista - è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità». Un altro duro attacco il Papa lo lancia contro la guerra, qualsiasi siano le sue motivazioni: «Non si può fare la guerra in nome di Dio o in nome di una posizione religiosa. Non si può fare la guerra in nessuna religione. E perciò il terrorismo, la guerra non sono in relazione con la religione», ha spiegato nell’intervista al settimanale cattolico. Analizzando anche il contesto in cui maturano oggi i conflitti: proclamiamo «mai più la guerra, ma intanto fabbrichiamo armi e le vendiamo chi si combatte per gli interessi dei fabbricanti d’armi. Si rimettono in equilibrio i bilanci con le guerre e il prezzo è molto alto: il sangue». La colpa è anche dei governanti: «Oggi mancano veri leader all’Europa come Schumann, De Gasperi e Adenauer che si impegnarono contro la guerra. L’Europa ha bisogno di leader, leader che vadano avanti», sostiene Bergoglio. Che nel suo appello non pensa a leader necessariamente religiosi: In generale, uno Stato laico è una cosa buona; è migliore di uno Stato confessionale, perché gli Stati confessionali finiscono male». «Però - ha distinto il Papa - una cosa è la laicità e un’altra è il laicismo. Il laicismo chiude le porte alla trascendenza, alla duplice trascendenza: sia la trascendenza verso gli altri e soprattutto la trascendenza verso Dio; o verso ciò che sta al di là. E l’apertura alla trascendenza fa parte dell’essenza umana. Fa parte dell’uomo».
Papa Francesco ai media: "Disinformare è coprofilia. E la gente tende alla coprofagia". Il "forte" monito del Pontefice in un'intervista al settimanale belga Tertio. "Possono essere usati per calunniare, sporcare la gente, soprattutto in politica. Questo è peccato e fa male. Dire solo una parte della verità è disinformare. Perché l'ascoltatore o il telespettatore non può farsi un giudizio serio", scrive "La Repubblica" il 7 dicembre 2016. Disinformare, calunniare gli avversari politici, sporcare la gente, è "peccato", i media devono essere "limpidi e trasparenti" e non devono "cadere nella malattia della coprofilia". E' il monito lanciato da Papa Francesco ai mezzi d'informazione in un'intervista al settimanale cattolico belga Tertio, nel corso della quale il Pontefice ha usato termini davvero "forti" per rendere al massimo l'idea del danno che la disinformazione può arrecare all'opinione pubblica. Perché, ha infatti aggiunto Bergoglio, "la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia". "La disinformazione - spiega il Papa nell'intervista - è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l'opinione in una direzione, tralasciando l'altra parte della verità". Invece, prosegue Bergoglio, i media devono "essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno". I media, per Francesco, "possono essere tentati di calunnia, e quindi essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione: ogni persona ha diritto alla buona fama, però magari nella sua vita in precedenza, nella vita passata, o dieci anni fa, ha avuto un problema con la giustizia, o un problema nella sua vita familiare. E portare questo alla luce oggi è grave, fa danno, si annulla una persona. Nella calunnia si dice una bugia sulla persona; nella diffamazione si mostra una cartella. Come diciamo in Argentina, se hace un carpetazo. E si scopre qualcosa che è vero, ma che è già passato, e per il quale forse si è già pagato con il carcere, con una multa o con quel che sia". In conclusione, avverte Bergoglio, "non c'è diritto a questo. Questo è peccato e fa male. E una cosa che può fare molto danno nei mezzi di informazione è la disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione dire solo una parte della verità e non l'altra. Questo è disinformare. Perché tu, all'ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio".
Cosa pensa il papa dei giornali, scrive "Il Post" il 7 dicembre 2016. Ha detto che spesso pubblicano notizie false e calunniose, distorcendo le opinioni, e ha parlato di "coprofilia". In un’intervista al settimanale cattolico belga Tertio, papa Francesco ha parlato anche di giornali, mezzi di informazione e etica dell’informazione, dicendo cose piuttosto nette sulla tendenza dei media a dare notizie false, calunniose o semplicemente parziali, e della loro inclinazione a suscitare le reazioni peggiori. Il papa ha parlato della tentazione dei giornali di pubblicare notizie, vere o false, con lo scopo di creare scandalo, una tendenza che il papa ha definito “malattia della coprofilia”, spiegando che può essere molto pericolosa in una società insieme alla correlata tendenza alla “malattia della coprofagia” di molte persone. Nel riferirsi ai rischi per la costruzione delle opinioni da parte dei mezzi di informazione Papa Francesco si è dedicato ai mezzi di informazione tradizionali, distaccandosi dal recente dibattito che indirizza le maggiori preoccupazioni sui social network e internet. La coprofilia è l’attrazione verso gli escrementi, la coprofagia è l’atto di nutrirsene. Un’ultima domanda, Santo Padre, riguardo ai media: una considerazione riguardo ai mezzi di comunicazione…I mezzi di comunicazione hanno una responsabilità molto grande. Al giorno d’oggi hanno nelle loro mani la possibilità e la capacità di formare un’opinione: possono formare una buona o una cattiva opinione. I mezzi di comunicazione sono costruttori di una società. Di per se stessi, sono fatti per costruire, per inter-cambiare, per fraternizzare, per far pensare, per educare. In se stessi sono positivi. È ovvio che, dato che tutti siamo peccatori, anche i media possono – noi che usiamo i media, io qui sto utilizzando un mezzo di comunicazione – diventare dannosi. E i mezzi di comunicazione hanno le loro tentazioni. Possono essere tentati di calunnia, e quindi essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione: ogni persona ha diritto alla buona fama, però magari nella sua vita in precedenza, nella vita passata, o dieci anni fa, ha avuto un problema con la giustizia, o un problema nella sua vita familiare, e portare questo alla luce oggi è grave, fa danno, si annulla una persona! Nella calunnia si dice una bugia sulla persona; nella diffamazione si mostra una cartella – come diciamo in Argentina: “Se hace un carpetazo” – e si scopre qualcosa che è vero, ma che è già passato, e per il quale forse si è già pagato con il carcere, con una multa o con quel che sia. Non c’è diritto a questo. Questo è peccato e fa male. E una cosa che può fare molto danno nei mezzi di informazione è la disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione dire solo una parte della verità e non l’altra. Questo è disinformare. Perché tu, all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio. La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità. E poi, credo che i media devono essere molto limpidi, molto trasparenti, e non cadere – senza offesa, per favore – nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se sono vere. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno. Quindi direi queste quattro tentazioni. Ma sono costruttori di opinione e possono costruire, e fare bene immenso, immenso.
Lo stato della gogna giudiziaria nel 2016. Uno studio dell'Unione delle camere penali: dopo avere esaltato arresti e indagini, soltanto l'11% degli articoli racconta come va a finire un processo, scrive il 15 dicembre 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". È probabilmente la prima volta che un tribunale penale aggredisce la "gogna giudiziaria" su internet. Il primato spetta a Genova, dove sono state appena depositate le motivazioni di una sentenza del 20 giugno scorso (per i cultori del genere, è la numero 3582). È una condanna per diffamazione: stabilisce che "chi inserisce notizie a mezzo internet relative a indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l'esito positivo per l'indagato o l'imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa". Il processo di primo grado ha chiuso così la vicenda della pubblicazione sul sito di un’associazione di consumatori della notizia relativa al rinvio a giudizio per concussione del presidente e vicepresidente di un'associazione, alla fine di un’inchiesta su presunti appalti irregolari. In seguito, i due indagati erano stati prosciolti, ma la notizia online non era mai stata aggiornata. Per il tribunale di Genova il reato sussiste in quanto non c'è dubbio che "l'omesso aggiornamento mediante inserimento dell'esito del procedimento penale" configuri un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato "è certamente idonea a qualificare negativamente l'immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico". Quindi la notizia, che pure era vera e corretta al momento della sua pubblicazione online, avrebbe dovuto essere aggiornata perché smentita dall'evolversi del procedimento penale. "La verità della notizia" sostiene testualmente la condanna "deve essere riferita agli sviluppi d’indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all'epoca dell'acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda". La sentenza, ignorata dai siti internet come dalla stragrande maggioranza dei giornali, arriva proprio nel momento in cui l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali italiane (l’associazione degli avvocati penalisti) dà alle stampe un saggio rivelatore. Per sei mesi, dal giugno al dicembre 2015, gli avvocati hanno raccolto e analizzato la cronaca giudiziaria di 27 quotidiani. È una massa imponente di materiale: 7.373 articoli. Quasi sette su dieci danno notizie sulle indagini preliminari, e in particolare il 27,5% tratta dell’arresto di un indagato. Ma quando poi il processo arriva al dibattimento, l’attenzione si dissolve: solo il 13% degli articoli segue le udienze in tribunale. Va ancora peggio alla sentenza: appena l’11% degli articoli informa i lettori su come è andata a finire la vicenda giudiziaria che nelle fasi iniziali, invece, veniva squadernata su pagine e pagine. Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente, scrive che "le informazioni sulle indagini preliminari vengono sapientemente pubblicate e divulgate per creare consenso preventivo". Il risultato è negativo anche sulla correttezza del processo, perché si viola "la verginità cognitiva del giudice, che viene bombardato da informazioni riguardanti le indagini". Secondo lo studio, gli articoli sono dichiaratamente colpevolisti quasi nel 33% dei casi; un altro 33% riporta le tesi della pubblica accusa senza esprimere giudizi; il 24% ha toni neutri. E soltanto il 3% prende una posizione più garantista, se non direttamente innocentista. Soltanto il 7% degli articoli riporta notizie di natura difensiva, fornite dall’avvocato dell’indagato o dell’imputato.
GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.
Sei sgradito a Libera di Don Ciotti? Allora fai giornalismo “mafioso”. Ignoti penetrano nello studio di un avvocato vicino a Libera e frugano tra le carte. La reazione dell'associazione antimafia, scrive Giacomo Di Girolamo su "La Voce di New York" il 10 dicembre 2016. Libera, l'associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio dell'avvocato Rando al "linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità". Il riferimento è ad un paio di articoli pubblicati su un quotidiano di Modena diretto da Giuseppe Leonelli. Qualche giorno fa è successo un episodio spiacevole. Ignoti sono entrati nello studio di Enza Rando, noto avvocato, numero due di Libera, che rappresenta l’associazione di Don Luigi Ciotti in diversi processi alla criminalità organizzata in Italia. Tra venerdì 25 e sabato 26, Novembre delle persone sono entrate nel suo studio legale a Modena mettendo mano a carte e fascicoli, ma senza portare via quasi niente. Indagano polizia e Procura, l’episodio è preoccupante, l’avvocato Rando merita tutta la solidarietà di questo mondo. E’ una professionista seria e stimata. Tuttavia, dato che siamo dalle parti dell’antimafia, e di un certo modo di intenderla, non posso non notare alcune circostanze. Libera, l’associazione di Don Luigi Ciotti, collega, in un suo comunicato, quanto avvenuto nello studio di Rando al “linciaggio mediatico, durato per mesi, nei confronti di Enza Rando, dai manipolatori della verità”. “Linciaggio mediatico”, “manipolatori della verità”. Espressioni forti e un po’ fuori luogo, se mi posso permettere (e chissà che non venga considerato “linciaggio” anche questo mio pensiero). Perchè parole così fanno capire che c’è stata chissà quale campagna denigratoria, su mezzi potentissimi, con verità distorte ad arte. Le espressioni di Libera sono state poi seguite poi da alcuni commenti di esponenti locali del Pd (di cui Libera a Modena e provincia rappresenta, da quello che ho visto nei miei giri emiliani, una specie di longa manus…) che parlano di “campagna diffamatoria”. Giusto per metterci il carico da undici. A meno che non mi sia perso qualcosa (e ciò non andrebbe sicuramente a vantaggio dell’efficacia della “campagna denigratoria…” di cui sopra), in realtà il riferimento è ad un paio di articoli (ma quale linciaggio…) che questa estate sono stati pubblicati sul quotidiano di Modena, Prima Pagina, diretto da Giuseppe Leonelli. Proprio Leonelli aveva sollevato alcuni dubbi circa i tanti incarichi che ricopre l’avvocato Enza Rando, pubblicando da bravo giornalista, anche i relativi compensi: 25mila euro dalla Regione Emilia Romagna per il “Testo unico” su mafia e dintorni, 20.400 euro da Sorgea nel 2014, 96mila euro dalla Provincia di Modena nel 2010 e 25mila euro nel 2013, 49mila euro dal Comune di Nonantola. Oltre a percepire 51mila euro all’anno come membro del cda della Fondazione Crmo. Fa senso che si parli di “linciaggio” o di “diffamazione” (e che a farlo sia tra l’altro un avvocato, Rando, che dalle accuse di diffamazione difende i giornalisti vicini a Libera), quando in realtà Leonelli ha solo messo ordine tra gli incarichi della numero due di Libera. Nulla di che. Non sono soldi rubati, anzi, sono soldi, tanti, sicuramente strameritati. Tuttavia il numero e la qualità degli incarichi, unito al ruolo che l’avvocato di Libera ricopre in diversi processi e nella stessa associazione antimafia di Don Ciotti potrebbe far venire il dubbio della “opportunità” della commistione di tutta questa roba insieme. E’ linciaggio dirlo? Sulla vicenda anche i Cinque Stelle hanno presentato un’interrogazione alla Regione Emilia Romagna. Ma l’unica risposta, al momento, è stata che, il referente provincia di Libera a Modena, tale Maurizio Piccinini, ha definito il giornalista Leonelli “oggettivamente al fianco delle mafie”. Attenzione all’avverbio: oggettivamente. Le parole sono importanti. Oggettivamente: cioè senza ombra di dubbio, senza tema di smentita, come è vero che la mattina oggettivamente il sole sorge e oggettivamente tramonta, si è “oggettivamente al fianco delle mafie” per aver sollevato i dubbi su Libera e Rando. Non solo. Leonelli, senza tanti giri di parole, è in maniera strisciante ritenuto il mandante morale delle intimidazioni subite da Rando negli ultimi giorni. Si può andare avanti così? Oggi Prima Pagina non c’è più. Il giornale ha chiuso, come sta accadendo purtroppo a tante piccole voci libere in giro per l’Italia. Leonelli rimane un bravo giornalista, ma disoccupato. Sarebbe stato giusto che Libera, che tanto si spende per i giornalisti “amici” in note di solidarietà, costituzioni di parte civile, diverse forme di tutela, avesse spesso due parole per quel giornale, e per quel giornalista, che di fatto ha subito, da Libera e dal Pd, lo stesso trattamento fatto di accuse e offese, che io, tanto per dire, solitamente ricevo da ben altri ambienti, quando mi occupo di mafia. Si dice sempre che quando muore un giornale è una grave perdita per la comunità, che le mafie vogliono il silenzio, che una voce libera (l minuscola) è fondamentale per la legalità. Sono alcune delle frasi di circostanza che nei miei anni di frequentazione di Libera (L maiuscola) e dintorni mi avranno ripetuto certe volte. Evidentemente, non è così per tutti. Siccome, poi, basta un mezzo insulto su Facebook, una piccola insinuazione, un insulto sguaiato, a fare scattare la macchina di solidarietà intorno ad un giornalista “antimafia”, mi chiedo se anche Leonelli non debba avere qualche tipo di solidarietà, dall’Ordine dei Giornalisti, da strutture come Ossigeno per l’informazione, per il trattamento che ha subito. Perché se fossero stati gli ambienti vicini all’avvocato di un mafioso a parlare di “campagne denigratorie”, eccetera, ci sarebbero state le prese di posizione di Ordine dei Giornalisti e associazioni varie, le fiaccolate, la classica lettera dei parenti delle vittime di mafia e l’ashtag pronto all’uso #siamotutti… Invece nessuno ha parlato. Oggettivamente. Nessuna solidarietà al povero Leonelli. Per ora, ha la mia. Lui come Enza Rando. Hanno entrambi la mia solidarietà. E più di tutti ce l’ha la povera signora ragione. Ormai si è persa, nel labirinto del fanatismo dell’antimafia.
L’Antimafia con le corna a posto e noi col dolore fitto. Dopo il caso Pino Maniaci, eccovi alcune riflessione da chi ha scritto il libro "Contro l'Antimafia", scrive Giacomo Di Girolamo su "La Voce di New York" il 9 maggio 2016. In tanti mi chiamano. Perché io ho scritto questo libro doloroso, che mi costa querele, inimicizie e attacchi a go go. E allora c’è chi mi dice: avevi previsto tutto... Io non avevo previsto un bel nulla e in questo momento provo solo dolore e paura. Come se ne esce da questo “dolorificio” che è diventata l’antimafia? Con la verità. Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno. Regnano la confusione e la paura, dopo che il giornalista antimafia più famoso al mondo, Pino Maniaci, è stato raggiunto da un divieto di dimora in Sicilia Occidentale, perché è indagato per estorsione. I particolari li conosciamo tutti. E ci sono queste intercettazioni terribili, terribili. In tanti mi chiamano. Mi chiedono, si sfogano. Perché io ho scritto questo libro qua, Contro l’antimafia, un libro doloroso, che mi costa querele, inimicizie e attacchi a go go. E allora c’è chi mi dice: avevi previsto tutto. O c’è chi dice: ecco, ora il distruttore dell’antimafia potrà ancora delirare un altro po’. Deludo entrambe le categorie. Io non avevo previsto un bel nulla. E in questo momento provo solo dolore e paura. Per essere più precisi, perché di precisione abbiamo bisogno, di esattezza, di chiamare le cose per nome, oggi più che mai, è un bruciore fitto, fino al centro dello sterno. E’ il bruciore lo sapete cos’è? La coscienza che è tutto finito. L’antimafia è finita, lo dico dal punto di vista narrativo, di sequenza logica dei fatti. Mai avrei pensato, mai, che un giorno, il mio essere “antimafioso” sarebbe dipeso da alcune domande: ma 466 euro sono un’estorsione? E qual è il valore minimo di un’estorsione? Perché all’improvviso i carabinieri fanno video che neanche nelle serie su Sky hanno questo montaggio qui? E Antonio Ingroia iper garantista che parla come gli avvocati che lui fiero combatteva poco tempo fa, non è anche questa la fine dell’antimafia? E che vicenda sporca è mai questa? E’ come quella di Saguto, come quella di Montante. Mille ragioni, mille verità, un grande disorientamento. Un bruciore fitto, fino al centro dello sterno.
Pino Maniaci lo conosco poco e non leghiamo tanto, come non riesco mai ad entrare in sintonia con tutti quei personaggi un po’ guasconi, che indossano una medaglietta e ottengono il massimo risultato di popolarità con il minimo sforzo di applicazione, grazie ai super poteri dell’antimafia. Ha avuto grandi meriti, Maniaci, a Partinico e dintorni. Mi ricordo le battaglie sulla distilleria Bertolino, ad esempio, certi suoi servizi arrembanti. Non ho mai sopportato un suo certo modo di fare giornalismo. Una volta mi trovai davvero in difficoltà con lui ad Agrigento. Si parlava di mafia, ovviamente, e lui esordì con una serie di battute, di dubbio gusto, per poi fare il pezzo forte del suo repertorio, parte finale di un monologo tutto intriso di un dialetto fastidioso: l’appello a Matteo Messina Denaro affinché si arrendesse, fatto con queste parole: “Matteo soldino figlio di buttana arrenditi”. Ecco, non credo che sia giornalismo, questo, è un’altra cosa. Ho tentato di spiegarlo a Pino, ma proprio non ci siam intesi. Negli anni ‘70 Peppino Impastato aveva un coraggio da leoni ad aprire il microfono di Radio Aut e dire: “La mafia è una montagna di merda”. Perché la mafia non esisteva (non c’era neanche il reato nel nostro codice penale), e perché i mafiosi ce li aveva a casa, accanto, dappertutto. Oggi se io alla radio dicessi “Messina Denaro pezzo di merda” non sarei un giornalista, ma uno – forse un ciarlatano – che cerca il gioco facile della popolarità gridata, anziché la sfida della complessità: raccontare storie vere, comporre e decomporre i fatti, non fermarsi all’evidenza delle cose, agli slogan. Ovviamente questo mio giudizio su Maniaci, come altri su altri campioni dell’antimafia, poteva essere espresso solo a bassa voce e con circospezione, dato che chiunque criticasse il simpatico Pino veniva tacciato di “mafieria”. Io ho scritto Contro l’antimafia anche per questo, per liberarmi di tutti questi silenzi. Mi dava fastidio il tono di Maniaci (che ha fatto comunque anche un sacco di inchieste importanti, ripeto), come avesse avuto un titolo ad honorem di giornalista nonostante la fedina penale non proprio pulita pulita (un reato, se lo commette un campione dell’antimafia è un peccato di gioventù, un segno di necessità…), come la sua redazione fosse basata sul lavoro di volontari (se lavori per l’antimafia non in regola mica è lavoro nero, è un grande volontariato per la salvezza delle anime belle della Sicilia) come gli avessero regalato videocamere e mezzi che a noi, giornalisti con le pezze al culo senza doppio lavoro e con la nostra libertà come unico prezioso patrimonio, non erano concessi. A Partinico erano e sono in tanti a pensare cose non proprio edificanti, sul suo conto. In molti sapevano, anche. Dei cani, dell’amante. Me lo avevano anche detto, sempre a bassa voce, sempre con la paura di farsi sentire. Perché se ti mettevi contro Telejato cominciava in televisione lo sputtanamento, dicevano. Chi ci è passato lo sa. C’è questo clima di terrore che certi campioni dell’antimafia riescono a creare, che ho visto a Partinico come altrove. Non puoi criticarli, mettere in dubbio il loro operato, cercare una contraddizione. Non puoi, proprio non puoi. Come se ne esce da questo “dolorificio” che è diventata l’antimafia? E’ la domanda che mi fanno tutti, in questi giorni. Soprattutto giovani. E io risposte non ne ho. Non lo so. Perché è una domanda che ognuno si deve fare e risolvere da sè. Con umiltà, attenzione, concentrazione e responsabilità. Non è il caso di parlare una questione morale, la questione morale ognuno se la sbriga a modo suo, guardandosi allo specchio. Ah, e non c’è una mafia dell’antimafia, come sento dire in questi giorni: ci sono truffatori, bellimbusti, bulletti e criminali, vittime e impostori. Sono dappertutto, nel giornalismo come nella magistratura. Nessuno è esente. Fa danni Maniaci, come il magistrato che si occupa di mafia e si sente una specie di Robin Hood, il parente della vittima che si improvvisa sociologo e riversa sugli studenti le sue bislacche teorie, l’avvocato che campa con le costituzioni di parte civile un tanto al chilo, il politico che cerca mafia dappertutto per giustificare la sua elezione avvenuta, ovviamente, “in nome dell’antimafia”. Facciamo danni tutti noi, ridotti al rango di pubblico. Abbiamo rinunciato al gusto, si, al gusto, di essere cittadini. Cerchiamo eroi da venerare, santi da portare in processione, miti da inondare su Facebook di pollici all’insù, vorremmo avere un cazzo di eroe antimafia dei nostri tempi al giorno. Abbiamo rinunciato a comprendere le cose, ad interrogarci – ogni dubbio viene visto come sfrontato – abbiamo ridotto la parola “intellettuale” quasi a offesa. E così, per citare il nostro Pino, anche noi, ci siamo messi le corna a posto. No, soluzioni non ne ho. Se non quella della responsabilità. E la responsabilità, per me, è raccontare le cose. Racconto le cose, e magari le indico, così uno le sa, e non può dire un giorno: chi lo avrebbe mai detto…Se tutti ricominciassimo da questo, dal segnalare, con serenità, piccole e grandi storture in quella che chiamiamo “antimafia”, porre dubbi, eviteremmo scandali futuri. Faccio due esempi, mica mi nascondo. Sono due casi che riporto in Contro l’antimafia. Ci sono sviluppi. Il primo caso riguarda l’associazione antiracket di Marsala, che porta il nome di Paolo Borsellino, e ha come dominus l’avvocato Giuseppe Gandolfo, noto in città anche per le tante candidature tentate in diverse competizioni elettorali e per aver fondato il locale presidio di Libera, per poi passare a farsi una “Libera” tutta sua, questa bislacca associazione, appunto. Ho raccontato in “Contro l’antimafia” la cosa strana, l’anomalia, dell’associazione antiracket di Marsala la cui attività e vicina allo zero, che da un giorno all’altro cambia statuto (e sceglie il nome aulico di “Paolo Borsellino”), allarga a dismisura il suo oggetto sociale, apre sedi fittizie in varie parti d’Italia e comincia a costituirsi parte civile nei processi che si tengono qua e là per la penisola. Secondo voi è normale che l’associazione antiracket di Marsala, che nella sua attività non ha mai assistito uno (dico uno!) tra imprenditori e commercianti nella denuncia del pizzo, che ha prodotto nell’ultimo anno solo uno (dico uno!) manifesto in unica copia (dico una!) affissa nel panettiere di fronte ad una scuola, che ha una base di tesserati composti da amici, collaboratori e loro parenti e affini dell’avvocato Gandolfo, dico, secondo voi è normale che questa associazione si costituisca parte civile nel processo contro la ‘ndrangheta a Bologna? Qualcosa di strano è accaduto, in questi anni, se un’associazione siciliana, molto di facciata, abbia questa attività processuale tale da sentirsi parte offesa per l’attività di una cosca calabrese in Emilia. Questo racconto nel libro. La novità, adesso, è che il Gratta & Vinci ha funzionato. Nel processo, che si è chiuso qualche giorno fa, sono stati riconosciuti all’associazione antimafia di Marsala ben 20.000 euro di risarcimento danni e 7000 euro di spese legali. Che un giudice a Bologna decida che una cosca calabrese infiltrandosi in Emilia abbia danneggiato per 20.000 euro un’associazione antiracket di Marsala è una cosa sulla quale siamo chiamati ad interrogarci. Ancora. Cosa farà l’associazione antiracket con quei soldi? Cosa ha fatto con gli altri soldi ottenuti negli altri processi? Domande da fare ora, per evitare scandali futuri, domani. Il vigneto “antimafia” abbandonato. Un altro caso riguarda un terreno confiscato a Michele Mazzara, imprenditore di Paceco, “U Berlusconi di Dattilo”, lo chiamano, al quale sono stati confiscati beni per 26 milioni di euro, perché è ritenuto molto vicino alla famiglia mafiosa di Trapani. Il terreno in questione è un vigneto in Contrada Gencheria, gestito dalla cooperativa “Lavoro e non solo”, che fa parte del circuito di Libera ed è di Corleone. Quel vigneto è completamente abbandonato. L’uva se la mangiano i cani. In “Contro l’antimafia” mi chiedo: ha senso dare un terreno ad una cooperativa che non ha interesse a coltivarlo e che magari ha interesse solo a registrare gli ettari per ricevere i contributi dovuti? Nessuno mi ha mai risposto. Il terreno è lì, sempre abbandonato, come tantissimi altri. Ecco due piccole questioni. Ne potrai citare decine di altre, ma è difficile. Troppo doloroso. Sempre quel bruciore fitto, fino al centro dello sterno.
Giacomo Di Girolamo. Sono nato nel '77, vivo in Sicilia occidentale, mi occupo di mafia, corruzione, tutela del territorio. Scrivo, tra gli altri, per Tp24.it, La Repubblica e Il Sole 24 ore. Dalla radio della mia città, Marsala, trasmetto la rubrica Dove sei, Matteo? nella quale mi occupo di Matteo Messina Denaro, boss tra i più ricercati al mondo, su cui ho anche scritto il libro L'invisibile (2010). Nel 2012 ho pubblicato Cosa Grigia, libro-reportage sulla mafia che cambia. Nel 2014 ho scritto Dormono Sulla Collina. Ho vinto il Premiolino e i premi Ambiente e Legalità e Libero Grassi. Per la mia attività giornalistica sulla mafia in provincia di Trapani, il sindaco della mia città mi ha citato in giudizio, chiedendo 50.000 euro per “lesione dell'immagine dell'ente”.
LA TRUFFA DEI MEDIA.
Il giallo dei gettoni d’oro alla Rai. «In ogni chilo 5 grammi in meno». L’inchiesta sui premi dei giochi in tv. Il fornitore? Banca Etruria. Tutto inizia con la signora Maria nel 2013: ha vinto 100 mila euro e ne incassa poco più di 64 mila, scrive Sergio Rizzo il 23 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”. Dove vanno a finire quei cinque grammi spariti da ogni chilo d’oro fino che la Rai compra per distribuire fin dal lontano 1955 gettoni di metallo prezioso ai concorrenti dei giochi a premi, è mistero. Non meno misterioso è il modo in cui spariscono. Ma che qualche vincitore si sia ritrovato in mano gettoni d’oro taroccati, e che lui e la Rai abbiano subito una frode bella e buona, è fuor di dubbio. La sconcertante vicenda l’ha scoperta Sigfrido Ranucci, autore di un servizio televisivo che Report di Milena Gabanelli manda in onda stasera su Raitre. Tutto comincia quando alla signora Maria Cristina Sparanide, che nel 2013 ha vinto 100 mila euro alla trasmissione Red or Black su Raiuno arriva una lettera della Zecca, incaricata dalla Rai di coniare quattro gettoni d’oro del valore unitario di 20 mila euro per saldare il conto. Perché 80 mila euro e non 100 mila? Semplice: ci sono le tasse, ma questo il concorrente lo sa. Quello che invece apprende solo quando legge la lettera del Poligrafico dello Stato è che deve pagare pure l’Iva sebbene, spiega il servizio di Ranucci, l’imposta non sia dovuta sull’oro per investimento, cioè quello definito da una direttiva comunitaria come «lingotto o placca». E non ha ragione forse la Treccani a definire il gettone d’oro una «placca»? A questa domanda, però, a quanto pare nessuno sa, può o vuole rispondere. Non il ministero dello Sviluppo. Non le Finanze. Né l’Agenzia delle Entrate. Oltre alle tasse, all’Iva e al costo del conio del gettone c’è poi un’altra voce a carico del vincitore: il calo del 2 per cento dovuto alla fusione. Come se su un chilo d’oro si perdessero 20 grammi ogni volta che si fonde il metallo. Decisamente curioso. A conti fatti, la vincita di 100 mila euro si riduce così a poco più di 64 mila. Ma se l’Iva e quel fantomatico calo, sono questioni legate a interpretazioni astruse di norme astruse, ben altra storia è quella della qualità del metallo. I gettoni che escono dalla Zecca sono marcati come oro fino: 999,9. Quando però la signora Sparanide li porta a un’azienda orafa per farli valutare, il risultato la lascia di stucco: non è oro purissimo. Lo conferma anche un laboratorio specializzato accreditato dal ministero per le analisi legali. Il risultato è identico: si tratta di oro 995. Significa che per ogni chilo ci sono 5 grammi di altro metallo non prezioso. Il bello è che la Rai, c’è scritto nero su bianco nel contratto, l’ha acquistato (e pagato) come oro 999,9. Dunque, in questa incredibile vicenda, è chiaramente parte lesa. La faccenda è pelosissima. Milena Gabanelli precisa che la Rai compra ogni anno dai 6 ai 10 milioni di euro di gettoni d’oro dalla Zecca, che a sua volta si rifornisce del metallo in lingotti sul mercato. Da chi? Da Banca Etruria, fornitore storico degli orafi di Arezzo. Da quell’istituto travolto da una bufera nei mesi scorsi per le obbligazioni subordinate la Zecca ha acquistato «milioni di euro in lingotti d’oro per trasformarli in gettoni della Rai», dice Ranucci, «per anni e senza bando di gara». Perché «è la banca che ci fa il prezzo più basso», replica la Zecca. Aggiungendo che dei lingotti forniti da Banca Etruria «il 20 per cento è stato controllato in ingresso, secondo le nostre procedure di qualità, ed è risultato oro 999». Saranno dunque le procedure, ma resta il fatto che l’80 per cento non è stato controllato. A scanso di equivoci la Zecca si è premurata di presentare un esposto alla procura. E la cosa non finirà qui.
Tutti i cachet dei programmi tv. Giornalisti e politici: quanto guadagnano, scrive “Libero Quotidiano" del 29 gennaio 2016. Programma tv che vai, gettone che trovi. Uno dei tormentoni del telespettatore medio è interrogarsi su se e quanto siano pagati gli ospiti nello studio del programma che si sta guardando. A svelare qualche retroscena ci ha pensato un articolo del quotidiano La Notizia che ha preso in esame i cachet pagati per le ospitate in diverse trasmissioni televisive, soprattutto talk show e programmi di infotainment sportivo. Un giro di "rimborsi" e cachet che riguarda personaggi dello spettacolo e anche qualche giornalista e politico, anche se per la maggior parte partecipano ai programmi gratuitamente. I più ricchi - A pagare meglio di tutti la presenza in tv è Mediaset, che per esempio ha sborsato 20mila euro per ogni partecipazione di Claudio Amendola al Grande Fratello o 5mila per avere Vladimir Luxuria. Un po' meno quotati Alba Parietti e l'opinionista Giampiero Mughini, habitueé anche di Tiki Taka, che incassano tra i 1500 e i 2000 euro a presenza. Sulle stesse cifre viaggiano altri ospiti frequenti nel programma di Pierluigi Pardo, vedi Melissa Satta e Giuseppe Cruciani. Proprio il conduttore della Zanzara potrebbe presto veder aumentare le sue quotazioni se dovesse accettare l'avventura a Ballando con le stelle. Cifre più contenute a Mattino 5, dove si oscilla tra le 500 e le 2000 euro. I più poveri - Le ospitate in Rai sono un affare meno succulento per chi frequenta gli studi della tv pubblica. Al Processo del lunedì la più pagata sarebbe stata Mara Maionchi, il cui compenso però non è noto. Ma non se la passa male neanche l'onnisciente Andrea Scanzi del Fatto quotidiano, che per ogni apparizione ha intasca tra le 1000 e le 1500 euro. Non sempre però viale Mazzini riconosce un gettone di presenza, quando c'è di norma non va oltre le 500 euro, fatta eccezione per chi si presta a fare il giudice in programmi come Ballando o Tale e Quale: per personaggi come Zazzaroni, Lippi, Goggi e Proietti i cachet salgono. Visibilità - I più sfortunati sono gli ospiti dei programmi di La7, con le dovute eccezioni. Chi viene chiamato per partecipare alle levatacce di Omnibus, o a Coffe Break, oppure l'Aria che tira, il compenso sarà solo un ricco pacco di visibilità. Solo per qualcuno viene previsto il rimborso del taxi. Certo non tutti sono così bistrattati. A coccolare i suoi ospiti ci pensa per esempio Lilli Gruber che mantiene un giro fisso di ospiti sin dall'inizio della stagione, vedi Damilano, Cacciari, Travaglio e il solito onnisciente Scanzi. Con loro concorda un pagamento forfettario con tanto di contratto.
Ospiti del Biscione, che pacchia. Mediaset paga bene, la Rai così e così, La7 è gratis. Bottino ricco per l’opinionista Amendola al Gf, scrive Marco Castoro su “La Notizia Giornale” il 29 gennaio 2016. Fare l’ospite in tv di professione può convenire, anche economicamente. Certo, non si guadagna quanto Mastrota, il re delle televendite (850mila l’anno). Tuttavia a fine mese si può portare a casa un bel gruzzolo. Una premessa però va subito fatta: non tutte le trasmissioni pagano. E non tutti gli ospiti che vi partecipano percepiscono il gettone di presenza. Anzi la maggior parte ci va gratis. Soprattutto politici e giornalisti. I cachet più elevati sono quelli di alcuni programmi di Mediaset. A cominciare dal Grande Fratello. Opinionisti come Claudio Amendola sono super pagati (oltre 20mila euro a puntata), ma anche Luxuria si porta a casa qualche soldino (5mila ad apparizione). Altri ospiti molto gettonati sono Giampiero Mughini e Alba Parietti. Il loro target oscilla tra i 1500 e i 2000 euro a presenza. A Tiki Taka Melissa Satta è quotata quanto l’opinionista di fede juventina. Gli altri non percepiscono soldi. Compreso Cruciani. Un gettone una tantum, nulla più. Se il conduttore della Zanzara dovesse andare a Ballando la musica cambierebbe. Al Processo del lunedì l’ingaggio più alto era della Maionchi, ma ora non c’è più. Resta bene in quota Andrea Scanzi che viaggia tra i 1000 e i 1500 a puntata. Anche a Mattino 5 si va da un minimo di 500 euro a un massimo di 1500-2000. La Rai se paga il cachet non rimborsa le spese e viceversa. Le tariffe sono più basse, si va dalle 250 alle 500 a puntata. Escluse ovviamente trasmissioni in cui si fa il giudice, tipo Ballando e Tale e Quale. Per Lippi, Goggi, Proietti e Zazzaroni la quota sale un po’. A La7 invece i cachet li trovi solo in farmacia. Omnibus, La Gabbia, Coffee Break e l’Aria che tira non danno il gettone di presenza. Al massimo pagano il taxi. Discorso diverso per Otto e mezzo. La Gruber ha i suoi opinionisti prescelti a cui sottopone un contratto a inizio stagione. Travaglio, Cacciari e Damilano sono tra i più presenti. Ma si vede spesso pure Scanzi. Ovviamente si tratta di cifre lorde, da cui vanno detratte le tasse e la percentuale per l’agente.
I cachet delle star che la Rai nasconde. La Rai si oppone alla legge che obbliga la pubblicazione dei compensi degli artisti. Vi riveliamo quanto guadagnano i vip: dai 2,6 milioni di Fabio Fazio ai 550mila euro di Floris, ecco tutti i cachet, scrive Laura Rio, Domenica 10/02/2013, su "Il Giornale". Due milioni di euro annuali a Fazio? Più i 600 mila per Sanremo? Un milione e 500 mila ad Antonella Clerici? Un milione e 400 mila a Carlo Conti? Sono cifre «rubate», non ufficiali, che non potete trovare su alcun documento pubblico, su nessun sito della Rai. Cifre enormi che, nelle maggior parte dei casi, sono meritate perché a loro volta, con i loro programmi, le star televisive fanno guadagnare la Tv di Stato, come i campioni del calcio. La differenza è che i soldi per questi compensi vengono direttamente dalle tasche dei cittadini che pagano il canone e che dunque avrebbero a buon ragione il diritto di verificare come vengono spesi. Invece, nonostante una legge imponga la pubblicazione dei cachet sul sito web, la Rai ha deciso di opporsi a un obbligo che la costringerebbe a rivelare «dati sensibili» che potrebbero metterla in difficoltà con la concorrenza. Essendo la Rai un organismo di diritto pubblico - spiegano in viale Mazzini - l'azienda deve rispettare alcuni obblighi sulle gare d'appalto, ma questi non valgono per la parte artistica, altrimenti non potrebbe stare sul mercato. Questi compensi, dunque, non sono soggetti al limite massimo pari allo stipendio del primo presidente di Corte di Cassazione (274 mila euro annui), come invece è diventato d'obbligo per i dirigenti. La querelle va avanti da anni, con pareri discordanti e contrastanti tra ministero della Funzione pubblica, Parlamento e Garante della concorrenza (quest'ultimo ha dato parere favorevole alla Rai). Motivo per cui, sul sito apposito, dove si dovrebbero leggere i cachet, campeggia ancora la scritta: «Lavori in corso. A breve sarà disponibile la documentazione relativa». Ma l'onorevole Renato Brunetta non demorde e continua la sua battaglia avviata quando era ministro della Funzione pubblica: giorni fa ha chiesto in una lettera alla presidente Anna Maria Tarantola di procedere alla pubblicazione. Altrimenti, minaccia, si rivolgerà alla Corte dei Conti. In attesa di sapere come la questione andrà a finire, per chi vuole rodere d'invidia, ecco un assaggio dei compensi dei volti più noti della Tv di Stato, ovviamente tutti rintracciati di straforo, a spanne e non certificati da nessuno. Si sa, l'abbiamo detto altre volte, il più pagato dalla Tv pubblica è Fabio Fazio: il suo contratto per Che tempo che fa vale due milioni di euro l'anno cui si aggiungono i 600 mila per condurre il Festival. Totale per la stagione televisiva 2012/2013 due milioni 600 mila euro, cifra in effetti da capogiro. Altri compensi di tutto rispetto, pur se a notevole distanza dal capofila, sono quelli di Antonella Clerici e Carlo Conti. La conduttrice de La prova del cuoco e Ti lascio una canzone mette insieme un milione e mezzo di euro (cui si aggiungono ovviamente molti altri soldi per le telepromozioni). Invece il capitano de L'eredità, i Migliori anni e tanti altri show arriva a un milione e 400mila (più telepromozioni). Tra i giornalisti, il compenso di Giovanni Floris (Ballarò) si aggira sui 550 mila euro, quello di Bruno Vespa, sui 600. La Littizzetto, partner di Fazio, prende 20mila euro a puntata per Che tempo che fa e 350mila euro per il Festival. Mara Venier, per la Vita in diretta guadagna mezzo milioni annui. Gli altri contratti, delle presentatrici dei programmi mattutini o pomeridiani, come Elisa Isoardi o Veronica Maya, si aggirano sui 200mila euro. Tutte cifre che, ovviamente, saremmo pronti a correggere, se potessimo leggerle sul sito ufficiale della Rai.
RAI, ECCO I CACHET (UFFICIOSI) DELLE STAR: FABIO FAZIO E’ IL PIU’ PAGATO. CLERICI “BATTE” CONTI. Chissà che lavoraccio, col «Redditest» scrive Marco Leardi. Con le somme che percepiscono, infatti, alcuni volti noti della Rai avranno un bel daffare nella compilazione dei loro incassi annuali: provate voi a gestire certe cifre a sei zeri. Preamboli a parte, in tempi di crisi fa un certo effetto conoscere l’entità dei cachet ottenuti dalle star della tv pubblica. Si tratta di compensi importanti – per lo più meritati e giustificati da successi professionali – che Viale Mazzini non si è ancora decisa a rendere ufficialmente noti, come prevederebbe la legge. A svelare numeri e stipendi, però, ci ha pensato Il Giornale, raccogliendo alcune indiscrezioni spannometriche al riguardo. Nulla di certificato, quindi, ma meglio che niente. Ad ulteriore conferma di un primato già noto, Fabio Fazio si conferma il conduttore Rai più pagato: il suo contratto per Che tempo che fa varrebbe due milioni di euro, cui si aggiungerebbero i 600mila euro del Festival di Sanremo 2013. Hai capito, il Fabietto?! La sua irresistibile compare, Luciana Littizzetto, percepirebbe invece 20mila euro per ogni suo monologo su Rai3, più i 350mila euro pattuiti per la co-conduzione della kermesse canora. Antonella Clerici, presentatrice de La Prova del Cuoco e Ti Lascio una canzone, staccherebbe invece un assegno da un milione e mezzo di euro l’anno, mentre il cachet di Carlo Conti, stakanovista di successo su Rai1, ammonterebbe a 1milione e 400mila euro. A tali cifre, bisogna poi aggiungere gli introiti degli sponsor. Tra i giornalisti della tv pubblica, il più “ricco” risulta Bruno Vespa, con un compenso di circa 600mila euro; al conduttore di Ballarò Giovanni Floris, invece, andrebbero 550mila euro. Il cachet stagionale di Mara Venier, regina del pomeriggio televisivo con La vita in diretta, sarebbe di 500mila euro. Sempre secondo Il Giornale, altre conduttrici come Elisa Isoardi e Veronica Maya avrebbero un contratto di circa 200mila euro. Di per sé, le cifre elencate non stupiscono né scandalizzano: il mercato televisivo si attesta infatti a quei livelli, e laddove si ottengano dei buoni risultati è giusto che essi vengano premiati. Tuttavia, sarebbe opportuno che gli abbonati Rai potessero conoscere le cifre ufficiali destinate a ricompensare le star del servizio pubblico. Lo impone la legge, peraltro, e di recente anche l’ex ministro Renato Brunetta è tornato a battere sul punto. I tempi e i modi per farlo potrebbero essere stabiliti in modo da non regalare dati sensibili alla concorrenza. La trasparenza paga, paga sempre: come la Rai.
RAI: ECCO I COMPENSI GIORNALIERI DEI BIG. FABIO FAZIO PIU’ RICCO DI VESPA E GUBITOSI, continua sabato 28 dicembre 2013 Marco Leardi. Il bilancio di fine anno lo fai dal commercialista. Del resto, quando incassi certe cifre, mica è facile tenere il conto. Fanno sempre girare la testa – più dei brindisi ripetuti di questi giorni – i compensi percepiti da alcuni volti noti del piccolo schermo. E, ovviamente, l’attenzione cade sui cachet elargiti da Viale Mazzini, il servizio pubblico sovvenzionato (anche) dai contribuenti. Stavolta, a far notizia sono i guadagni giornalieri intascati da alcuni conduttori Rai, che in 24 ore percepiscono più di un professionista in un mese. A divulgare i compensi giornalieri (ufficiosi) era stato il portale Raiwatch, vicino a Renato Brunetta, noto fustigatore degli stipendiati d’oro del servizio pubblico. Così, stando alle cifre riportate, si apprende che il Direttore Generale Rai Luigi Gubitosi guadagnerebbe 1.780 al giorno, mentre la Presidente di Viale Mazzini Anna Maria Tarantola ne percepirebbe ’solo’ 1.095. Come il cantante e showman Pupo. Cachet ben più sostanziosi sono quelli assegnati ai conduttori più in vista della tv pubblica, a partire da Fabio Fazio. Al giorno, il presentatore del prossimo Festival di Sanremo intascherebbe 5.479 euro. Il buon Fabio, lo ricordiamo, si era già distinto per quel discusso contratto da 5,4 milioni di euro (cifra mai confermata né smentita dal diretto interessato) siglato con la Rai. Stando alle cifre divulgate, il conduttore de L’Eredità e di Tale e quale Show, Carlo Conti, percepirebbe invece 3.561. Meno di Antonella Clerici, con i suoi 4.000 euro circa al giorno. E Bruno Vespa? Anche il cerimoniere di Porta a Porta compare tra i volti Rai più pagati. Il giornalista, inossidabile timoniere del suo talk show, guadagnerebbe 3.287 euro giornalieri. Di recente, Vespa era stato criticato proprio dallo stesso Brunetta in riferimento al suo stipendio: “guadagna 6 milioni. Vespa è come Fazio, è inaccettabile”, aveva attaccato il capogruppo alla Camera di Forza Italia. Si tratta di cifre ufficiose, non confermate, che tuttavia riaccendono il dibattito sull’entità dei compensi elargiti dalla Rai ai suoi professionisti, e sulla loro pubblicazione. Sulla questione era intervenuto lo stesso DG Gubitosi, che per motivi concorrenziali si era dichiarato contrario all’obbligo di divulgazione delle cifre pattuite con gli artisti. Di parere opposto, invece, il Presidente della Vigilanza Roberto Fico, teorico della trasparenza. E il braccio di ferro continua.
Tutti quelli che lavorano in Rai (e soprattutto, quanto guadagnano), scrive il 6 marzo 2015 "Bergamo Post”. La Rai ha recentemente inviato un documento contenente la mappa dell’organico aziendale al Ministero dell’Economia (essendo quest’ultimo suo azionista di controllo), da cui è possibile desumere tutti i dati circa le remunerazioni dei dipendenti della televisione di Stato italiana. Ne è emerso un quadro estremamente sfaccettato, fatto di contratti a tempo indeterminato, lavoratori che di anno in anno devono guadagnarsi la riconferma, cachet da capogiro e stipendi che vanno dal minimo sindacale all’addirittura illegale. In quanti lavorano in Rai, e chi sono. Da un punto di vista globale, la Rai offre lavoro a 12mila dipendenti, più altri 10mila che però ricoprono il ruolo di collaboratori, con quindi i dovuti distinguo a livello contrattuale. Degli appartenenti alla prima categoria, quella dei dipendenti, 1.581 sono giornalisti con contratto a tempo indeterminato, dei quali 303 rivestono ruoli dirigenziali, a fronte di un effettivo, e calcolato, bisogno di sole 262 unità. Sempre nel computo dei giornalisti professionisti senza contratti a termine, altri 688 rivestono normali figure di redattori, mentre i restanti sono perlopiù invitati speciali. Il resto dei dipendenti si divide in varie mansioni: 2.466 impiegati d’ufficio, 470 funzionari semplici, 293 funzionari di fascia superiore e diverse migliaia di impiegati di regia e produzione. Il prospetto rendiconta anche le spese di 11 medici e 108 orchestrali. Complessivamente, fra i circa 12mila dipendenti, 1.360 dispongono di un contratto a tempo determinato, rinnovabile di anno in anno, ma senza certezza. Per quanto riguarda invece i circa 10mila collaboratori (10.019, per la precisione), per la maggior parte si tratta di lavoratori precari, nonostante il loro fondamentale ruolo nell’azione dell’azienda. Nello specifico, di questi 10mila, 9.800 vivono su contratti a termine e con poche tutele, mentre i (pochissimi) restanti possono dormire sonni più che sereni, trattandosi di collaboratori affermati e che la Rai ingolosisce con retribuzioni decisamente elevate. Quanto guadagnano quelli che lavorano in Rai. La nostra tv di Stato dispone di ricavi annuali pari a circa 2,3 miliardi di euro, derivanti soprattutto da pubblicità e canone, pur soffrendo un elevato tasso di evasione da parte di molti cittadini che comunque usufruiscono del servizio (circa il 30 percento, in crescita di 5 punti rispetto allo scorso anno); si spiega facilmente allora la piccola sovrattassa introdotta quest’anno. Di questi ricavi, 905 milioni vengono spesi in stipendi e retribuzioni. Di quei citati 1.581 giornalisti professionisti con contratto a tempo indeterminato, la metà circa guadagna 105 mila euro l’anno (si parla sempre, anche nel proseguo, di cifre lorde), e coloro che invece rivestono ruoli dirigenziali (303) incamerano cifre oscillanti fra i 120mila e i 240mila euro. Nonostante quest’ultimo sia il tetto massimo stabilito dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, alcuni dei giornalisti più affermati arrivano addirittura a 310mila euro all’anno. Un inviato speciale può arrivare anche a 126mila euro, un redattore a tempo indeterminato a 85mila, mentre uno a tempo determinato si ferma a 54mila euro. Per quanto riguarda invece i dipendenti d’ufficio, di regia, e in generale dell’amministrazione, la media è di 67mila euro annui. Mentre 800 milioni di quella parte dei ricavi destinata agli stipendi è riservata ai dipendenti, solo 105 milioni è invece indirizzata ai collaboratori, per quanto il numero (12mila e 10mila) sia pressoché analogo. Anche per quanto riguarda questa categoria, la forbice è parecchio larga, passando da poche decine di migliaia di euro per arrivare anche ad alcune centinaia. Per la precisione, 175 oscillano fra gli 80 e i 240mila, 31 superano anche i 300mila, mentre i restanti 9.800 devono accontentarsi di quanto rimane. Posto tutto questo, occorre sottolineare che non vengono computati i maxi cachet dei conduttori più affermati, come ad esempio Fabio Fazio, che per la trasmissione domenicale Che tempo che fa guadagna 2 milioni l’anno, o Bruno Vespa, che con il solo Porta a Porta incamera più di 4 milioni, a cui vanno sommati gli extra per i vari speciali elettorali o di qualsiasi genere, che fanno lievitare la cifra annuale a 6,3 milioni di euro. Il caso del G20 in Australia. Recentemente, si è sollevato un gran polverone circa presunti sprechi economici, in termini di remunerazioni, compiuti dalla Rai: l’occasione è stato il G20 tenutosi in Australia, per il quale vennero inviati 13 professionisti. Fra biglietti aerei, alberghi, pranzi e costi tecnici, vennero spesi 60mila euro per un evento di due giorni. Luigi Gubitosi, direttore generale di via Mazzini, ha avuto modo di sottolineare come questa cifra spropositata certifichi la presenza di anomalie nel sistema retributivo della Rai, a cui la dirigenza della tv di Stato, insieme al Governo, sta cercando di far fronte con, ad esempio, l’unificazione dei telegiornali delle reti principali. Ma si prospettano, per l’immediato futuro, numerosi altri interventi.
«Ecco quanto guadagna un giornalista Rai». Il Fatto Quotidiano pubblica le presunte cifre degli stipendi dei dipendenti della tv pubblica. 303 dirigenti giornalisti guadagnano tra i 120mila e i 240mila euro l’anno. 688 redattori ordinari invece ne portano a casa mediamente 85mila. Sono alcune delle cifre sugli stipendi Rai diffuse oggi dal Fatto Quotidiano in un articolo a firma Carlo Tecce. I numeri sono ripresi dalla mappa dell’organico che l’azienda televisiva pubblica ha inviato al suo azionista di controllo, il Ministero dell’Economia, aggiornata al 31 dicembre 2013: Viale Mazzini dispone di 1.581 giornalisti con un contratto a tempo indeterminato, la metà guadagna più di 105.000 euro l’anno e può sfoggiare almeno la qualifica di caposervizio (sono 279). I dirigenti giornalisti, dai capiredattori in su, sono 303 e vanno dai 120.000 euro ai 240.000 euro, il limite imposto alle società partecipate dal Tesoro. Un anno fa, sei giornalisti superavano i 310.000 euro. I telegiornali Rai, che stanno per subire la riforma approvata in Cda, possono muovere 64 inviati speciali, 126.000 euro ciascuno è il prezzo per Viale Mazzini. I vice capiredattori sono 150, tradotti in milioni fanno 18. I redattori ordinari con buste paga che non rispecchiano il mercato odierno – la media è di 85.000 euro – sono 688; chi ha un lavoro a termine riceve non più di 54.000 euro.
E ancora, continua Tecce sul Fatto Quotidiano: Viale Mazzini per funzionare ha bisogno di 262 dirigenti, una decina lambisce il tetto dei 240.000 euro. Nel 2013, gestione di Gubitosi, la Rai ha assunto 13 dirigenti e ha fatto 35 promozioni con adeguamento della retribuzione. Il personale, esclusi i giornalisti, conta 8.501 dipendenti: 2.466 impiegati, 470 funzionari semplici, 293 funzionari di fascia superiore (media di 67.000 euro). Il prospetto rendiconta anche le spese per 11 medici, 108 orchestrali, 1.537 impiegati di produzione, 1.624 addetti alla regia, 870 operai e 142 tecnici. Vanno poi considerati a parte i 1.360 lavoratori a tempo determinato, di cui 262 giornalisti e 349 addetti alla regia. Ed anche i collaboratori con contratto di lavoro autonomo, ovvero cocopro e partite Iva, un esercito di 10.019 precari che costano 110 milioni di euro e sono indispensabili per mandare in onda i programmi Rai: Per la precisione, i precari senza tutele vanno rintracciati nel gruppo di 9.800 lavoratori su 10.019 che guadagnano da poche decine di migliaia di euro a un massimo di 80.000. Il resto ha ingaggi elevati: 175 oscillano tra gli 80.000 e i 240.000 euro e in 31, fino al 2013, sforavano quota 310.000 euro. Concludendo la Rai dà lavoro ad oltre 12mila dipendenti e 10mila collaboratori per un costo del lavoro di 905 milioni di euro.
Una triste gara tra bugiardi. Per la seconda settimana Panorama inchioda i protagonisti della vicenda Boschi. Ma la vicenda viene ignorata. E cade nel silenzio, scrive il 29 gennaio 2016 Giorgio Mulè su Panorama”. Per la seconda settimana ci occupiamo con la storia di copertina del caso Boschi. Lo facciamo perché nuovi documenti e nuove circostanze inchiodano i protagonisti di questa vicenda alle loro responsabilità. Ai lettori di Panorama non sarà sfuggito che i telegiornali nazionali, al contrario di tutti i quotidiani, hanno ignorato la vicenda. Il perché è chiaro anche a un bambino: la narrazione renziana non accetta alcuna nota stonata che possa disturbare la dolce e fallace melodia del premier. Decidere di assecondare questa marcetta è problema di coscienza (deontologica e personale) che ognuno vedrà di risolvere con se stesso. Di certo è assai significativo che non una parola, foss'anche per accusare Panorama di aver montato strumentalmente un caso (un classico, insieme alla sempiterna gnagnera della "macchina del fango"), sia stata pronunciata sulla vicenda dai prolifici gendarmi renziani. Anche in questo caso il busillis è di assai facile soluzione: i fatti non si possono smentire neppure con una spericolata arrampicata semantica. I nuovi elementi che offriamo in questo numero stanno lì, copiosi, a suggerire ai protagonisti di trarre ognuno per la propria parte le conclusioni. L'immagine che ritrae il 24 ottobre 2013 Pier Luigi Boschi, all'epoca indagato dalla Procura di Arezzo per estorsione, in platea a seguire un convegno organizzato dalla stessa Procura mentre il suo "inquisitore" Roberto Rossi disquisisce di "imprese e legalità" con l'onorevole Maria Elena Boschi in prima fila, vale più di ogni editoriale. In quell'istantanea manca solo l'avvocato aretino Giuseppe Fanfani, difensore di Boschi, che ritroviamo oggi al Consiglio superiore della magistratura - indicato dal Pd di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi - nella veste di "giudice" che dovrà decidere se trasferire ad altra sede il magistrato che indagò sul suo assistito. Il Csm è organo indipendente di rilevanza costituzionale ed è la sede dove va tutelata l'autonomia e l'indipendenza della magistratura: l'avvocato Fanfani, a fronte del diniego assoluto di Rossi pronunciato proprio davanti alla prima commissione del Csm di conoscere alcun membro della famiglia Boschi, avrebbe avuto il dovere di segnalare che la circostanza era quantomeno inesatta essendo stato lui "controparte" di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Pier Luigi Boschi. Non lo ha fatto e così è venuto meno al suo ruolo di "garante": non basta adesso cavarsela magari con una pilatesca astensione quando il plenum del Csm (che solo grazie a Panorama ha evitato in extremis di archiviare tutto) sarà chiamato a votare se trasferire o meno Rossi. Su Fanfani pesa l'ombra di un favoritismo (familismo, stavo per dire), rileggendo oggi chi lo ha voluto al Csm, francamente insopportabile per il decoro delle istituzioni. Va da sé che anche la presenza di Rossi come titolare delle indagini su Banca Etruria (di cui Pier Luigi Boschi è stato vicepresidente già sanzionato da Banca d'Italia con una multa di 144 mila euro) è imbarazzante alla luce delle rivelazioni di Panorama e non garantisce la serenità delle parti offese, cioè i risparmiatori, rispetto alla sua autonomia e indipendenza. E in ultimo eccoci al ministro Maria Elena Boschi, silente dopo il nostro scoop. Atteniamoci alla sua versione sulla totale "purezza" del padre, che però presuppone che: nulla sapesse che il babbo aveva definito nell'aprile 2014 un procedimento penale per dichiarazione infedele (volgarmente chiamata evasione fiscale) grazie al pagamento di una multa a fronte di un versamento in nero di 250 mila euro; nulla sapesse che quella multa era legata a un'inchiesta iniziata nel 2010 e condotta dal procuratore Rossi il quale aveva fatto anche perquisire la casa dove lei risiedeva con il padre. Mi fermo qui e mi chiedo: come può governare l'Italia un ministro che non sa quello che succede a casa sua?
"Se comanda la sinistra si perdona tutto". Fabrizio Del Noce, lo storico volto del Tg1: "Dopo l'editto bulgaro si riempirono le piazze, oggi poche voci contrarie al Pd", scrive Laura Rio, Sabato 30/01/2016, su "Il Giornale".
Laura Rio - Fabrizio Del Noce, lei è stato per anni direttore di Raiuno (2002-2009) quando premier era Berlusconi. Cosa sarebbe successo a quell'epoca se il segretario della commissione di vigilanza Rai avesse chiesto il licenziamento di un conduttore come ha fatto Michele Anzaldi nei confronti di Massimo Giannini?
«Si sarebbero riempite le piazze contro di noi. Come ha detto Saviano c'è un nuovo editto bulgaro e ciò che sotto Berlusconi era inaccettabile adesso è grammatica del potere. Solo che quando al potere c'era il centrodestra non veniva perdonato niente, adesso si levano poche voci contrarie».
Però, all'epoca, l'editto bulgaro venne portato a termine e chiusi i programmi di Biagi, Santoro, Luttazzi e di altri giornalisti e comici che osavano criticare il governo.
«E infatti fummo massacrati, non per giorni, non per mesi, ma per anni. Ci uno scontro durissimo a qualsiasi livello, mediatico e politico, come se avessero buttato una bomba atomica. Per questo vedo ancora di più due pesi e due misure. Non mi pare ci siano sollevazioni popolari ora». Anche perché a dilaniarsi sono gli esponenti politici della stessa area politica...«Infatti: mi pare che non venga ammessa neanche la critica interna oltre a soffocare quella esterna. Vedo una insofferenza per ogni tipo di lesa maestà».
Vuol sostenere che ai tempi di Berlusconi la Rai era più libera?
«La Tv di Stato è sempre stata soggetta alla politica, da molto tempo prima dell'arrivo di Forza Italia. E di episodi di censura, da Grillo a Tognazzi a Vianello ne possiamo ricordare tanti. Ma sinceramente ora mi sembra che sia calata una cappa di convenzionalismo».
A distanza di anni, non si rimprovera nulla per la chiusura del Fatto di Biagi?
«Come ha ammesso anche Berlusconi, i modi e i tempi forse non furono appropriati. Del resto quando sei in quelle situazioni qualcosa ti può sfuggire di mano. E comunque abbiamo pagato un prezzo altissimo di immagine. Ma ricordiamo che fu Biagi alla fine che scelse di andare via perché non c'erano più le condizioni per fare una trasmissione in serenità, qualunque cosa avesse fatto e detto sarebbe stato un inferno».
Che differenza trova tra la sua Rai e quella di oggi?
«Berlusconi a volte esagerava, usava delle espressioni di cui poi magari si pentiva e che lo mettevano in situazioni difficili. Renzi è più insofferente di Berlusconi ma anche più accorto, agisce in maniera meno plateale ma efficace».
All'epoca voi foste accusati di fare il gioco di Mediaset...
«I risultati parlano chiaro: nei sette anni in cui sono stato direttore, Raiuno, e la Rai in genere, ha avuto la leadership negli ascolti e nel prestigio. Ancora oggi il primo canale è retto dai programmi che feci io».
Che effetto le fa leggere Santoro che si lamenta che i suoi programmi non trovano collocazione in nessuna tv ricordando gli anni delle furiose battaglie?
«I tempi cambiano: lui è rimasto in auge per oltre un ventennio, un giornalismo aggressivo come il suo si consuma presto. Io l'ho sempre apprezzato per il coraggio di esporsi. E oggi di talk ce ne sono troppi e troppo simili».
Lo spoils system è una pratica accettata da anni: il neo direttore generale sta azzerando la vecchia linea dirigenziale, così successe anche ai suoi tempi.
«Sì, solo che a quei tempi esistevano misure di controbilanciamento. In base alla legge Gasparri c'era un cda in cui sedevano quattro membri nominati dalla maggioranza e quattro dalla minoranza e il presidente era un esponente della minoranza. Io ho lavorato con presidenti come Petruccioli e Garimberti con cui avevo duri ma rispettosi confronti. Adesso, invece, il potere è stato concentrato nelle sole mani del direttore generale».
Campo Dall'Orto sta prendendo la direzione giusta?
«Sinceramente non è stato fatto ancora nulla di significativo. Aspettiamo di vedere le nomine nelle reti e nelle testate e i nuovi programmi. La Rai deve pensare al futuro: la sfida di oggi si gioca sui new media e sulla competizione con Sky».
Lei lo avrebbe licenziato Azzalini (per il countdown di Capodanno)?
«Quello che ha fatto è assurdo. Ha tentato pure di dire che anche ai miei tempi si anticipava il conteggio, cosa falsa. In ogni caso, io da direttore di Raiuno mi sarei preso la responsabilità. In passato, in un caso del genere si sarebbe scelto il trasferimento a un'altra area».
E Giannini?
«Da direttore lo avrei difeso strenuamente. Poi magari in privato avremmo fatto quattro chiacchiere».
Rai, Sciarelli fa la delatrice e chiede di chiudere "Virus". La conduttrice di "Chi l'ha visto?" difende la Berlinguer e si scaglia contro Raidue e Porro: "Perché hanno scelto lui?". L'atteggiamento da "Telekabul" non è cambiato negli anni, scrive Fabrizio Boschi, Sabato 03/10/2015, su "Il Giornale". Esiste una Federica Sciarelli ante Renzi e una Federica Sciarelli post. Il disturbo bipolare è provocato dal fatto che una volta il maggiore partito della sinistra era dalla parte di quella che era conosciuta come Telekabul , ovvero Rai3 , mentre oggi l'offensiva arriva proprio da ambienti vicini al presidente del Consiglio, nonché segretario del maggiore partito della sinistra. La conduttrice di Chi l'ha visto? ha stirato i panni sgualciti da consigliere dell'Ordine dei giornalisti, per lanciarsi a pesce nella mischia, da inossidabile aziendalista, per difendere colleghi e Rai. Pardon, per difendere certi colleghi e una certa Rai. Intervistata dal Fatto quotidiano la maestrina della libertà di espressione (quella che sta bene a lei) si scaglia su Renzi per le bordate dei giorni scorsi sui talk show sempre più noiosi «che fanno meno ascolti di Rambo». Guai attaccare la compagna Bianca Berlinguer che azzarda battaglie per la Rai libera dai partiti solo perché ora rischia di perdere il posto. La Sciarelli si schiera dalla sua parte e del suo Tg3 passando come un bulldozer sopra i colleghi della rete sorella (Rai2) che non gli vanno a genio. «Perché si parla degli ascolti di Rai3 e di Ballarò e non quelli di Rai2 e di Virus, che non fa numeri tanto diversi? Perché non chiediamo al direttore di Rai2 come mai al posto di Porro non è stato messo Dario Laruffa, assunto per concorso alla Rai e preparatissimo? Voglio dire: se si vuol fare una riflessione deve valere per tutti». Mica tanto per tutti a dire il vero. Secondo la ex pupilla di Telekabul , the original , quella di Sandro Curzi direttore agli inizi degli anni Novanta, di tutti i talk che fanno «il 4 e qualcosa per cento», l'unico da dover far fuori sarebbe Virus , dando pure del raccomandato al suo conduttore. Spende parole di stima nei confronti dei colleghi Floris e Giannini, ma non esita a scaraventare giù dalla torre proprio Nicola Porro. Se poi i talk non vanno oltre il 4 per cento, secondo la Sciarelli non c'è problema, e prende in prestito una frase di Giulio Andreotti. Durante la prima Repubblica iniziò la carriera giornalistica proprio al Tg3, occupandosi di politica, e quando ci fu il cosiddetto «editto bulgaro» di Berlusconi contro Santoro, Biagi e Luttazzi, lei insieme ad altri, sollecitarono l'allora premier Andreotti, che col suo noto sarcasmo rispose: «C'è il telecomando». Anche secondo la Sciarelli «se non ti piace un programma, basta non guardarlo». Ma nel caso di Virus sarebbe meglio che non andasse proprio in onda. Così il problema sarebbe bello che risolto. Ecco la lezione di giornalismo e di libertà di informazione della compagna Sciarelli che nella stessa intervista si pone una domanda: «È davvero tutta colpa dei conduttori? O sono i politici che annoiano e sono meno appetibili di Rambo?». E se il deputato del Pd e membro della Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, accusa Rai3 di «trattare il Pd peggio di Berlusconi» («Rai3 e Tg3 sono un problema»), la Sciarelli non rimane zitta e si scaglia velenosissima contro Virus e Porro. Dove sia il nesso fra le due cose non si sa, ma secondo lei ci sta bene. Evidentemente Telekabul ha cambiato il pelo ma non il vizio. Sono lontani i tempi delle epurazioni eppure Renzi ha parlato di «racconto pigro e mediocre» della realtà fatto dai talk show, dimostrando di non gradire come il partito e il governo vengono trattati nei programmi tv. Ma com'è nel suo stile dare un colpo al cerchio e uno alla botte, giura davanti al microfono della guerrigliera Bianca Berlinguer che «non c'è alcun editto bulgaro. Non c'è nessuna volontà di mandare a casa nessuno. C'è un signor direttore generale, farà lui le scelte». Quel signore è Antonio Campo Dall'Orto, renziano fino al midollo, che ha insegnato a Renzi a parlare. Berlinguer, Sciarelli&co. Possono, dunque, dormire sonni sereni. Con o senza Virus.
Il tramonto dei comunisti tv tra ristoranti e giardinaggio. Il teletribuno lancia un inserto sui ristoranti, la Dandini si occupa di piante, scrive Daniele Abbiati, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Dal Rosso di sera al rosso d'uovo. Michele Santoro è uno abituato ad andare al centro dei problemi. Il contorno, l'albume lo lascia agli altri, a quelli che una volta si chiamavano benpensanti, anche perché è appunto bianco, un non colore, quindi non allineato. Sono passati sette mesi dalla kermesse con cui il giornalista chiuse Servizio pubblico per dedicarsi, suo malgrado, al privato. Sette mesi, quasi l'invecchiamento di un vinello leggero, mica roba da palati forti come il suo. Non l'ha ancora metabolizzato, il Nostro, lo stop al programma. Lo si capisce da come inizia il pezzo uscito ieri sul Fatto Quotidiano, locale di riferimento del santorismo. «Curiosamente, da quando siamo usciti di scena, non si parla più di crisi dei talk. Segno che i talk sono tutti uguali, ma ce n'era uno che evidentemente era più uguale degli altri». Pluralis maiestatis a parte, Santoro va come di consueto al cuore del problema. Che però nel frattempo è diventato un non problema, un albume colloso. L'articolessa, dopo aver (ri)saltato in padella le accuse alla Rai, colpevole di aver dimenticato nel freezer per anni il film Processo all'Olocausto, serve l'antipasto del nuovo progetto. Si chiama Buono! e viene portato in edicola da oggi proprio sul giornale diretto da Marco Travaglio. Di che si tratta? Di cibo, è un inserto stellato, ma i pentastellati grillini non c'entrano un fico secco. Le stelle sono quelle Michelin di grandi cuochi come Gualtiero Marchesi. «Mangiare è un diritto, digerire è un dovere», diceva un altro stimabilissimo Marchesi, cioè Marcello. E Santoro, con quel peso sullo stomaco, ha deciso di farsi un'alka seltzer dedicandosi al buon gusto. Non è il primo, fra i celebri volti televisivi schierati à gauche, con o senza caviar, a cercare strade alternative che non portino a Roma, viale Mazzini o Saxa Rubra. Serena Dandini, per esempio, si è da tempo data al giardinaggio. Dai diamanti non nasce niente, ammoniva il suo libro su Storie di vita e giardini, citando De André. Per fertilizzare, il letame cantato da Faber è molto meglio del famigerato fango destrorso. Un concetto, questo, che fiorisce puntualmente anche nel blog Il pane & le rose targato Io donna. Molta acqua è passata sotto i ponti e negli annaffiatoi da quando Serena era nella squadra sbarazzina della Tv delle ragazze, e molte ragazze hanno preso il posto delle ex ragazze come lei. Tipo Giulia Innocenzi, volgarmente appellata «santorina», con quella desinenza in «ina» che fa pensare a «olgettina». Lei, «incurante dei consigli per gli acquisti - scrive il suo mentore nell'articolessa sopra citata - continua a occuparsi dei diritti degli animali e, a dire il vero, anche di quelli umani». Ecco, dopo cucina e giardinaggio, nella nuova fattoria della sinistra stanno benissimo anche gli animali.
De Bortoli, contro il giornalismo copia e incolla servo del potere, scrive Giuseppe Oddo su “Il Sole 24 ore" del 2 ottobre 2008. Segnalo un libro fresco di stampa di Ferruccio de Bortoli, direttore del "Sole-24 Ore", giornale per il quale lavoro. Il libro, dal titolo "L’informazione che cambia", scaturisce da un lungo colloquio con Stefano Natoli ed è stato pubblicato dall’Editrice La Scuola. Nel mentre che vado a comperalo, e in attesa di poterlo leggere e commentare con voi, vi propongo l’anticipazione diffusa ieri mattina dell’agenzia di stampa Adn Kronos. Per la prima volta, il direttore di uno dei maggiori e più autorevoli giornali italiani, che ha anche guidato il "Corriere della sera", denuncia apertamente, senza ipocrisie, il degrado del giornalismo, il concubinaggio stampa-potere, la contiguità tra il giornalista e le fonti, il tentativo di questo Governo di imbavagliare l’informazione attraverso la famigerata legge sulle intercettazioni. Ritorneremo presto e più approfonditamente sull’argomento.
ADN KRONOS, 1° OTTOBRE 2008: «Siamo diventati più servi e concubini del potere, facciamo più parte del gioco. Vogliamo fare politica, influenzare la formazione di nuovi partiti e coalizioni, rifare la legge elettorale. Dovremmo invece tornare a fare esclusivamente i giornalisti, che è già tanto». L’invito – perentorio – arriva da Ferruccio de Bortoli, direttore del «Sole-24 Ore», un protagonista del mondo dell’informazione nel nostro paese, del quale arriva ora in libreria «L’informazione che cambia», un lungo colloquio con il giornalista Stefano Natoli (Editrice La Scuola, nella collana «Interviste» diretta da Paola Bignardi). Centoventi pagine – precedute da una prefazione del presidente dell’Ordine, Lorenzo del Boca – che fotografano la situazione difficile dei media in Italia, l’accesso alle fonti e la loro verifica, il giornalismo multimediale, le potenzialità legate al connubio rete e carta, ma che a tratti diventano un j’accuse contro la categoria. «Il dramma di fondo» – sottolinea de Bortoli – «è che a volte non siamo più neanche tanto giornalisti, ma un grande ufficio stampa». Giudizi taglienti. Inequivocabili. Come quello su un modo purtroppo sempre più diffuso di lavorare: «Sempre più un copia e incolla. Acritico, distratto, sciatto». Di inviti ai giornalisti de Bortoli ne fa tanti. Ad esempio a sbagliare di meno, a difendere con più forza il valore dell´indipendenza delle redazioni e a presidiare con più convinzione il web «prima che sia troppo tardi: il tentativo degli editori, infatti, è quello di fare a meno dei giornalisti, per un problema di costi, ma non solo». Non mancano le denunce. Agli editori – che non di rado hanno gli interessi al di fuori dell´editoria e usano la stampa per «dare lustro a tutta una serie di posizioni personali o come scudo in vicende giudiziarie o ancora come arma di pressione nei confronti di enti locali» – ma anche ai politici che, in modo assolutamente bipartisan, resistono raramente alla tentazione di mettere un bavaglio alla stampa. Come dimostra il disegno di legge sulle intercettazioni: «trovo scandaloso» – dice de Bortoli nell’intervista – «cercare di impedire che si scriva di inchieste nel loro formarsi, cioè che si possa parlare di indagini penali soltanto nel momento in cui queste vengono completate. In base a questa logica, non avremmo potuto parlare tre anni fa delle indagini sui "furbetti del quartierino" e più recentemente dello scandalo delle cliniche». Lapidari alcuni giudizi, come quello sulla free press: «mi domando che cosa sarebbe un mondo fatto solo di free press, di notizie in pillole, prese nella maggior parte dei casi dalle agenzie e senza la minima caratterizzazione» – o sul contributo del cosiddetto citizen journalism, importante ma non alternativo al giornalismo tradizionale: «non tutto quello che gonfia la rete è ispirato da accuracy and fairness». Vibrante la difesa dei giornali a pagamento: «pezzo costitutivo dell'identità e della storia nazionale», rappresentanti «della vivacità intellettuale e delle aspirazioni del Paese». Non mancano le proposte, come quella – audace – di superare la situazione di irresponsabilità finanziaria delle redazioni»: l´idea di de Bortoli è che il direttore debba avere anche una responsabilità di tipo gestionale: «debba fare un budget», anche per sottrarre al marketing e alla pubblicità il potere di «aprire o chiudere il rubinetto delle risorse di un giornale a suo piacimento». Circa il tema «informazione e potere politico», dopo aver ricordato l’anomalia italiana («il principale possessore di televisioni private o l’azionista di maggioranza di uno dei più grandi gruppi editoriali italiani è nello stesso tempo il capo del governo e il principale esponente della maggioranza»), aggiunge: «Si sbaglia a pensare che l’informazione televisiva di Mediaset sia un’informazione schiacciata sulle posizioni del Cavaliere. Ci possono essere alcuni eccessi, ma ci sono tantissime persone che svolgono tranquillamente e correttamente il proprio lavoro. Anzi, diciamo che non di rado lo stesso editore si è fatto forza della diversità e indipendenza delle redazioni presentandole come elementi di pluralismo. Berlusconi del resto si è dimostrato un buon editore. Sa che i giornali che appaiono house organ finiscono per valere poco sia presso il pubblico sia presso l’utenza pubblicitaria, che lui conosce meglio di tutti. Resto convinto che non si possa essere contemporaneamente buoni editori e buoni politici, ma questo è un altro discorso». E la Rai? «Gode della pessima immagine di essere penetrata dal potere politico. E oggi, fra l’altro, di essere ostaggio del suo principale concorrente. L’azienda, che è il più ricco – ma anche il più disordinato – deposito di intelligenze del Paese, esprime in maniera rapsodica delle grandissime individualità accanto a preoccupanti forme di conformismo e di puro compiacimento del potere», risponde De Bortoli a Natoli. Aggiungendo: «Bisogna però riconoscere che qualsiasi altra azienda martoriata nella propria gestione da elementi politici e da oneri impropri, come è stata la Rai, probabilmente oggi non esisterebbe più. Ciò vuol dire che – pur nelle divisioni – all’interno di quel mondo esiste un forte spirito di squadra, un grande valore intangibile». Nel libro in pubblicazione per i tipi dell’Editrice La Scuola anche una curiosa remarque sull«’effetto terrazza romana». Confida De Bortoli all’intervistatore: «Trovo insopportabile questa contiguità così forte fra stampa e potere al punto che tutti si danno del tu, tutti frequentano gli stessi locali e le stesse case. C’è questo effetto da terrazza romana, dove tutti sono amici di tutti e dove, soprattutto coloro che non fanno i giornalisti, si aspettano che il giornalista col quale hanno riso e mangiato insieme non debba scrivere delle cose a loro non gradite. Credo che una maggiore separazione farebbe bene alla stampa, ma farebbe bene anche alla politica. Perché la politica spesso si rilassa, peggiorando, nell’intimità con i media».
Secondo i più livorosi, De Bortoli ha trasformato il “Corriere” da Bibbia della notizia (“L’ha scritto il Corriere”) in cattedrale dell’ipocrisia e lascia un giornale in perdita di copie cartacee (secondo Caizzi la più alta mai accaduta), dominato da collaboratori inamovibili e giovani che lavorano sottobanco in redazione…3 maggio 2015. DAGOANALISI. Dire che cosa sia stato per il giornalismo il ventennio debortoliano sarà compito degli storici; ma sul Ferruccio che prende posto ai giardinetti con due milioni e mezzo di euro in saccoccia, magari ai Giardini pubblici, cercando di allungare la sua ombra sulla statua di Montanelli (che per la libertà di stampa si dimise due volte: dal “Corriere” diventato comunista e dal “Giornale” diventato berlusconiano), si può anticipare qualcosa. De Bortoli pare aver impersonato quella fase decadente del giornalismo italiano che si potrà forse chiamare “giornalismo di relazione”, il corrispettivo mediatico del “capitalismo di relazione” (rappresentato dagli azionisti del “Corriere”). Se questa forma di capitalismo non contava le azioni ma le pesava, nel corrispettivo giornalistico le notizie non si davano, ma si soppesavano. E, se necessario, si evitavano o si marginalizzava chi le voleva dare. Di famiglia originaria del bellunese, vacanze da ragazzo dalla zia a Morbegno, Ferruccio De Bortoli (con la D maiuscola all’origine) potrebbe celebrare la sua vita come quella di un self-made-man se la sua carriera, a un certo punto, non avesse intrapreso, dicono i detrattori, la strada dell’ipocrisia, cancellando le tracce per fingersi altro da sè. Il padre lavorava nella segreteria del rettore dell’Università Statale di Milano, la madre era casalinga. Lui studia all’Istituto Feltrinelli e vivrà sempre male questi studi tecnici maturando un rapporto con la cultura sospeso tra arte da salotto, esibizione di nomi ottuagenari che non hanno nulla da dire e tentativi di aggrapparsi a novità “social”. Mai la cultura trattata come disciplina con competenze. Da qui la lamentela per i suoi giornalisti che scrivono libri. Per fdb i libri sono prodotti tutti uguali, ma non gli autori: se a scrivere sono amici suoi, allora i libri si possono scrivere e lui fa l’introduzione e li presenta. Con il padre in Statale, iscriversi all’Università era doveroso. Così si laurea in quella che era la laurea di quelli che non sapevano cosa scegliere: Giurisprudenza. E a laurea conseguita c’è da pensare al lavoro. Dicono che sia stata una zia a indirizzarlo verso il “Corriere dei piccoli”, come praticante. A fine anni Sessanta FDB – al pari di Carlito Rossella - era un ragazzo gruppettaro, non girava in grisaglia e cravatta Ferragamo o maglioncini di cachemire, ma vestito come quelli di sinistra che andavano in manifestazione con Capanna. Ma l’uomo è disciplinato e astuto. Il primo balzo è al “Corriere d’informazioni”, palestra pomeridiana del “Corrierone”. Lui fa il cronista assieme a molti altri colleghi che, pochi anni fa, ha messo alla porta con gli stati di crisi del giornale. Vicino (con cautela) alla sinistra, entra nel sindacato, palestra di lancio per molti giornalisti. Infatti fa carriera anche per la sua capacità di controllare il sindacato e di presentarsi ai colleghi come “uno di loro” (molti hanno sempre creduto in questa leggenda). Inizia anche il sodalizio con lo storico sindacalista del “Corriere” Raffaele Fiengo: apparentemente oppositori, Fiengo in eschimo e lui in grisaglia; ma sottobanco la co-gestione è stata a tratti strisciante. De Bortoli, passata l’età del “Corriere dei Piccoli”, diventa il corrierino dei banchieri e degli industriali. Soprattutto del salvatore del gruppo dopo la P2: Abramo Bazoli. Passa a occuparsi così di economia al “Corriere”, poi a un settimanale del gruppo, quindi ancora al “Corriere” come capo della redazione e come vicedirettore. Controllerà sempre l’economia e chi non capisce che le notizie le seleziona lui in base a quel che si deve (vedi il libro “Il direttore” di Bisignani) viene silenziato o esiliato a Bruxelles. Se commette un errore, si scusa con i lettori uno a uno, al telefono o con laconiche mail con scritto “scusi” oppure “grazie”. Solo un bresciano bazoliano gli sfugge di mano, Massimo Mucchetti (ora senatore Pd), il giornalista che voleva “Licenziare i padroni”. Dal punto di vista privato, gli incidenti familiari sono gravi, ma chi è senza peccato? Tuttavia, anni dopo de Bortoli (che nel frattempo si è abbassato la d per rendersi più nobile) si trova a discettare di famiglia con i cardinali e a imporre al giornale una svolta femminista ispirata al boldrinismo più duro e conformista: aveva la patente per farlo? Permalosissimo dietro al bel ciuffo, “debole coi forti e forte coi deboli” e capace di esclusioni immotivate (dice chi l’ha provato), un po’ snob (memorabile quando da Vespa disse a Berlusconi che non era consono farsi fotografare con un pizzaiolo di Casoria), de Bortoli segue il potere. Lascia perdere il tifo milanista (Berlusconi non è chic) e prende a frequentare le cene romane a casa dell’Angelillo con Bisignani, Letta, i politici, poi il Premio Strega, i salotti, i presidenti della Repubblica (re Giorgio, suo sostenitore)… Se la d minuscola lo fa più nobiliare, la presidenza di Binario 21 lo consacra agli occhi della comunità ebraica dalle cui fila escono da sempre direttori e proprietari dei giornali (anche quello di via Solferino). A questo punto è diventato tutto: nobile senza esserlo, ebreo senza esserlo, banchiere senza esserlo. In redazione vuol fare piazza pulita con chi lo conosce, con i vecchi corrieristi milanesi simili a lui (oggi il Corriere è romano-campano); per dirla alla Pigi Battista vuole “cancellare le tracce”. Così, quando a furia di mail di Caizzi che segnala la “caduta delle copie” un giorno fdb si decide ad andare in assemblea si mette a ricordare a una banda di timorosissimi giornalisti che loro sono stati assunti quasi tutti da lui e che ha dato loro diversi aumenti. Questi si intimoriscono e fdb finisce l’assemblea invitandoli a sostenere economicamente l’azienda (già nelle mani di John Elkann), che veniva dallo scandaloso affare Recoletas. Secondo i più livorosi, De Bortoli ha trasformato il “Corriere” da Bibbia della notizia (“L’ha scritto il Corriere”) in cattedrale dell’ipocrisia e lascia un giornale in perdita di copie cartacee (secondo Caizzi la più alta mai accaduta), dominato da collaboratori inamovibili e giovani che lavorano sottobanco in redazione, colleghi marginalizzati e clan che si autosostengono, che promuovono mogli e mariti, che hanno piazzato una carrettata di “figli di…”, di amici (appartenenti a varie élite e lobby) e che quasi mai hanno favorito merito e competenza (lobbismo, familismo, appartenenze e il resto lo lasciamo immaginare). Le promozioni? Lo stesso: conformismo, finto allineamento. Con fdb hanno comandato, dicono i suoi critici, il clan dell’ex “Unità”, il clan neofemminista-modaiolo-boldrinesco, quello che traffica con il Cdr, gli amici dei giudici e dei servizi e il gruppo dell’on-line costituito da giornalisti poco integrati con i colleghi nati della carta (e viceversa) e da questi accusati di realizzare da dieci anni un prodotto che fa traffico ma non reddito (con tanto di disastroso restyling) e che a furia di copia/incolla ha contribuito a cancellare il core-business del giornale di via Solferino: la reputazione. Cosa sia stato de Bortoli lo dirà, se lo dirà, la piccola storia del giornalismo: il recupero della Fallaci, la lotta a Berlusconi (i due non si parlavano e il cavaliere lo saluto un giorno dicendogli. “Ecco il direttore del manifesto”)...Una dozzina di anni fa, alla fine del suo primo quinquennio di direzione, i “suoi” giornalisti scioperarono per difenderlo e difendere con lui la libertà di stampa contro l’aggressione di Tremonti che, si diceva, ne avesse chiesto la testa a Romiti. Questa volta nessun sciopero. Non c’è più il cattivo Berlusconi e in pochi credono che se ne vada un difensore della libertà di stampa. Per qualcuno è un 25 aprile, ma senza speranze di libertà.
BARBANO ALESSANDRO. L'ITALIA DEI GIORNALI FOTOCOPIA. Sono passati 4 anni da quando ho scritto questo articolo, ma le cose non sono cambiate. Solo peggiorate, scrive Antonio Benforte il 25/01/2009. “Sosteneva Hegel che «la lettura del giornale è la preghiera dell’uomo moderno». Può darsi che avesse ragione. […] Ma c’è preghiera e preghiera. C’è una preghiera che fa toccare e interpretare la realtà e una preghiera ripetitiva, ritualizzata, scontata, noiosa, priva quindi di aura e di credibilità. Questo secondo tipo di preghiera sembra prevalere in Italia. Come mai?”. (Franco Ferrarotti, prefazione a “L’Italia dei giornali fotocopia”). La riflessione di Alessandro Barbano, caporedattore de “Il Messaggero”, prende il via da questo interrogativo triste e pessimista, ma di fondamentale attualità nella società moderna, quotidianamente immersa in un flusso continuo ed estenuante di messaggi e bombardata da un numero insostenibile di input difficili da interpretare. Il giornalista romano pubblica, per la collana “La società” della casa editrice Franco Angeli, “L’Italia dei giornali fotocopia”, un libro necessario per comprendere lo stato della stampa quotidiana in Italia. Un testo breve ma essenziale per capire, al di là di facili osservazione e scontate critiche, come funziona e dove è diretto il mondo dell’informazione nel nostro paese. L’autore, con uno stile semplice, diretto e lineare analizza, come un rigoroso anatomo-patologo, quell’enorme corpo, ormai privo di vita, rappresentato dal giornalismo italiano. Un corpo pesante, vecchio, che ha ormai perso la parola, che non ha più nulla di interessante da dire, che non fa altro che ripetere, in maniera sterile e acritica, la mole di notizie che arriva quotidianamente dalle principali agenzie stampa della penisola. “Viaggio nella crisi di una professione”: è questo il sottotitolo del libro, in grado di delineare in maniera precisa l’effettivo stato comatoso in cui versano i giornali, i giornalisti e, di conseguenza, i lettori dei quotidiani italiani. Una situazione imbarazzante e demoralizzante, senza dubbio, che Barbano cerca di esaminare adottando un efficace, particolare e doppio punto di vista: quello interno, derivante dall’esperienza ventennale all’interno di varie redazioni, e quello esterno, della persona qualunque che si ritrova, ogni mattina, ad acquistare il giornale, e desidererebbe ottenere, da quell’acquisto, soprattutto una contropartita di informazione, approfondimento e analisi critica della realtà, ma che è costretto, invece, a sorbirsi una inutile e vuota riproduzione delle stesse, identiche notizie su ciascuna delle maggiori testate nazionali. Questo è un dato di fatto, non ci sono dubbi. C’è ben poca differenza, ormai, nell’aprire un quotidiano o sfogliarne un altro. Certo, cambiano le firme, le tendenze politiche, alcuni modi di vedere la realtà, ma per il resto, per quello che riguarda la vera informazione, quella a 360 gradi sul mondo, che vada al di là del semplice dato, della dichiarazione eclatante, del gossip politico, c’è davvero poca differenza, e sembra di avere realmente a che fare con dei quotidiani fotocopiati. Ce ne possiamo accorgere benissimo da soli, ogni mattina, accendendo la televisione per osservare la rassegna stampa realizzata da uno qualsiasi dei giornalisti del telegiornale: il malcapitato di turno, celandosi dietro un tono della voce sicuro e volto ad attirare l’attenzione dello spettatore, in realtà non fa altro che ripetere tre o quattro titoli, per decine di volte, a partire dai quotidiani leader, il “Corriere della Sera” o “La Repubblica”, passando per i quotidiani regionali, fino ad arrivare ai giornali locali, che dovrebbero, in teoria, essere maggiormente radicati nel territorio e più vicini alle esigenze, ai bisogni e alle richieste dei cittadini. Nulla di tutto questo accade, purtroppo, e la lettura del giornale, consuetudine e normalità in molti paesi, diventa in Italia, giorno dopo giorno, un qualcosa di sempre più elitario e ristretto, quasi un rituale di nicchia, riservato a quei pochi che ancora sperano di trovare, tra le pagine di un quotidiano, un’offerta culturale interessante e formativa. Secondo un’autorevole associazione giornalistica mondiale che periodicamente fotografa le abitudini di lettura all’interno dei singoli paesi, l’Italia si trova al trentatreesimo posto nella classifica degli indici di lettura, dietro nazioni come la Slovenia, la Croazia, la Turchia, addirittura la Cina e la Malesia. E, ad uno sguardo più approfondito, ci si rende conto che, al confronto con gli altri stati europei, l’Italia risulta essere tremendamente indietro. Si legge poco, anzi pochissimo. Ed i giornali sembrano non essere in grado di coinvolgere e fidelizzare nuovi lettori. Ci provano, con gadget, allegati, libri a metà prezzo, ma non ci riescono. I giornali restano lì, letti da poche persone che, spesso, non capiscono granché di tutta quella politica presente sulle prime pagine. Una “ipertrofia politica”, così la definisce Barbano, che caratterizza la cultura editoriale di quasi tutte le principali testate nazionali, e che si aggiunge agli altri sintomi evidenti della profonda crisi che attanaglia i quotidiani italiani: innanzitutto l’omologazione culturale sempre più diffusa, aggravata dall’incontenibile sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto di Internet, che si rivelano una pericolosa arma a doppio taglio (“Il problema della nostra modernità è di evitare che il massimo di libertà garantito dallo sviluppo delle nuove tecnologie si traduca nel massimo di omologazione culturale”). In secondo luogo, ed è questa una conseguenza dell’espansione tecnologica, in Italia si registra, in maniera fin troppo accentuato, lo sconfortante fenomeno della “rincorsa emulativa”, che porta i giornali ad imitarsi l’uno con l’altro, a cercare di prevedere ed avvicinarsi il più possibile alle notizie pubblicate dai giornali leader del settore, “La Repubblica” ed il “Corriere della Sera”, ad utilizzare acriticamente le notizie che giungono dall’agenzie di stampa principali e sperare che tutti gli altri facciano lo stesso. La voglia di completezza, naturalmente connessa alle incredibili possibilità del web, non diventa altro che “mero stereotipo culturale”, finendo in secondo piano rispetto alle quattro tappe che governano il processo di omologazione dei quotidiani: l’intuizione, per comprendere le scelte dei giornali concorrenti, la sorveglianza esercitata sugli altri quotidiani, l’adeguamento alla scaletta e alle notizie presenti nei telegiornali principali e, infine, il controllo a posteriori, effettuato il giorno dopo, la verifica che si mette in moto durante la riunione delle undici, per vedere se l’imitazione degli altri giornali è andata a buon fine, e si è offerto al lettore un prodotto equilibrato ed identico a tutti gli altri. Ancora, l’autore continua a scavare tra le cause di questa “monotonia informativa”. Barbano osserva come la mancanza di competenze in alcuni campi, l’improvvisazione e il pressappochismo con cui si risponde ai grandi interrogativi che vengono posti nell’epoca moderna, sia un’altra delle principali ragioni della crisi. Passività, mancanza di approfondimento e ignoranza, da un lato, presenza forte di stereotipi inesatti, di valori-notizia tendenti al catastrofismo e alla drammaticità – continua a vigere il motto per cui “bad news is a good news” – e mancanza di un’analisi dettagliata del passato dall’altro, rendono i quotidiani sempre più lontani dai bisogni e dalle aspettative dei lettori, sempre più distanti dalla realtà vicina al normale cittadino, che vorrebbe conoscere la verità dei fatti che gli accadono attorno, non una serie di notizie incomprensibili e senza agganci con la quotidianità, figlie di una tecnica e di una tecnologia che privano l’informazione di una qualsiasi osservazione approfondita della società. Questa è la malattia del giornalismo italiano, Barbano sembra conoscerla bene, e continua nella sua ricerca con l’analisi della crisi che affligge la professione giornalistica, aggiungendo ai sintomi interni, quelli esterni: la “sfida dei new media”, alla quale il mondo della carta stampata spesso non riesce a rispondere a dovere. Internet, i servizi via sms o umts, il fenomeno dilagante della free press, hanno inferto un altro colpo pesante alla carcassa del giornalismo stampato. La stampa gratuita, con “Leggo”, “City” e “Metro”, raggiunge coinvolge sempre più persone, che trovano, in queste pubblicazioni, agevoli e semplici sintesi delle notizie del giorno, di facile fruizione per chi non può dedicare molto tempo alla lettura, e per di più gratuite: perché spendere, dunque, per avere le stesse notizie sui quotidiani a pagamento, anche se – ovviamente – più approfondite? Una bella domanda, senza dubbio. A questo interrogativo dovranno rispondere soprattutto le redazioni dei giornali, che dovranno capire i bisogni e le necessità dei lettori, instaurare una sorta di dialogo con loro, per offrire un prodotto migliore, che non sia autoreferenziale, difficile, noioso, banale, ma sappia osservare e analizzare la realtà con occhio sempre curioso, desideroso di conoscere e di offrire conoscenza al lettore; un giornale che abbia una propria identità, che si differenzi per vivacità e spessore critico, che diventi, oltre che analisi del giorno prima, soprattutto riflessione sul futuro. È una prospettiva che tutti noi ci auguriamo, e che Barbano vede realizzata solo grazie ad uno “svecchiamento delle redazioni, una parcellizzazione del lavoro in piccoli gruppi, ma soprattutto una frantumazione della vecchia agenda-setting in un progetto di idee affluenti dal diretto contatto dei giornalisti con la società che rappresentano”. Belle parole, insomma. Tutto sta a far diventare questi consigli realtà, al più presto possibile. EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE. Alessandro Barbano (1961), giornalista italiano. Laureato in giurisprudenza, è caporedattore de “Il Messaggero”, ha un’esperienza quasi trentennale nel mondo del giornalismo, locale e nazionale. Ha scritto numerosi saggi e libri sul mondo del giornalismo e su tutti i pro ed i contro di questa affascinante professione. Alessandro Barbano, “L’Italia dei giornali fotocopia – viaggio nella crisi di una professione”, Franco Angeli Editore, Milano, 2003. Antonio Benforte, 2 febbraio 2005.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE. Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione “Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Don Matteo, Maria De Filippi, la Serie A: benvenuti nel Bel Paese (dei balocchi), scrive Simone Cosimelli il 16 gennaio 2016. La statistica è una delle chiavi d’interpretazione di una data situazione, di un dato momento storico. Sono i numeri a decretare una ripresa o una congiuntura felice. Così come sono i numeri, al di là della metodologia e dei criteri di misurazione, a disvelare presentimenti negativi che possono arrivare a pesare come macigni. Alla discussa e scandalosa statistica, riportata dall’Istat giorni fa, secondo cui sei italiani su dieci non hanno letto neanche un libro nell’arco del 2015, il 18,5% non ha svolto alcuna attività culturale né sportiva, il 63% snobba i musei, al 78% non interessa la musica contemporanea (e tanto altro), vanno, per contrasto, affiancate due eccellenze: secondo il libro del Prof. Giovanni Solimine Senza Sapere, come fa notare sull’Internazionale lo scrittore Crhistian Raimo, l’89,7% della popolazione guarda attivamente e quotidianamente la TV e in nessun altro Paese europeo c’è una percentuale così alta di “teledipendenti”. Inoltre, gennaio si è aperto con il felice e avveniristico esordio di Don Matteo 10, capace, grazie alla presenza straordinaria di Lady Rodriguez, di sbancare l’auditel con quasi 10 milioni di fedeli incollati allo schermo, nella prima come nella seconda puntata. Il sito BlogoTV, efferatissimo sulle tendenze catodiche, centra il punto e scrive: “Un successo davvero trasversale quello di Don Matteo, che risponde appieno alla voglia di ‘normalità’, nell’accezione migliore del termine, che gli italiani sembrano voler ricercare a margine dei tempi che stiamo vivendo”. Nell’accezione migliore del termine, quindi, la bicicletta di un prete cui ormai manca solo un fedele Watson, e il sorriso di una show girl a cui tutti invidiano le forme chirurgiche e il talento viscerale, cattura la passione dei “normali” d’Italia. Per l’accezione peggiore, invece, si aspetta impaziente il giudizio lapidario di chi snobba Terence Hill per seguire invece figure decisamente più regali: sua maestà Maria de Filippi. Con quel profilo socievole ma quasi altezzoso, elegante e casual insieme della serie “guarda che qui ci sono capitata, mica è colpa mia”, la zarina di Mediaset mette a segno una tripletta di tutto rispetto: Amici, Uomini e Donne, C’è Posta per te. Programmi verso cui tutti si dicono pronti ad indire una crociata mediatica, quando in realtà – tra un preparativo e l’altro, tra una stoccata e una constatazione – ne scoprono l’intrinseco significato valoriale: non serve infatti l’Istat per coronare il successo di certi salotti. Ma dove non arrivavo Mediaset e Rai, c’è la serie A. Sembra che Matteo Renzi, ottimista intransigente e bacchettone, abbia paura per le sorti italiche solo in periodo di pausa nazionali, quando il campionato non riempie il week end: è lì, mica nelle scuole e nella piccola imprenditoria, che il Paese si blocca, quasi traumatizzato, attonito, scosso. Incapace di privarsi delle radiografie della partita di turno. In un’Italia di tronisti, arrivisti, furbi, allenatori, rapper e fashion blogger, la cultura (in tutte le accezioni, s’intende) è una passione da lasciare a chi ce l’ha. Gli altri, quelli seri, quelli impegnati, lavorano o governano. Ulteriori dati: per il 59% degli italiani che non leggono nemmeno un libro all’anno, ci sono il doppio degli inglesi e dei tedeschi pronti a farlo, e anche i cugini francesi non si fanno mancare romanzi e opere saggistiche in quantità superiore la nostra; d’altro canto, è da tempo stata evidenziata la stretta relazione che c’è tra predisposizione culturale (incluso il fatto di leggere regolarmente) ed emancipazione professionale (chi legge lavora di più, meglio, guadagnando anche bene). Non finisce qui: negli ultimi 5 anni la percentuale di chi è solito posizionarsi davanti alla televisione “con abitudine regolare” non è mai scesa, da noi, sotto il 91%. Pochi, pochissimi libri quindi, ma parecchia TV: anche se fa schifo. Basta che tocchi le corde della nostra “normalità”, cioè l’attitudine a non interessarsi, all’accidia, a lasciar le cose come stanno, al menefreghismo. Naturalmente, non mancano, e non sono mai mancati in questo Paese, moralisti, protagonisti, pseudo intellettuali, chi urla per rivoluzione storica, sociale, militante, necessaria, eternamente incipiente: da fare e non da annunciare. Per ricostruire quello che altri hanno distrutto, che altri minacciano, che altri deturpano, che altri non hanno saputo valorizzare. Ma gli altri chi? L’Italia è una meravigliosa speranza, che gli italiani hanno interesse nel far rimanere tale. E lo è, contro mitizzazioni del passato e vanagloriose posizioni reazionarie, dal dopo guerra ad oggi. I numeri impietosi che da anni emergono, e che tanto fanno storcere il naso, non possono e non devono essere discriminatori e circostanziali: cioè non c’è un popolo che studia e uno no, non c’è chi guarda dall’alto e chi dal basso, non c’è chi legge Calvino e chi vota per il GF. C’è l’Italia: un posto dove si attacca la politica, ma si invidiano i politici; un posto dove il tira’ a campa vale più della convivenza civile; dove se tutti rubano rubo pure io, perché mica so’ fesso; dove si vive, nel bene o nel male, in una grande famiglia di figli unici. Rivoluzione? In Italia no. In Italia manca prima la cultura della cultura. C’è qualcosa da costruire e poco da distruggere. Analfabetismo funzionale (47%), Questione Meridionale, scarsa valorizzazione formativa e universitaria, servilismo, qualunquismo: sono effetti, non cause. Che poi, inevitabilmente, portano le loro conseguenze.
I TRIBUNALI TELEVISIVI PARTIGIANI.
I "tribunali televisivi" ridotti a lavare la biancheria intima. Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno, scrive Vittorio Feltri, Domenica 17/01/2016, su "Il Giornale". Da parecchi anni la televisione sfrutta la materia giudiziaria a scopi spettacolari e coglie nel segno, riuscendo ad ottenere buoni se non ottimi ascolti. La prima antenna che trasformò i tribunali in miniere d'oro fu, se non ricordo male, Raitre con una iniziativa di incredibile successo dal titolo esplicito: Un giorno in pretura. Il pubblico poteva seguire, grazie a questo programma, le vicende più appassionanti affrontate dalla Giustizia. D'altronde, da quando le tragedie greche sono passate di moda, le scene offerte dalle austere aule in cui si svolgono interrogatori, scontri tra difesa e accusa, sono le sole in grado di suscitare forti emozioni in chi le guarda sul video, il mezzo di comunicazione più popolare e diffuso, altro che teatro. Ecco perché dopo breve tempo anche una emittente privata di Mediaset trovò il modo di inventarsi dei processi in proprio basandosi sulle liti familiari, le più comuni e frequenti, nelle quali chiunque può specchiarsi. L'artificio funzionò a meraviglia. Si prendeva, ad esempio, una coppia di sposi in bega su una questione, la si invitava in uno studio arredato secondo lo stile tribunalizio e si avviavano i duelli davanti a un giudice togato le cui sentenze, se accettate dai contendenti, avevano un certo valore. La trasmissione era egregiamente condotta da Rita Dalla Chiesa, garbata e capace di dipanare matasse complicatissime, intrise di rancori come sono molti matrimoni inaciditi. I protagonisti delle battaglie pseudo legali si avvalevano di avvocati di fiducia. Insomma il copione era identico a quello dei processi veri, cosicchè il divertimento per i telespettatori era garantito. Anche in questa versione, la materia giudiziaria fece lievitare l'audience al punto che oggi, a distanza di lustri, persino Raiuno considera conveniente trattarla con le telecamere in una rubrica quotidiana (Torto o ragione?) i cui fili sono tenuti da Monica Leofreddi con lodevole disinvoltura. C'è solo un problema da segnalare agli autori. I quali pur di tener vivo l'interesse sul programma, un po' troppo antico per non essersi logorato, nella scelta dei litiganti hanno raschiato il fondo del barile e selezionato personaggi improbabili, gente che gode a lavare la biancheria intima, direi intimissima, in piazza. Il risultato talvolta è desolante. Giorni orsono è andato in onda un intrico di corna, un triangolo di cui era un'impresa sovrumana capire chi fosse il principale cornuto e chi il principale fedifrago. Lo scambio di battute velenose tra i protagonisti tuttavia ha confermato che se il vino va in aceto, l'amore va quasi sempre a puttane e dintorni. E che quando marito e moglie non si reggono più la colpa è di tutti e tre o, meglio, di tutti e quattro. Torto o ragione? se procede così nella ricerca della porcata sensazionale, rischia di ridursi al solo torto. Provare a inventare qualcosa di fresco? Non c'è pericolo. I dirigenti sono troppo impegnati nella lotta per accaparrarsi i posti di comando e non badano al prodotto, che si vende comunque perché il pecoreccio tira. Quanto ai politici che avrebbero facoltà di cambiare la Rai, poverini, cosa si può pretendere da loro che sono morti e non se ne sono ancora accorti?
La retorica colpevolista della giustizia mediatica, scrive il 17 dicembre 2015 l’Unione delle Camere Penali Italiane. "La giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo." Nel suo inedito editoriale il Prof. Amodio interviene sulla degenerazione della giustizia mediatica analizzandone le cause e la necessità di porre limiti alla invadenza del giornalismo giudiziario. La retorica colpevolista della giustizia mediatica. L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare. E’ un fenomeno ben noto e da anni sottoposto al filtro di un dibattito tanto serrato, quanto improduttivo. Per di più negli ultimi tempi sta crescendo attorno alle distorsioni della giustizia mediatica una barriera protettiva che talvolta lascia il posto ad una sorta di filosofia della rassegnazione, quasi che si avesse a che fare con calamità naturali, al pari delle periodiche alluvioni generatrici di smottamenti di terreno fangoso. Tra i paladini della intangibilità della cronaca giudiziaria, c’è una parte del ceto politico che denuncia come intollerabile bavaglio qualsiasi proposta di arginare l’invadenza dei media. E nel partito dei rassegnati bisogna registrare quei giuristi che, pur riconoscendo gli effetti devastanti dell’informazione giudiziaria, alzano le braccia al cielo e auspicano un’autodisciplina dei giornalisti, ritenendo inconcepibile qualsiasi divieto. Infine, c’è una giurisprudenza a dir poco paradossale che fissa una regola azzeratrice di ogni possibile reazione di fronte alle deformazioni del giornalismo giudiziario perché esse sarebbero prive di qualsiasi impatto negativo sulle garanzie processuali. Siamo quindi di fronte ad un ventaglio di veti, rinunce e miopie che culminano nella negazione della patologia: i media alterano, stravolgono, sfigurano l’estetica della giustizia penale, ma non fanno male. Lo ha detto di recente una sentenza della Corte di cassazione in tema di rimessione del procedimento affermando che «le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza» (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). E’ lo stereotipo del giudice con la corazza, insensibile ad ogni perturbazione esterna perché protetto dalla sua olimpica saggezza. Ma non basta. La stessa sentenza continua sostenendo che «anche il debordare della cosiddetta giustizia spettacolo, il vedere pagine di giornali o intere puntate di talk show occupate da vicende giudiziarie ancora in corso in cui si sviscerano tesi su tesi, talvolta fantasiose spesso l’una contraria all’altra, ha finito per diventare un fenomeno talmente normale che nessuno ci fa più caso». Qui c’è la sterilizzazione dell’inquinamento da overdose di informazione giudiziaria anche con riguardo all’opinione pubblica, che si immagina rinchiusa nel bozzolo di una assoluta imperturbabilità. Il nostro paese sarebbe dunque sul piano mediatico l’isola dell’ingiusto processo. Per tutto il resto dell’Europa valgono le regole messe a punto dalla Corte di Strasburgo secondo cui l’imparzialità dei tribunali garantita dall’art. 6 CEDU non consente ai giornalisti di formulare «dichiarazioni che risulterebbero idonee, intenzionalmente o no, a ridurre le chances per una persona di beneficiare di un processo equo» (sentenza Worm c. Austria, 29 agosto 1997) e tali da scalzare la fiducia dei cittadini nella amministrazione della giustizia. A configurare la violazione del diritto al fair trial basta il pericolo concreto di una lesione della imparzialità del giudice (Dupuis c. Francia, 7 giugno 2007, § 44). In Inghilterra, poi, è prevalente il modello della presunzione di offensività conseguente al solo fatto della pubblicazione di notizie rilevanti per il processo penale, in base alla disciplina del contempt of court, mentre nella common law statunitense si ritiene necessario l’accertamento in concreto dell’effetto lesivo delle notizie divulgate, anche se è ancora vivo l’insegnamento del giudice Brennan secondo cui «non si può seriamente dubitare che l’incontrollata pregiudizievole pubblicità prima del dibattimento possa distruggere la fairness di un processo penale» (Nebraska Press Association v. Stuart, 1976). Si può davvero pensare, dunque, che solo in Italia il giudice sia insensibile alla stampa colpevolista e il pubblico legga i giornali e guardi la tv con l’animo distaccato di chi finisce per sonnecchiare davanti allo spettacolo della marcia vittoriosa dei pubblici ministeri verso la sconfitta del crimine? E’ proprio vero invece che nel nostro paese la giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo. Basta pensare alla crescita esponenziale dell’agire comunicativo, ormai affrancato dai canoni della oggettività in una sequenza evolutiva impressionante: dalla cronaca al commento; dal commento alle ricostruzioni; dalle ricostruzioni alle inchieste parallele che si sovrappongono alle indagini della magistratura e nelle quali prevale lo spettacolo in ossequio alla tirannia dell’audience. Ormai con la sua invadenza il giornalismo giudiziario ruba la scena alla giustizia in toga. E impone il suo «statuto» che ribalta i principi su cui si regge il giusto processo. Anzitutto mediante la delocalizzazione, che privilegia le investigazioni rispetto al dibattimento, una fase troppo piena di oscillazioni causate dalla dialettica tra accusa e difesa per essere rappresentata come monolite colpevolista. La giustizia mediatica si nutre così di approssimazioni conoscitive e le trasforma in verità consacrate istillando nell’opinione pubblica l’idea della certezza a proposito di risultati che sono invece provvisori e non spendibili nel giudizio. In questo modo trionfa la retorica della colpevolezza che si alimenta della farina tratta dal sacco del pubblico ministero, nella ricerca di una perentorietà espressiva sulle acquisizioni delle indagini volta a placare l’ansia collettiva generata dall’allarme per i fatti criminosi. Deviazione del campo visivo e artificiosa rappresentazione di congetture elevate a verità sono i due pilastri su cui è edificata la presunzione di colpevolezza nella giustizia mediatica. Mentre la magistratura indaga e affronta con paziente analisi la lettura del quadro indiziario, la stampa lancia i suoi titoli in cui l’inquisito è «inchiodato» dal video di un anonimo furgone che attraversa un incrocio, dai monosillabi captati in una intercettazione telefonica ovvero dalle risultanze di uno screening di massa del DNA. Come si può negare l’impatto del convincimento mediatico colpevolista? Ne ha riconosciuto la portata deviante persino la stessa Cassazione nella sentenza sul processo di Perugia quando ha affermato, annullando la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, che proprio la pressione mediatica aveva indotto gli inquirenti ad imboccare scorciatoie per consegnare al luccichio dello schermo televisivo l’immagine dei due ragazzi colpevoli. E’ dunque ormai tempo di mettere mano ad una politica dei limiti e dei divieti nei confronti dei media. Lo sappiamo tutti che ai pubblici ministeri fa comodo giovarsi della cronaca colpevolista, ma i togati della giudicante non sono sulla stessa lunghezza d’onda. Essi avvertono il fastidio e il disagio di veder offuscato il loro ruolo quando la televisione investe di funzioni oracolari il conduttore del talk show che pronuncia la sentenza di condanna in nome del popolo dei telespettatori. Cominciamo a chiudere le porte di quei salotti televisivi in cui sedicenti esperti ovvero familiari delle vittime, animati da comprensibile revench punitiva, si esibiscono in un coro colpevolista contro indagati in processi pendenti. Poi si potrà pensare a misure appropriate a ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere di esercitare una penetrante attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza.
«Colleghe brave mai nei talk Rai» Accuse sulla politica dell’avvenenza. Il dem Anzaldi: danneggiati anche i maschi competenti, il partito si ribelli, scrive Monica Guerzoni su “Il Corriere della Sera” del 20 gennaio 2016. I talk show della Rai invitano le parlamentari giovani e carine, anche se incompetenti. E sbarrano le porte degli studi tv a deputate e senatrici che non hanno nella bellezza il loro punto di forza. Rilancia la denuncia, rivolgendosi anche al suo partito, Michele Anzaldi del Pd. Che in passato aveva già posto la questione in commissione di Vigilanza: «L’ho detto davanti al presidente Fico e a tutti i commissari e nessuno mi ha ascoltato. È sbagliatissimo e visto che si parla di censure è ora di affrontarlo». Il count down di Capodanno, la bestemmia, la black list del M5S.... C’è dell’altro? «Ha ragione l’Osservatore romano, con la scusa dello share la Rai è ormai fuori controllo. I politici ospiti dei talk show, soprattutto donne, spesso vengono scelti solo in base a canoni estetici». Competenza e bellezza? «No, bellezza e basta. Capita sempre più spesso che il padre o la madre di una legge restino fuori dai programmi, dove vengono invitati altri miei colleghi». Con che criterio? «Spesso sono bellissime ragazze. Premia il valore estetico, non i contenuti». Verbali della Vigilanza alla mano, la prima volta che il segretario della commissione ha sollevato il caso era il 17 dicembre 2013. La seconda, l’8 gennaio 2014. In entrambe le audizioni Anzaldi prova a spezzare il legame tra audience e canoni estetici. E spiega come, per illustrare un provvedimento, non venga chiamata l’autrice o la relatrice, «bensì una donna più avvenente, anche se meno esperta». Un esempio? «La giustizia. La nostra presidente di commissione è Donatella Ferranti, preparatissima, ex magistrato. L’ha mai vista? Viene il sospetto che non la chiamino perché ha superato la trentina». Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera. Ha 58 anni, ex magistrato, milita nel Pd. Al suo posto, chi invitano? «Vediamo molto la giovane Anna Ascani, mentre la relatrice della legge sulle unioni civili, Monica Cirinnà, poco o nulla». Capita anche ai maschi? «Sì. David Ermini, responsabile Giustizia del Pd, non lo chiamano mai e al posto di parlamentari preparati come lui vanno sempre le solite tre o quattro dem, belle e aggressive». Moretti? Serracchiani? Picierno? Bonafé? «Niente nomi. Ma insisto, gli uffici stampa Rai ti dicono “mandami una più giovane e carina che ci alza l’ascolto”». Lo fanno tutte le tv, purtroppo. «Sì, ma la cosa grave è che gli italiani pagano il canone per vedere in Rai delle parlamentari che, dieci minuti prima di andare in onda, vengono “briffate” dai colleghi competenti». Briffate? «Chi conosce i provvedimenti viene chiamato a fare un breve briefing alla collega che sarà intervistata e che, magari, di quella materia non sa nulla. Una pratica che abbassa il livello». La colpa è anche dei partiti, a cominciare dal Pd. E qui Anzaldi non si sottrae: «È vero, se una donna esperta di Europa come la Bonafé viene mandata a parlare di ambiente o di immigrazione è colpa anche nostra. Ma cosa possiamo fare se i conduttori non vogliono sentire storie e dicono “per lo share ci serve una ragazza”? Finisce che ti arrendi». Nelle due audizioni c’erano delle esperte di questione femminile, le quali avvalorarono la denuncia. Elisa Manna del Censis citò ricerche da cui emergeva «come una percentuale molto alta di opinioniste siano selezionate sulla base di caratteristiche di avvenenza». E adesso Anzaldi chiede al Pd di ribaltare le priorità: prima la competenza, poi l’estetica.
Le Iene annunciano servizio sugli scontrini di Renzi. Poi Mediaset fa dietrofront: non va in onda. Programmate per andare in onda lunedì 23 novembre 2015 nuove rivelazioni sulle spese del presidente del Consiglio. Il contenuto diffuso da Giuseppe Cruciani su Radio 24: "Il premier si sarebbe fatto pagare dalla provincia di Firenze una cena familiare da 80 euro, con la moglie che era incinta della terza figlia", nata nel 2006, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 25 novembre 2015. Il servizio era già pronto. Tagliato, confezionato e approvato per la messa in onda lunedì 23 novembre. Poi il dietrofront: Mediaset decide che non deve andare. E così sparisce anche il post che sulla pagina ufficiale delle Iene aveva annunciato nuove rivelazioni sugli scontrini di Matteo Renzi. “Anteprima del servizio Gli scontrini di Renzi #escili di Iena Dino – Dino Giarrusso in onda questa sera #LeIene“, si leggeva online. Oggi, cliccando su quel post, il risultato è una pagina vuota in cui si legge: “Spiacenti, questo contenuto non è al momento disponibile”. Sulla vicenda degli scontrini di Renzi sindaco (2009-2014) oggi si è pronunciata la Corte dei Conti, che ha archiviato l’inchiesta. Stesso destino anche per quella che riguardava le spese quando era presidente della Provincia (2004-2009). La mancata messa in onda è stata rilanciata anche da diversi utenti su Twitter, specie dopo l’intervento – riportato anche daDagospia – di Giuseppe Cruciani, conduttore de la Zanzara suRadio 24. “Perché ieri sera non è andato in onda il servizio delleIene di Dino Giarrusso sugli scontrini di Renzi quando era sindaco e presidente della Provincia? – ha detto durante la trasmissione del 24 novembre – Sul sito Facebook del programma era uscita persino un’anteprima di trenta secondi in cui si annunciavano nuove rivelazioni imbarazzanti per il premier. E il pezzo era regolarmente in scaletta. Cosa è successo?”. E prosegue ancora: “E’ intervenuta una manina dall’alto o l’ufficio legale Mediaset ha bloccato tutto per fare ulteriori verifiche? Nel servizio si parlava di una cena familiare di Renzi al ristorante da Lino interamente rimborsata dalla Provincia, con tanto di fattura”. Cruciani, si legge sul sito di Radio 24, rivela anche il contenuto del servizio: “La iena aveva scoperto – ho poi saputo da altre fonti – che Renzi si sarebbe fatto pagare dalla provincia di Firenze una cena familiare da 80 euro, con la moglie che era incinta della terza figlia (nata nel 2006, ndr). Hanno pure scoperto che la scusa ridicola del sindaco Nardella di non rendere trasparente le spese di Renzi al comune – c’è un’inchiesta della Corte dei Conti – non regge da un punto di vista legislativo”.
IL VIDEO DEL SERVIZIO CHE “LE IENE” SONO STATE OBBLIGATE A CENSURARE: LA PROVA DELL'ESISTENZA DI... Il video che sta facendo tremare i palazzi dei potenti. Una denuncia unica nel suo genere, tremendamente reale, documentata ed incontrovertibile del golpe che stiamo subendo dai poteri forti, con la prova dell’esistenza di un governo invisibile e di una truffa ben congeniata da banchieri mondialisti ai danni del popolo. Testimonianze autorevoli come quella di Daniel Estulin autore del best seller “il Club Bilderberg” che svela i legami tra i nostri politici e la potente e controversa lobby. Il tutto condito dalle interviste strappate da Francesco Amodeo e Alessandro Carluccio ai nostri ministri e parlamentari. Le confessioni di avvocati, economisti, scrittori che confermano l’esistenza di un progetto occulto per la distruzione degli stati nazionali. Le prove della crisi economica usata come truffa ai danni del popolo. La fuga degli inviati della trasmissione “le iene” davanti alle scomode domande di Amodeo. Frammenti di video shock con testimonianze che vi metteranno davanti al più grande di tutti i complotti. Un video assemblato e girato in maniera amatoriale, con mezzi rudimentali ed una tempistica da record. Un montaggio improvvisato ma che è stato volutamente, in alcuni punti, una parodia della nostra finta tv d’inchiesta, che per prima si è rifiutata di usare i mezzi professionali di cui dispongono per denunciare agli italiani quanto sta accadendo.
Strage di Srebrenica, l'errore della giovane Milena Gabanelli: scambiò le vittime con i carnefici, scrive Antonio Amorosi il 14 luglio 2015 su "Libero Quotidiano" con il video “Le figuracce di Milena Gabanelli a Mixer, il 2 dicembre 1991 su Rai 2 conflitto serbo croato. Rai condannata a rettifica”. Giorni fa si è ricordata la strage di Srebrenica, ad opera dei serbi. Tra gli autori il comandante Arkan. Un'altra strage importante è quella di Vukovar che venne raccontata a Rai 2 da Milena Gabanelli, allora inviata di Mixer di Giovanni Minoli, oggi, considerata la punta del giornalismo d'inchiesta italiano. Anche lì imperversava il serbo Arkan, uno dei maggiori criminali di guerra ricercati dall'Interpol, responsabile di numerose stragi, compreso il massacro di degenti inermi in un ospedale. Un video su youtube di quel reportage domanda da anni: «Ha mai chiesto “perdono” Milena Gabanelli per la trasmissione del 2 Dicembre 1991 andata in onda su Rai 2 in prima serata, dedicata all'aggressione serba alla Croazia, dove si mostrava in compagnia di Arkan a Vukovar?» Novembre 1991. Vukovar, cittadina a maggioranza croata, è assediata dalle truppe serbo-jugoslave. Minoli ha dato alla Gabanelli l'incarico di seguire il conflitto sul fronte serbo. Lei ha 37 anni. Il 20 novembre l’agenzia Reuters batte il comunicato «miliziani croati avrebbero massacrato 41 bambini serbi, testimone oculare il fotografo Goran Mikic». Le agenzie di tutto il mondo smentiscono duramente ma Gabanelli si propone come unica testimone oculare. «Il fotografo ha ritrattato dicendo di non averli visti con i propri occhi, diversamente da qualcuno che c’era, qualcuno che ha visto, ed ha anche protestato» dice Mixer. Scoop. È la Gabanelli. Parte il video. È stata portata sul posto proprio da Arkan. Lo incontra in un bar. «Un tipo», lei stessa scrive due anni dopo nel libro La sconfitta dei media, del suo amico Marco Guidi, «con la faccia più da barista che da guerriero». Lui si offre di farle da Virgilio in quell’inferno. «Te la senti di filmare dei bambini morti? Perché c’è stato un massacro…», le dice. Sul posto Gabanelli dice di aver visto la distesa dei corpicini ma non li riprende, impressionata dalla scena e ostacolata dagli spari di un soldato. Si torna in studio, Minoli le chiede di raccontare. Seguono istanti di Gabanelli ad occhi bassi che con pathos parla di un bambino con la gola tagliata. Nel reportage i bimbi croati uccisi, probabilmente trucidati proprio da Arkan, invece vengono fatti passare per serbi. Errore grossolano. Minoli ha lo scrupolo di chiederle perché il fotografo Mikic ha ritrattato. Lei: «Se la notizia fosse stata confermata, nel popolo serbo si sarebbe alimentato ancor di più l’odio etnico». Il video passa sulla Gabanelli al fronte con i soldati serbi, poi mentre interroga una prigioniera di Arkan, con gli occhi tumefatti. Noncurante dello stato di terrore e sottomissione della donna, le chiede: «Per quale ragione ammazza il popolo serbo?». Nella scena successiva la donna, circondata da soldati di Arkan, scava una fossa per trovare uno dei bambini. Fossa dove forse lei stessa «sparirà». La Gabanelli non riprende oltre. Spegne la telecamera e si allontana. Fine. Nel 2010 il presidente serbo Tadic ha chiesto perdono per le stragi di Arkan a Vukovar. Ricorda il video su youtube: «Per il contenuto di questo report televisivo la Rai è stata condannata il 13 gennaio 1992 dal garante per l'Editoria in quanto contenente falsità», sanzione che la stessa Gabanelli menziona nel libro di Guidi. L'Ordine dei giornalisti la ammonisce e la definisce giornalista «anomala e occasionale». Lei reagisce: «Avevo un compito, ho cercato di svolgerlo nel migliore dei modi». Scompare dalla Rai per qualche anno per riapparire nel 1997 con Report. Questo video le chiede da anni le scuse. Ma per Gabanelli non è mai successo niente. E nessuno si permette di farglielo notare.
Quando Milena Gabanelli collezionava figuracce a “Mixer”, scrive il 15/10/2014 Emiliano Stella su “L’Ultima Ribattuta”. La trasmissione “Report” è giunta alla 18ma stagione, ed ha già fatto parlare di sé per una videoinchiesta sull’Istituto Superiore della Sanità, sfociata nel clamoroso blitz della Guardia di Finanza nella struttura di Viale Regina Elena a Roma. Gongola Milena Gabanelli, conduttrice di un programma di successo, uno dei più longevi del panorama televisivo italiano. La Giovanna D’Arco nostrana è non a torto considerata la massima espressione del giornalismo d’inchiesta italiano, e in quanto tale è osannata per la misura e l’attendibilità del suo prodotto. Ma pochi sanno che agli albori della sua carriera è inciampata maldestramente in una brutta storia di malainformazione e faziosità. Una vicenda che merita di essere raccontata sin dal principio, quando la conduttrice di “Report” fu scagliata da Giovanni Minoli, all’epoca autore e volto di “Mixer”, sul fronte di guerra jugoslavo. Era il 1991, e la guerra nei Balcani era divampata da pochi mesi, a causa della volontà secessionista dei paesi che componevano la vecchia Repubblica Federale, ed una città in particolare, Vukovar, fu al centro di un’aspra contesa tra serbi e croati. Solo in seguito si sarebbe appreso dei feroci ed indiscriminati massacri compiuti in quei giorni, di cui la Gabanelli non volle o non poté attribuire con certezza la responsabilità. Un video di 12 minuti scovato su Youtube (vedi in fondo al pezzo), dal titolo “Milena Gabanelli a Mixer, il 2 dicembre 1991 su Rai 2 sul conflitto serbo-croato”, mostra in sintesi il reportage da lei confezionato appena due settimane prima della messa in onda quando, su richiesta del direttore Minoli, fu incaricata di seguire le sorti del conflitto dalla parte serba. Una scelta che in seguito si rivelò infelice, non essendo (come dichiarato dalla stessa giornalista) “le faccende della Jugoslavia il mio punto di interesse. Semplicemente non le capivo”. La conduttrice di “Report”, all’epoca 37enne, era una pubblicista freelance che da anni si cimentava nel videogiornalismo. Respinta all’esame per diventare professionista, era già stata in Cina, in Vietnam ed in Cambogia. Aree complesse, certo, ma non teatri di guerra come quello balcanico. Minoli la reputò lo stesso adatta al compito, chiedendole di andare a Belgrado. Voleva un pezzo sul conflitto serbo-croato visto dalla parte dei serbi. “Vanno tutti a Zagabria – le disse –perché non tentiamo di vedere cosa succede sull’altro fronte?”. La incaricò di raccogliere materiale alla TV di Belgrado e, solo se fosse stata in possesso di sufficienti garanzie di protezione, di documentare la situazione al fronte. Nel video, da subito, viene mostrata eloquentemente la posizione di chi l’ha caricato su Youtube. In sovrimpressione compare la scritta “per il contenuto di questo report televisivo la Rai è stata condannata il 13 gennaio 1992 dal garante per l’editoria, in quanto contenente falsità. Per gli orrori compiuti dai serbi a Vukovar il presidente serbo Tadic ha chiesto il perdono ai croati. Hai mai chiesto e chiederà mai il perdono Milena Gabanelli? Chi era e chi è costei?”. Poi parte la voce off di Mixer, riportando che il 20 novembre l’agenzia di stampa Reuters aveva battuto il comunicato: “miliziani croati avrebbero massacrato 41 bambini serbi, testimone oculare il fotografo Goran Mikic”. Poi sullo schermo appaiono le prime pagine dei quotidiani che hanno ripreso la notizia, mentre la voce ci informa che “il fotografo ha ritrattato dicendo di non averli visti con i propri occhi, diversamente da qualcuno che c’era, qualcuno che ha visto, ed ha anche protestato”. Compare quindi la Gabanelli, che rivolta ad un indistinto interlocutore, dice in inglese: “dov’è la comunità internazionale? Dov’è Amnesty International? Dov’è il Vaticano? Qui non c’è nessuno…” Poi Minoli, in primissimo piano in pieno stile Mixer, annuncia trionfalmente: “la testimone oculare di questo massacro è la nostra inviata sul fronte di guerra, Milena Gabanelli”. A quanto pare di capire la giornalista sarebbe tornata da Vukovar con un documento esclusivo. Ma come ha fatto ad arrivare fino alla città martoriata una semplice freelance? Qui torna utile, per comprendere appieno la vicenda, il racconto della stessa Milena Gabanelli presente nel libro “La sconfitta dei media”, di Marco Guidi, edito nel 1993, appena due anni dopo lo svolgimento dei fatti. Una volta arrivata a Belgrado, la conduttrice di “Report” si recò nel bar dove venivano reclutati i volontari delle milizie paramilitari. E’ lì che fece conoscenza con il comandante Arkan, da lei descritto come “un tipo con la faccia più da barista che da guerriero, nonostante il suo torbido passato”. E sì, perché colui il quale nei giorni successivi la traghettò come Caronte all’inferno, negli anni a seguire sarebbe salito agli onori delle cronache come il capo delle “Tigri”, un corpo responsabile di aver seminato terrore e morte in Croazia ed in Bosnia. Da subito, racconta la Gabanelli, Arkan si offrì di portarla al fronte. “Te la senti di filmare dei bambini morti? Perché c’è stato un massacro…”, le disse. Lei accettò, lo scoop era a portata di mano. Senza pensare che con un accompagnatore del genere l’imparzialità del reportage era già andata a farsi strabenedire. Lo si vede sin dalle prime immagini, Arkan, tra le sue milizie. Lei invece racconta di non poter disporre di una troupe, portando con sé solo una Video8 il cui funzionamento aveva spiegato ad un soldato, in quanto non se la sarebbe sentita di filmare quelle scene. Poi il racconto si fa confuso. Nel video racconta di essere stata spinta dietro un muro da un soldato, allo scopo di proteggerla dai proiettili, e di aver visto la distesa dei corpicini senza poterli riprendere, impressionata dalla scena. Si torna in studio e Minoli chiede alla Gabanelli di raccontare cosa avesse visto. Seguono interminabili istanti di pathos artificiale, poi dopo il silenzio la giornalista racconta ad occhi bassi di aver visto la faccia di un bambino con la gola tagliata. Due anni dopo racconterà invece di aver tentato di effettuare delle riprese, ma di non esserci riuscita perché trascinata via a forza e messa in sicurezza, lontana dalla sparatoria in atto. Resta il fatto che non esiste alcuna testimonianza filmata dell’accaduto, né la prova che i bambini in questione fossero serbi. I dubbi si fanno sempre più pressanti sapendo cosa le tigri di Arkan stessero combinando in quei giorni a Vukovar. Eccidi inauditi, tra i quali il massacro degli inermi degenti dell’ospedale cittadino. Ma la Gabanelli non lo sapeva, o non si curava affatto di approfondire e scavare. Per lei, quei bambini, erano sicuramente serbi, glielo aveva detto Arkan, mica Topo Gigio. In effetti a Minoli lo scrupolo del chiedersi perché l’altro testimone oculare della strage, il fotografo Mikic, avesse ritrattato, era venuto. E lo aveva chiesto alla giornalista. Che aveva replicato: “se la notizia fosse stata confermata, nel popolo serbo, fortemente emotivo, si sarebbe alimentato ancor di più l’odio etnico”. La motivazione, onestamente, ci sembra poco credibile. Di solito, su eventi come questo, la propaganda bellica ci ricama su, e poi non è che i serbi si fossero presentati a Vukovar con i mazzi di fiori in mano… Ma la parte più stucchevole doveva ancora arrivare. Riparte il filmato, e la scena si sposta all’interno di un carro armato, dove ad essere intervistato è un soldato croato appena catturato, che si dimostra fortemente critico nei confronti delle scelte politiche del suo paese. Ma cosa avrebbe potuto dire di diverso, in quelle condizioni? Idem per la sequenza successiva, in cui la Gabanelli veste i panni del commissario politico al cospetto di una ragazza croata con il volto palesemente tumefatto, accusata di aver ucciso dei civili serbi, tra cui un bambino. Noncurante del suo shock psicologico, la conduttrice di “Report” la incalza intimandogli di riferirle il nome del prete che ha aizzato la popolazione contro i serbi in Kraijna, ed il perché la chiesa cattolica sia accusata di fomentare l’odio etnico. Le immagini saltano al mattino successivo, quando la donna viene costretta a scavare in un terreno, forse per riesumare i corpi delle sue vittime, o più probabilmente per ricavare la fossa dove sarebbe stata sepolta dopo la sua fucilazione. Non lo sapremo mai, perché la propria sensibilità impone alla Gabanelli di spegnere la camera ed allontanarsi. Subito dopo la messa in onda del servizio, fioccarono le proteste da parte croata. La Gabanelli si difese sostenendo di “aver seguito, con convinzione, le indicazioni del Direttore della testata per cui stava lavorando”. Partirono campagne di protesta indirizzate al Direttore e al Presidente della Rai, e venne presentato un esposto alla Commissione Parlamentare di vigilanza che ebbe come effetto un pronunciamento del garante per l’Editoria, Giuseppe Santaniello, che il 13 gennaio 1991 ordinò alla Concessionaria per il servizio radiotelevisivo la rettifica di quanto esposto nel reportage. Sul caso si espresse anche il Consiglio dell’Ordine Regionale dei Giornalisti di appartenenza, che non comminò alla giornalista alcuna sanzione disciplinare, ma considerò tuttavia che “Mixer, forse con eccessiva precipitazione, ha calato Milena Gabanelli, giornalista senza una specifica scorza da inviato, in una realtà bellica “anomala e confusa” che pertanto ha avuto come relatrice televisiva “una cronista altrettanto anomala e sicuramente occasionale”. Decisamente non un complimento di cui fregiarsi in futuro. Dopo un periodo di “oscuramento mediatico” la conduttrice di “Report” risalì in sella dopo pochi anni, ed il suo rendimento, considerato il seguito e la qualità del programma che conduce, non è stato affatto malaccio. Gli attacchi alle inchieste sue e dei suoi collaboratori non terminarono affatto però. In un’intervista rilasciata a Gian Antonio Stella, Milena Gabanelli ha raccontato che in più di 15 anni ha perso soltanto una causa civile (per 30mila euro, ma non c’è ancora la condanna definitiva) sulle 60 intentate contro “Report”. “Io non credo che il giornalista debba godere di una particolare clemenza – ha dichiarato – un conto è l’errore in buona fede che è sempre dimostrabile, un altro è sputtanare volontariamente qualcuno senza fare i dovuti controlli”. Che a noi, sembra, più di 20 anni fa in Jugoslavia non vennero fatti. Ma rimane l’ingenuità e la buona fede. “Avevo un compito, ho cercato di svolgerlo nel migliore dei modi. Poi, sono passata ad altro”, ha dichiarato la Gabanelli chiudendo il caso. E visti i risultati, ci sentiamo di dire che ha fatto decisamente bene.
“Porta a Porta” programma della Rai condotto per anni da Bruno Vespa. Il salotto buono dove la mafia è di casa. E’ prerogativa della politica dire “è cosa nostra”. Guai quando essi sono spodestati e le interviste dedicate all’altra sponda.
Porta a Porta Rai 1 del 6 aprile 2016 alle ore 23.35. Il vero giornalismo racconta i fatti, non promuove opinioni ideologiche culturalmente conformate. Ciononostante l’intervista ha suscitato l’indignazione dei mafiosi antimafiosi. Perché in Italia secondo i cittadini “onesti”, che ogni giorno salgono agli onori della cronaca, i mafiosi son sempre gli altri.
Tempa Rossa. Petrolio e mafia. Potenza, Corleto Perticara e la Basilicata. Voti di scambio mafiosi. No. Voti PD antimafiosi.
Bruno Vespa: tutte le interviste che hanno fatto scalpore. Dai Casamonica al padre di Manuel Foffo fino al figlio di Totò Riina: per "Porta a Porta" vent'anni di grandi esclusive e polemiche infuocate, scrive il 7 aprile 2016 "Panorama".
I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.
Vent'anni al centro della scena televisiva italiana. Vent'anni di interviste e dirette che hanno fatto buona parte della storia della Rai degli ultimi due decenni.
Vent'anni di momenti indimenticabili come la telefonata a sorpresa di Papa Giovanni Paolo II durante la puntata del 13 ottobre 1998 dedicata al ventennale del pontificato Wojtyla.
Vent'anni di trovate a effetto: dalla scrivania che ospitò la firma del contratto con gli italiani di Silvio Berlusconi ai plastici creati ad hoc per tutti i principali casi di cronaca.
Vent'anni che hanno consacrato Porta a Porta a "terza camera del Parlamento" e regalato a tanti personaggi (avvocati, magistrati, criminologhi, cuochi, ballerini, sportivi e così via) fama e visibilità grazie allo spazio offerto loro da Bruno Vespa.
Ma anche vent'anni di polemiche per le interviste, spesso in esclusiva, realizzate dal giornalista più criticato, imitato e corteggiato d'Italia. Scorri la lista delle puntate che hanno fatto più discutere.
Il figlio di Totò Riina. L'ultimo caso risale a ieri sera. Il protagonista è Salvo Riina, figlio del boss della mafia Totò e autore di un libro in cui descrive un padre “premuroso e amorevole”. L'intervista è andata in onda nonostante le proteste infuocate rimbalzate sulle agenzie, i siti, i social per tutta la giornata. I vertici di Viale Mazzini hanno infatti dato il via libera alla scelta di Vespa: "è informazione". Ma la lista degli insorti contro l'ospitata tv del figlio del più sanguinario dei capi di Cosa Nostra è lunga: dal presidente del Senato Pietro Grasso alla presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, dai parenti delle vittime della mafia (Maria Falcone, sorella di Giovanni ucciso a Capaci, si è detta “costernata”, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ha parlato di caso “vergognoso”) a un ampio schieramento bipartisan di politici (invitato in studio l'ex segretario dem Pier Luigi Bersani ha disertato), dal sindacato Usigrai alla Fnsi. Già scattata la richiesta di convocazione dei vertici della Rai in Commissione parlamentare di vigilanza e, da parte di alcuni, quella di dimissioni per Bruno Vespa. Ma cosa ha detto in onda Salvo Riina? L'uomo ha rievocato la sera del 23 maggio del 1992, quando, all'altezza di Capaci, mille chili di tritolo fanno saltare in aria la strada che collega l'aeroporto di Punta Raisi a Palermo uccidendo il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tutta la scorta. “Eravamo a Palermo e sentivamo tante ambulanze e sirene, abbiamo cominciato a chiederci il perché e il titolare del bar ci disse che avevano ammazzato Falcone, eravamo tutti ammutoliti. La sera tornai a casa, c'era mio padre che guardava i telegiornali. Non mi venne mai il sospetto che lui potesse essere dietro quell'attentato”. A proposito dell'arresto del genitore ha aggiunto di non poterlo condividere.
Il padre dell'assassino di Luca Varani. Il 7 marzo è la volta di Valter Foffo. L'uomo è il padre di Manuel, uno dei due giovani che confessarono il brutale omicidio di Luca Varani, il giovane di 23 anni che, prima di essere ucciso in un appartamento a Roma, venne torturato per almeno due ore dai due che si trovavano sotto l'effetto della cocaina. A sollevare polemiche furono, anche in questo caso le parole dell'uomo, apparso ai telespettatori inspiegabilmente troppo tranquillo, che ha descritto il figlio come “un ragazzo modello, forse eccessivamente buono, con un quoziente intellettivo superiore alla media. Non uno sbandato”. Parole di affetto respinte anche dal figlio che, interrogato a Regina Coeli, confesserà di aver sfogato sul povero Luca la rabbia covata proprio contro il padre. Ma a finire sul banco degli imputati sarà soprattutto Vespa, accusato di aver offerto un palcoscenico a una tesi difensiva basata sul presupposto che a scatenare la furia omicida dell'assassino fosse stata in realtà, non un'indole criminale, ma solo l'assunzione di stupefacenti. In questo caso a scatenarsi furono soprattutto i social che accusarono il programma di Rai1 di “sciacallaggio”.
I Casamonica. Non era trascorso nemmeno un mese dal funerale di Vittorio Casamonica che bloccò un intero quartiere di Roma sollevando un vespaio di critiche e polemiche non solo sulle prime pagine di tutti i quotidiani romani ma anche sulla stampa di mezzo mondo, che ecco apparire nel salotto di Bruno Vespa figlia e nipote. I Casamonica sono una famiglia di etnia nomade originaria dell'Abruzzo che ormai si è stabilizzata da anni nella Capitale dove si è specializzata in attività criminali quali, in particolare, racket, usura e spaccio di stupefacenti. Il 20 agosto del 2015 Vittorio Casamonica viene omaggiato da una gran folla che segue il corteo funebre, con tanto di carrozza trainata dai cavalli neri, note del Padrino intonate dalla banda e lancio di petali di rosa da un elicottero in volo a pochi metri dai tetti della abitazioni, fino alla Chiesa addobbata con una gigantografia del boss in abiti papali salutato come “re di Roma”. La stessa chiesa, per altro, che rifiutò di celebrar ei funerali di Piergiorgio Welby. L'8 settembre Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote di Vittorio, si presentano a “Porta a Porta” per raccontare la loro “verità” e difendere il loro congiunto dalle “tante bugie e calunnie” dette sul conto di un uomo “che tutti chiamavano Papa perché era troppo buono, come Francesco” e su quello della loro famiglia, “gente onesta”. Pd, Campidoglio, Vigilanza e Antimafia, M5S e Sel partono all'attacco. La direzione di Rai1 si schiera con il conduttore, ma decide di programmare, a scopo risarcitorio, un'intervista con l'assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella. Vespa si difende: “Lasciateci fare il nostro mestiere. Quando Biagi ha intervistato Sindona, c'erano forse le vittime? E c'erano le vittime quando è stato intervistato Buscetta o quando Santoro ha intervistato Ciancimino?”.
Il nuovo fidanzato di Erika. Nel dicembre del 2001 sbarca in Commissione di vigilanza Rai il caso “Mario Gugole”. Di chi si tratta? Mario Gugole è un giovane di 24 anni, di professione meccanico con il sogno di diventare dj che fin dai primi giorni di prigionia della 16enneErika De Nardo, arrestata per aver ucciso madre e fratellino la sera del 21 febbraio del 2001 a Novi Ligure, insieme al fidanzatino di allora Omar Favaro, comincia a scriverle lettere d'amore in carcere. I due non si erano mai conosciuti prima ma nel giro di qualche mese il loro rapporto epistolare si trasforma in una sorta di relazione a distanza. Quando la storia viene svelata dai media, tutte le principali testate giornalistiche fanno a gara per intervistare Gugole. Il quale è ben contento di mettersi a disposizione ma di certo non a titolo gratuito. Le sue apparizioni a Domenica in e Porta e Porta sarebbero costate infatti alla Rai ben 25 milioni di vecchie lire. Ma non è solo questo aspetto ad attirare contro Vespa le solite critiche. Secondo l'Osservatorio sui Minori il ragazzo sarebbe infatti “accomunato ad Erika da un atteggiamento antigenitoriale che la Rai non dovrebbe diffondere”. Bruno Vespa però non ci sta e ricorda che Gugole è stato intervistato da Tg1 e Tg5, e da molti giornali: “Perché solo noi non potremmo ascoltarlo?”.
Gli assassini di Marta Russo. A tre anni dall'apertura del programma, Bruno Vespa finisce nel polverone per una puntata di “Porta a Porta” dedicata all'omicidio della studentessa romana Marta Russo avvenuto il 9 maggio del 1997 in un viale dell'Università di Roma La Sapienza. Marta rimane uccisa da un colpo di pistola sparato da una finestra dell'aula assistenti dell'istituto di filosofia del diritto. A premere il grilletto un giovane assistente, Giovanni Scattone, affiancato dall'amico Salvatore Ferraro. Entrambi vengono invitati da Vespa nel giugno del 1999 dopo la condanna in primo grado. I genitori della ragazza chiedono di bloccare la messa in onda. Non comprendono come sia possibile offrire loro “ulteriore spazio del servizio pubblico televisivo” nonostante la vicenda sia stata già ampiamente documentata dai media. In molti sono dalla loro parte ma il giornalista decide di andare dritto per la sua strada: “Bloccarci - disse allora Vespa - sarebbe un precedente mortale”. Ma le polemiche riguardarono anche il presunto cachet riservato ai due ospiti.
I plastici dei delitti. Ormai sono entrati di diritto nell'immaginario televisivo collettivo: sono i plastici di Vespa, modellini realizzati per ricostruire la scena dei casi di cronaca più famosi. Molti hanno scatenato critiche durissime e, ancora a distanza di anni, sono motivo di ironie e discussioni. Il più famoso è senza dubbio quello della villetta di Cogne dove il 30 gennaio del 2002 fu consumato l'omicidio del piccolo Samuele Lorenzi di tre anni per cui è stata condannata, con sentenza passata in giudicato, la madre Anna Maria Franzoni. Nella lista di quelli che hanno riscontrato il maggiore successo il plastico dell'omicidio di Meredith Kercher, uccisa a Perugia nella notte del 1º novembre 2007 mentre si trovava nella sua camera da letto, nella casa che condivideva con altri studenti; la villetta di Garlasco teatro dell'assassinio di Chiara Poggi avvenuto nell'agosto del 2007; l'abitazione di Brenda, la transessuale brasiliana coinvolta nella vicenda di sesso, droga e ricatti che costò la carriera politica all'ex presidente del Lazio Piero Marrazzo e la morte della stessa Brenda. In quel caso fu proprio l'amica della vittima, invitata da Vespa in studio a bocciare il plastico dell'appartamento. Non sono mancati nemmeno il modellino della nave da crociera Concordia, affondata nei pressi dell'Isola del Giglio con 33 passeggeri rimasti vittime e quello della casa di Avetrana, dove abitava la piccola Sarah Scazzi, uccisa nel garage dalla cugina Sabrina Misseri insieme alla madre Cosima.
Da Sindona a Riina jr: i volti della mafia in tv.
Enzo Biagi intervista Michele Sindona in America, nel carcere di Otisville (New York): è il 24 ottobre 1980.
Il boss Luciano Liggio con Enzo Biagi il 20 marzo del 1989: l’intervista va in onda a «Linea Diretta» su RaiUno.
Nel 1986 Enzo Biagi intervista Raffaele Cutolo in un’aula del tribunale di Napoli dove stavano processando il capo camorrista.
Nel 1991 Michele Santoro ospita a «Samarcanda» il mafioso Rosario Spatola.
Il 24 luglio 1992 Enzo Biagi intervista negli Stati Uniti per «Speciale Tg7» Tommaso Buscetta, che rifiuta di essere considerato un pentito e parla di Giovanni Falcone: «Doveva morire, voleva intraprendere una strada che parlasse di politica».
Nel 1998 Michele Santoro intervista a «Moby Dick», su Canale 5, il pentito Enzo Brusca che diede l’ordine di strangolare e sciogliere nell’acido il bambino Giuseppe Di Matteo.
Il 14 marzo 2012 Angelo Provenzano, figlio del boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, è intervistato dalla giornalista Dina Lauricella per «Servizio Pubblico», la trasmissione di Michele Santoro su La7.
Sempre per «Servizio pubblico», nel marzo 2012 Sandro Ruotolo intervista Massimo Ciancimino, figlio di Vito Ciancimino: testimone di giustizia, indagato per calunnia, concorso in associazione mafiosa e concorso in riciclaggio di denaro.
Il 24 agosto 2013 Carmine Schiavone viene intervistato da SkyTg24: «Le istituzioni ci hanno abbandonato», dice l’ex boss del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia.
Il 30 gennaio 2014 è ospite di Michele Santoro, nello studio di «Servizio Pubblico», Vincenzo Scarantino, il pentito che con false accuse fece condannare persone innocenti per la strage di via D’Amelio. Fu arrestato alla fine della puntata.
L’8 settembre 2015 Bruno Vespa ospita a «Porta a Porta» Vera e Vittorino Casamonica, figlia e nipote del defunto boss Vittorio celebrato con esequie-kolossal a Roma il 20 agosto.
La puntata del 6 aprile 2016 di «Porta a Porta» con l’intervista a Giuseppe Salvatore Riina, figlio del superboss corleonese Totò Riina e condannato a 8 anni e 10 mesi per associazione mafiosa (pena già scontata).
Caso Vespa, l'editto della Rai "Supervisione sui giornalisti". Dopo la puntata con Riina jr, i vertici della tv di Stato scaricano il conduttore. Il dg Campo Dall'Orto: da settembre informazione controllata, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 8/04/2016, su "Il Giornale". Il giorno dopo la discussa intervista a Salvo Riina, figlio del boss dei boss, in commissione Antimafia va in scena il processo a Bruno Vespa. Convocati di fronte al parlamentino sono il presidente della Rai Monica Maggioni e l'amministratore delegato Antonio Campo Dall'Orto. Un appuntamento che si trasforma in un'occasione per emettere da parte dei parlamentari del Pd, di Sel e di M5S una sorta di condanna senza appello del conduttore, privo a loro dire del pedigree giornalistico per una intervista di inchiesta. Ma anche e soprattutto nel palcoscenico davanti al quale Antonio Campo Dall'Orto annuncia un cambio di rotta per il servizio pubblico radiotelevisivo e una stretta sulla libertà consentita alle trasmissioni giornalistiche di trattare determinati temi. «È una fase di transizione dove il direttore editoriale Verdelli è in carica da circa tre mesi. Prima abbiamo deciso di occuparci dell'informazione giornalistica in senso stretto, ovvero delle testate. Poi da inizio settembre bisognerà riuscire ad avere una supervisione che lavori sui contenuti giornalistici. Da quel momento si dovrà decidere insieme». Una facoltà di intervento da parte dei vertici Rai sull'autonomia delle singole trasmissioni potenzialmente foriera di pericolose implicazioni che in altri tempi avrebbe provocato inevitabili polemiche e proteste. Campo Dall'Orto spiega come dopo l'ospitata dei Casamonica e i fatti di Parigi sia nata la decisione di istituire una «direzione per l'informazione». «Non è più pensabile distinguere l'informazione dall'infotainment», dice l'ad ricordando che il direttore Carlo Verdelli è in carica da circa tre mesi. «In questo caso Verdelli ha preso una decisione su un contenuto che si è trovato sul suo tavolo, domani bisognerà agire all'origine sulla scelta di cosa fare o non fare». Rispetto al «caso Vespa» il presidente Rosy Bindi assume subito un profilo di attacco frontale, criticando un'intervista «che ha prestato il fianco al negazionismo e al riduzionismo». Una linea su cui si attestano sia il Pd che il Movimento cinquestelle concentrati su alcuni tasti ricorrenti. In particolare se le domande fossero state concordate, se ci fossero «regole di ingaggio» pre-ordinate e se il figlio di Riina sia stato pagato. Viene anche contestata l'idea di una puntata riparatrice, ma i vertici Rai spiegano che non si tratta di questo ma «di un ulteriore approfondimento sul tema della mafia». Sia Campo Dall'Orto che la Maggioni chiariscono che per l'intervista «non è stato corrisposto alcun pagamento. Le domande sono state fatte in libertà. La liberatoria è stata firmata soltanto alla fine», un punto questo che solleva diverse polemiche. Il presidente della Rai condanna, comunque, il tono complessivo dell'intervista. Tante cose «rendono insopportabile il contenuto. Dall'inizio alla fine è stata un'intervista da mafioso, quale è il signor Riina». La Maggioni, però, ferma la sortita polemica di Lucrezia Ricchiuti del Pd: «Non posso sentir dire da quest'aula che Bruno Vespa è un portavoce della mafia. È inaccettabile».
Vespa libero non piace al Pd. A Porta a Porta l'intervista ai Casamonica. La sinistra insorge, ma i "suoi" conduttori portavano i boss in studio, scrive Alessandro Sallusti, Giovedì 10/09/2015, su "Il Giornale". Ne abbiamo viste tante ma sentire una serie di politici di seconda fila voler insegnare a Bruno Vespa come si deve fare il mestiere di giornalista è davvero troppo. Gente che non sa fare il suo di mestiere, prova ne è lo stato in cui sono ridotti il paese, il parlamento e i partiti, ha aperto ieri un processo politico contro il conduttore di Porta a Porta colpevole di aver ospitato in studio l'altra sera, nella puntata che ha inaugurato la stagione, i figli (incensurati) di Casamonica, il boss mafioso il cui funerale in pompa magna è stato il caso dell'estate. Il Pd, che di cosche romane se ne intende al punto da averci fatto affari d'oro come si evince dalle carte dell'inchiesta «mafia capitale», chiede che del caso se ne occupi il Parlamento. Il sindaco(dimezzato) Marino, uomo senza vergogna, si dice scandalizzato: cosa grave, pretendo le scuse di Vespa a Roma, ha detto tralasciando che quel famoso funerale è avvenuto con la sua autorizzazione, o comunque sotto il suo naso, e che se c'era uno che avrebbe dovuto occuparsi del Casamonica (in vita) invece che lasciarlo spadroneggiare su un pezzo di città, questi è proprio lui. In questi anni la tv ci ha propinato le peggio schifezze senza che la sinistra avesse nulla da obiettare. Anzi, spesso ha applaudito alla «libera informazione» di Santoro e compagnia che durante l'assalto a Berlusconi hanno portato in video, dal vero o in fiction, mafiosi conclamati (Spatuzza, quelli scioglieva i bambini nell'acido), pregiudicati figli di mafiosi (Ciancimino), escort e balordi a go go solo per screditare una parte politica. Qualcuno può obiettare: era tv privata, non servizio pubblico. A parte che la libertà non è privata né pubblica, ma è o non è, nella bacheca dei trofei Rai fanno giustamente ancora bella mostra le interviste di Enzo Biagi a Buscetta, cassiere della mafia, e a Sindona (il grande corruttore della finanza italiana) come quelle di Sergio Zavoli agli assassini di Aldo Moro e ai terroristi che insanguinarono l'Italia. A confronto i Casamonica sono niente, ma comunque parliamo di giornalismo di serie A. Scandaloso non è mai l'intervistato, al massimo può esserlo lo spirito che anima l'intervistatore. Non è il caso di Vespa, il cui unico giudice è il suo pubblico, non il Pd o la politica che sul caso Casamonica hanno una coda di paglia assai lunga.
Riina in tv è giornalismo, scrive Domenico Ferrara il 6 aprile 2016 su "Il Giornale". Quando è stata l’ultima volta che si è parlato di mafia in tv? Chiedetevelo. Io non me lo ricordo. Potrei azzardare quando il figlio di Vito Ciancimino faceva le sue comparsate nel salotto di Santoro. Ma parliamo già di anni fa. Non voglio comunque fare come Gasparri che, a torto o ragione, per difendere l’intervista di Vespa al figlio di Riina cita quelle dell’ex conduttore di Servizio Pubblico. Non sono i conduttori il punto, bensì gli intervistati. La mafia è una realtà atroce ma è fatta da una pluralità di racconto e quella dei figli dei mafiosi è una delle voci del racconto. Non sentirla o non trasmetterla sarebbero queste la vera forma di negazionismo della mafia. E, giornalisticamente, sapere come viveva uno dei più atroci criminali della storia mondiale durante la sua latitanza è una notizia. Seppur raccontata dal figlio. Di cosa si lamenta la Bindi? Non si lamentò per Ciancimino jr. e per il figlio di Bernardo Provenzano intervistati da Santoro e lo fa adesso per Riina? Lei, presidente della commissione antimafia, che ha dichiarato di non essere un’esperta di mafia? Ecco, Vespa le sta dando l’occasione di conoscerne un aspetto, una angolatura. Che colpa ha il conduttore di Porta a Porta? Nessuna. Come nessuna colpa ebbe Enzo Biagi quando intervistò Luciano Liggio in prima serata o come il giornalista Rai Giuseppe Marrazzo quando intervistò il camorrista Raffaele Cutolo o la rivista Rolling Stones quando ha intervistato El Chapo o SkyTg24 quando ha intervistato Carmine Schiavone. È il giornalismo, bellezza. Mentre la mafia è una montagna di merda. E non sarà il figlio di un mafioso (peraltro condannato con pena già scontata per associazione mafiosa) a ripulirla.
Quelle interviste della tv pubblica a ergastolani e terroristi rossi e neri. Chi oggi si scandalizza ha rimosso i colloqui con Cutolo, Badalamenti, Moretti, Peci, Delle Chiaie e Sindona, scrive Fabrizio De Feo, Venerdì 08/04/2016, su "Il Giornale". Indignazione, raccapriccio, condanna, richieste di sanzioni, con una morbida gradualità che va dal licenziamento, alla richiesta di radiazione dall'Ordine dei Giornalisti fino alla cancellazione hic et nunc di «Porta a Porta». L'intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina scatena una vera e propria tempesta di polemiche e di attacchi che sfociano anche nl personale. Il «reato» è quello di avere ospitato il figlio di un mafioso (anche lui condannato per associazione mafiosa) sugli schermi del servizio pubblico. Una circostanza mai avvenuta prima? Ovviamente no, perché la Rai in passato ha dato spazio e ospitalità a figure condannate e condannabili, a boss mafiosi e capi delle Brigate rosse senza alzate di scudi e tempeste politico-mediatiche. L'elenco è lungo e variegato. Nel corso della sua carriera, Enzo Biagi ha incontrato la «primula rossa di Corleone», Luciano Liggio, Raffaele Cutolo e Tommaso Buscetta. Gioe Marrazzo si è confrontato con il boss calabrese Momo Piromalli, oltre alla celebre intervista a Raffaele Cutolo. Nel 1991 Michele Santoro ospita un mafioso come Rosario Spatola. Tra le celebri interviste anche quella di don Tano Badalamenti, nel 1997 a Ennio Remondino, durante la sua detenzione negli Stati Uniti. Un incontro che Remondino ebbe modo di spiegare così: «Per arrivare a un mafioso del calibro di Badalamenti, anche se in carcere, giocano tanti fattori. Il primo, che lui abbia qualche interesse a rendere noto qualcosa, poi, che possa fidarsi di te». Un altro capitolo è quelle delle interviste di Sergio Zavoli che nel 1990 realizzò una celeberrima serie che titolò La Notte della Repubblica. Puntata dopo puntata passarono sugli schermi Rai gli ex della lotta armata, rossi e neri, che ragionavano sul loro passato, spesso senza dissociarsene. Tra questi Mario Moretti, la mente del rapimento Moro che ammise il fallimento della lotta armata senza mai collaborare con gli inquirenti. Senza dimenticare le interviste di Biagi a Michele Sindona, condannato all'ergastolo quale mandante dell'omicidio Ambrosoli. O a Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia nazionale, ai brigatisti Patrizio Peci e Alberto Franceschini e al «cattivo maestro» Toni Negri. Interviste che hanno contribuito a tenere viva e trasmettere la memoria del Novecento e degli anni di piombo.
Le polemiche su Riina jr. Quando parla il figlio del boss, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia” il 7 aprile 2016. Icone, pentiti e irriducibili. Ma, quando parlano certi figli, è sempre polemica. Quando parlano i figli dei boss si scatena il putiferio. Sempre e comunque. A torto o a ragione. Da giorni la scena è tutta di Salvuccio Riina che prima sulle colonne del Corriere della Sera e poi su Rai 1, a Porta a Porta, ottiene un battage pubblicitario di lusso per il suo libro. Non si parla d'altro. In tanti si sono mossi per lanciare la crociata contro il male. Per molti, per carità, è davvero un problema di coscienza e di inquietudine provocata dalla vista del figlio del carnefice. Per altri, però, è una ghiotta vetrina. Un balcone a cui affacciarsi per gridare la propria antimafiosità di mestiere. Era già accaduto quando si seppe che Angelo Provenzano, figlio di Bernardo, su iniziativa di un tour operator americano spiegava la mafia ai turisti in visita in Sicilia. Non tutti i figli sono uguali. A cominciare dal curriculum. Giuseppe Salvatore Riina mafioso lo è pure lui per via di una condanna a otto e passa anni che ha finito di scontare. Angelo Provenzano è incensurato. Hanno seguito strade diverse nella vita, ma entrambi si sono definiti fieri dei rispettivi padri e hanno raccontato la loro esistenza in cattività. Lontano da tutto e tutti, ma soprattutto lontani dalla verità che non si voleva vedere. Anche per Angelo Provenzano si sollevò il coro dello sdegno, con qualche voce isolata di dissenso. Si chiede loro, giustamente, di andare oltre il naturale amore di un figlio nei confronti di un padre. Si chiede loro, giustamente, di abiurare ciò che il padre è stato. E poi ci sono i figli che mettono d'accordo tutti. Ai quali si crede per fede. Come Massimo Ciancimino, la quasi icona dell'antimafia. Ha condannato pubblicamente il padre, si dirà. È un testimone chiave in alcuni processi, si spiegherà. Si è autoaccusato di reati, si aggiungerà. Tanto basta per perdonargli gli errori e le condanne del passato, gli scivoloni, le dimenticanze, le dichiarazioni a rate e le bugie, almeno così le definisce chi lo sta processando per calunnia. Per lui abbracci e baci. Come quello che gli riservò Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Lo stesso fratello del magistrato che ha consegnato a Facebook l'indignazione per l'intervista a Riina jr, “figlio di un criminale, criminale a sua volta” sugli schermi del servizio pubblico.
Da ''la Zanzara - Radio24'' del 6 aprile 2016. “La Bindi è un esponente organizzata della mafia, una che ha fatto la cosa immonda di usare il suo potere contro De Luca poi scagionato. Non è un deputato, è un mafioso. Il suo è un comportamento mafioso”. Lo dice Vittorio Sgarbi a La Zanzara su Radio 24 sulle critiche del Presidente della commissione antimafia per la presenza di Salvo Riina a Porta a Porta. “Usare il proprio potere, essendo all’antimafia – dice Sgarbi - accusare uno che non ha fatto niente, è un abuso di potere tipico del rapporto tra politica e mafia. Dovrebbe essere cacciata dal Parlamento, non ha alcuna competenza di mafia, invece ancora parla”. “Unica competenza che ha la Bindi – dice ancora - è quella di tacere, sulla mafia ha già fatto cose immonde, la sua nomina è stata una regalia, si deve vergognare”. Ma stai accostando la Bindi alla mafia, ti rendi conto? “La accosto alla mafia perché l’atteggiamento mafioso è proprio questo, abusare del proprio potere per avere un vantaggio ed è quello che ha fatto lei. Ha un comportamento tipicamente mafioso. E’ dello stesso partito di Ciancimino, la Dc.” Ciancimino è un politico condannato nel 1992 per associazione mafiosa e corruzione, ricorda Cruciani per far comprendere il paragone agli ascoltatori. Ma, secondo Sgarbi, Ciancimino fu "arrestato e condannato solo per il suo cognome".
La lettera di Bruno Vespa pubblicata su "Il Corriere della Sera" del 7 aprile 2016. «Biagi intervistò Sindona e Liggio. Ma allora nessuno batté ciglio». Bruno Vespa interviene sulle polemiche sollevate sulla sua trasmissione che ha visto ospite il figlio di Totò Riina. «Era utile che il pubblico lo conoscesse». "Caro Direttore, se Adolf Hitler risalisse per un giorno dall’inferno e mi offrisse di intervistarlo, temo che dovrei rifiutare. Vedo, infatti, che dopo il «caso Riina» vengono messi in discussione i parametri di base del giornalismo. La Storia è stata in larga parte scritta dai Cattivi. Compito dei cronisti è intervistarli per approfondire e mostrare l’immagine della Cattiveria. Aveva ragione nel gennaio del ’91 il governo Andreotti a voler bloccare (senza riuscirci) la mia intervista a Saddam Hussein alla immediata vigilia della prima Guerra del Golfo perché il dittatore iracheno era un nostro nemico? Chi ha intervistato per la Rai il dittatore libico Gheddafi o quello siriano Assad avrebbe dovuto puntare sui crimini commessi da entrambi invece di focalizzare il colloquio sulla loro politica estera? Quando l’editore del libro di Salvo Riina ha offerto una intervista esclusiva alCorriere della Sera, a Oggi e a Porta a porta, non immaginavo né di fare il colpo della vita, né di creare un turbamento sensazionale. Ho letto il libro, ho detto ai miei colleghi che era l’opera di un mafioso a 24 carati e ho informato quell’eccellente professionista che è il nuovo direttore di Raiuno che avremmo potuto mostrare per la prima volta il ritratto della più importante famiglia mafiosa della storia italiana vista dall’interno. Decidemmo allora di far seguire all’intervista un dibattito con parenti delle vittime di Riina e con dirigenti di associazioni che coraggiosamente si battono contro la mafia. Così è avvenuto. Ciascun giornalista farebbe una intervista in modo diverso. In coscienza, credo di aver mosso al giovane Riina le obiezioni di una persona di buonsenso mostrandogli anche le immagini delle stragi di Capaci e di via D’Amelio e dell’arresto di suo padre. Ho riportato dall’incontro l’impressione che avevo riportato dal libro: un mafioso con l’orgoglio di esserlo. Era utile che il pubblico conoscesse il volto della nuova mafia? A mio giudizio sì, perché solo conoscendo la mafia la gente acquisisce la consapevolezza di doverla combattere. Ho rivisto i precedenti. Guardate su Internet l’attacco dell’intervista del 1982 di Enzo Biagi a Michele Sindona. Prima di entrare nel merito ci fu una piacevole introduzione sui pasti del detenuto e sulla qualità delle sue letture. L’avvocato Ambrosoli era stato ucciso tre anni prima. La Commissione antimafia — che già esisteva — non batté ciglio. Lo stesso Biagi intervistò liberamente Luciano Liggio, il maestro di Totò Riina, il capo dei capi dei primi anni Sessanta. E Tommaso Buscetta, che spiegò come funzionava la Cupola, ma non pianse certo pentito sulla spalla del grande giornalista. Altra intervista famosa fu quella di Biagi al terrorista nero Stefano Delle Chiaie. Non ricordo che siano stati parallelamente ascoltati i parenti delle vittime. Jo Marrazzo, grande cronista della Rai, intervistò il capo della ‘ndrangheta Giuseppe Piromalli e il capo della camorra Raffaele Cutolo. Ricevette meritati complimenti. Come li ricevette Sergio Zavoli per aver intervistato tutti i terroristi (non pentiti) disposti a rispondere alle sue domande. Trascuro l’esempio più recente e discutibile: Massimo Ciancimino, figlio di Vito, è stato a lungo ospite d’onore di Michele Santoro con ampia libertà di dire l’indicibile, prima di essere arrestato nel 2013. Mi piacerebbe che tutte queste interviste fossero riviste insieme per un sereno confronto. Forse avremmo qualche sorpresa. In ogni caso, il tema è chi si può intervistare nella Rai di oggi.
Se Riina padre fosse disponibile, pioverebbero giornalisti da mezzo mondo. E noi?"
Giù le mani da Vespa. L’intervista a Riina jr è grande televisione. Facciamo la tara all'anti-vespismo: abbiamo visto episodi di infotainment molto peggiori. E alla poca opportunità di mostrare Salvo Riina, un luogo comune censorio. Porta a porta di ieri sera ci ha portato, in maniera ben poco rassicurante, nel cuore dell'ambiguità di cosa nostra, scrive Bruno Giurato il 7 Aprile 2016 su “L’Inkiesta”. L'apparizione di Salvo Riina a Porta a Porta è la tempesta informativa perfetta, perché riassume e fa scontrare due perturbazioni dell'intelligenza comune, due correnti d'opinione che sembrano difficilmente discutibili. La prima si è formata negli anni d'oro dell'anti-berlusconismo come unica forma possibile di militanza civile. E' quella che considera Bruno Vespa il non minus ultra del giornalismo non solo televisivo. Vespa, secondo molti, è esclusivamente quello dei plastici della villetta di Cogne, quello che ha lanciato la comfort-criminologist Bruzzone, quello che da sempre intrattiene rapporti tutt'altro che schiena dritta col Potere - berlusconiano prima, renziano ora -. Quello che ha avuto l'ardire di invitare in trasmissione i Casamonica nell'after show funeralesco. L'emblema dell'informazione spazzatura, insomma. E quindi il contenitore meno adatto per mettere in scena un'intervista al figlio del mammasantissima dei mammasantissima, Totò "u curtu". Ma a favore di Vespa sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di quello che abbiamo visto su Raiuno ieri sera. L'apparizione del figlio di Ciancimino da Michele Santoro qualche anno fa, per esempio, e non come narratore di esperienze umane, ma come rivelatore di torbidi intrecci, era già assai criticabile. Per non parlare della notizia della morte di Sarah Scazzi data in diretta da Federica Sciarelli alla madre: infotainment per infotainment un esempio di televisione, oggettivamente, pessimo. Sarebbe il caso di dire che i modelli dell'infotainment (e anche dell'informazione pura) hanno dato parecchi esempi anche peggiori di Vespa: da Ciancimino con Santoro, alla Sciarelli che dà in diretta alla madre la notizia della morte di Sarah Scazzi. L'altra corrente d'opinione esiste da molto più tempo. E' quella secondo la mitizzazione dei mafiosi è il miglior alleato della mafia. E' l'idea contenutista e francamente censoria secondo cui non bisogna "dare visibilità", parole e immagini, alla delinquenza organizzata perché si rischia non solo di mancare di rispetto alle vittime, ma di suscitare compassione, emulazione, identificazione nello spettatore. È la critica che viene fuori quasi ad ogni puntata della serie Gomorra; che ha accompagnato il romanzo/film/serie Tv Romanzo Criminale. È il mugugno legalista intorno a Il Padrino, tra l'altro amatissimo anche dagli gli uomini d'onore. E, si parva licet, è anche la critica che da sempre ha seguito i libri di Leonardo Sciascia (tra l'altro gliela fece anche Camilleri): aver fornito mitologia e storytelling alla mafia. Chissà se tutti ricordano una antica puntata di Un giorno in pretura, in cui Totò Riina (lui!) sotto processo raccontava ai giudici «in carcere tutti leggevamo Sciascia». Quindi sì, il rischio di mitizzare la mafia c'è. Ma è un rischio da correre, sempre. Perché il lettore-spettatore non ha bisogno di tutor ideologici, né di "confezioni" eticamente sostenibili ai problemi. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. Pura rassicurazione ideologica a costo (ed effetto) zero. Sarebbe ora di finirla con il pensiero secondo cui la lotta alla mafia si fa con i film, in televisione e con gli ingredienti dell'immaginario. La mafia si affronta con la guerra al suo potere militare e finanziario. Il resto è appunto chiacchiera, fiction contro fiction o peggio: autoassoluzione linguistico-culturale da magagne reali. E quindi si torna alla tempesta perfetta, alla puntata di ieri di Porta a Porta. A Salvo Riina in studio, camicia bianca, giacca grigia, sembra un co. co. co., un precario dell'università, un praticante di studio legale nel giorno in cui non c'è udienza. È anche uno che ha scontato 8 anni e dieci mesi per mafia ed figlio di chi ha ordinato l'attentato di Capaci. È banalità del male. Con una certa "calata" palermitana nella voce, nella quale lo spettatore non può non cogliere (o proiettare) qualche ictus ambiguo, dice cose come: «c'era un tacito accordo familiare» e «Non ci facevamo mai domande, eravamo una sorta di famiglia diversa». E ancora: «era anche un divertimento non andare a scuola». E infine: «Il nostro cursus vitae ci ha portato a vivere in modo molto differente dagli altri. E anche, devo dire, in maniera molto piacevole». Molto piacevole, signori. Ecco perché, fatta la tara agli anti-vespismi, agli eventuali spaventi ideologici, e in breve alle perturbazioni dell'opinione comune, quello di ieri sera è stato un ottimo pezzo di televisione. Ottimo perché restituisce tutta l'ambiguità e i paradossi della zona grigia. E il male, innanzitutto e per lo più, è grigio.
Mafia. "Papà li scannò tutti", così parlava Riina jr prima di scrivere libri. Le frasi non dette in tv dal figlio del capo dei capi. Nelle intercettazioni esaltava la ferocia della cosca, di quelli che definiva "uomini che hanno fatto la storia della Sicilia". "Ci fu una stagione di vampe, 65 morti in una sola estate", scrive Salvo Palazzolo il 15 aprile 2016 su “La Repubblica”. "Io vengo dalla scuola di Corleone", dice nella premessa. "Oh, mio padre di Corleone è, mia madre di Corleone, che scuola posso avere?". E inizia il suo lungo racconto: "Di uomini che hanno fatto la storia della Sicilia... linea dura, ne pagano le conseguenze, però sono stati uomini, alla fin fine. E io... sulla mia pelle brucia ancora di più". Eccole, le vere parole di Giuseppe Salvatore Riina detto Salvo, il figlio del capo di Cosa nostra. Le parole che si è ben guardato dal pronunciare a Porta a Porta durante l'intervista con Bruno Vespa, le parole che non ha scritto nel suo libro. Le vere parole di Salvo Riina sono in un altro libro, conservato negli archivi polverosi del palazzo di giustizia di Palermo. Si trova in cima a uno scaffale, "Riina + 23" è scritto sulla copertina, di certo titolo meno accattivante di quello dato dalle edizioni "Anordest". Ma è in queste 1.129 pagine che ci sono le parole autentiche del giovane Riina, le parole che pronunciò dal 2000 al 2002, quando non sospettava di essere intercettato (a casa e in auto) dalla squadra mobile su ordine del pm Maurizio de Lucia, e parlava in libertà mentre organizzava la sua cosca.
L'INIZIO DELLA GUERRA. Capitolo uno: "Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Ovvero, la guerra di mafia. Non poteva che iniziare con le gesta criminali di suo padre, Totuccio Riina. Perché quelle parole che proponeva ogni giorno ai giovani adepti del suo clan erano delle vere e proprie lezioni di mafia. E la storia bisogna conoscerla. Salvo Riina la conosce alla perfezione, nonostante in tv abbia recitato tutt'altra parte. Racconta: "C'era quel cornuto, Di Cristina, che era malantrinu e spiuni ... era uno della Cupola, un pezzo storico alleato di quelli, i Badalamenti, minchia, Totuccio si fumò a tutti, li scannò". Correva il 1978: così partì la guerra di mafia scatenata dai corleonesi, era l'inizio della loro inarrestabile ascesa. L'inizio della carneficina. "E chi doveva vincere? - dice Salvo Riina - in Sicilia, in tutta l'Italia chi sono quelli che hanno vinto sempre? I corleonesi. E allora, chi doveva vincere?".
I RIBELLI. È davvero un libro istruttivo quello che nessun editore ha ancora pubblicato, conservato nei sotterranei del palazzo di giustizia di Palermo. Riina junior racconta la verità anche su un'altra guerra di mafia, quella del 1990, quella scatenata contro gli stiddari, i ribelli di Cosa nostra. Capitolo due. "Quando gli hanno sminchiato le corna agli stiddari che c'erano in tutta la Sicilia". Da Gela a Marsala, da Riesi a Palma di Montechiaro, un racconto terribile. "Ci fu un'estate di vampe - spiega il giovane boss con grande naturalezza - Ferro e fuoco. Qualche sessantacinque morti ci furono qua, solo in un'estate". E giù con il suo racconto sugli stiddari: "Che razza - dice - qua ci vuole il revolver sempre messo dietro, ma non il revolver quello normale, qua ci vuole il 357, che con ogni revolverata ci 'a scippari u craniu". Totò Riina ordinò un vero e proprio sterminio. Anche questo racconta il figlio: "Ci fu un'estate che le revolverate... non si sapeva più chi le doveva ammazzare prima le persone". E ancora: "Minchia, appena ne sono morti due di quello, partiamo, tre morti di quell'altro... Appena gli hanno ammazzato a quelli tre, gliene andavano ad ammazzare altri cinque. Pure a Marsala gli ha dato vastunate ... era una fazione di boss perdenti... si erano messi in testa che loro dovevano rivoltare il mondo".
BUSINESS E STRAGI. Capitolo quattro: "I piccioli": "Se tu pensi quello che ha fatto mio padre di pizzo, oggi noialtri neanche possiamo fare l'uno per cento. Capitolo cinque: "I cornuti", ovvero i collaboratori di giustizia. "Quando arriva un cornuto di questi e ci leva tutto il benessere, ci fa sequestrare beni immobili, materie prime e soldi". Capitolo sei, il cuore del libro: "Le stragi Falcone e Borsellino". "Un colonnello deve sempre decidere lui e avere sempre la responsabilità lui. Deve pigliare una decisione, e la decisione fu quella: "Abbattiamoli" E sono stati abbattuti".
RITRATTO DI FAMIGLIA. Ma non è solo un libro di sangue e complotti quello che il giovane Riina ha inconsapevolmente scritto, firmando la sua condanna a 8 anni per associazione mafiosa. Ci sono anche i dialoghi in famiglia, pure questi ben lontani dalla descrizione proposta a Porta a Porta. È il capitolo finale di questo libro verità: la scena è ambientata nella sala colloqui del carcere dov'è detenuto il primogenito di casa Riina, Gianni. Sei dicembre 2000. Ninetta Bagarella si rivolge ai figli maschi: "Siete stati sempre catu e corda... ma quello che ti tirava era sempre Gianni". E Salvo: "Papà diceva che lui era il più...". La mamma chiosa: "Il più agguerrito". E non a caso il quarantenne Gianni Riina è già all'ergastolo da vent'anni, condannato per quattro omicidi. "Tu facevi il trend ", dice Salvo al fratello. E la sorella Maria Concetta corregge: "Il trainer, non il trend". Gianni ricorda una frase del padre: "Una volta mi ha detto una cosa. Che non ho mai dimenticato: "Tu hai sempre ragione per me, perciò, quale problema c'è"". Quella era un'investitura. Che anche Salvo Riina rivendicava: "Vedi che io vengo dalla scuola corleonese". E la madre certificò: "Sangue puro".
Art. 21 della Costituzione: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione…" (questo vale anche per i figli dei mafiosi, come anche per i mafiosi stessi) "La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure...". Mentre l'art. 33, comma 1, afferma che: «L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento».
In questa Italia che ci propinano i diritti, come si sa, son privilegi ad uso e consumo solo di chi detiene un potere.
Enzo Tortora era innocente. La Rai invece no, scrive “Il Dubbio” il 17 maggio 2016. «Signora Presidente, signor Ministro, signori colleghi, mezz’ora fa è mancato all’affetto della sua famiglia il nostro Enzo Tortora. Mi si consenta, pur non essendo stato un nostro collega, ma essendo stato un rappresentante del nostro popolo - e quale, e come, e in che circostanze - nel Parlamento Europeo, mi consenta, signora Presidente, senza usare violenza di sorta, di tacere per mezzo minuto». Così Marco Pannella, con voce rotta dalla commozione – vera - alla Camera dei Deputati il mattino del 18 maggio 1988, esattamente 28 anni fa. Cinque anni prima, il 17 giugno 1983, Tortora era stato arrestato come un volgare e pericoloso delinquente. Un arresto spettacolare per supportare accuse infondate, infamanti quanto assurde: appartenenza alla camorra, traffico di droga e - inchiesta facendo - altre invenzioni. Ad accusarlo un manipolo di delinquenti che, con il nobile quanto inappropriato titolo di “collaboratori di giustizia”, era stato assunto a servizio della Procura di Napoli dai procuratori Felice Di Persia e Lucio di Pietro. Le farneticanti dichiarazioni di 17 gaglioffi e il libero convincimento di quei magistrati rivoluzionano la vita di un uomo perbene: non uno straccio di prova, non un riscontro, non un’indagine alla ricerca della verità, non una intercettazione ma solo menzogne, calunnie, false accuse precostituite e propagandate da giornalisti complici e asserviti alla procura. Perché? Perché Tortora deve essere colpevole. Enzo è un personaggio amato da milioni di telespettatori, una icona del giornalismo italiano fino a quando un’assurda accusa lo trasforma da grande giornalista in grande spacciatore di droga, da uomo di cultura in uomo di malavita. Enzo vive la gogna di una campagna di informazione pilotata dalla procura napoletana che ha bisogno di compensare la mancanza di prove con la costruzione del “colpevole”. Ma anche da imputato, da detenuto, Enzo Tortora non rinuncia ad essere se stesso, ad agire con la dignità e la forza di un uomo perbene. Lo vogliono vittima? Lui si fa protagonista di una nobile battaglia per la giustizia giusta, tesa a risolvere non soltanto il suo processo, ma il ben più grave “caso Italia”. Lo vogliono camorrista e spacciatore con una condanna a 10 anni di galera scritta da Luigi Sansone (presidente della corte) e suggerita da Diego Marmo (quel Pubblico Ministero che recentemente ha chiesto scusa per aver commesso una grave errore giudiziario)? Lui si conferma galantuomo, si dimette dal Parlamento Europeo per tornare in galera e presentarsi ai suoi giudici come semplice cittadino. Innocente. Tortora è innocente, gli altri no. Tortora non ha nulla da rimproverarsi, i magistrati sì. Tortora potrà tornare al suo pubblico a testa alta, tanti altri giornalisti no. Dopo aver affermato la verità e aver portato nelle sedi istituzionali la denuncia del degrado giuridico italiano, Enzo muore per un tumore al polmone “che mi hanno fatto scoppiare come una bomba al cobalto” in quel dannato giorno di metà giugno 1983. Quei magistrati che hanno firmato la più brutta pagina della storia della giustizia italiana potranno invece godere di note di merito e promozioni di carriera (Felice Di Persia viene addirittura eletto al Consiglio superiore della magistratura). Ancora oggi c’è un problema “magistratura” da riformare: gli errori giudiziari sono ancora tanti, la legge sulla responsabilità dei magistrati – pur nella sua inadeguatezza - non trova applicazione, esiste un libero convincimento del giudice che si scontra con il sistema accusatorio, c’è una stretta correlazione tra la magistratura giudicante e quella inquirente, e sia l’una che l’altra sono troppo politicizzate. È una verità incontestabile. Così come è vero che tanti magistrati concordano però sull’esigenza di una vera, sana e profonda riforma. Per intervenire contro i mali reali del sistema, facendosi garanti di una riforma a favore della giustizia giusta e non a dispetto di qualcuno, tantomeno a dispetto della magistratura, alla quale vanno ridati quella dignità e quel rispetto che la Costituzione le assegna ma che la stessa magistratura deve guadagnare e mantenere sul campo. Per questo credo che non sia più rinviabile un confronto con l’Anm per trovare la giusta quadratura, per garantire a tutti giudizi equi e celeri, certezza della prova e giusto processo. E invece assistiamo a una contrapposizione pretestuosa, a un interminabile scontro – tanto frontale quanto volgare - che genera mostri e impedisce ogni modifica legislativa, ponendo una pietra tombale su ogni possibile e necessaria riforma. Confermando - ahimè, ahinoi - che il “sonno della ragione genera mostri”. Per ricordare Enzo nel ventottesimo della sua morte, uno Speciale del TG5 firmato da Andrea Pamparana è stato titolato “Quella giustizia che uccise un galantuomo”. Un servizio giornalistico equilibrato e vero, che ha reso la giusta memoria a Tortora. Mediaset se ne è ricordato, d’altronde è stato proprio Enzo il “papà” delle televisioni libere. Ma è stato soprattutto “figlio” di quella Rai alla quale tantissimo ha dato in termini di cultura, spettacolo e “guadagni”. Eppure quest’ultima tace (nonostante i miei solleciti a diversi consiglieri di amministrazione), perchè parlare di Tortora dà ancora fastidio: qualcuno potrebbe indispettirsi, c’è il rischio di sollevare qualche suscettibilità. Tortora è stato ed è un personaggio da dimenticare per non svegliare le coscienze. “... Hai visto la Tv? La Tv alla quale ho dato quasi tutta la mia vita, beh, hai visto se, nella disgustosa celebrazione dei suoi 30 anni ha ricordato una sola volta me, un mio programma? Silenzio. E` il Potere, Francesca. E` questo, che ha deciso di stritolarmi”. Così mi scrive Enzo dal carcere in una lettera del gennaio 1984: parole profetiche. Quel silenzio dura da ben 28 anni. Mamma Rai ingrata e distratta? No, perché non rinuncia a ricordare, giustamente, gli altri suoi figli. Ma Tortora è il figlio ribelle, troppo liberal per le paludate consuetudini della Tv di Stato, troppo innocente nella inchiesta napoletana per richiamare alla memoria i carnefici, troppo “antipatico” per meritare una citazione. Insomma, sembra proprio che il principio costituzionale dell’uguaglianza dei cittadini non valga in Rai e allora mi chiedo: ma se il servizio pubblico viola un sacrosanto e semplice principio, perchè io devo pagare il canone? P. S. Subito dopo aver consegnato questo articolo, ricevo una telefonata di RaiNews in cui mi si informa che, giorno 18 alle 18, il direttore Antonio Di Bella dedicherà la sua trasmissione “Telegram” alla memoria di Enzo Tortora. Ne sono felice: è una ennesima conferma della sensibilità del direttore Di Bella sulla vicenda di Enzo. Plaudo quindi a lui, mentre mantengo il mio giudizio sulla Rai.
CON LA RADIO NON S'IMBROGLIA. VIVA LA RADIO CHE NON MUORE MAI.
La radio? "Il mezzo più umano tra esseri umani". Data per spacciata una prima volta con l'arrivo della televisione, l'invenzione geniale di Marconi resta in ottima salute. Dopo oltre un secolo di vita sta dimostrando di sapersi adattare perfettamente alla stessa rivoluzione digitale. I dati la premiano: ascolti, pubblicità e credibilità continuano a crescere. E il suo potere persuasivo resta intatto: negli Usa può cambiare le sorti della Casa Bianca, a Roma decide spesso il destino degli allenatori di calcio, scrive il 7 dicembre 2015 “La Repubblica”.
Pragmatica e camaleontica di Carlo Ciavoni. Di epigrammi accorati, fiammeggianti, densi di dolore sulla sua possibile tomba, la radio ne ha dovuti ascoltare parecchi nella sua lunga vita. Una vita che alcuni in Italia vogliono far cominciare non tanto 91 anni fa, da quel 6 ottobre 1924 quando ci fu l'inizio ufficiale delle prime trasmissioni dell'Unione Radiofonica Italiana, poi Eiar e poi ancora Rai. No: c'è chi vorrebbe scrivere come data della sua venuta al mondo in Italia l'8 dicembre del 1895, 120 anni fa esatti, quando Guglielmo Marconi fece trillare tre volte un campanello posto a distanza a Villa Grifone nella località che ora si chiama Sasso Marconi. Insomma, è successo in diverse occasioni in tutto questo tempo, di sentirsi trattare come un'anziana e gloriosa combattente, sul punto di essere seppellita da logiche iper-neoliberiste sull'infallibilità del mercato. Sussulto di vitalità. Momenti tristi, dunque, per la radio ce ne sono stati. Ad esempio, anche a metà degli anni Cinquanta, con l'inizio della programmazione Tv. Ma poi nel corso degli anni successivi, in un'altalena di "svenimenti" e "rianimazioni", quando ha dovuto superare fasi in cui è sembrata lì lì per lasciarci o comunque finire nell'ombra. Un vero sussulto di vitalità ci fu poi all'indomani della sentenza della Corte Costituzionale del 1976, la numero 202 del 28 luglio. Cominciava la stagione delle "Radio Libere". Che fino ad allora trasmettevano sfruttando un'interpretazione estensiva della legge allora vigente, la 103 del 1975, col rischio di denunce e sequestri. Nonostante tutto però, molte radio trasmettevano con regolarità. Solo a Roma, alla fine del 1975, ce n'erano già una dozzina in piena attività. L'ultima volta che il respiro della Radio s'è di nuovo fatto pesante, fu agli inizi negli anni '90, quando - ancora una volta - le Tv commerciali sembrava stessero per sferrare il colpo finale e definitivo al medium più antico dell'era moderna. E invece no. Gli anni successivi a quell'ultima stagione un po' opaca hanno al contrario segnato una rimonta impressionante delle emittenti. L'ultima testimonianza viene da una ricerca della Gfk Eurisko e dalla Ipsos, dal titolo che annuncia già il senso e l'esito del sondaggio: "Come afferrare Proteo", il personaggio mitologico dalle forme mutevoli, capace di adattarsi con rapidità ai cambiamenti attorno a lui. Le analisi delle due società di rilevamento non lasciano dubbi. Dicono e ribadiscono che la radio ha tutti i connotati per essere definita "immortale", proprio grazie alla sua capacità di adeguarsi al mondo che la circonda. Un mondo geneticamente e tecnologicamente mutato, ma nel quale ha saputo convivere con discrezione assieme agli altri strumenti di comunicazione. Ma nello stesso tempo prosperando sulla nuova scena digitale, esibendo numeri che mostrano una crescita costante e, ciò che secondo gli analisti conta di più, aumentando la sua credibilità nella percezione diffusa tra il pubblico. Ha più valore un "... l'ha detto la Radio" che un "... l'ho sentito alla Tv". Lo confermano le statistiche. La ricerca Eurisko-Ipsos s'è svolta tra l'aprile e il maggio scorsi su un campione rappresentativo di 52.903.250 cittadini italiani, circa l'84% della popolazione residente nel nostro paese. I dati più importanti ci parlano della tenace resistenza della radio alle "intemperie" e alle "traversie" incontrate lungo la sua lunga storia. Un mezzo capace di resistere all'urto con l'era digitale, confermandosi un "mezzo di tutti", che vanta una platea complessiva di oltre 35 milioni di persone al giorno, all'interno della quale vive un target pubblicitariamente assai pregiato. Così la radio fa gola agli inserzionisti e ai pubblicitari, proprio perché cresce tra segmenti di pubblico più esposti alle nuove tecnologie, come i giovani. Il sondaggio ci dice infatti che per il 50% dei ragazzi tra 14 e 17 anni e il 47% dei 18-24enni l'ascolto della radio è in aumento rispetto a 3 anni fa. Un altro dato assai interessante è che il 90% di chi ascolta la musica attraverso supporti digitali, ascolta anche la radio, con i giovani che stanno mostrando di farlo con maggiore intensità rispetto al passato. Dice Giorgio De Rita, segretario generale del Censis: "La Radio attira e accresce i suoi ascoltatori con un miscuglio tra continuità con il passato, semplicità d'uso e capacità di trovare ospitalità nei nuovi strumenti della società dell'informazione. Sta giocando una scommessa con il futuro - aggiunge De Rita - esibendosi su tanti fronti e cerca di ricavare dal proprio successo di ascolti una nuova capacità d'integrazione nel mondo dei nuovi media, facendosi carico di una società che ha cambiato il proprio modo di fare coesione sociale". Giorgio Simonelli, docente al corso di laurea di "Linguaggi dei Media" alla Cattolica di Milano, riflette sui livelli di qualità che la radio deve mantenere, curando sempre di più i contenuti, con una più evoluta cultura della programmazione. Cita prodotti radiofonici capaci di "produrre un alto grado di partecipazione emotiva e coinvolgimento intellettuale". Un'attenzione particolare Simonelli la dedica all'audience radiofonica, citando il libro di Enrico Menduni ("Il mondo della Radio. Dal tansistor ai social network", il Mulino)". Sarebbe nato, insomma, un nuovo tipo di pubblico definito "reticolare", il quale "benché minoritario rispetto a quello tradizionale analogico rappresenta una realtà fondamentale, perché anche se non è in grado di generare valore economico, è comunque decisivo nella produzione di quello che Danah Boyd (studiosa statunitense esperta di media e del loro rapporto con i giovani ndr) definisce capitale reputazionale, per cui il pubblico della radio si misurerà sempre meno in base a logiche di massa numerica e sempre più in termini reputazionali, appunto, attraverso strumenti assai vicini alla sfera sentimentale". La prova simbolica della vitale longevità della radio e della sua inesauribile capacità di stupire e di generare gioie, ma anche tensioni e paure, viene da un ormai celeberrimo programma del 1938, La guerra dei mondi, uno sceneggiato radiofonico della CBS, protagonista Orson Welles. È rimasto un caposaldo della radiofonia di tutti i tempi, perché il perfetto realismo dell'interpretazione del grande attore e regista scatenò il panico tra la gente, dopo che Welles annunciò un'invasione di alieni, scesi sulla Terra con diverse astronavi, dalle parti di Grovers Mill, nel New Jersey. Furono in molti a non capire che si trattava di una finzione, nonostante dai microfoni della CBS, sia prima che dopo quella storica puntata del 30 ottobre, fossero stati diffusi avvertimenti che ricordavano, appunto, che si trattava solo di uno sceneggiato radiofonico. Nel corso del tempo è a personaggi e programmi di quella potenza che va attribuito il merito di aver creato, giorno dopo giorno, la fedeltà d'ascolto necessaria a generare la comunità di riferimento di ogni emittente. Di esempi nati sulle nostre onde hertziane e che hanno fatto la storia della radio italiana, ce ne sono numerosi. Rosso e Nero, tanto per citarne uno, che tenne per anni incollati all'apparecchio milioni di italiani il giovedì sera; ma poi tanti altri "monumenti" della radiofonia nazionale, come la Hit Parade di Lelio Luttazzi, Bandiera Gialla, Il Gambero, Alto Gradimento, Chiamate Roma 3131, Fabio e Fiamma la trave nell'occhio, Raistereonotte... fino al Ruggito del Coniglio, Caterpillar e 610 di Lillo e Greg, solo per citarne alcuni, così, un po' a casaccio. Ecco, oltre a questi esempi ci piace ricordarne un altro, che arriva dagli States, Arkansas. Si chiama Sonny Payne, ha 85 anni suonati, ed è ancora oggi, dopo 60 anni, al microfono di King Biscuit Time, un programma trasmesso da un'emittente della città di Helena. Il vecchio Sonny è lì tutte le sere a trasmettere ottimi blues, a dialogare con i suoi ascoltatori e, probabilmente, anche ad invitarli a gridare assieme lui, ogni tanto: "Viva la Radio".
Presta: "Non ha trucchi, nulla la può fermare" di Carlo Ciavoni. "Dicono che dopo un disastro nucleare gli unici a sopravvivere sarebbero gli scarafaggi. Ma non è così", sentenzia Marco Presta, attore, scrittore di successo, da vent'anni autore e conduttore assieme ad Antonello Dose, suo amico d'infanzia, di una delle trasmissioni cult di Radio Rai, Il Ruggito del Coniglio. "Non è così, perché a sopravvivere a tutto sarà soprattutto la radio. Sono sicuro che da qualche parte - dice - dopo quella malaugurata esplosione, si sentirebbe una voce che esce da una radiolina impolverata tra le macerie. Ho in testa questa immagine, sarà grave? Insomma, penso davvero spesso alla sua sostanziale immortalità e questo, secondo me, succede per un motivo molto semplice: la radio appartiene alla sfera del sentimento e i sentimenti, com'è noto, non muoiono mai. Si accendono, si trasformano, si spendono anche, ma vengono comunque rimpiazzati da altri stati emotivi. Insomma, c'è il vuoto sentimentale. "Alla radio - dice ancora l'autore che ha partecipato alla stesura della sceneggiatura della serie Tv Un medico in famiglia e che collabora alla scrittura dei testi per la Littizzetto - non c'è trucco né inganno, non ci sono paillettes, o smoking, né belle gnocche. C'è un flusso sentimentale che ha la stessa fisiologia e la stessa forza di quello che s'instaura tra esseri umani. Insomma, non c'è bisogno che io stia qui a ripeterlo, ma è un fatto che la radio è il mezzo che somiglia di più e che più di altri entra rapidamente e con efficacia in sintonia con l'animo delle persone. D'altra parte - conclude Marco Presta - la nostra lunga esperienza a Radio 2 con il Ruggito, ce lo continua a confermare: la radio riesce a trasformare in fatti rilevanti tutto ciò che riguarda la vita delle persone, persino le cose più banali. Nessuno riesce a raccontare o a rappresentare emotivamente meglio gli stati d'animo della gente. Ecco perché è immortale".
La corsa alla Casa Bianca si vince anche in Fm di Alberto Flores D'Arcais. Nell'era di Internet e dei social network, con dibattiti televisivi sempre più noiosi e la crisi della carta stampata, anche negli States la vecchia cara radio vive la sua ennesima giovinezza. Punta di diamante della propaganda politica nella prima metà del secolo scorso (poi arrivò la tv e il famoso scontro Kennedy-Nixon), quando celebri conduttori come Father Charles Coughlin (il prete anti-semita che amava Hitler e Mussolini raccontato da Philip Roth nel suo romanzo "Il complotto contro l'America") erano 'verbo' per milioni di persone, i talk-show sulle radio restano tra i più formidabili veicoli dell'informazione per convincere un elettorato sempre più disattento. Al passo con i tempi del mondo digitale (grazie ai podcast e alle radio satellitari come Sirius) le voci (e la propaganda) degli odierni guru, raggiungono ogni giorno decine di milioni di abitazioni, automobili, diners e via dicendo. Se la National Public Radio (Npr) - l'ente fondato nel 1971 sull'onda del Public Broadcasting Act del presidente Lyndon Johnson per la crescita della radio non commerciali - con il suo network di circa 900 emittenti in ogni angolo degli States mantiene i suoi standard di pubblico servizio (con una tendenza decisamente progressista) nell'informare un'audience che raggiunge ogni settimana oltre 25 milioni di ascoltatori, i veri padroni della radio sono però altri. In primo luogo i conduttori di talk-show più partigiani (e in grande maggioranza conservatori) che sono in grado di dettare gli argomenti più polemici e più esasperati (a volte anche più volgari) del dibattito politico. Conduttori che - in questo caso accomunati conservatori e progressisti - hanno come primo nemico i Palazzi di Washington (dalla Casa Bianca al Congresso) e la politica istituzionale. Campione indiscusso - ormai da più di un decennio - è Rush Limbaugh, 64enne del Missouri che iniziò la sua carriera nell'ormai lontano 1984 (a una radio californiana di Sacramento) che da solo ogni settimana ha un'audience che supera i 15 milioni di ascoltatori. Campione di ascolti e campione di polemiche. Con i suoi attacchi continui a tutto ciò che puzza di 'liberal'(o più semplicemente di democratico), con le sue campagne accusate di razzismo ("prima di parlare togliti l'anello che porti al naso", disse una volta sprezzantemente a un ascoltatore di colore), a favore della pena di morte e contro gli ambientalisti di ogni genere. Negli ultimi anni il suo regno è sempre più in pericolo grazie a Sean Hannity, anche lui conservatore anti-liberal ma meno sanguigno (e più colto) di Limbaugh, che adesso lo tallona da vicino con i suoi 14 milioni di ascoltatori settimanali e con i suoi libri (ad esempio "Liberaci dal male: sconfiggere terrorismo, dispotismo e liberalismo") che finiscono sempre nelle classifiche del New York Times sui libri più venduti. Altro guru radiofonico molto ascoltato è Glenn Beck, volto e star televisiva del canale Fox (il più conservatore, proprietà di Rupert Murdoch) che è anche fondatore e Ceo di Mercury Radio Arts, una casa di produzione multimedia (radio, tv, internet, teatro e carta stampata) e considerato da Hollywood Reporter uno dei cinquanta uomini "più influenti d'America nell'era digitale". Tra i conduttori radiofonici non mancano neanche figli d'arte. Come quelli di Ronald Reagan, uno dei presidenti più amati d'America, oggi divisi da credi e ideologie. Con Michael (figlio adottivo) che con il suo programma era riuscito a raggiungere anche la ottima quota di 5 milioni di ascoltatori alla settimana e Ron, di tredici anni più giovane che - ateo e sostenitore di Obama già nel 2008 - ha tradito gli ideali familiari e lavora adesso per la radio liberal Air America. E i progressisti? Per troppo tempo democratici, liberal e radical hanno delegato a Npr l'informazione "politicamente corretta". Solo negli ultimi anni, un po' come è successo con il canale televisivo all-news MsNbc che si contrappone in modo molto partisan alla Fox, hanno capito che oltre a Internet e ai social network (grande intuizione degli uomini di Obama nel 2008) anche la radio continua ad essere una formidabile macchina da voti. Ed ecco comparire sulla scena uomini come Bill Press - già presidente del partito democratico della California negli anni Novanta, volto conosciuto ai telespettatori di Cnn e MsNbc - che ha lanciato, con discreto successo, il suo talk-show. Un caso a parte è quello di Howard Stern. Produttore, autore televisivo, attore e fotografo, famoso per il suo radio show andato in onda dal 1986 al 2005 (con picchi di venti milioni di audience), ha da dieci anni un contratto milionario con Sirius XM Radio, l'emittente satellitare (per soli abbonati) più seguita d'America. Provocatorio, populista, conduttore di programmi notturni al limite del porno, politicamente può essere definito un 'libertario'. Come molti degli elettori indipendenti che alle elezioni possono fare la differenza.
Urlate e faziose, l'incubo di Roma e Lazio, di Matteo Pinci. C'è una radio che a Roma non si spegne mai. È quella che parla di calcio, e che sia Roma o Lazio non fa troppa differenza: più di cento ore al giorno in cui l'etere soffoca di polemiche e appelli, richieste e tifo, un mormorio costante e sotterraneo che non piace agli allenatori ma fa impazzire la piazza. In fondo, la Capitale s'è fatta interprete della terza declinazione della radio in Italia: dopo quella in musica e quella parlata, qui è fiorita la radio urlata. E pensare che nel 1974 le allora "radio libere" erano nate quasi come un bisbiglio: bastavano 5-10 watt di potenza per trasmettere. Oggi 30 volte tanti non sono sufficienti. Ma come spogliare la città di questa voce rumorosissima e costante che fa da sottofondo alle giornate di ministri e ambasciatori, pizzardoni e autisti atac? Perché il fenomeno non è solo costume, ma una tendenza che coinvolge le masse. Chi ha il microfono diventa un guru riconosciuto nell'universo popolare, si fa portavoce di idee che trovano poi riscontro nell'una o nell'altra tifoseria. Addirittura generano frazioni interne nello stesso gruppo di sostenitori. Alimentando figure diventate mitologiche, nonostante un curriculum non sempre limpidissimo. Paradigma di questa immagine, quasi un capobastone, è Mario Corsi, per tutti "Marione": capopopolo dell'etere, la sua - dicono i dati di ascolto - resta ancora la trasmissione più seguita. Tra le 10 e le 14 metà della Roma che si sposta in auto si sintonizza sulle frequenze in Fm per ascoltarne la voce. Ignorando - o fingendo di ignorare - il passato nei Nar e qualche accusa grave che negli anni ha macchiato la figura del conduttore. I tassisti lo adorano, i tifosi lo detestano e più o meno tutti lo ascoltano. Altra figura mitica dell'etere romano è quella di Carlo Zampa, radiocronista promosso a speaker dell'Olimpico giallorosso nell'anno dello scudetto che i bambini fermano per strada chiedendogli di mettersi i posa per un selfie.Tra chi parla di Lazio il capostipite resta invece indiscutibilmente Guido De Angelis, editore della rivista Lazialità, commentatore di rilievo delle emittenti in biancoceleste. Un guru, appunto. "Le radio romane sono sempre molto negative, non hanno mai un equilibrio e questo può influenzare il pubblico e la squadra", dice ogni volta che si ritrova a parlarne uno sceriffo dello spogliatoio come Fabio Capello. Lui, che pure aveva dovuto convivere con il brusio altrettanto diffuso di Madrid, nei cinque anni a Roma se n'è fatto un'idea limpida, evidentemente. Almeno tre stazioni parlano abitualmente della Roma, altrettante della Lazio, più una mista. Si chiamano Teleradiostereo o Centrosuono Sport, Radio sei o Radio Incontro Olympia, Rete Sport e Radio Radio, nomi generici che nella stragrande maggioranza dei casi per i tifosi vogliono dire invece appartenenza a una o all'altra bandiera: in tutto, una copertura che supera le 100 ore di trasmissione quotidiana, oltre 1.000 settimanali. E il fenomeno è dilagato al punto che anche le società di Pallotta e Lotito si sono dotate di una propria emittente radiofonica: un tentativo di contrastare il chiacchiericcio indirizzando l'ascoltatore verso una comunicazione istituzionalizzata. Tentativi che però non hanno soffocato la voce libera di chi strilla e contesta, punta l'indice dopo lo sconfitte per poi alzarlo al cielo dopo una vittoria. E non fanno sconti: a nessuno. Se n'èaccorta Francesca Brienza, la fidanzata dell'allenatore della Roma, quando le è scappato un commento sul tema: "Uno degli elementi più pericolosi che ci sono a Roma - ha detto - sono le radio romane, e chi dice il contrario è perché non le ha mai ascoltate". Il fuoco incrociato su Lady Garcia ne è la prova ulteriore: la radio (romana) non si discute, si ascolta.
L'oggetto muore, parole e musica sono eterne, di Ernesto Assante. “Abbassa la tua radio per favor”, recitava il testo di una celebre canzone, “Silenzioso slow” del 1940. Difficile che oggi qualcuno possa ripetere la stessa frase, perché di radio, in giro, ce n'è sempre di meno. Intendiamoci, parliamo dell'oggetto fisico, dei ricevitori che dal secolo scorso ci accompagnano e che hanno preso forme sempre diverse, perché la radio, come strumento di comunicazione, funziona egregiamente, ha un grande successo e nelle sue forme più innovative e moderne, quelle digitali, sta addirittura conquistando nuovi spazi e nuovo pubblico. La radio, come oggetto fisico, invece, è sempre meno diffusa, sempre meno presente. Basta andare in un grande magazzino d'elettronica per rendersene conto, i modelli presenti nei negozi sono sempre di meno, e l'offerta cala di anno in anno, persino per i nostalgici è diventato difficile trovare delle macchine che siano solo e soltanto radio. La radio non è più un oggetto ma un concetto, una funzione all'interno di altri oggetti, un modo di organizzare contenuti e renderli fruibili al pubblico. La radio “vecchio stampo” resiste a fatica, insomma, a casa ha sempre meno spazio, in macchina gode ancora di buona salute, ma ovunque si trasforma, cambia forma. Oggi non c'è una “radio”, anzi a dire il vero uno dei problemi più grandi per chi ama il mezzo e vorrebbe poter avere un ricevitore in grado di poter catturare tutte le forme possibili di radio che oggi abbiamo a disposizione è proprio che non c'è ancora un oggetto definitivo che offra la possibilità di ascoltare le radio web only, le radio tradizionali in am e fm, le radio digitali, quelle satellitari e i podcast. Si, perché a definire la radio oggi non è più nemmeno il sistema di trasmissione, perché solo parte della radiofonia trasmette usando “onde radio o radioonde sono onde elettromagnetiche, appartenenti allo spettro elettromagnetico, nella banda di frequenza compresa tra 0 e 300 GHz ovvero con lunghezza d'onda da 1 mm all'infinito”, come recita Wikipedia. La radio oggi arriva a noi attraverso la televisione, i computer, gli smartphone e i tablet, i satelliti, internet, e a dire il vero in molti di questi casi per definirla avremmo bisogno di nomi nuovi. Del resto, in principio, più di cento anni fa, la radio non aveva nemmeno questo nome. E non assomigliava in nessun modo all'oggetto che noi oggi conosciamo ed amiamo. I primi esperimenti di Marconi erano in realtà trasmissioni radiotelegrafiche, in cui dei segnali, dei piccoli rumori, venivano trasmessi da una parte all'altra, da un trasmettitore a un ricevitore. Bisognerà aspettare circa venti anni per arrivare ad ascoltare qualcosa che fosse una trasmissione d'intrattenimento, fatta per un pubblico di ascoltatori, un programma vero e proprio, come quelli che siamo abituati ad ascoltare ai giorni nostri. L'oggetto radiofonico è cambiato parallelamente al suo diverso uso ed alla crescente popolarità del mezzo. E si è aggiornato seguendo i tempi e le mode. Le prime radio erano degli oggetti meccanici che avevano poco fascino ma erano perfette per l'uso che se ne faceva nei primi anni del Novecento. La radio in origine altro non era che un "wireless telegraph", un telegrafo senza fili per comunicazioni da punto a punto, lì dove le linee telegrafiche non erano utilizzabili o affidabili. Il passo seguente fu quello di una trasmissione da una fonte simultaneamente a molti riceventi, usando il linguaggio Morse, e le macchine, pur modificandosi e migliorando, non furono molto diverse nell'aspetto. Erano macchine, erano utili per comunicare, non erano ancora strumenti di divertimento o intrattenimento popolare. Tutto cambiò con l'introduzione delle valvole elettroniche, che potevano essere usate in circuiti elettrici che rendevano i ricevitori radiofonici e agli amplificatori centinaia di volte più potenti e che potevano essere utilizzati per costruire dei trasmettitori più compatti ed efficienti. In pochi anni arrivarono sul mercato le prime vere e proprie radio, degli oggetti di legno, abbastanza grandi all'inizio, poi di dimensioni sempre più contenute. Oggetti eleganti, perché dovevano occupare un posto importante nelle case dei pochi fortunati che ne possedevano una, oggetti che avevano un design raffinato e che erano di facile uso. Tra gli anni venti e trenta la radio attraversa un clamoroso periodo di “boom”, entra nelle case di milioni di persone in tutto il mondo e la scatola magica dalla quale escono voci, suoni e rumori, diventa sempre più piccola, meno costosa e di maggiore qualità. Le dimensioni si riducono anche perché la radio, visti i costi in discesa e la sua ampia diffusione, non è più confinata nelle stanze delle case di ricchi signori, ma inizia a entrare in quelle di tutta la popolazione. L'oggetto diventa prodotto in serie, la stessa radio, lo stesso oggetto, è replicato in copie numerose e assume dimensioni da tavolo, più piccola e compatta. Tra gli anni trenta e quaranta l'oggetto radiofonico viene declinato in mille modi diversi, in modelli tra loro molto differenti, da quelli piccoli e compatti a veri e propri mobili in grado di occupare il posto d'onore nel salotto buono, dai grandi cassoni privi di forme ai piccoli oggetti di design, firmati anche, in alcuni casi, da veri e propri artisti. Quando alla fine degli anni Quaranta arriva la radio a transistor tutto cambia nuovamente: la radio non è più un oggetto casalingo, ma un modernissimo e portatile strumento in grado di seguirci durante tutto il giorno. Le piccole radioline a transistor conquistano i cuori degli ascoltatori degli anni Cinquanta, entrano nelle tasche, sono comode e leggere, permettono di ascoltare musica e notizie ovunque. La portatilità non è soltanto una rivoluzione tecnologia, ma il motore di una clamorosa rivoluzione culturale, attraverso la quale la radio conquista il ruolo centrale all'interno dell'universo dell'informazione che ha conservato fino ad oggi. Le radio perdono anche l'ultimo pizzico di seriosa importanza che avevano fino ad allora conservato, escono dalle case e dal controllo dei capifamiglia e diventano di plastica, si colorano di rosso, di giallo, di verde, diventano un oggetto dal costo bassissimo, perfetto per tutte le tasche e soprattutto per quelle dei giovanissimi, che eleggono la radio come strumento di comunicazione principale, come mezzo di divertimento e di svago, come piccolo simbolo generazionale, da mettere accanto ai dischi, ai jeans e al rock'n'roll. E gli adulti? Beh, di certo non vengono tagliati fuori dall'evoluzione della radio, anzi, l'avvento dell'alta fedeltà, intesa come una migliore esperienza di ascolto, porta alla nascita di apparecchi radiofonici costosi e più sofisticati, con amplificatori più potenti, filtri, e circuiti elettrici meno rumorosi, in grado di far ascoltare i suoni della radio in maniera più fedele all'originale. Se le piccole radio a transistor che si sentono piuttosto male catturano i cuori dei giovanissimi, le radio da salotto, comprensive di giradischi, degli anni Sessanta conquistano i genitori e gli appassionati di musica, che vogliono ascoltare sempre meglio la musica. Se a questo si aggiunge che i dischi, rigorosamente monofonici, cominciano ad essere stereo, si comprende come la qualità delle trasmissioni radio fosse destinata a migliorare costantemente. I ricevitori radiofonici diventano degli “elementi” dell'impianto stereo, perdono la forma tradizionale della radio per diventare “pezzi” di un insieme sonoro più ricco e complesso. Per la radio la chiave di volta per conquistare sempre di più il pubblico resta la portatilità. Ed ecco allora arrivare le autoradio, delle macchine che inizialmente garantivano un ascolto abbastanza limitato ma che in brevissimo tempo, complice il miglioramento delle trasmissioni e della copertura del territorio da parte delle emittenti, diventano un oggetto desiderato da ogni automobilista del mondo. Le autoradio si diffondono lentamente, a causa dei costi molto elevati dei ricevitori, ma con il passare degli anni diventano un accessorio di serie in tutte le macchine. Quando le trasmissioni in fm vengono “liberate” e nascono le radio private per l'oggetto radio inizia una nuova vita: la stereofonia si diffonde ovunque e le emittenti si moltiplicano come i funghi. Negli anni Ottanta, con l'avvento del walkman, anche la radio si adegua alla nuova moda, diventa sempre più piccola, elimina l'ascolto “aperto” in favore delle piccole cuffiette, si nasconde in mille altri oggetti, diventa radiosveglia, si fa piccina piccina e entra negli orologi, oppure cresce per diventare un ghetto blaster di grandi dimensioni. Insomma, non c'è più una radio ma mille oggetti che trasmettono musica e parole sulle frequenze preferite. E tra breve non ci sarà più nemmeno l'oggetto in se: già oggi è così, con le radio satellitari, che arrivano nelle nostre case dai ricevitori delle tv digitali, o con le radio internet, che non hanno bisogno nemmeno di un ricevitore e sono nascoste tra le pieghe del web, o con quelle che sono nelle nostre tasche all'interno del telefono cellulare o del lettore mp3. Insomma mentre il segnale della radio ha ampiamente superato i cento anni e gode di ottima salute, l'oggetto radiofonico sembra sempre di più destinato a sparire, a diventare una funzione di altri oggetti, a mescolarsi ad altri suoni, ad altre voci, restando sempre, straordinariamente, presente. La radio, nel nuovo mondo digitale, è un modo di organizzare contenuti, non più un modo di trasmetterli e riceverli, cosa che potremmo dire allo stesso modo dei giornali, o dei dischi, che perdendo fisicità hanno perso la forma comprensibile alla quale eravamo abituati. La radio, però, ha un vantaggio, è straordinariamente “contemporanea”, perché è per sua natura portatile, on demand, personalizzabile, si adatta con estrema facilità al nuovo mondo e alle nuove regole. E ha ancora uno splendido futuro davanti a sé.
L’ANGOLO BUIO DEI SOCIAL.
"Io minacciato di morte su Twitter perchè gay: e il social non fornisce i dati sull'aggressore". «Mi aveva scritto "A morte tu e i tuoi amici froci". Ma nonostante la solidarietà dopo un anno dalla denuncia, tutto sarà archiviato». Perché da Twitter non forniscono elementi alla Procura. L'intervento del direttore del Messaggero Veneto. Arcigay chiede spiegazioni urgenti e il gay center propone un boicottaggio contro il social network, scrive Tommaso Cerno” su “L’Espresso” il 09 dicembre 2015. Cerno frocio! Cerno finocchio! Gay di merda! L’ho sentito dire mille volte, da quando avevo quindici anni. A volte sussurrato, a volte urlato. Ci resti male, ti senti solo, poi reagisci. E proprio per questo ho deciso, fin da ragazzino, di parlare apertamente della mia omosessualità. Perché da qualche parte, pensavo mentre tutti – dagli insegnanti a mamma e papà – mi consigliavano di risolvere tutto all’italiana, facendo finta di niente, vivendo la mia vita senza dare nell’occhio, pensavo che da qualche parte si deve pur cominciare a rompere la retorica, il silenzio, il politicamente corretto che crede di ridare la vista ai ciechi solo perché li chiama non vedenti. Poi il mondo è cambiato. E’ arrivata la Rete, la libertà, la democrazia. Tutto si può fare, dire e sapere. Da oggi, però, c’è una libertà in più: quella di insultare un gay, minacciarlo di morte, anche fosse solo per scherzo. Un anno fa un imbecille in tutto e per tutto simile ai molti omofobi che popolano questo Paese, insultando, picchiando, minacciando i gay e rimanendo impuniti, mi inviò un tweet augurandomi la morte, in quanto gay, e corredò il tutto con una lugubre fotografia che ritraeva una tavola imbandita dove, a ogni posto a sedere, corrispondeva un cappio che scendeva sulla testa dei commensali. A morte tu e i tuoi amici froci, questo era il senso. L’account, creato per insultare me dopo alcune esternazioni che avevo fatto, pubblicamente, contro un gruppo di albergatori che si rifiutavano di accogliere coppie omosessuali nei loro alberghi. Quando lo ricevetti, per i primi minuti, non ci diedi molto peso. Poi pensai che a giudicare quel tweet dovesse essere la Rete. Così lo “ritwittai”. Nel giro di pochi minuti la foto con l’augurio di morte diventò virale, una catena di migliaia di ragazzi, ragazze, mamme e papà, politici e scrittori si unì in una catena di solidarietà enorme, che mi colpì molto. Non tanto per me, quando per le migliaia di persone omosessuali che in Italia hanno paura a difendersi pubblicamente, a dichiararsi, a parlare normalmente della propria vita affettiva. Mi sembrò il segnale che il Paese stava andando avanti, al di là delle strumentalizzazioni che spesso si fanno sui gay. Così, persuaso che sotto le braci del nostro caos politico-istituzionali, soffiando sul legno ardente, la fiammella della democrazia potesse ancora riprendere forza e calore decisi di fare quello che un cittadino deve fare: denunciare alla Procura della repubblica quello strano personaggio. Scopro oggi, da una comunicazione dei miei legali, Giuseppe e Massimiliano Campeis, che la Procura si era mossa immediatamente, con tutti i crismi. E aveva dato mandato di indagare, chiedendo a Twitter informazioni su quell’account e sulla registrazione del signor “loculo”. Una denuncia dettagliata, corredata delle fotografie del tweet, dove era possibile recuperare ogni informazione. Scopro adesso, a distanza di un anno e due mesi dalla denuncia, che tutto sarà archiviato. E perché? Perché da Twitter le richieste degli inquirenti sono state liquidate con due mail precompilate, che in sostanza dicevano che nulla si poteva sapere su quel tizio: Cerno frocio! Muori pure! Il messaggio con foto lo offriamo noi! Un fatto banale? Forse per me, che non ho paura degli imbecilli che si nascondono dietro i troll per vomitare i loro insulti. Ma non per migliaia di altri ragazzi e ragazze italiani. Non per quei minorenni che si sono gettati dalle finestre dei palazzi dove abitavano proprio a causa di quei sorrisetti e di quel genere di insulti. Non per chi si nasconde al lavoro. Non per chi si nasconde dai compagni di squadra o di classe. Non per chi, avanti con l’età, rimane solo al mondo all’insaputa delle istituzioni. Chiedo a Babbo Natale un Paese dove la politica rimetta in cima all’agenda le priorità della vita quotidiana di tutti i cittadini. Lo faccio sapendo che Babbo Natale non esiste. Ma sperando, ancora dopo anni, che sotto quelle braci la politica, da qualche parte, soffiando un po’, ci sia ancora.
La solidarietà del Gay Center. “Come è possibile non avere i dati? A maggior ragione in questo periodo in cui i social vengono usati anche per fare propaganda terroristica? Questa risposta è allarmante. Non vorremmo pensare che uno dei più usati social network voglia insabbiare un'azione di discriminazione omofoba e di intimidazione. Esprimiamo ancora la nostra solidarietà a Tommaso Cerno e siamo pronti anche ad azioni di boicottaggio verso Twitter. Lanciamo un hashtag, #iostoconCerno, che invitiamo tutti a usare per segnalare la propria contrarietà a questa decisione incomprensibile del social”. Fabrizio Marrazzo, portavoce del Gay Center.
La solidarietà di Arcigay. "Vuol dire che da oggi gli omofobi sono liberi di minacciare i gay via Twitter? Ci aspettiamo una spiegazione urgente. Sì, #iostoconCerno". Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay.
A Cerno: "Finocchio di merda". La Rete risponde: siamo con te. Un attacco vergognoso. Segno che l'omofobia non è un passato, ma un presente quotidiano. Il giornalista dell'Espresso risponde: «Capita tutti i giorni a ragazzi che non possono denunciarlo come ho potuto fare io». Per questo «Serve una legge efficace». Sullo sfondo, una polemica locale. Ma importante, scrive “L’Espresso” del 20 giugno 2014. La risposta è stata più forte dell'attacco. Molto più estesa, sentita, trasversale. L'attacco: un troll, un account twitter con sette follower e un profilo inneggiante al nazismo, pubblica una foto agghiacciante: una tavola imbandita con intorno dei cappi. E scrive «Finocchio di merda, stasera sei invitato a cena... porta anche i tuoi amichetti, mi raccomando». Destinatario è Tommaso Cerno, giornalista dell'Espresso. Che ripubblica l'insulto ricevuto. Ed ecco la risposta: centinaia e centinaia di messaggi di solidarietà. Da esponenti politici di destra e sinistra, colleghi, attivisti, ragazzi e cittadini. Scrivono #Iostoconcerno. Nichi Vendola: «Sono davvero stufo di insulti e omofobia», Clara: «Gli insulti a gay nel 2014 sono pura ignoranza», Simona: «Io sto con chi, come Cerno, combatte omofobia e ignoranza a colpi di intelligenza, ironia e ragione». Perché raccontarlo? «Perché un attacco schifoso come questo, se colpisce una persona come me, ottiene questa risposta, riesce a scatenare quest'incredibile, meravigliosa reazione di solidarietà», spiega Cerno: «Ma quanti insulti così gravi colpiscono ragazzi gay ogni giorno, e loro non possono o non hanno il coraggio di denunciarli? Per tutte queste persone violenze del genere sono un tormento quotidiano, una ferita profonda che non si può rimarginare». «Per questo servirebbe una legge contro l'omofobia efficace», continua: «Anch'io vorrei vivere in un'Italia in cui il gay pride non serve più, in cui la difesa dall'omofobia arriva dalle istituzioni, e non fuori. Ma ancora non è così». Dopo l'attacco vergognoso e nazista su Twitter, il giornalista dell'Espresso risponde: «Capita tutti i giorni a ragazzi che non possono denunciarlo come ho potuto fare io». L'insulto su twitter arriva in un momento in cui Cerno si era esposto pubblicamente contro alcune dichiarazioni omofobe in una polemica locale, ma significativa. Il caso parte dalle spiagge di Lignano Sabbiadoro, sempre più vuote per via della crisi, ma anche per colpa di una proposta turistica che fatica ad innovarsi. Proprio per cercare nuove strade era stata chiamata una società specializzata. Che dopo mesi di studi, ricerche, analisi, è arrivata da albergatori e commercianti dicendo: oltre alle famiglie, bisogna puntare sul turismo gay, che è già riuscito in molti casi a risollevare le sorti di località spagnole, italiane ed europee. Caos: una spiaggia gay? È un ghetto? È una bella idea? A che serve? Come si fa? «Questa proposta non giova a Lignano», dichiara allora ai giornali locali Bruno della Maria, presidente degli albergatori della provincia di Udine: «Chi la presenta dovrebbe almeno dire come fare, che nuovi tipi di servizi introdurre, quali soluzioni adottare, altrimenti fare queste sparate è controproducente per la stessa città. Così ci facciamo solo del male». Il turismo gay fa male? «Dichiarazioni come queste passano per essere normali, qualunquiste, ma sono omofobe. Punto e basta», sostiene Cerno, che ha risposto pubblicamente alla posizione del presidente provinciale, portando ad esprimersi la Federalberghi regionale, che ieri ha preso le distanze dall'albergatore. La polemica udinese non è banale. Perché a Fregene, pochi mesi fa, due ragazze lesbiche erano state denunciate da una famiglia per essersi appartate in un angolo della spiaggia e baciate in modo considerato eccessivo. «Ho seguito molti casi simili», ha spiegato allora l'avvocato che le difendeva, Gianluca Arrighi: «quasi sempre frutto del pregiudizio e che spesso si sono conclusi con decreti di archiviazione o sentenze di assoluzione». Restano un segnale però, che cambiare atteggiamento serve. Anche in spiaggia, fra gli ombrelloni. Partendo dagli alberghi. E arrivando alle leggi.
Omofobia e razzismo: ecco perchè minacce ed insulti sul web restano impuniti. Anche se la denuncia c'è, identificare il soggetto omofobo o razzista è sempre più difficile. E sulla diffamazione a mezzo Internet c'è un vuoto normativo. Che le procure definiscono "desensibilizzazione oggettiva", scrive Simone Alliva il 09 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Le Procure italiane la chiamano “desensibilizzazione oggettiva”, un modo per dire che la diffamazione a mezzo internet viene depenalizzata. Insultare e minacciare di morte via web è sì un reato, ma non è punibile. L’ultima denuncia viene da Tommaso Cerno, direttore de Il Messaggero Veneto, che sui social scrive: "Oggi ho scoperto che se ricevi insulti omofobi e di morte su Twitter è impossibile sapere chi è. Twitter risponde ai pm che non ha dati". «Mi aveva scritto "A morte tu e i tuoi amici froci". Ma nonostante la solidarietà dopo un anno dalla denuncia, tutto sarà archiviato». Perché da Twitter non forniscono elementi alla Procura. L'intervento del direttore del Messaggero Veneto. Arcigay chiede spiegazioni urgenti e il gay center propone un boicottaggio contro il social network. Ma è è solo l'ultimo di una serie di casi di minacce e diffamazioni dirette via web che restano impuniti. Basti ricordare gli insulti all'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che portarono la Procura di Nocera Inferiore ad un aprire un fascicolo contro ignoti per il reato di offesa all'onore e al prestigio del capo dello Stato. O agli insulti razzisti rivolti all’ex ministro per l’integrazione Cecile Kyenge che proprio nel 2013 aveva annunciato la pianificazione di “nuovi strumenti legislativi per prevenire e reprimere l'istigazione all'odio razziale anche su internet e i social network”. Due anni dopo l'Italia resta quel paese dove se una minaccia di morte avviene in forma diretta, o attraverso una scritta sul muro viene considerata in modo diverso dalla stessa minaccia via web. Anche se la denuncia c'è, identificare il soggetto è sempre più difficile: le sedi legali di molti siti si trovano all'estero e le rogatorie dei pm per ottenere informazioni restano spesso senza risposta. Emerge così la debolezza del carattere transnazionale della Rete ed il fatto che essa viaggia attraverso Paesi con regimi giuridici diversissimi che pongono Pm e polizia giudiziaria di fronte problemi giuridici importanti: la dislocazione all’estero del server, l’assenza in altri Paesi di norme penali equiparabili a quelle italiane, la diversità dei regimi di oscuramento e di cancellazione dei siti, e così via. L'indagine risulta costosa e inutile, quindi il caso è archiviato. Ogni giorno le Procure italiane vengono inondate di denunce per diffamazione sul web. Ma tutto intorno è un deserto normativo per quanto riguarda la diffamazione via internet. Le procure, anche quella romana che ha inserito questo principio in tante richieste di archiviazione, definiscono questo vuoto "desensibilizzazione oggettiva". Tutti i messaggi che, pur avendo un’astratta potenzialità lesiva della reputazione, non sono considerati diffamatori perché hanno un contenuto generico quanto ai fatti. Internet è una giungla e il nickname conferisce a chi insulta e minaccia una sorta di immunità, poiché la scelta dell’anonimato riduce, agli occhi dei lettori, la credibilità del messaggio e “azzera” la sua idoneità a ledere la reputazione. In Italia un precedente che potrebbe aprire una discussione in parlamento ci sarebbe: la prima sentenza che riconosce l’esistenza e la perseguibilità di un’associazione a delinquere costituitasi tramite il web, il processo Stormfront che sancisce un assoluto precedente nell’ambito della repressione del cyber crimine. Riguarda le quattro condanne nel processo ai gestori del sito web neonazista Stormfront accusati di incitare all'odio razziale. Facciamo molta fatica a capire il “politicamente corretto” americano. Ma gli Stati Uniti sono una società fondata sulla convivenza delle diversità. Il gup di Roma ha condannato a tre anni I gestori del forum che incitavano a commettere violenza sulla base di pregiudizi razziali, etnici e religiosi e inneggiavano alla superiorità della razza bianca attraverso la sezione italiana del sito internet. La sentenza risale al 2013, a questo nessuna discussione sul tema viene parlamento. Quanto alle minacce di morte rivolte a Cerno, affronta un'altra posizione scoperta sullo scacchiere delle leggi ed è quella della lotta all’omofobia. L'Italia resta l'unico paese europeo senza una legge che tuteli omosessuali e transessuali dalla violenza fisica e morale, la legge approvata nell’estate 2013 dalla Camera è da tempo in calendario in commissione Giustizia a Palazzo Madama ma non è ancora stato fissato un termine per gli emendamenti.
SI PUO’ CHIUDERE INTERNET?
Chiudere internet per terrorismo? E' impossibile. Ecco perché. "Chiudere il web per maggiore sicurezza", un invito che ha più sostenitori del previsto, ma che non sanno come funziona la rete, scrive Arturo Di Corinto su “La Repubblica” del 10 dicembre 2015. "Gli USA dovrebbero considerare l'idea di chiudere Internet e i social media per arginare la diffusione degli estremisti online". A dirlo è stato Donald Trump, candidato repubblicano nella corsa alla Casa Bianca. La boutade del ricco magnate è diventata virale in rete per le risposte di scherno che ha suscitato. Lui ha avuto il coraggio di dirlo, ma sono diversi i politici che lo pensano, tanto che nei giorni successivi agli attentati di Parigi più di un giornale ha evocato l'oscuramento di Internet in caso di attentati. Ammesso che si possa provare che i terroristi di Parigi abbiano organizzato gli attentati via Internet, pur vivendo nelle stesse case, nello stesso quartiere, nella stessa città, e ritrovandosi ogni giorno nel bar di proprietà dei fratelli Abdeslam, chiudere Internet non sarebbe la soluzione. Per tre motivi. Il primo: è tecnicamente impossibile chiudere Internet. Chi lo dice imbroglia o non sa di che parla. Internet è una rete di reti di comunicazione, geografiche e territoriali, che si scambiano il traffico internazionale dei dati grazie a nodi gestiti da operatori privati o parastatali che si passano il testimone a cascata in caso di malfunzionamento o interruzione di uno di essi. È la logica propria della tecnologa base di Internet, il packet switching per cui, secondo una nota metafora, quando il trenino dei dati va a sbattere contro un ostacolo, si frantuma e si ricompone a destinazione dopo averlo aggirato. Inoltre le comunicazioni via Internet viaggiano attraverso cavi di superficie e sottomarini, satelliti e ponti radio, in genere di proprietà delle compagnie telefoniche nazionali o di grandi enti di ricerca e apparati militari. Per chiudere Internet bisognerebbe metterli tutti d'accordo. Internet inoltre sfrutta le radiofrequenze e la rete elettrica come mezzo trasmissivo, quindi è praticamente impossibile chiuderla. D'altra parte ogni computer o smartphone, una volta connesso alla rete diventa un nodo della rete stessa con un suo indirizzo di rete (ip). E significa anche che chiunque, usando i suoi protocolli (Tcp/Ip) e un computer, può mettere in piedi una internet locale, come accade coi mesh wireless networks. Perciò per chiudere Internet tutta, bisognerebbe ordinare a operatori, fornitori di hardware, tecnologia e connettività - e al padrone del cielo di spegnere la rete all'unisono, cosa che nessun governo, neanche l'Onu, è in grado di ottenere per ovvi motivi geopolitici, gli stessi che impediscono la saldatura delle alleanze tra i paesi coalizzati contro il Daesh. Il secondo motivo è che, sempre se fosse possibile farlo, sarebbe economicamente disastroso chiudere Internet. I paesi che ci hanno provato, come accaduto in Egitto il 7 febbraio del 2011 su richiesta dell'autorità nazionale agli operatori di rete, ha determinato il collasso di molte attività commerciali determinando una secca caduta del Pil del paese. Tutti gli scambi globali ormai avvengono via Internet, dalle contrattazioni delle Borse agli ordinativi di libri, fino alla logistica commerciale delle automobili. Chiudere Internet significherebbe bloccare il commercio globale. Non è solo la telefonia che viaggia sempre di più sui suoi protocolli (TCP/IP) a coincidere largamente con Internet, ma le infrastrutture di trasporto delle società organizzate come ferrovie, aeroporti e oleodotti, perfino dighe e riserve d'acqua. Anche gli ospedali usano Internet e in particolare l'Internet delle cose, il sistema per cui sia oggetti fisici che virtuali possono essere controllati e comandati a distanza. Tra questi ci sono i sistemi di assistenza biomedica domiciliare, ma anche i frigoriferi intelligenti con il sangue per le trasfusioni. È stato stimato che nel 2020, per una popolazione di quasi 8 miliardi di persone, ci saranno oltre 50 miliardi di questi dispositivi connessi alla rete. Il terzo motivo è che è chiudere Internet nuoce alla sicurezza dei cittadini. La chiusura della rete, oltre a impedire l'esercizio dei diritti civili e delle libertà fondamentali ci priverebbe di uno strumento di protezione. La rete ha dimostrato più d'una volta la sua efficacia nei disastri naturali per chiedere aiuto, trovare i dispersi, organizzare i soccorsi. Ma è stato proprio durante e dopo gli attentati del 13 novembre in Francia che tutti si sono accorti della potenza solidale della rete quando i parigini per primi hanno lanciato l'iniziativa #PorteOuverte per accogliere chi, scappando dalla carneficina, non era in grado di tornare a casa. Mentre con l'iniziativa Safety check, Facebook ha messo chiunque in grado di segnalare ad amici e familiari la propria posizione e lo stato di salute. Twitter e Facebook e gli altri social media sono "servizi" erogati grazie a Internet, non una cosa diversa. Che fare allora per contrastare il terrore che viaggia online? Le tecnologie basate su Internet sono di sicuro usate dagli estremisti islamici per la propaganda, il reclutamento, la logistica, il finanziamento e il riciclaggio, forse anche per lo spionaggio, ma siccome Internet è l'infrastruttura di base delle nostre società alla domanda "si può chiudere Internet per fermare i terroristi?" la risposta è no. "Si "Chiuderebbe" il più importante strumento di comunicazione oggi esistente con drammatiche implicazioni di natura socioeconomica" ha sbottato Domenico Laforenza direttore del Cnr di Pisa e responsabile del registro IT che assegna i nomi a dominio dei siti Internet in Italia. Quello che è possibile fare è invece filtrare le comunicazioni attraverso Internet e eventualmente isolarne una porzione o semplicemente reindirizzare il traffico da e verso i siti canaglia manipolando i sistemi di gestione del traffico. Un'opzione dagli effetti imprevedibili. Come ci conferma Alessandro Berni, Chief Information Officer presso il Centro Ricerche NATO CMRE che parla a titolo personale: "Un'attività di interferenza su larga scala, effettuata ad esempio dirottando il traffico Ip attraverso la manipolazione del Border Gateway Protocol, causerebbe un "denial of service" di proporzioni mai viste. Le conseguenze sui sistemi critici sarebbero notevoli e difficilmente quantificabili, andando ad investire dimensioni diverse come quelle sociali, economiche, finanziarie, creando un grave pericolo per la sicurezza nazionale". Si possono certamente chiudere i chiudere i siti che si trovano nella propria giurisdizione dietro mandato delle autorità, ma questo non toglie che possano essere riaperti sotto altro nome in un altro paese con pochi colpi di click. L'inibizione dell'accesso o l'oscuramento dei siti pericolosi già è praticato in maniera estensiva per bloccare contenuti pedopornografici, hate sites e cyberlocker, non solo siti di propaganda terroristica. Ma questo ovviamente non significa chiudere la rete. Richiede semmai maggior controllo e capacità di contrasto informatico nella cyberwar che si combatte contro il sedicente califfato. E significa potenziare il lavoro di ricerca e di intelligence per decifrare le comunicazioni segrete tra le comunità criminali, non certo mettere al bando la crittografia digitale e controllare produzione, vendita ed esportazione delle tecnologie di protezione dual use che permettono di eludere la sorveglianza degli apparati statuali. In Italia, ad esempio, già nel 2001 era stata introdotto il reato di assistenza ai gruppi terroristici attraverso la vendita di strumenti di comunicazione ed è stata aggravata la pena per l'apologia e l'istigazione al terrorismo attraverso la rete. Secondo Laforenza: "Tecnicamente parlando, esistono varie possibilità di contrasto, e la più efficace è rappresentata dal coinvolgimento degli Internet Service Provider e dei grandi player della rete nel filtraggio delle informazioni transitanti sui siti sospetti. Esistono sistemi di analisi conosciuti come IPS (Intrusion Prevention Systems/Intrusion Detection Systems) che permettono di bloccare/controllare i messaggi indesiderati in transito e, quindi, in questo modo sarebbe possibile "isolare" una porzione di Internet." Oppure si potrebbero usare tecniche di filtraggio basate sulla "geolocalizzazione" degli indirizzi IP dei computer sospetti in modo da bloccare le comunicazione da e verso queste destinazioni". Il problema secondo Berni è che al netto della salvaguardia della libertà di manifestazione del pensiero paesi che si collegano alla rete attraverso un numero limitato di connessioni cablate possono certamente mettere in atto dei controlli radicali ma efficaci semplicemente interrompendo i collegamenti con l'estero, ma non si possono impedire accessi alternativi, ad esempio tramite collegamenti satellitari. Mentre le tecniche di deep packet inspection, possono essere aggirate da sistemi di reti virtuali private o da sistemi di anonimizzazione come Tor. In conclusione, invece di chiudere Internet è il caso di potenziarla, perché la forza che ha consentito lo sviluppo della rete come la conosciamo oggi permettendo a miliardi di utenti di collegarsi e alle aziende di ogni taglia di sviluppare servizi su di essa, costituisce allo stesso tempo la sua intrinseca debolezza. Ad esempio incorporando meccanismi nativi di autenticazione, in modo da prevenire alla radice le vulnerabilità infrastrutturali che potrebbero invece essere usate dai terroristi per generare il caos. Un'intenzione e una capacità che per adesso entità come il Daesh non sembrano avere.
Spegnere internet, per tutti e per sempre: lo scenario del "guru" del web, scrive Marianna Baroli su “Libero Quotidiano” il 10 dicembre 2015. «Internet va chiuso. Dobbiamo vedere Bill Gates, chi capisce realmente cosa sta succedendo, e parlare con loro e magari in alcune zone bisogna chiudere internet in qualche modo. Qualcuno dirà “oh la libertà di parola, la libertà di parola”. Ma questa è gente stupida». Parola di Donald Trump, il candidato repubblicano alla corsa verso la Casa Bianca che, nella sua ultima sparata, ha annunciato che «per arginare la diffusione degli estremisti online bisognerebbe chiudere internet e i social network». Una follia? Non del tutto. Abbiamo domandato a un esperto del web, Andrea Rossetti, professore di Informatica Giuridica all’Università Bicocca di Milano se sia davvero possibile spegnere il web e abbiamo scoperto che potrebbe essere più semplice di quanto crediamo.
Dottor Rossetti, è possibile «spegnere internet»?
«Assolutamente sì. Tecnologicamente parlando è un procedimento fattibile ma bisogna distinguere l’isolare alcune aree e lo spegnere definitivamente la rete».
Può spiegarci meglio i due scenari? Isolare internet cosa significa?
«Significa creare un processo che renderebbe una parte del mondo come l’attuale Cina dove grazie al Great Firewall i cittadini sono costretti a vedere solo i siti internet graditi al governo».
Può farci qualche esempio?
«In Cina io non posso installare alcun programma relativo a Google o usare il motore di ricerca perché è vietato. Se sei un utente smaliziato trovi i modi di aggirare questa barriera, ma un utente medio china il capo e accetta il sistema».
Aggirare il blocco è semplice?
«Abbastanza. Il problema che farlo è reato. Scavalcare il Great Firewall è un atto illecito che porta a condanne pesanti, fino al carcere».
Sarebbe possibile costruire un muro simile anche in un Paese Occidentale?
«Sicuramente perché il grande muro digitale cinese è costruito tutto con tecnologie occidentali. Siamo noi ad aver venduto alla Cina come farlo».
Trump propone però uno scenario ancora differente e che prevede la chiusura totale di internet.
«Trump propone di chiudere fuori qualcuno e anche in questo caso, scegliere di isolare un gruppo o una zona geografica non è impossibile dal punto tecnico».
Non impossibile ma complicato.
«Questo dipende da quanti soldi vengono messi in campo. Devi spendere miliardi di euro, ma uno Stato o un gruppo di Stati le risorse economiche le trovano con tutta facilità».
Semplificando la questione, basterebbe un pulsante unico per spegnere definitivamente il web?
«Il presidente degli Stati Uniti Barak Obama si dice abbia questo potere già da alcuni anni».
Un tasto unico in grado di spegnere la rete?
«Sì. Un protocollo segreto in cui, in stato di emergenza, basterebbe un segnale inviato univocamente e tutti avrebbero l’obbligo di spegnere tutti i loro server».
Quali sarebbero gli effetti di questa azione?
«Oltre a violare ovviamente la libertà di espressione e il diritto alla privacy avviando così un controllo capillare di tutto quello che fanno le persone, ci si troverebbe davanti a grandi perdite di capitali».
In che senso?
«Se l’NSA (l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana) chiedesse a Google di spegnere tutti i suoi server per motivi di sicurezza, voglio immaginare che di lì a pochi istanti Google sia in grado di bloccare tutto il flusso dei suoi dati. Ma spegnere un colosso come Google significa perdere soldi di investimenti in tutto il mondo. Tecnicamente quindi è possibile, ma ci sono pesantissimi interessi economici in gioco».
MAGISTRATI…STATE ZITTI!
Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 22 ottobre 2015: Jurecrazia. Il Pdl, due anni fa, disse che il Senato non doveva votare la decadenza di Berlusconi e che si doveva investire la Consulta affinché decidesse se la Legge Severino era costituzionale; o ancora, come opzione, che si doveva lasciar fare alla Cassazione con una prevista sentenza sull'interdizione del Cavaliere. Al che il piddino Felice Casson - era il 12 novembre 2013 - rispose così: «Non si può far decidere i giudici e non la politica... la legge Severino l'abbiamo votata per ribaltare il ragionamento». Bene. Da allora, a cominciare dal caso De Magistris, la politica ha dovuto inginocchiarsi a: 1) i tre gradi del giudizio penale; 2) un ricorso al Tar; 3) una sentenza della Cassazione secondo la quale il Tar non doveva occuparsene, perché doveva occuparsene il tribunale civile; 4) una sentenza del tribunale civile (vari gradi) che ha revocato la sospensione del sindaco Luigi De Magistris decisa dalla Severino; 5) una sentenza della Corte Costituzionale che, l'altro giorno, ha stabilito che la Severino non è anticostituzionale. Questo solo per De Magistris. Nel caso di parlamentari, come Berlusconi, alla proliferazione di sentenze (corti, tribunali, procure e cassazioni) si aggiungerà la Corte di Strasburgo: perché sapete, ogni tanto l'opinione dei magistrati può essere utile. Contate voi i livelli di giudizio. Intanto la politica, che doveva «ribaltare il ragionamento», è ferma al palo, a guardare. È riuscita a ribaltare solo una cosa. Anzi, una persona.
Quel commento profetico sul nostro "Giornale" dedicato ai magistrati. Uscì sul primo numero del 25 giugno 1974 ed era intitolato "Le tre piaghe della giustizia". Analizzava la paralisi del nostro sistema. E sembra scritto ieri, scrive “Il Giornale” il 18 novembre 2015 il giorno dopo la morte del giornalista Mario Cervi 94 anni, cofondatore de “Il Giornale” con Indro Montanelli. Ripubblichiamo il primo pezzo che Mario Cervi scrisse per il Giornale, sul primo numero del quotidiano, il 25 giugno 1974 di Mario Cervi.
"La giustizia italiana, vicina alla paralisi, è minata da tre diverse malattie, tutte gravi e tutte difficilmente curabili. Soffre delle disfunzioni e degli acciacchi che affliggono l'amministrazione pubblica. È insidiata dalla politicizzazione, che si traduce in disunione e in scarsa credibilità dei magistrati. Porta il peso sempre meno sopportabile, con il mutare della società, dell'antico accademismo, di un formalismo lento, puntiglioso e, per l'uomo della strada, incomprensibile. La macchina della legge non funziona perché l'intero apparato burocratico non funziona. La Costituzione, le enunciazioni solenni del potere politico, le rivendicazioni dei magistrati affermano che la giustizia ha una posizione peculiare ed autonoma. La realtà è diversa. I giudici italiani sono assimilabili, per i criteri di scelta, la provenienza, la formazione culturale, il costume, alla generalità dei funzionari statali. Sono scelti per concorso e possono diventare magistrati in età giovanissima, con il corredo scolastico di una laurea in giurisprudenza vengono nella quasi totalità dal meridione, possono essere in possesso, quando cominciano, di discrete cognizioni tecniche. Mancano di esperienza di vita. Non hanno mai messo alla prova le loro doti di equilibrio, di integrità, di operosità. Come gli altri funzionari statali sono praticamente illicenziabili, e non punibili se non in casi estremi. L'amministrazione giudiziaria non è povera di giudici, tutt'altro. Li distribuisce male, favorendo le sedi del sud a scapito di quelle del nord, mantenendo in vita tribunali e preture superflui, «distaccando» i magistrati, per le più svariate funzioni, presso ministeri o enti pubblici. Non difettano i giudici, ma gli ausiliari del giudice e le attrezzature tecniche. In ogni campo, l'Italia continua ad avere eserciti con molti generali, e il fucile 91. I magistrati sprecano il loro tempo in funzioni esecutive, o burocratiche, dalle quali dovrebbero essere sollevati, delegandole ai loro collaboratori. Scatenata la guerra alla meritocrazia, eliminate le promozioni a scelta, che comportavano favoritismi, ma consentivano almeno ad alcuni tra i migliori di emergere, i magistrati arrivano tutti in Cassazione. Todos caballeros. Questa automaticità dell'avanzamento scoraggia gli ambiziosi entro certi limiti la ambizione è una qualità positiva e non favorisce lo zelo. E anche qui siamo nella logica della evoluzione burocratica. Di suo, la magistratura ci aggiunge la politicizzazione. Le correnti della magistratura tendono a diventare il riverbero settoriale di ben individuabili partiti. Le polemiche che corrono tra l'una e l'altra corrente sono, se possibile, ancora più aspre di quelle che si sviluppano in parlamento. I magistrati più esposti o più impegnati agiscono con la claque, o tra i fischi. Vi sono magistrati che non esitano ad associarsi alle tesi degli extra-parlamentari, dimostrando una strana disinvoltura nell'essere ribelli allo Stato e stipendiati dallo Stato. È certo che il conformismo opaco di taluni anziani giudici appariva sordo alla voce dei tempi nuovi, ma è altrettanto certo che talune sentenze dei tanto osannati pretori d'assalto e ve ne sono di assai degni, intendiamoci hanno il tono di manifesti rivoluzionari, più che di apprezzamenti imparziali. Il cittadino che sia coinvolto in un giudizio con addentellati politici o parapolitici e il loro numero si è oggi ingigantito, perché questo sottofondo è rintracciabile anche nella vasta casistica dei rapporti sociali ha il legittimo sospetto che avrà regione o torto secondo che il suo pretore sia d'assalto o di retrovia. Indaffarati per le lotte dì corrente, per le partecipazioni a dibattiti, per gli articoli sulle pubblicazioni specializzate o no, troppi magistrati hanno scarso tempo per la grigia, ma preziosa routine. Aspettano la salvezza della giustizia da una catarsi rivoluzionaria, e intanto trascurano i miglioramenti lenti e faticosi. Infine la giustizia non riesce a liberarsi di codici vecchi, di procedure asmatiche o diventate asmatiche nella interpretazione che gli oltre 40mila avvocati italiani hanno suggerita, e che i magistrati hanno subita degli eccessi di un apparente garantismo che, per tutelare perfettamente ogni diritto, finisce per non tutelare il diritto essenziale, quello ad avere giustizia presto. Un parlamento gremito di avvocati ha agito, per la giustizia, con l'occhio attento a esigenze corporative piuttosto che alla funzionalità del sistema. Lo si voglia riconoscere o no, il cavillo fa aggio sul diritto. Questi i tre cappi che strangolano la giustizia, e insieme strangolano l'utente della giustizia. Non il «grande» utente, le società ricche e potenti che sfuggono alla legge ordinaria e si rifugiano nella giustizia privata degli arbitrati. La vittima è il cittadino qualunque, indifeso e impotente".
I magistrati si azzuffano in rete. E c'è chi comprende i terroristi. Più che un dibattito, una zuffa. Di fronte alla avanzata del terrorismo islamico, di fronte alle immagini sconvolgenti del venerdì di sangue di Parigi, i magistrati italiani si interrogano sul da farsi, scrive Luca Fazzo Martedì 17/11/2015 su “Il Giornale”. Più che un dibattito, una zuffa. Di fronte alla avanzata del terrorismo islamico, di fronte alle immagini sconvolgenti del venerdì di sangue di Parigi, i magistrati italiani si interrogano sul da farsi. Non solo nei vertici «ufficiali», le riunioni inevitabili e rituali in cui si lancia la massima allerta, ma anche nel chiuso delle mailing list, le stanze virtuali della discussione interna alle correnti. Qui ognuno dice la sua con apprezzabile franchezza. E la lettura del carteggio dà il polso di quanto profondo e drammatico sia il solco che divide i funzionari dello Stato che per primi avrebbero la necessità di essere compatti di fronte ad un nemico senza precedenti, e che invece si spaccano. Di qua chi prova solo orrore, di là chi vuole capire, indicare le colpe dell'Occidente, fustigarsi in qualche modo, eccetera. E persino chi si perde in disquisizioni sulla psicanalisi dei terroristi. A lanciare il sasso è uno che il fenomeno lo conosce bene: Armando Spataro, procuratore della Repubblica a Torino, che la sera di sabato invia un lungo messaggio sulla rete di Area, la corrente di sinistra, in cui dice: «La motivazione di questo terrorismo è essenzialmente religiosa». Sembra una ovvietà, ma non lo è, di fronte a tante spiegazioni sociali o sociologiche o politiche del furore jihadista. Per Spataro invece «le occupazioni patite, gli eventi politici, le ingiustizie vengono strumentalizzati a quel fine dai gruppi terroristici». Ma questa lettura dell'offensiva come «guerra di religione» fa insorgere alcuni giudici. Come Milena Balsamo, giudice a Pisa: «Quando si commettono eccidi come quelli contro gli algerini, quando si colonializza, e gli ex coloni (persino naturalizzati) vengono comunque emarginati, non puoi ipotizzare che quella dell'islam sia solo una guerra di religione. In fondo che differenza noti tra gli eccidi dei terroristi e quelli dei paesi ex colonizzatori?». Ancora più indignata Donatella Salari, giudice del massimario in Cassazione: «Prepariamoci tutti ad una riduzione consistente di spazi di libertà individuali. Rinunciare alla libertà vuol dire anche sacrificarla per la sicurezza. Il potere che, negando ogni regola, ha consentito questa catastrofe è pronto a cogliere l'occasione». Di quale potere parli esattamente la Salari non è chiaro. E Massimiliano Siddi, procuratore a Viterbo, insorge contro la collega, sostenendo che «l'ideologia addormenta implacabilmente anche la ragione delle intelligenze più vive», paragona la Salari a chi sostiene che la Cia è complice dell'11 settembre, e ricorda che «esiste da sempre un incontenibile odio religioso e culturale nutrito da uomini e donne di fede islamica che non si arresteranno fino a quando coltiveranno l'illusione o avranno la certezza di averci militarmente sottomesso». L'«incultura permeata dall'ideologia» è la migliore alleata dei terroristi, dice Siddi. E quando il collega Marco Dell'Utri, giudice in Cassazione, cerca di difendere la Salari e invita tutti «a interrogarci sulle nostre responsabilità collettive che esistono e che crescono», Siddi gli risponde a brutto muso: «Non sento alcun bisogno di interrogarmi, se tu avverti la necessità d interrogarti avrai i tuoi buoni motivi». Lo stesso Spataro alla fine risponde piuttosto bruscamente alla collega Balsamo, che insiste nella sua analisi sociologica. Potrebbe sembrare una discussione come l'infinità di altre che si svolgono in Italia da tre giorni, e in cui ciascuno fa irruzione con le proprie certezze. Il problema è che in questo caso a litigare sono gli stessi magistrati cui, in una veste o nell'altra, tocca o può toccare di occuparsi dei processi ai presunti terroristi di casa nostra: ed è facile prevedere che le divergenze di analisi si tradurranno, come è già accaduto, in diversità di scelte processuali. Anche se, a leggere il dibattito innescato da Spataro, sembra prevalere il buon senso di chi prende atto della situazione: come Felice Pizzi, giudice a Napoli nord: «L'Islam non riesce a trovare al suo interno gli anticorpi per rimediare ad un disprezzo della vita umana, anche della propria, portato alle estreme conseguenze e che purtroppo non credo verrà meno».
Torino, giro di vite del procuratore Spataro: "Denuncerò i pm che gestiscono la notizia come cosa propria". Incontro con i giornalisti a Palazzo di Giustizia: "Giusto accedere agli atti ma solo da un certo momento in poi, deciderà il giudice cosa è rilevante e cosa no". E conferenze stampa "solo in casi eccezionali", scrive il 9 dicembre 2015 “La Repubblica”. "Se un magistrato decide di amministrare la notizia come fosse una cosa propria violando il codice disciplinare io lo denuncio al Csm". Il capo della Procura di Torino, Armando Spataro, stringe le redini al suo ufficio, che regge dal luglio dello scorso anno, nella gestione dei rapporti con la stampa. Serve una comunicazione più ufficiale e più coordinata, quando è possibile, mentre qualche volta negli ultimi mesi il procuratore è dovuto intervenire per reindirizzare le informazioni rese pubbliche su alcuni fascicoli appena aperti. Nel mirino eccessi di protagonismo o di enfasi, da parte di alcuni magistrati, sul proprio lavoro. Ma a lasciare perplesso il capo della Procura anche le conferenze stampa "che servono soltanto in casi eccezionali", mentre i comunicati stampa sono più utili nell'attività ordinaria e meno si prestano a fraintendimenti. In un incontro con i giornalisti a Palazzo di Giustizia - a cui hanno preso parte anche i procuratori aggiunti Alberto Perduca e Vittorio Nessi, Paolo Borgna e Andrea Beconi, il direttore de "La Stampa" e futuro direttore de "la Repubblica" Mario Calabresi, il presidente dell'Ordine dei giornalisti Alberto Sinigaglia e quelli degli avvocati torinesi Mario Napoli e dei penalisti Roberto Trinchero - Spataro si è però insistentemente detto favorevole a far accedere agli atti di un'inchiesta i giornalisti, "da un certo momento in poi - ha precisato - e dopo che il giudice abbia deciso che cosa è rilevante e che cosa no" a cominciare dalle intercettazioni telefoniche. "Nessun legislatore - ha affermato Spataro - può sostituirsi al giudice nella valutazione della rilevanza". Spataro in sostanza si è espresso per un rapporto con i mezzi di informazione "più centralizzato e meno spettacolarizzato ma anche collaborativo", con l'apertura a Palazzo di Giustizia, nei prossimi giorni, di una sala stampa per i giornalisti, spesso costretti a lavorare nel bar del tribunale o in altre condizioni precarie. Calabresi e altri giornalisti hanno replicato come la tensione tra magistrati e giornalisti sia un fenomeno naturale, che anzi in sua assenza "il giornalismo è finito". I giornalisti hanno il dovere di non autocensurarsi, ha aggiunto il futuro direttore di Repubblica, e spesso il lavoro di indagine dei cronisti stessi è di supporto a quello dell'autorità giudiziaria che proprio dalla stampa, grazie al suo lavoro autonomo di ricerca delle notizie, riceve informazioni utili alle inchieste.
IN ITALIA I MORTI NON HANNO LO STESSO VALORE. DUE PESI E DUE MISURE: MORTI DI SERIE A (DI SINISTRA) E MORTI DI SERIE B (TUTTI GLI ALTRI).
'A LIVELLA di Antonio de Curtis - Totò
Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con i fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza
St'anno m'è capitata 'n'avventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio
(Madonna), si ce penzo, che paura!
ma po' facette un'anema 'e curaggio.
'O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d' 'a chiusura:
io, tomo tomo, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.
"QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE
SIGNORE DI ROVIGO E DI BELLUNO
ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE
MORTO L'11 MAGGIO DEL '31."
'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
... sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele, cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore
nce steva n'ata tomba piccerella
abbandunata, senza manco un fiore;
pe' segno, solamente 'na crucella.
E ncoppa 'a croce appena si liggeva:
"ESPOSITO GENNARO NETTURBINO".
Guardannola, che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! 'Ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pure all'atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i' rummanette 'chiuso priggiuniero,
muorto 'e paura... nnanze 'e cannelotte.
Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje; stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato ... dormo, o è fantasia?
Ate che' fantasia; era 'o Marchese:
c' 'o tubbo, 'a caramella e c' 'o pastrano;
chill'ato appriesso' a isso un brutto arnese:
tutto fetente e cu 'na scopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro...
'o muorto puveriello... 'o scupatore.
'Int' a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se retireno a chest'ora?
Putevano stà 'a me quase 'nu palmo,
quando 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e, tomo tomo... calmo calmo,
dicette a don Gennaro: "Giovanotto!
Da voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono un blasonato?!
La casta e casta e va, si, rispettata,
ma voi perdeste il senso e la misura;
la vostra salma andava, si, inumata;
ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso
la vostra vicinanza puzzolente.
Fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente".
"Signor Marchese, nun è colpa mia,
i' nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie b stata a ffa' sta fessaria,
i' che putevo fa' si ero muorto'?
Si fosse vivo ve farrie cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse,
e proprio mo, obbj'... 'nd'a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa."
"E cosa aspetti, oh turpe macreato,
che 1'ira mia raggiunga 1'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei gih dato piglio alla violenza!"
"Famne vedé... piglia sta violenza...
'A verità, Marché', mme so' scucciato
'e te senti; e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so' mazzate!...
Ma chi te cride d'essere... nu ddio?
Ccà dinto, 'o vvuò capì, ca simmo eguale?...
... Morto si' tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'n'ato è tale e qquale."
"Lurido porco!... Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?"
"Tu qua' Natale ... Pasca e Ppifania!!
f T' 'o vvuo' mettere 'ncapo... 'int' 'a cervella
che staje malato ancora 'e fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched'e".... e una livella.
'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt' 'o punto
c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme
tu nun t'he fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a ssenti... nun fa' 'o restivo,
suppuorteme vicino - che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie... appartenimmo â morte!"
I funerali di Valeria Solesin, la lezione dei genitori: cosa vuol dire "essere laici", scrive Lara Crinò su “L’Espresso” il 24 novembre 2015. Una cerimonia laica, ma in cui hanno parlato i rappresentanti di tutti i credo di questo Paese. Mostrando, nel momento del dolore, cosa vuol dire laicità: continuare a proteggere le idee degli altri. Senza cedere a un "fanatismo che vorrebbe nobilitare il massacro con dei valori". Piazza San Marco era piena di sole, ventosa, bellissima. E invasa dalla gente comune, dai veneziani e dalle autorità per i funerali di Valeria Solesin, vittima italiana della strage al teatro Bataclan del 13 novembre. E' stata una cerimonia di Stato, una cerimonia laica. Così l'hanno voluta i suoi genitori, per educazione familiare ma non solo. Hanno fatto sapere che la scelta è stata motivata dal desiderio di avere, in quella piazza, persone di tutte le religioni. "La nostra dignità è dovuta e dedicata a tutte le Valerie che lavorano, studiano, soffrono e non si arrendono". Lo ha detto Alberto Solesin, padre di Valeria, durante i funerali laici e di Stato della ragazza uccisa al Bataclan. "Ripensando a Valeria non voglio isolare la sua immagine dal contesto in cui lei viveva a Parigi. L'università, l'Istituto nazionale di studi demografici, i bistrot, le birrerie dove amavano incontrarsi tante ragazze e ragazzi come Valeria. Gioiosi, operosamente rivolti a un futuro che tutti, mi pare, assieme a lei vogliono migliore". E così è stato. Il patriarca della città ha benedetto la bara, il presidente della comunità islamica ha espresso il suo cordoglio, ha parlato di "atti barbarici" compiuti non certo in nome di "Allah o Javhe che in fondo sono lo stesso Dio" e l'imam di Venezia ha chiesto ad Allah di "pacificare le nostre anime". L'inno italiano e quello francese hanno aperto in Piazza San Marco, a Venezia, i funerali solenni di Valeria Solesin, la 28enne italiana uccisa il 13 novembre scorso al Bataclan, nel corso degli attacchi terroristici a Parigi. Alla cerimonia laica è presente anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il rappresentante dell'Ucoi ha ringraziato pubblicamente il padre di Valeria: “Caro Alberto, il tuo invito all'imam di partecipare ai funerali ha dato un contributo a far fallire il piano diabolico dei terroristi", mentre il rabbino capo di Venezia, Scialom Bahbout, ha ricordato come sia necessario opporsi al progetto dei terroristi che, dal Mali a Parigi alla Nigeria, vorrebbero un mondo “uniformato alle loro idee”. Chiamare sul palco le voci dei diversi credo di questo Paese è stato un gesto di grande dignità ma soprattutto un gesto intelligente e lungimirante, fatto dallo stesso uomo che durante le esequie ha detto "Ringrazio i rappresentanti delle religioni, cristiana, ebraica e musulmana presenti in questa piazza e simbolo del cammino degli uomini, nel momento in cui il fanatismo vorrebbe nobilitare il massacro con il richiamo ai valori di una religione", mostrando, invece, da che parte stiano i valori senza dichiarazioni altisonanti. Gli amici di Valeria, chiamati a raccontarla, hanno descritto una ragazza sincera, persino ruvida, determinata e piena di passione civile. Una ragazza cresciuta “tra i campi e le vie di Venezia, che ci hanno permesso di non perderci di vista". Un luogo in cui ci si incontra, si parla, ci si confronta. Bandiere a mezz’asta e piazza blindata per i funerali di Valeria Solesin, la ragazza deceduta negli attentati di Parigi. Un bar della piazza ha appeso un tricolore listato a lutto e uno striscione in ricordo di Valeria. A Venezia, capitale ante litteram dell'Est e dell'Ovest, città di mare tollerante e piena di gente di tutto il mondo, hanno vissuto per secoli cristiani ed ebrei. Venezia, porta d'Oriente, è stata l'avamposto dell'Occidente verso l'impero Ottomano e tutto il Mediterraneo. Qualcosa di quella eredità di apertura e cultura è rimasto nel dna di questa famiglia di veneziani. Che ora indica una strada a questo Paese. Che non è espellere le religioni e le diversità dal nostro orizzonte, pena smettere di comprendere tutta quella parte di mondo – intorno a noi, con noi – che crede in un Dio. Restare laici è anche sapere proteggere il credo degli altri senza snaturarsi. Restare laici è essere come la famiglia di Valeria in questa piazza: in piedi, nonostante il dolore, lucidi e intelligenti. Non più deboli, ma più forti di chi invoca scorciatoie identitarie. Qui, oggi, si è vista l'Italia migliore. E non è retorica.
Valeria, i morti di serie A ed il diritto di odiare, scrive Francesco Maria Del Vigo su "Il Giornale" del 24 novembre 2015.I genitori di Valeria Solesin, la ragazza ammazzata da dei bastardi lo scorso 13 novembre a Parigi, hanno deciso di fare un funerale politicamente corretto. Che non è una cerimonia laica, ma devota alla religione del politicamente corretto. Tra le religioni, una delle più fondamentaliste. Perché disprezza l’altro da se. Una scelta legittima. Sono loro ad aver subito il lutto. E Valeria – sostenitrice di Emergency – molto probabilmente avrebbe voluto queste esequie. Hanno fatto bene. E tutte le più alte cariche del governo – dal presidente del Consiglio Renzi a quello della Repubblica Mattarella – hanno apprezzato, elevando questa cerimonia a un esempio. Ma se la vittima fosse stata – chessó – una leghista e i genitori avessero giurato vendetta ai fondamentalisti islamici ci sarebbe stata tutto questa partecipazione? Ci sarebbero stati Mattarella, Renzi e la Boldrini? Suvvia, non scherziamo. Per le vittime italiane al Bardo (e già il fatto di piangere solo le nostre vittime è una meschinità!) c’è stato lo stesso interesse? Temo di no. Spero di sbagliarmi. Altrimenti ci sarebbero morti di serie A (quelli socialmente impegnati e chiaramente di sinistra) e morti di serie B (quelli che erano lì per caso, ai quali non si può dare una medaglia d’impegno perché magari erano in vacanza). Legittimo celebrare con un Imam, un patriarca e un rabbino queste esequie. Ma non toglieteci il diritto di odiare chi ci odia. Perché a forza di porgere l’altra guancia questi ci sottomettono.
Dolore privato, fermezza pubblica. Se il dolore privato può essere buonista ed ecumenico, quello pubblico non può che essere improntato sulla distinzione tra bravi e cattivi e sulla fermezza, scrive Alessandro Sallusti Mercoledì 25/11/2015 su “Il Giornale”. Il dolore è fatto privato e la sua elaborazione da parte di chi lo ha subito nella testa e nella carne non è giudicabile. La famiglia di Valeria ha scelto legittimamente funerali laici ed ecumenici, astratti dal contesto che ha generato tanti lutti. Nessuno che non fosse stato a conoscenza dei fatti avrebbe potuto intuire o capire - assistendo alla cerimonia di piazza San Marco a Venezia - perché e per mano di chi Valeria è morta. Lo Stato ai suoi massimi livelli ha assistito - era presente anche il presidente Sergio Mattarella - in rispettoso silenzio. E fino a qui tutto torna, come si conviene in un Paese civile. Ma non vorremmo che da oggi chiunque osasse pronunciare i nomi del nemico che ha ucciso Valeria pretendendo giustizia finisse all'indice in quanto provocatore, reazionario, pericoloso agitatore. Perché se il dolore privato può essere buonista ed ecumenico, quello pubblico non può che essere improntato sulla distinzione tra bravi e cattivi e sulla fermezza. Hollande, che è un leader della sinistra europea e non un pericoloso fascista, dopo il minuto di silenzio in ricordo delle vittime ha giurato «vendetta» e promesso che «la Francia colpirà senza pietà» chi ha ucciso i suoi figli. Non è vero che i nemici non esistono, che non si possono fare nomi e riferimenti perché altrimenti «così si incita all'odio». Ho ancora negli occhi Rosaria Schifani, moglie di uno degli uomini di scorta di Falcone saltati in aria nell'attentato di Capaci. Nella cattedrale di Palermo, al termine dei funerali, la donna, disse all'allora premier Spadolini: «Presidente, io voglio sentire una sola parola: lo vendicheremo. Se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola». Poi, con le ultime forze rimastele, prese il microfono e pronunciò il famoso discorso: «Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare. Ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare...». Il cancro della mafia allora, quello del terrorismo islamico oggi e dei loro amici «che sono qua dentro». Noi rispettiamo il silenzio dei genitori di Valeria, ma la pensiamo come Rosaria. Che a un funerale disse ai politici: voglio giustizia adesso o tacete.
E’ da giorni che su Facebook migliaia di utenti condividono il post riguardante la morte di Giovanni (detto Giancarlo) Lo Porto: secondo il web, la sua morte sarebbe stata dimenticata da tutte le istituzioni, sebbene la sorte di Giovanni sia stata molto simile a quella di Valeria Solesin, scrive Sara Moretti il 25 Novembre 2015. “L’uno cooperante, l’altra studentessa. L’uno vittima della follia bellica in un raid americano in Pakistan, dove era andato ad aiutare gli ultimi, l’altra vittima della follia terroristica dell’ISIS, mentre trascorreva una normale serata come tutti i ragazzi della sua età. Una cosa li accomuna senza alcun dubbio, lo Stato di appartenenza. Uno Stato indifferente e a volte colpevole. Giancarlo Lo Porto da una parte, Valeria Solesin dall’altra. Entrambi sono rientrati in Italia dentro una bara, entrambi funerali civili/laici, entrambi vittime italiane, entrambi ragazzi pieni di voglia di vivere, entrambi intelligenti, entrambi contro la guerra”.
Vi riportiamo di seguito il testo del post pubblicato su Facebook e che da giorni sta ricevendo migliaia di condivisioni: Giovanni Lo Porto e Valeria Solesin: due morti, due misure, scrive Luca Scialò il 25 novembre 2015. IL PRIMO, COOPERANTE IN PAKISTAN, E' STATO UCCISO LO SCORSO GENNAIO, MA LA NOTIZIA SI E' APPRESA SOLO AD APRILE. NON HA RICEVUTO LO STESSO TRATTAMENTO DI VALERIA, FORSE PERCHE' AD UCCIDERLO SONO STATI GLI AMERICANI. Come diceva Totò, la morte è come una livella, che mette tutti sullo stesso piano. Ma lo Stato italiano evidentemente no. Ieri si sono celebrati i funerali di Stato di Valeria Solesin, nella sua Venezia, alla presenza dei rappresentanti della religione cattolica, ebraica e musulmana. Un segnale di unità religiosa che i genitori della ragazza, sempre composti e molto privati nel proprio dolore, hanno voluto lanciare ai terroristi che hanno ammazzato la propria giovane e in gamba figlia. Presenti anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il Ministro della Difesa, Roberta Pinotti. La quale ha anche letto un messaggio di cordoglio del Presidente francese François Hollande. Proclamato dal Sindaco di Venezia il lutto cittadino. I funerali sono andati anche in onda su Raiuno.
CHI ERA VALERIA - Insomma, Valeria è stata omaggiata con tutti i crismi. Una giovane sociologa, molto impegnata nel sociale e che si stava già distinguendo per i suoi studi sulle difficoltà che le donne italiane incontrano nel mercato del lavoro. Aveva anche inviato un articolo su uno studio da lei condotto sul tema a IlSole24Ore, che glielo pubblicò benché sconosciuta. Valeria era al Bataclan con il ragazzo per un concerto Heavy Metal, come tanti altri giovani morti quel dannato venerdì 13. E peccato che lo stesso trattamento non sia stato riservato a Giovanni (detto Giancarlo) Lo Porto, di cui non si avevano notizie dal 2012. Per poi venire a conoscenza del fatto che sia stato ucciso tra Pakistan e Afghanistan lo scorso gennaio, durante un raid statunitense contro al Qaeda. A ucciderlo è stato un drone americano. La notizia si è saputa solo tre mesi dopo.
LA MORTE DI LO PORTO PER MANO AMERICANA - Giovanni, Giancarlo per gli amici, 39 anni, palermitano, si trovava in Pakistan per la ong Welt Hunger Hilfe (Aiuto alla fame nel mondo) e si occupava della costruzione di alloggi di emergenza nel sud del Punjab. Si avevano avute sue notizie l'ultima volta nel gennaio 2012, quando si trovava nella provincia pachistana di Khyber Pakhtunkhwa. Lo ha ricordato così Barack Obama: "Svolgeva il suo lavoro con passione, per la sua opera umanitaria aveva viaggiato molto per il mondo". E' stato ucciso assieme all'americano Warren Weinstein. Per lui solo messaggi di cordoglio da parte di Renzi, Mattarella e del Senato. Ma niente funerali di Stato. Neppure Mattarella era presente, lui che è proprio palermitano. Unica istituzione presente il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando. E' passato quasi un anno da quella tragica fatalità e non si è fatta ancora chiarezza. Anzi, sicuramente non sarà mai fatta. Quando di mezzo ci sono gli americani, tutto viene liquidato velocemente. La Casa Bianca se la caverà con un risarcimento alle famiglie dei due. Del resto siamo loro vassalli da settant'anni. Valeria è morta, purtroppo, mentre si stava divertendo. Giovanni, invece, mentre aiutava un popolo da anni in guerra. Funerali di Stato? Dipende chi ti ammazza, a prescindere che tu sia morto mentre ti divertivi o mentre aiutavi un popolo in guerra...
IN ITALIA I MORTI NON HANNO LO STESSO VALORE. Premetto che con questo post non voglio fare polemiche sterili e porgo le mie sentite condoglianze alla famiglia di Valeria Solesin, scrive Annarita Sanna il 24 novembre 2015. Ma devo invitarvi a riflettere sui due pesi e le due misure adottati dai media e dalle istituzioni italiane davanti a due vittime con lo stesso passaporto. Il ragazzo in questione è Giovanni (detto Giancarlo) Lo Porto mentre la ragazza è Valeria Solesin. Li vedete entrambi nella foto sorridenti...L'uno cooperante, l'altra studentessa. L'uno vittima della follia bellica in un raid americano in Pakistan, dove era andato ad aiutare gli ultimi, l'altra vittima della follia terroristica dell'ISIS, mentre trascorreva una normale serata come tutti i ragazzi della sua età. Una cosa li accomuna senza alcun dubbio, lo Stato di appartenenza. Uno Stato indifferente e a volte colpevole. Giancarlo Lo Porto da una parte, Valeria Solesin dall'altra. Entrambi sono rientrati in Italia dentro una bara, entrambi funerali civili/laici, entrambi vittime italiane, entrambi ragazzi pieni di voglia di vivere, entrambi intelligenti, entrambi contro la guerra. Giancarlo è stato "accidentalmente" ucciso da un drone americano lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, mentre era ostaggio. Obama si scusa pubblicamente. Renzi (come sempre) non fiata e non si fa vedere, i media praticamente non ne parlano, niente commozioni, indignazioni ed approfondimenti. Ad oggi non si è ancora fatta chiarezza sulle responsabilità del governo americano e di quello italiano. A nessuno sembra interessare...Valeria sfortunatamente è andata ad un concerto con degli amici a Parigi e ne è uscita morta. Colpita da armi in mano a pazzi fondamentalisti islamici. Ai funerali di Giancarlo non c'era Renzi, né il palermitano Mattarella (domani viene qui a Strasburgo, proverò a dirglielo), non c'era un solo esponente del governo, neanche regionale. Nessuno. Solo il Sindaco di Palermo. Per la morte di Giancarlo Lo Porto non c'è stata una mobilitazione della stampa, niente servizi strappalacrime in TV per una settimana, racconti di quando era piccolo e delle tantissime esperienze di cooperazione, nessuna sete di giustizia ed emotività popolare. Niente, una battuta di agenzia e buona notte a tutti, meglio non fare arrabbiare lo zio Sam. Eppure Lo Porto aveva davvero un profilo da riempirci in palinsesti televisivi per settimane, un ragazzo della umile Palermo con un profilo eccezionale (vi prego di informarvi sulla sua biografia) che aveva dedicato tutta la sua vita e professionalità ad aiutare gli altri e che il cooperante lo faceva di mestiere e nei posti più difficili del pianeta...La mobilitazione mediatica che c'è stata per la morte e per i funerali di Valeria l'avete vista tutti... E non mi dispiace affatto che ci sia stata, quel che mi dispiace è vedere come sia normale accettare i due pesi e due misure...Vittime uguali ma diverse. Vittime di diverso livello. Perché il popolo deve indignarsi e commuoversi se si muore per dei folli terroristi ma è meglio non parlarne troppo se si muore di fuoco "amico". Se i civili li ammazza la NATO non sembrano essere lo stesso tipo di civili, sembrano valer meno...Giancarlo non meritava il silenzio desolante di questo Governo. Giancarlo meritava attenzione, voglia di giustizia e di approfondimento e lo merita ancora... Così come forte è rimasta la voglia di verità della famiglia, degli amici e di chi crede che la guerra non sia mai una soluzione. E sono certo che Valeria avrebbe condiviso questo concetto...Vorrei che oggi ogni politico e ogni cittadino, soprattutto quelli che nei social network si armano e incitano alla guerra, si fermassero a riflettere. Pensate a fondo se è giusto che una vittima civile sia considerata di livello diverso. Pensateci se è stato giusto il comportamento delle autorità e dei media italiani...Pensiamoci e pretendiamo giustizia, verità e soprattutto equità...
Il coraggio che è mancato a Genova: Buffon dedica la “sua” vittoria a Quattrocchi, scrive Priscilla Del Ninno mercoledì 15 aprile 2015 su “Il Secolo D’Italia”. Grande Buffon: trova il coraggio che non ha avuto l’amministrazione di sinistra di Genova, e nei quarti di Champions League disputati martedì sera a Torino contro il Monaco veste la maglia della Juventus Gigi Buffon, ma parla da azzurro orgoglioso quando dedica la vittoria della sua squadra a Fabrizio Quattrocchi e Piermario Morosini, due eroi italiani “morti sul campo”. Due differenti esempi di coraggio e dedizione. Due esemplari protagonisti di storie lontane, accomunate però da una fine prematura e da un destino sfortunato che si sarebbero compiuti per entrambi il 14 aprile, del 2004 per Quattrocchi, del 2012 per Morosini. Come noto, Fabrizio Quattrocchi, ostaggio durante la guerra in Iraq insieme ad altri compagni di sventura, era una guardia di sicurezza privata, ed è stato rapito e ucciso a sangue freddo dal terrorismo internazionale. Fabrizio è stato l’unico dei quattro italiani sequestrati giustiziato senza motivo: per gli altri, infatti, sarebbe arrivata a breve dalla sua spietata esecuzione la liberazione, dopo un blitz delle forze speciali. Simbolica e doppiamente commovente, allora, la medaglia d’oro al valore civile attribuita postuma a Quattrocchi, rimasto famoso per la dimostrazione di coraggio umano e orgoglio patriottico resa con la frase pronunciata nel momento in cui i suoi rapitori gli stavano per sparare: «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano». Altra storia, invece, quella di Piermario Morosini, figura che ha contribuito a ridare slancio e dignità all’immagine del calciatore, troppo spesso offuscata da comportamenti non proprio esemplari tenuti sul campo e fuori. Piermario era un giovane sportivo, un fratello generoso nel prendersi cura di due fratelli disabili; un calciatore del Livorno, morto sul campo, sotto gli occhi sgomenti di colleghi e tifosi, durante una partita di campionato di serie B. Ha accusato un malore, Piermario, si è ripiegato su stesso al trentunesimo minuto di Pescara-Livorno, accasciandosi per terra. Il malessere, purtroppo, si sarebbe presto rivelata una crisi cardiaca che i soccorsi – su cui si sarebbero concentrati in seguito dubbi e polemiche riguardo tempistica ed efficienza dei servizi – non riuscirono a bloccare ed arginare. Due uomini, Quattrocchi e Morosini, che la sfortuna e i mancati riconoscimenti non riusciranno a cancellare dall’immaginario collettivo. E, sicuramente, dal cuore caldo del portiere della Nazionale, Gigi Buffon.
Il video di Quattrocchi: «Così muore un italiano», scrive Sarzanini Fiorenza. Mostrate le immagini ottenute da Al Jazira. La procura verifica eventuali manipolazioni. Sono quindici secondi di orrore. Fabrizio Quattrocchi è inginocchiato in una buca, il volto coperto da una kefiah. Indossa i jeans, una maglietta verde. Ha le mani legate con uno spago, le agita davanti a sè. Tenta di scoprirsi gli occhi. Intorno a lui si agitano le ombre di tre uomini. Sono nere. Gli girano intorno, parlano in arabo. Sembra quasi una macabra danza. È pieno giorno. Quattrocchi si rivolge loro. «Posso levare?», chiede cercando di togliersi il cappuccio. Si sente una sillaba che sembra un no. Allora li sfida: «Vi faccio vedere come muore un italiano» dice con orgoglio. Sulla destra compare un'altra ombra, quella di una pistola. L' immagine sfuma. Il video si interrompe. Quello che in tv non si vede è il colpo che lo raggiunge alla testa, il corpo che si accascia. Quello che non si sente è il secondo sparo. Un anno e mezzo dopo la barbara esecuzione del bodyguard genovese, il Sismi ha portato ai magistrati della Procura di Roma il filmato della morte. Era stata l'emittente araba Al Jazira a entrarne in possesso il 14 aprile 2004, giorno dell'omicidio, però non aveva mai voluto mandarlo in onda, nè consegnarlo alle autorità italiane. «Immagini troppo raccapriccianti» aveva detto il direttore. Il 20 dicembre gli 007 ne sono entrati in possesso. Ma la versione depositata nell' ufficio del pubblico ministero potrebbe essere stata tagliata o montata in maniera diversa da quella che gli stessi responsabili della Tv mostrarono all' ambasciatore italiano in Qatar Giuseppe Maria Buccino Grimaldi e poi al sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver. Alcune copie trasmesse dalle televisioni hanno infatti la sequenza invertita. «Nel filmato che vidi io - spiega la Boniver - Quattrocchi prima chiedeva se poteva scoprirsi il viso e poi pronunciava la frase "Vi faccio vedere come muore un italiano". Ricordo anche di non aver notato quelle ombre nere che invece sono così evidenti nel video trasmesso adesso». È possibile che ci siano stati dei tagli. Proprio per verificare eventuali modifiche effettuate sulla cassetta ottenuta dagli 007, i magistrati l'hanno già affidata ai carabinieri del Ris che stanno analizzando ogni fotogramma. «Resta da capire - aggiunge la Boniver - perché Al Jazira si sia sempre rifiutata di consegnare quel video sostenendo che conteneva immagini raccapriccianti e soprattutto perchè Quattrocchi si rivolgesse in italiano ai suoi aguzzini. Evidentemente sapeva che capivano la nostra lingua». Due sequestratori di Quattrocchi e dei suoi amici - Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio - sono stati individuati ed è già stato chiesto che vengano trasferiti in Italia per essere processati. Secondo le notizie trasmesse dal comando militare americano, sono ancora rinchiusi nel carcere di Abu Ghraib. Hamad Halal Al Obadi, 34 anni, e Hamid Fuad Al Gurari, 26, sono i due fratelli che gestirono i tre ostaggi nell' ultima settimana di prigionia. Sono stati proprio Stefio, Agliana e Cupertino a riconoscerli nelle foto che i carabinieri del Ros hanno mostrato loro nel settembre scorso. Subito dopo i magistrati hanno chiesto e ottenuto un ordine di custodia che è stato poi trasmesso alle autorità irachene. Insieme alle istantanee gli americani hanno trasmesso a Roma i verbali della loro confessione. Cento dollari hanno ottenuto i due carcerieri. Ma nulla hanno detto di sapere di quanto avvenne a Quattrocchi. Il resto lo ha raccontato un uomo che ha detto di chiamarsi Abu Yusuf in un'intervista rilasciata il 27 giugno del 2004 al quotidiano Sunday Times. «Sono stato io a girare quel video - ha affermato -, parlo bene l'italiano e lui si rivolse a me nella sua ultima supplica». Fiorenza Sarzanini, pagina 13 (10 gennaio 2006) - Corriere della Sera
Quattrocchi è morto da persona umile: non era un eroe, ma un italiano, si legge su “Varese News” l'11 gennaio 2006. "Gentilissimo direttore, mi permetta di rispondere alla signora Dabablà, la quale è intervenuta a gamba tesa sulla vicenda che riguarda il povero Fabrizio Quattrocchi. Premetto che non faccio parte – personalmente – della schiera di coloro i quali lo considerano un eroe, e perciò la mia posizione sarà presumibilmente differente da quella del mio Partito, Alleanza Nazionale. Fabrizio Quattrocchi stava lavorando in Iraq. Punto. Non era un soldato dell’Esercito Italiano, ma una delle tante guardie del corpo pagate per svolgere il proprio lavoro. E’ stato rapito e ucciso da un gruppo di “guerriglieri” – o forse la signora Ierina preferirebbe chiamarli “partigiani resistenti” – senza scrupoli che l’hanno giustiziato senza pietà, come un cane. Capisco lo stato d’animo della signora Dabalà: anche io ero contrario all’intervento Italiano in Iraq, ma questo non può giustificare un atto barbaro compiuto nei confronti di un Italiano, come me e come la signora Ierina, che si trovava in Iraq per lavorare. Io personalmente non mi permetto di giudicare le scelte che Fabrizio Quattrocchi ha compiuto. Posso solo immaginare che la decisione di andare in Iraq a svolgere un lavoro difficile e pericoloso non sia stata presa a cuor leggero, ma sia stata sofferta e dettata dalla necessità. E fa specie sentire le solite lezioni di morale da una “donna in nero” che evidentemente si sente solidale col mondo, ma mette da parte tutto il suo buonismo quando si tratta di “giudicare e condannare con sentenza inappellabile” un Italiano. A dimostrazione del fatto che, come sempre, per una certa parte politica esistono morti di serie A e morti di serie B o C. Fabrizio Quattrocchi non era un eroe, ma un Italiano. Una persona semplice e umile che è morta con dignità. Gli si conceda almeno di riposare in pace. Quella pace che alla signora Dabalà è tanto cara, ma in nome della quale ella stessa giustifica atti vergognosi. Un’ultima considerazione. Signora Ierina, per favore, ci risparmi i suoi giudizi taglienti e meschini sui “mercenari” che lavorano in Iraq: d’altronde, se lei ha mai lavorato in vita sua, tra una manifestazione in nero e un’altra, immagino che non l’abbia fatto gratuitamente. Questo la rende un po’ mercenaria, suo malgrado. Tutto, ahimè, in questa società ruota intorno al lavoro e al denaro, con cui si acquista la merce… Ma non c’è bisogno che glielo dica io, cara signora: ci ha già pensato Marx in tempi non sospetti…Distinti saluti. Stefano Clerici - Presidente Provinciale AZIONE GIOVANI Varese
MEMORIA A SENSO UNICO. Da Mattei a Di Nella i morti dimenticati della destra. La “guerra civile” tra giovani di destra e di sinistra ha inizio nei primi anni Settanta. Per quaranta anni è come se fossero restati dei morti di “serie B”, scrive Fabio Martini il 10 maggio 2013 su “La Stampa”. Per quaranta anni è come se fossero restati dei morti di “serie B”. A lungo i giovani di destra caduti negli scontri di strada degli anni Settanta sono stati considerati - nell’immaginario collettivo della sinistra e di tanta stampa indipendente - come dei picchiatori che se la cercavano. Negli anni di piombo anche tanti militanti di sinistra caddero, ma mentre i compagni quasi sempre erano le “vittime”, i camerati sono passati alla storia come i carnefici: una lettura manichea sui terribili anni di piombo che ora, sia pure indirettamente, viene rivisitata e superata dalle parole del Capo dello Stato sui fratelli Stefano e Virgilio Mattei, i militanti dell’Msi morti nella loro casa di Roma per effetto di un rogo appiccato da un drappello di estremisti di sinistra. Tra il 1972 e il 1983 venti giovani camerati, missini o vicini all’Msi, vengono assassinati, raramente per effetto di aggressioni promosse dalla destra, più spesso perché attaccati e uccisi da colpevoli che, talora, hanno finito per farla franca. La “guerra civile” tra giovani di destra e di sinistra ha inizio nei primi anni Settanta: dopo aver vissuto per 25 anni in un ghetto separato da tutto e da tutti, l’Msi diventa un bunker assediato: sezioni attaccate (i compagni le chiamavano covi fascisti), ma anche cortei che si trasformavano in guerriglie urbane, agguati, spranghe che menavano botte micidiali, stragi. Una lunga striscia di sangue che inizia il 7 luglio del 1972, sul lungomare di Salerno: al termine di una rissa scoppiata per caso Carlo Falvella viene colpito al petto, aorta recisa. Il suo cognome finisce per entrare in un terribile slogan del Movimento del 77: «Tutti i fascisti come Falvella, con un coltello nelle budella». Il 16 aprile 1973 i fratelli Mattei muoiono, nel rogo scatenato dai compagni di Potere operaio che volevano intimidire il papà di Stefano e Virgilio, che era segretario dell’Msi in un quartiere popolare di Roma, la borgata di Primavalle, fatta realizzare tanti anni prima da Mussolini ma che stava diventando di sinistra. Una lunga striscia di sangue che quasi sempre ha come scenario Roma, ma anche Padova, Pavia. E Milano: il 29 marzo del 1975 la vittima è un ragazzo milanese di 18 anni, dai capelli lunghi: Sergio Ramelli. Luca Telese, nel suo “Cuori neri”, libro bello e fortunato dedicato ai delitti dimenticati degli anni di piombo, lo racconta così: «Sergio era riuscito a restare refrattario al furore ideologico del suo tempo» e nei «suoi ultimi giorni c’è qualcosa di stoico», «malgrado il moltiplicarsi delle minacce» e delle aggressioni: «a scuola lo insultano e lo prendono a calci», «incredibilmente non si lamenterà con i camerati», «terrà all’oscuro la famiglia. Fino a quando una sera, sotto casa, appena posato il motorino, due killer lo finiscono a colpi di chiave inglese. Undici anni di delitti che in qualche modo formarono una generazione di futuri dirigenti politici. Ai funerali dei fratelli Mattei erano diventati amici due giovani camerati, che si chiamavano Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri. Gianni Alemanno era diventato il miglior amico di Paolo Di Nella, l’ultimo giovane di destra assassinato nel 1983; un giorno Francesco Storace vide un proiettile forare il tabellone sul quale stava per attaccare un manifesto. In quegli anni nacque una comunità che, proprio perché cementata dal dolore e dal sangue, sembrava indissolubile. Una storia che si è simbolicamente spenta due giorni fa nello studio di un avvocato, col mesto scioglimento del Fli, raccolto a quel Gianfranco Fini che per un ventennio è stato il capo carismatico di una comunità che non c’è più.
Foibe e morti si serie B, scrive Giovanni Arena l'11 febbraio 2014. Il 10 febbraio si è celebrata la Giornata del Ricordo, in memoria delle vittime delle foibe. Alla fine delle Seconda Guerra Mondiale, e nell’immediato dopoguerra, a seguito della diffusione dei regimi si stampo sovietico, si scatenarono violente repressioni nella Penisola Balcanica, nella zona allora chiamata Jugoslavia, ad opera dei seguaci di Tito, dittatore comunista. La popolazione italiana che abitava quei luoghi, e che si opponeva al regime comunista, subì la repressione di Tito, appoggiato dai partigiani del PCI operanti in quella regione. Circa 7.000 italiani furono gettati nelle foibe, cavità naturali nelle quali morivano uno sopra l’altro, legati mani e piedi. Vi perirono non solo italiani, ma anche sloveni e croati. Per motivi politici ed ideologici, il governo italiano rimase in silenzio per quasi 40 anni. I familiari delle vittime non ebbero notizie per molto tempo, e le vittime furono private persino della memoria dei concittadini. I libri di testo delle scuole pubbliche non menzionarono questi fatti nella sezioni dedicate agli anni del dopoguerra, almeno fino a pochi anni fa. Perché tutto questo? Probabilmente, all’epoca, qualcuno non ritenne opportuno agitare le acque nelle quali si combatteva una Guerra Fredda caratterizzata da instabili equilibri, una partita a scacchi in cui ogni mossa poteva risultare fatale. A torto o a ragione, la memoria di questi fratelli è stata offuscata per quasi mezzo secolo. Ma se da una parte le motivazioni che spinsero i contemporanei a tacere sulla strage dei Balcani trovano un fondamento quanto meno strategico-politico, per quanto criminale, il lascito ai posteri è di gran lunga più meschino. Gli infoibati sono divenuti “morti di Serie B”, per numero e per connotazione politica. E peggio ancora, “morti di destra”, perché vittime di un regime comunista. La società moderna, buonista e perbenista, aperta e democratica, liberale ed umana, egualitaria e libertaria, ha creato divisione anche tra i morti e divisioni tra vivi e morti. Così la sinistra non ricorda i “morti di destra”. E’ bastato poco per creare tutto questo: l’ideologia al posto della solidarietà, il marginale rispetto all’essenziale. Ed una nuova coscienza, simile ad una bilancia che pesa la vita a seconda dell’uomo.
A sinistra le Foibe sono tragedia di serie B. Il consigliere lombardo del Pd smarca: "Vicenda controversa, non partecipo". Renzi ricorda l'anniversario dell'eccidio solo in un tweet a fine serata, scrive Andrea Barcariol su “Il Tempo” l'11 febbraio 2015. Non tutte le giornate del ricordo, purtroppo, sono uguali. Ce ne è una, quella del 10 febbraio, dedicata alle vittime delle foibe, destinata a scatenare polemiche tra opposti schieramenti. Lo scorso anno, al centro della diatriba era finito il sindaco Marino, reo di aver mantenuto i viaggi della memoria ad Auschwitz e di aver cancellato, per motivi di budget, quelli nei luoghi in cui avvenne il genocidio degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia. Quest’anno invece i motivi di scontro sono stati molteplici. Il primo in Parlamento per il divieto ai deputati di partecipare alla cerimonia di commemorazione sulle foibe, nella Sala della Regina, alla presenza del Presidente della Repubblica Mattarella e del ministro dell’Istruzione Giannini. Motivo? Le votazioni sulle riforme costituzionali. «Due minuti per celebrare la Giornata del Ricordo in un'aula deserta e dopo insistenti nostre richieste. In questo quadro desolante si dimostra di non avere rispetto per la tragedia che ha colpito migliaia di famiglie italiane infoibate sul confine orientale, donne, bambini e anziani gettati in precipizi rocciosi profondi centinaia di metri e lasciati morire di dolore e stenti senza pietà» - sottolinea il capogruppo di FdI-An alla Camera, Fabio Rampelli. Sulla stessa linea sia Renata Polverini, parlamentare di FI: «Nel giorno del ricordo la presidenza della Camera non ha ritenuto opportuno riservare, durante i lavori parlamentari, un solo momento di riflessione all'eccidio, rimandando a una commemorazione al di fuori della Camera durante la quale non saranno neanche sospesi i lavori delle commissioni. La tragedia delle foibe appartiene a tutti gli italiani, basta con la memoria ad intermittenza» sia Massimiliano Fedriga, capogruppo alla Camera della Lega: «Dopo le nostre richieste ci sarà la commemorazione in aula del Giorno del Ricordo. Finalmente un po’ di rispetto. Spiace che si sia dovuti ricorrere a una pubblica denuncia per ottenere quanto è doveroso: un momento di riflessione sulle barbarie dell'estremismo sanguinario del comunismo titino». Clima teso a Montecitorio, nonostante le parole del presidente della Camera Laura Boldrini che in mattinata aveva provato a spegnere sul nascere le polemiche: «Sulle Foibe è calato un muro di silenzio, si è preferito nascondere, non parlarne. Si è trattato di una pulizia etnica perpetrata dalle autorità jugoslave. L'Italia deve molto alle associazioni degli esuli che hanno impedito che venisse cancellata la memoria dell'orrore perché un Paese che nasconde la verità non può mai essere libero e democratico». A svelenire gli animi, non ha sicuramente contribuito quanto accaduto in Lombardia con l’accusa al sindaco di Milano Pisapia di non aver partecipato alla Giornata del Ricordo «lo scorso anno aveva avuto un impegno improrogabile e quest'anno ne troverà un altro per giustificare la sua assenza: Pisapia preferisce non venire a commemorare i martiri delle foibe. È grave, un'umiliazione che i nostri morti e i nostri esuli non meritano», la stoccata del consigliere di FdI-An, Riccardo De Corato. A gettare benzina sul fuoco anche le frasi del consigliere regionale del Pd Onorio Rosati «La vicenda delle Foibe è storicamente molto controversa, molto divisiva all'interno del nostro Paese, non a caso, questa Giornata del Ricordo è stata istituita dal governo Berlusconi. Non posso non sottolineare il fatto che sia stata fortemente strumentalizzata dalla destra italiana e neofascista. Dal punto di vista storico sono vicende molto controverse, dove i numeri, i dati storici, sono questioni sulle quali è aperto un dibattito molto importante». Critiche anche per Matteo Renzi, per il tardivo tweet sulle Foibe, arrivato soltanto alle ore 19, e per Nicola Zingaretti: «Ho apprezzato molto il fatto che abbia inaugurato la Casa del Ricordo delle vittime delle Foibe – spiega Storace - Avrei apprezzato ancora di più se, oggi, avesse detto qualche parola, magari ricordando che è stata proprio la Regione Lazio ad avviare il processo di rimozione della negazione storica delle Foibe e dell'Esodo Giuliano Dalmata. Il ricordo e la memoria non hanno colore politico».
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un
bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte.
Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un
minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si
depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come
abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su
una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%).
Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono
disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore
inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che:
"Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano
sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John
Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in
questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
LEZIONE DI MAFIA.
La lezione fascista: battere la mafia si può, basta appoggiare chi la combatte, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo D’Italia”. Su Cesare Mori, di cui ricorre l’anniversario della morte (5 luglio 1942), quel prefetto di ferro che sconfisse la mafia durante il fascismo, è stato detto e scritto praticamente tutto: su di lui sono disponibili una ventina di libri, vari film, alcuni sceneggiati, tra cui l’ultimo, una miniserie tv in due puntate, Cesare Mori – Il prefetto di ferro, è stato trasmesso nel 2012, a riprova della grande attualità dell’opera di questo servitore dello Stato che dimostrò che se una cosa si vuole fare, la si fa. Lui riuscì dove in seguito fallì l’Italia repubblicana, con gli assassinii di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altro prefetto di ferro, dei giudici Falcone e Borsellino e di altre centinaia di uomini assassinati dalla criminalità organizzata siciliana. Su Mori oramai si sa tutto. Quello che è interessante oggi è capire come fece a debellare la mafia, come mai in seguito la mafia tornò, e quale debba essere il ruolo e il limite dello Stato nell’affrontare un’emergenza di questo tipo, emergenza che oggi, nel mondo occidentale, è presente solo nel nostro Paese, almeno a questo livello di organizzazione e di aggressività. Una delle linee-guida del fascismo era che nessun potere dovesse esserci al di fuori dello Stato, e certamente non un potere criminale. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, dove il potere delle cosche strozzava l’economia delle regioni e dove pertanto la rivoluzione fascista non poteva convenientemente realizzarsi, convinse Benito Mussolini e i suoi collaboratori ad affrontare il problema. Sappiamo che nei primi mesi del 1924 Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia, dove alcuni fedelissimi lo avevano messo al corrente della situazione, situazione che sembrava veramente non risolvibile, in quanto il sistema mafioso era incancrenito e cristallizzato. Probabilmente Mussolini si rese conto che la credibilità del fascismo avrebbe subito un dito colpo se non avesse risolto il problema della mafia, e prese il toro per le corna. In quello stesso anno, nel corso di pochi mesi, inviò in Sicilia Cesare Mori – che prima del fascismo aveva già prestato servizio nell’isola e che quindi la conosceva bene – e il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale e il delegato calabrese Francesco Spanò. Ecco il testo del telegramma di Mussolini al Mori: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». La mafia per alcuni anni fu costretta a chinare il capo di fronte al governo italiano. Il fascismo voleva veramente risolvere una volta per tutte il problema della mafia in Sicilia, e lo fece, non esitando a coinvolgere e ad arrestare anche esponenti, grandi e piccoli, del fascismo locale. Mussolini in quella circostanza non guardò in faccia a nessuno. Dapprima Mori fu mandato come prefetto a Trapani, dove aveva dato già buona prova di sé qualche anno prima, e iniziò revocando tutti i porto d’armi, e istituendo una commissione per il controllo dei nullaosta relativi ai permessi di campieraggio e guardiania, attività legate a cosa nostra. L’anno successivo Mori fu nominato prefetto di Palermo, con competenza su tutto il territorio regionale e con ampi poteri, dove iniziò sul serio la battaglia. Battaglia che fu durissima, a tutti ii livelli: sradicò abitudini, consuetudini, arrestò signori e signorotti locali, latifondisti, impiegati pubblici, banditi, briganti, fascisti. I risultati furono straordinari già nei primi anni: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente. Intraprese varie iniziative, ma lui andava particolarmente fiero dell’aver arrestato e fatto condannare Vito Cascio Ferro, pezzo da novanta della mafia italo-americana, che nel 1909 aveva assassinato sulla Marina di Palermo Joe Petrosino. La sua azione più famosa, perché spettacolare, fu il celebre assedio di Gangi, considerata allora una delle roccheforti dei mafiosi. Con un ingente numero di militi delle forze dell’ordine, Mori rastrellò il paese casa per casa, prendendo in ostaggio familiari di mafiosi per costringerli ad arrendersi, e riuscendo a catturare decine di mafiosi, banditi, criminali e latitanti. Probabilmente allora, per la durezza dei metodi, si guadagnò il soprannome col quale è ricordato. Oggi a Gangi c’è una targa che la popolazione grata gli ha dedicato per la sua opera meritoria. Per colpire la mafia Mori non esitò a indagare negli ambienti fascisti. Contemporaneamente Mori colpì i circoli politico-affaristici e perseguì Alfredo Cucco, il numero uno del fascismo siciliano, nonché membro del Gran Consiglio del fascismo, il quale venne rinviato a processo e addirittura espulso dal Pnf. Cucco però fu assolto, e ci sono sospetti che per lui, medico stimatissimo, si fosse trattato di una trappola, in quanto molti vicino a Roberto Farinacci, che come è noto non era molto amato da Mussolini. Tuttavia la mafia era stata decapitata, ridotta all’impotenza, al silenzio: i suoi esponenti che non vennero arrestati dovettero fuggire negli ospitali Stati Uniti, da dove poi nel 1945 ritorneranno a cavallo dei cannoni dei carri armati americani, che riportarono la mafia in auge un Sicilia, dando anche ai capi mafiosi locali incarichi amministrativi importanti, come dimostra la storiografia del dopoguerra. Va anche sottolineato che dopo gli arresti e le incriminazioni, i processi si facevano, le condanne arrivavano. Insomma, la magistratura collaborava con lo Stato nella lotta senza quartiere alla criminalità organizzata. Il metodo di Mori era semplicissimo nella sua efficienza: innanzitutto riaffermò in modo vigoroso l’autorità e la presenza dello Stato; coinvolse e convinse la popolazione a ribellarsi ai soprusi della mafia; d’accordo con le istituzioni, avviò una battaglia culturale contro l’omertà, il crimine, la mentalità mafiosa, soprattutto nei confronti dei giovani; colpì cosa nostra nei suoi interessi economici; fece tramontare la leggenda dell’impunità, facendo condannare a pene durissime i capomafia; fece un uso disinvolto del confino, dove mandò i maggiori capicosche. Nel 1929 Mori fu messo a riposo (era del 1871) e per molti anni la mafia dovette chinare il capo di fronte a questa Italia nuova e moderna, che frattanto aveva anche cercato di riavviare sotto il controllo militare le attività agricole e produttive della regione. In definitiva, perché Mori sconfisse la mafia? Perché il governo italiano lo appoggiò lealmente, al contrario di quanto accadde ad altri servitori dell’Italia repubblicana.
Questo è quel che si vorrebbe far credere. Ma esiste un'altra verità.
Libri: La mafia alla sbarra, I processi fascisti a Palermo, scrive “L’Ansa”. Il Volume attinge da documentazione conservata all'Archivio Stato. Indaga sulle radici della mafia, da quelle geografiche dell'hinterland palermitano, uno dei luoghi di genesi del fenomeno, a quelle storiche: è il libro "La mafia alla sbarra - I processi fascisti a Palermo" (260 pagine, 15 euro) scritto da Manoela Patti e pubblicato dalla casa editrice Istituto Poligrafico Europeo, con una prefazione dello storico Salvatore Lupo. Il lavoro si basa sull'immensa documentazione conservata all'Archivio di Stato di Palermo e scava all'interno della retorica della repressione fascista degli anni Venti, facendo anche piazza pulita della legittimazione storica basata su paradigmi e stereotipi che nella percezione comune hanno portato a credere, negli anni, a una mafia "buona" e non sanguinaria. "Il versante giudiziario dell'antimafia fascista - scrive l'autrice - ebbe esiti di gran lunga inferiori alle forze messe in campo. La portata effettiva dell'operazione Mori si rivelò meno incisiva di quanto propagandato dal regime. Eppure, l'imponente opera di propaganda fascista sfruttò l'intera popolazione per ottenere in Sicilia quel consenso che ancora nell'Isola mancava al regime". Dal "L'Inchiesta in Sicilia" del 1876 di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino alle difese che hanno smentito l'esistenza della mafia come associazione, puntando piuttosto a definirla come "un modo di essere e di sentire". Come quella di Giuseppe Pitrè, che diede dignità scientifica al concetto di una "mafia originaria benigna, sinonimo di spavalderia e coraggio degenerata solo in alcuni individui in delinquenza". Tesi adoperata per difendere l'Isola dagli "attacchi del governo centrale ogni volta che la questione mafiosa tornava all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale". La tesi di Pitrè verrà codificata ufficialmente nel 1901 durante il processo al l'onorevole Raffaele Palizzolo, accusato di essere il mandante dell'assassinio dell'ex sindaco di Palermo e direttore del banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo. "Accade spesso che le dinamiche sociali si incarichino di smentire gli scienziati sociali e la storia di smentire gli storici - scrive lo storico Lupo nella prefazione - La smentita fu particolarmente bruciante nella Sicilia dell'assaggio tra gli anni 70 e 80. La mafia si palesò in tutta la sua nuova pericolosità mentre era impegnata in modernissime forme di business. Quella mafia lì non somigliava per niente a una vaga metafora". Il libro sarà presentato all'Istituto Gramsci di Palermo. A discuterne con l'autrice saranno Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all'Università di Palermo, Francesco Forgione, presidente della Fondazione Federico II e Matteo Di Figlia, ricercatore di Storia contemporanea all'Università di Palermo.
I maxiprocessi ai boss al tempo del fascismo molto rumore per nulla. Il libro di Manoela Patti ricostruisce la vicenda giudiziaria del Ventennio A fronte di migliaia di arresti e indagini le condanne furono minime, scrive Amelia Crisantino su “La Repubblica”. La campagna antimafia voluta dal fascismo, inaugurata nell'ottobre 1925 con l'invio del prefetto Cesare Mori a Palermo, è ancora ben presente nella memoria collettiva. L'inedito spiegamento di forze e i modi spesso teatrali con cui il prefetto Mori condusse le operazioni comprendevano assedi di borgate e paesi, arresti di massa, processi a centinaia di imputati, l'arresto per i familiari dei latitanti, brutalità varie anche a carico dei testimoni. Il fascismo accompagnò l'aspetto militare con un'imponente opera di propaganda, mentre da più parti si tentavano analisi: per molti mesi si continuò a dibattere se la mafia fosse un fenomeno delinquenziale, una variabile etnico-antropologica o l'indesiderato prodotto di una società arretrata. Si cercava cioè di definire la natura del fenomeno mafioso, con argomenti destinati a ciclicamente ripresentarsi nei decenni a venire. Il versante più in ombra rimase quello giudiziario. Che fu spesso deludente. Le pene inflitte nei numerosi maxiprocessi che si susseguirono sino al 1932 furono minime, di gran lunga inferiori alle forze in campo. La documentazione allora prodotta permette però di osservare la storia dell'organizzazione mafiosa in una prospettiva di lungo periodo, e adesso uno studio di Manoela Patti, "La mafia alla sbarra. I processi fascisti a Palermo" (Istituto poligrafico europeo, 260 pagine, 15 euro), analizza uno spaccato territoriale e temporale seguendo le vicende di molteplici personaggi che riservano non poche sorprese. La prima impressione, a leggere queste pagine così fitte di nomi ed episodi, è di trovarsi di fronte a un reticolo i cui molteplici intrecci richiedono molta cautela. Subito dopo, mentre l'attenzione del lettore è assorbita dalla ricchezza delle fonti, arriva una sorta di sgomento di fronte ai numeri. Leggiamo che dal 1913 al 1919 a Bagheria avvengono 55 omicidi, che nel 1928 gli arrestati nella provincia di Palermo sono cinquemila, che dal 1926 al 1932 vengono giudicati settemila imputati distribuiti in 105 processi organizzati su base territoriale, che il 25 novembre 1930 si apre il processo all'associazione della borgata Santa Maria di Gesù: sono 228 detenuti presenti nella chiesa di Santa Cita usata come tribunale, con gli stucchi del Serpotta che osservano muti le grandi gabbie affollate di imputati, i 62 avvocati, i 200 testimoni a discolpa. Nella sola provincia di Palermo vengono celebrati 56 processi e la vasta documentazione su cui si sorreggono permette di ricostruire comportamenti, struttura e attività delle cosche mafiose: non solo i rapporti interni all'organizzazione, ma anche i legami con il vasto universo "non criminale" con cui interagivano. La linea scelta nei processi fu quella di condannare gli imputati per la semplice "associazione a delinquere", anche senza valutare la responsabilità per i singoli reati; ma non di rado la magistratura giudicante si mantenne su posizioni garantiste, accogliendo le richieste della difesa. E – al di là delle accuse e della posizione dei magistrati – viene in primo piano un dato di fatto, sintetizzato dal capitano dei carabinieri al giudice che stava istruendo il processo di Bagheria: "quello era un tempo in cui tutti avevano relazioni con la mafia". Il fascismo ebbe gioco facile nel puntare il dito contro l'odiosa commistione fra cosa pubblica e violenza mafiosa, che specie nei paesi era stata favorita dall'allargamento del suffragio. I processi dimostrarono gli stretti legami fra le associazioni delle borgate palermitane e i comuni dell'hinterland, con alcuni casi esemplari come Villabate a testimoniare la capacità della mafia di infiltrarsi nell'amministrazione. Fra gli affiliati alla cosca di Villabate c'erano anche i venti componenti del consiglio comunale, e molti dei nomi ritornano negli atti della Commissione antimafia del 1972, del Maxiprocesso del 1986, nell'operazione Perseo del 2008 e Senza Frontiere del 2009. La continuità sembra essere la principale caratteristica delle cosche che dominano la Conca d'oro, i casi più emblematici li ritroviamo nella borgata di Santa Maria di Gesù dove si collocano alcune delle più antiche e potenti dinastie mafiose palermitane come i Bontate e i Greco, che attraversano età liberale, fascismo ed età repubblicana mantenendo l'egemonia. I metodi con cui viene conservato il potere, le connivenze e le strategie molto ci raccontano della storia della mafia. Che per tanti versi coincide con la storia della Sicilia.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.
"A NOI!". COSA CI RESTA DEL FASCISMO NELL’EPOCA DI BERLUSCONI, GRILLO E RENZI. Nella lingua italiana c’è una parola che, da più di novant’anni, non è mai passata di moda: “fascismo”. Definisce il Ventennio di Mussolini da cui, già nel ’45, abbiamo preso espressamente le distanze. Eppure da allora non abbiamo mai smesso di utilizzare l’aggettivo “fascista” per bollare uomini politici, movimenti, ma anche gruppi sociali e persino comportamenti comuni. In questo saggio, Tommaso Cerno parte da una semplice osservazione linguistica per riflettere sull’Italia di oggi. Perché continuiamo a usare un termine legato a un periodo storico ormai morto e sepolto? Vuol forse dire che qualcosa, di quel periodo, è rimasto nel modo di essere di noi italiani? Unendo analisi storica e interpretazione dell’attualità, Cerno va alla ricerca di figure carismatiche, scelte politiche e fenomeni sociali che mostrino una matrice comune con l’era del Duce. È solo un caso che Craxi e Berlusconi, come Mussolini, abbiano frequentato una scuola religiosa per poi concludere gli studi in un istituto laico? E, ancora scavando nelle vite dei nostri leader, cosa possiamo capire dal loro rapporto con mogli e amanti? Ma l’analisi di Cerno non si ferma alle biografie: interpreta gli stili di comunicazione, dai comizi al balcone del Duce agli hashtag di Renzi; sfata l’idea che certi comportamenti siano tipici del nostro tempo (che cosa successe dopo il terremoto nel Vulture del 1930? E dopo quello dell’Aquila nel 2009?); individua pregiudizi e forme di discriminazione che portano dal Ventennio all’affare Boffo. E che dire dei disinvolti ribaltamenti di potere, dalla notte del Gran Consiglio del Fascismo a #enricostaisereno? Basato su un’accurata ricerca storica, ma raccontato con ritmo battente, A noi! è un’acuta e originalissima lettura della nostra Storia e del nostro presente. Che ci fa capire chi siamo stati, chi ci ha governato e ci governa. E soprattutto chi siamo, noi italiani.
Ecco "A noi!" di Tommaso Cerno, la storia degli italiani eterni conformisti: dentro di noi il dna del duce. Tommaso Cerno e il popolo del tricolore: sensibile al richiamo dell’uomo forte pronto a rottamare, a predicare bene e razzolare male, soprattutto a non cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “Il Messaggero Veneto” il 19 novembre 2015. Esce in libreria “A noi!” (240 pagine, 19 euro) il libro di Tommaso Cerno che indaga sui conformismi della società italiana e s’interroga su “cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi”. "Un fascistello dormicchia in noi. Subdolo e silente. Ma pronto a saltare fuori quando c’è da prendere posizione, partecipare a una svolta politica o di costume. Perché a quel punto ecco l’irresistibile richiamo dell’uomo forte, dell’urlo della piazza, della rottamaziome di massa. E non basta. C’è qualcosa di piú profondo nel Dna dell’Italietta e che, per esempio, l’ha fatta essere dall’oggi al domani tutta fascista e poi tutta antifascista: il conformismo. L’essere italiani, insomma, prevale su qualunque scelta di campo e la precede, la giustifica, la rende possibile. In un turbinìo di luoghi comuni che ben fotografano l’italico carattere: o Francia o Spagna purché se magna, saltare sul carro del vincitore, predicare bene e razzolare male, si fa ma non si dice...Per raccontare la stagione in cui ci è dato vivere, interpretarne gli umori e trovare un filo che ne leghi le vicende, Tommaso Cerno - giovane e sensibile cronista del dramma Englaro, poi giornalista politico dell’Espresso con brillanti incursioni in tv e oggi direttore del Messaggero Veneto - ha scelto una strada volutamente provocatoria, ma certamente illuminante. Che si fonda su una tesi netta: dal Ventennio gli italiani non sono cambiati, si comportano piú o meno allo stesso modo, e germi del fascismo che ha segnato drammaticamente la nostra storia e condizionato istituzioni, costume, economia, sono arrivati pari pari da allora a oggi, a noi, come con doppio rimando recita il titolo di un pamphlet che deve molto a Longanesi e a Flaiano (“A noi!”, Rizzoli editore). Certo, Cerno sta bene attento a distinguere: c’è stato il fascismo storico, «la dittatura, le leggi razziali, la guerra, i drammi umani e le sciagure militari»; e l’altro, che in questo caso lo interessa di piú perché oggetto della sua indagine: il fascismo degli italiani «un po’ opportunisti che di fronte all’uomo forte salvarono guicciardianamente il proprio “particulare” e si schierarono in un batter d’occhio». E continueranno a fare cosí: «Siamo un popolo di fascisti tra i fascisti, democratici fra i democratici, bigotti fra i bigotti. Siamo un popolo di conformisti», osserva amaramente Cerno che per dare spessore alla sua tesi ripercorre i momenti salienti della piú recente politica italiana. Evidenziando caratteri che si ripetono simili, pur se via via adattati, nei protagonisti di ieri e di oggi. Prendiamo quella certa voglia di decisionismo che percorre da sempre il sogno nascosto degli italiani parallelamente a quello di liberarsi di ogni personale responsabilità. A ben vedere, nota Cerno, c’è un filo che lega l’uomo «delle decisioni irrevocabili» e che voleva fare della Camera un bivacco per i suoi manipoli, il Bettino Craxi che entra a gamba tesa nel teatrino della politica italiana consociativa e compromissoria, il Silvio Berlusconi che s’immagina amministratore delegato dell’Azienda Italia e non convocherà mai un congresso di partito, e il Matteo Renzi che scala il Pd e mette in discussione i poteri costituti di parlamentari e sindacalisti. E l’antipolitica che diventa essa stessa una politica? In fondo, il primo Mussolini fece piazza pulita del linguaggio e del ceto politico d’inizio Novecento; Craxi debuttò liberandosi di parole e ambiguità e finirà processando un Parlamento per mendacio e ipocrisia; Berlusconi ha portato “in campo” i funzionari di Publitalia e Renzi, addirittura, è diventato segretario e premier promettendo la “rottamazione”. E si potrebbe andare avanti, come Cerno fa alla ricerca di una continuità che non registra cesure, proprio come nella pubblica amministrazione e nella magistratura nell’immediato dopoguerra: il delitto politico da Matteotti a Moro; le bombe dal Teatro Diana a Piazza Fontana; le ruberie e la corruzione da famiglie e gerarchi del Regime a Mafia Capitale; i nani e le ballerine dai convegni privati nella sala del Mappamondo al bunga-bunga di Arcore; la violenza del linguaggio razzista, xenofobo, omofobo dai cori della milizia alle piazze di Grillo e Salvini. Fino al trasformismo e al tradimento, cuore dell’italianità, stigmate che ci accompagna da Ciano a Scilipoti. Insomma - è la tesi di questo saggio sincero, dolente e divertente - c’è almeno un elemento comune tra la fine di Mussolini, la caduta di Berlusconi e la defenestrazione di Enrico Letta: le grandi svolte, scrive Cerno, mancano di pathos, avvengono nel Palazzo, ieri per ordini del giorno ieri oggi via tweet, mai per volontà popolare; e i toni sono non da dramma shakespeariano, ma pirandelliano. Dopo di che, gli italiani sono «oggi fascisti, domani antifascisti. Tutti democristiani, poi tutti anti-sistema. E ancora berlusconiani, renziani. In pratica, i soliti equilibristi». Una conclusione amara? Forse sí, ma se non si esagera un po’, non si riflette a fondo. E non si cambia.
Gli italiani? Sono fascisti dentro. Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese, scrive Tommaso Cerno il 20 novembre 2015 su “L’Espresso”. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19). Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia? Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi. In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare. Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà. Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord. La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti. Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare. Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo. Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.
Atac: partecipanti corteo Fiom hanno preso metro senza pagare. L’azienda capitolina aveva anche allestito una biglietteria mobile per agevolare l’acquisto dei ticket. «Denunceremo in procura l’episodio». La critica di Pedica (Pd): «È nato il sindacato dei “portoghesi”?», scrive "Il Corriere della Sera” il 21 novembre 2015. Numerosi manifestanti, giunti a Roma in occasione del corteo Fiom, hanno rifiutato di pagare il biglietto per accedere ai servizi di trasporto e hanno forzato i varchi presidiati in metropolitana: è quanto denunciato dall’Atac, l’azienda del trasporto pubblico della Capitale. E dei tanti arrivati, solo in 500 avrebbero acquistato il bit da 1,50 euro dalla biglietteria mobile attrezzata dall’azienda dei Trasporti romana. La notizia dei varchi forzati ha indignato il deputato dem Stefano Pedica: «Dopo Coalizione sociale, Landini si prepara anche a guidare il sindacato dei “portoghesi”? Il leader della Fiom spieghi ai suoi manifestanti che il biglietto della metro e dell’autobus si paga e che Roma non è un porto franco. Nella Capitale, così come in tutte le città d’Italia, le regole vanno rispettate. Mi auguro - aggiunge - che gli organizzatori del corteo della Fiom, oltre a dare una bella strigliata a tutti i manifestanti che oggi hanno forzato i varchi della metropolitana, senza pagare il ticket, facciano anche il buon gesto di pagare di tasca propria per il danno fatto all’Atac». «Atac ha anche messo a disposizione un servizio di biglietteria mobile all’esterno della stazione Subaugusta proprio per favorire la corretta fruizione dei mezzi pubblici» ha aggiunto la stessa azienda, stigmatizzando «tale comportamento che rivela una concezione profondamente sbagliata della fruizione del servizio di trasporto pubblico. Atac ricorda che pagare il biglietto è un dovere civico e che l’unico modo legittimo di fruire dei pubblici servizi è averne il titolo. In conseguenza dell’accaduto l’azienda procederà a formale denuncia contro i responsabili di tali fatti». Anche Eugenio Stanziale, segretario generale della Filt Cgil Roma e Lazio, che rappresenta il settore dei trasporti, commenta il caso dei manifestanti Fiom che si sono rifiutati di pagare i biglietti della metro: «In genere quando ci sono grandi manifestazioni come Cgil, chiediamo al Comune, all’Atac e al prefetto di garantire l’esenzione dei biglietti del trasporto pubblico locale dei manifestanti, anche per una questione di ordine pubblico se ci sono grandi flussi. Non so se in questo caso sia stata avanzata. Se così non fosse e se i manifestanti arbitrariamente non hanno pagato il biglietto pagheranno la multa. Non è certo colpa degli operatori dell’Atac che stavano facendo il loro lavoro».
Il sindacato vince i ricorsi e fa perdere la fiducia. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 21 Novembre 2015. Si potrebbe tirare in ballo anche in questo caso la facilità con cui in Italia i Tribunali del Lavoro danno sempre ragione ai dipendenti. E di sicuro la storia raccontata da Ernesto Menicucci sul Corriere di giovedì scorso ne offrirebbe una facile occasione. Accade infatti che il suddetto Tribunale annulli il sacrosanto obbligo alla rotazione delle zone di competenza imposto ai vigili urbani di Roma dall’ex sindaco Ignazio Marino. Obbligo, peraltro, al quale si era arrivati anche in seguito a un pronunciamento dell’autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone. La ragione della rotazione è intuitiva: un vigile che presta servizio per troppo tempo nello stesso territorio può essere più facilmente indotto in tentazione. Si tratta dunque di una misura tesa non solo a ostacolare la corruzione spicciola ma anche a tutelare l’onorabilità degli stessi vigili urbani, preservando i valori etici. La cosa però non è piaciuta ai sindacati. I quali, non potendo per evidenti ragioni eccepire nel merito, si sono appigliati alla forma. E il giudice ha dato loro ragione condannando il Comune per «comportamento antisindacale»: non aveva informato il sindacato prima di approvare il Piano anticorruzione nel quale era prevista la rotazione dei vigili, ma soltanto il giorno dopo. Non fa una grinza. Così ora si può festeggiare: per le vecchie e rassicuranti rendite di posizione il pericolo è cessato. Complimenti dunque al Tribunale. Ma complimenti anche a chi al Comune ha alzato il pallonetto ai sindacati, non rispettando per filo e per segno le procedure: un comportamento tanto maldestro da far pensare a una mossa studiata. Soprattutto, però, complimenti alla Uil che ha promosso il ricorso. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole.
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
Parigi, 13 novembre 2015: il racconto della strage. La storia della Francia e dell'Europa è cambiata in 40 minuti. E' passata una settimana, 130 innocenti uccisi in sei attacchi, anche i jihadisti sono morti. Resta però il mistero su uno di loro. Ecco la cronaca di una notte che nessuno potrà dimenticare, scrivono Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Daniele Mastrogiacomo, Fabio Tonacci, su “La Repubblica” il 20 novembre 2015.
La chiamano l'Estate di san Martino. E la sera di Parigi è mite. La temperatura è di 15 gradi. Assenza di vento. Allo Stade de France, banlieue nord di Saint-Denis, è in programma alle 21.00 l'amichevole Francia-Germania. I caffè hanno i tavolini all'aperto. Nella città che non ha terrazzi, le chiamano terrasse. Il cartellone del teatro Bataclan, al 50 di Boulevard Voltaire, ha in programma il concerto degli "Eagles of Death Metal", gruppo garage rock californiano. Prima tappa di una tournée che deve toccare altre città della Francia. Da settimane non si trova più un solo biglietto.
Alle 19.30 il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve è a Montrouge, periferia sud di Parigi, per consegnare le onorificenze agli agenti della polizia municipale che, l'8 gennaio, ventiquattro ore dopo la strage di Charlie Hebdo, hanno per primi intercettato Amedy Coulibaly, l'assassino della vigilessa Clarissa Jean-Philippe, impedendogli di consumare una carneficina che, purtroppo, avverrà il giorno successivo.
Alle 20.30, il ministro è di ritorno a Place Beauveau, sede del Ministero dell'Interno. I giorni di Charlie sono lontani. O almeno così sembra. Cazeneuve discute brevemente con i suoi collaboratori dei due falsi allarmi terrorismo della giornata. Alla Gare de Lyon, in parte evacuata, e al "Molitor", vecchio hotel art decò sulla riva sinistra della Senna che ospita la nazionale tedesca. Non c'è motivo di ansia. "#Diemannschaft ist zuruck im Hotel. Voller Fokus auf #Frager", "Siamo tornati in albergo. La testa è solo alla Francia", twitta la nazionale tedesca. A duecento metri da Place Beauvau, il presidente François Hollande sta lasciando l'Eliseo diretto allo stadio. I titoli del telegiornale danno notizia dello sciopero dei medici contro la riforma del Governo e dell'annunciata uccisione di Jihadi John in Siria. Consigliano di anticipare i regali di Natale, annunciano la riapertura del museo Rodin e l'attesa per la partita della sera. "Il primo match contro la Germania dopo l'eliminazione ai quarti nel mondiale del Brasile". Almeno nove uomini si salutano per l'ultima volta e salgono su tre macchine di colore nero. Una Volkswagen Polo, una Seat Leon, una Renault Clio. Hanno tutte e tre targa e immatricolazione belga. Sono state affittate pochi giorni prima in un'agenzia di noleggio auto di Bruxelles a nome Salah Abdeslam e Ibrahim Abdeslam. Due fratelli residenti nel quartiere Kareveld di Molenbeek. Sono arrivate a Parigi giovedì sera a distanza di dieci minuti l'una dall'altra, in convoglio. Hanno depositato i loro passeggeri in un appartamento di Bobigny affittato per una settimana attraverso il sito homeholidays e in due stanze al terzo piano del residence Apart'City Paris di Alfortville. In avenue Jules Rimet, il vialone che costeggia il settore est dello Stade de France, un giovane siriano è chiuso in un bomber nero. Ha un passaporto in cui dice di chiamarsi Ahmad Almohammad, nato il 10 settembre 1990 a Edlib, Siria. Ha raggiunto l'Europa cinque settimane prima. Il 3 ottobre, un barcone di profughi lo ha sbarcato sull'isola di Leros. Le autorità greche lo hanno fotografato, gli hanno preso le impronte digitali e riconosciuto un lasciapassare temporaneo nello spazio di Schengen. Un timbro che gli ha consentito di raggiungere la Serbia e, da lì, la Croazia. L'ultimo tratto di strada verso i fratelli che lo aspettano a Molenbeek, Bruxelles, Belgio. La città di Abdelhamid, di Salah, di Ibrahim. La porta verso il Paradiso. Ahmad non ha il biglietto. La partita Francia-Germania è cominciata da 10 minuti. Il risultato è sullo 0-0. Hollande, in tribuna, contempla lo spettacolo degli 80 mila dello Stade. Ahmad ha caldo. È fradicio di sudore. Entra nei bagni della birreria di fronte al cancello D. Il bomber che nasconde la cintura imbottita di perossido di acetone (Tatp) e bulloni lo soffoca. Si dirige verso i lavabi. Si appoggia con le braccia tese di fronte allo specchio. Incrocia lo sguardo di Blay Mokono, un uomo di colore. Il cronometro del tabellone segna il minuto 10 della partita. Blay recupera il figlio tredicenne Ryan e l'amico Rashid al bancone della birreria. Sono in ritardo. Devono entrare. Ahmad lo urta con la spalla. Non chiede scusa. Prosegue verso i tornelli e la biglietteria del cancello D. Lo affronta con garbo uno degli steward. "Non può entrare, monsieur ". Ahmad rincula. Ma non si dà per vinto. Avanza di nuovo di qualche passo. "Monsieur, le ho già detto che non può entrare senza biglietto". Ora il tabellone indica il minuto 16 e 24 secondi. Sull'ala sinistra, lavora il pallone Martial con un profondo retropassaggio. Il boato è avvertito in tutto il catino ed è confuso con un petardo. Un innocente è morto in un lampo di fuoco e bulloni. Si chiama Manuel Dias. Ha 63 anni. E' il primo di 130 vittime. La folla ondeggia in una ola. Sulle tribune si alzano felici i 1.000 impiegati della compagnia aerea GermanWings in trasferta premio, per cancellare il lutto dello schianto sulle Alpi francesi. Il pallone ora è dei tedeschi. Un rimpallo lo riconsegna a Evra. Diciannovesimo minuto e 35 secondi. Di fronte al cancello H, lungo le vetrine di Decathlon, in corrispondenza dell'insegna Gaumont, un altro "fratello" muove i suoi ultimi passi. Un secondo boato. Un uomo della sicurezza presidenziale si avvicina in tribuna ad Hollande. Si china leggermente e sussurra all'orecchio del Presidente. "Monsieur le Président le Quick a sauté". Il presidente sa cosa significa. Per sessanta secondi fissa il vuoto. Quindi si alza senza una parola. Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco seduto alla sua sinistra, lo insegue con lo sguardo mentre prende la via dei sotterranei. Un corteo di macchine nere esfiltra Hollande verso Place Beauvau. Dieci chilometri lo separano dal bunker del ministero dell'Interno.
21.53. A Bilal Hadfi resta l'ultimo giro di orologio dei suoi vent'anni. In piedi, sotto un palo arrugginito fissa le indicazioni stradali. Autostrada A86, La Courneuve centre, Aubervilliers, S33. Lo stadio è un rumore di fondo lontano un chilometro. Quasi quanto il ricordo dei mesi da foreign fighter in Siria. Bilal pigia l'interruttore che lo spegne per sempre. Un brandello di carne e sangue imbratta le indicazioni per la S33. Negli spogliatoi dello Stade, Sebastian Lowe, ct della Germania e Didier Dechamps, collega francese, annuiscono uno di fronte all'altro con accanto i funzionari Uefa e agenti della polizia. Ora sanno. Ma non devono dire. Ne va della vita degli 80mila. Per nessuna ragione al mondo devono sapere. La partita deve continuare. All'angolo tra rue Bichat e rue Alibert, Ouidad Bakkali, 29 anni, assessore alla cultura di Ravenna, marocchina di seconda generazione nata in Italia, ordina una birra. Intorno a lei, ai tavolini del "Carillon" una folla di universitari ride tra uno "waikiki" e l'altro di rhum e pera. Shot da due euro a bicchierino. Tra Bastille e canale Saint Martin, questo spicchio dell'undicesimo arrondissement non parla più della sapienza dei faubourg artigiani. Ha la gioia e l'energia della movida e la più alta densità di locali della città. Nella Seat Leon nera con targa belga GUT 18053, tre uomini hanno di fronte 4 chilometri, 15 minuti e 39 vite umane da prendersi. Una vita ogni 100 metri. Al tavolo di Ouidad e del suo fidanzato sono arrivate le birre. Accanto ai due ragazzi, una coppia sta litigando. Una macchina fa manovra in corrispondenza dell'ingresso del locale. È una mamma con la bambina sul sedile posteriore. Deve togliersi di mezzo. Non fa in tempo. Il calibro 7.62 del kalashnikov imbracciato dall'uomo sceso dalla Seat le stacca la testa. Ouidad pensa a un petardo. Poi sedie e tavolini cominciano a volare. I ragazzi urlano. Il sangue imbratta l'asfalto. Le rose delle raffiche sono ad alzo zero. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Sull'altro lato della strada, il proprietario del "Petit Cambodge" tira furiosamente giù la saracinesca e invita tutti a stendersi a terra dentro il locale. L'uomo col fucile si avvicina. Le raffiche sbriciolano il cartongesso del muro. Ouidad vede cadere due ragazze come fantocci. Prega e piange. La Seat riparte sulla rue Alibert lasciando dietro di sé 100 bossoli e 15 cadaveri.
21.32. In rue della Fontaine au Roi, ai piccoli tavoli della pizzeria "Casa Nostra", la pioggia di schegge di vetro anticipa di qualche secondo la morte che porta la Seat. Una donna, seduta all'esterno, si rannicchia a terra. "C'est pour la Syrie", sente gridare. L'uomo che le si avvicina alza il kalashnikov e lo rivolge verso il basso. Appoggia la canna al cranio della donna. Tira il grilletto. Una, due volte. L'arma è inceppata. Risale in auto. Non c'è tempo. E cinque cadaveri possono bastare.
21.36. Nella sua casa dell'undicesimo arrondissement, il primo ministro Manuel Valls ha appena chiuso la telefonata che lo avvisa che qualcuno ha dichiarato guerra alla Francia. Che il Presidente sta raggiungendo il bunker del ministero dell'Interno e che si sta sparando nel quartiere in cui il premier abita. Ancora. Ancora una volta a dieci mesi di distanza da quella mattina di Charlie Hebdo. Stesso quartiere. Stesso odio. In rue de Charonne, alla "Belle Equipe" si festeggia Houda Saadi. Compie 36 anni e si è presa una sera fuori. I suoi bambini sono a casa. Al tavolo con lei, insieme alla sorella, c'è, con altri amici, Ludovic Bombasse. Ha 40 anni, è nato in Congo, ama i libri e gli restano pochi secondi di vita. La Seat è alla sua ultima stazione di morte. Houda non ha il tempo di capire. Né lo ha sua sorella. Ludovic decide di fare scudo a Chloé, una ragazza che conosce appena e che le siede affianco. Nascosto dietro il bancone, Gregory Reibenberg, il proprietario del locale, stringe a sé sua moglie Djamila. La sente andarsene via, trafitta da una raffica. Lei è musulmana. Lui ebreo. La contabilità dell'orrore ha spuntato la sua trentanovesima vita. All'esterno della "Belle Equipe", una ragazza è seduta al tavolino. Nella mano stringe un calice di vino. La testa è reclinata sul tavolo. Come dormisse. La Seat nera è ripartita. Un poliziotto di quartiere corre con la pistola in pugno verso quel tavolo. E' del commissariato dell'undicesimo. Lo stesso che è intervenuto la mattina di Charlie. Il poliziotto si china sulla ragazza, che ha ancora gli occhi sbarrati. Crolla in ginocchio. Piange. Sul maxi-schermo televisivo del "Comptoir Voltaire", il rumore delle raffiche nel quartiere non ha fatto in tempo ad arrivare, né a farsi strada tra le risate e il vociare che accompagnano le immagini della partita. Ibrahim Abdeslam è sceso per l'ultima volta dalla Seat che prosegue verso Montreuil. E per l'ultima volta ha guardato negli occhi suo fratello Salah. Si siede a un tavolo.Catherine, la cameriera, gli chiede cosa gradisca. Ibrahim non muove un muscolo. Non le risponde. Si alza lentamente e dopo due passi salta in aria. C'è sangue dappertutto. La tv continua ad andare. Ha segnato Giroud. Da qualche minuto, in Rete, gira il tweet con la foto delle luci del caffè "Comptoir Voltaire". E' un'immagine singolare e sgranata. Scattata dal tetto di un edificio che guarda boulevard Voltaire e postata, alle 21.16, dal profilo twitter "OP_IS90". L'acronimo è corredato da una foto di al-Zarqawi, il macellaio di Falluja. In una Polo nera con targa belga, parcheggiata di fronte al teatro "Bataclan", degli uomini sono chiusi da due ore dentro l'abitacolo. I due sui sedili anteriori smanettano sul cellulare. E' arrivato il tweet di "OP_IS90". Si chiamano Ismael Mostefai, 29 anni e Samy Amimour, 28. Hanno lo stesso passaporto francese. Sono nati nella stessa città, Parigi, ma in due banlieue diverse. Hanno avuto due vite diverse. Samy, nel 2013, è fuggito dalla Francia verso i campi di Daesh. Non fuma più. Ha sposato la donna che le ha assegnato il Califfato. L'ultima volta che ha visto il padre, un venditore ambulante di vestiti, era ancora in Siria e gli ha riconsegnato la lettera con cui la madre lo implorava di tornare e i 100 euro che quella lettera nascondeva. "Non ne ho più bisogno", ha detto. Anche Ismael ha toccato l'orrore siriano. Ma, al contrario di Samy, che è inseguito da un mandato di cattura internazionale per terrorismo, lui è un invisibile. Dai tavoli del ristorante "Cellar", Cristophe continua a osservare quella Polo, dentro vede quattro ragazzi. Due ore prima ha chiesto loro di spostarla. Ma non ha avuto neppure risposta. Li ha fissati per un attimo negli occhi e ha avuto la sensazione di aver incrociato lo sguardo vuoto di zombie. Non ha insistito più. Anche se non può fare a meno di chiedersi per quale diavolo di motivo, da due ore, quella macchina in sosta abbia le luci spente ma il motore sempre acceso. Cristophe guarda per l'ultima volta l'orologio. Sono le 21.30. Decide di andarsene. È la migliore decisione della sua vita. Nella sala del Bataclan il concerto è cominciato. Da mezz'ora Jesse Hughes pesta sulla sua chitarra. La folla è felice. In mille e cinquecento tra platea e galleria ondeggiano e ballano facendo tremare le strutture in legno di questo bizzarro edificio dell'Ottocento. Una guazzabuglio architettonico che incrocia suggestioni cinesi. I flash dei cellulari che scattano selfie lampeggiano insieme alle luci stroboscopiche del palco. La band è su di giri come chi ascolta. Jesse ha piantato un coltello in uno degli amplificatori. Il rock degli Eagles and Death Metal è anche questa roba qui.
21.42. Il motore della Polo in sosta in boulevard Voltaire si spegne. I quattro uomini scendono dall'auto. Il cellulare torna a illuminarsi. Il messaggio ha 18 battute di testo. "On est parti. On commence". Siamo partiti. Cominciamo. Il destinatario del messaggio è Abdelhamid Abaaoud. Il mastermind della cellula. Lo psicopatico di origini marocchine con passaporto belga che trascina cadaveri nel deserto di Raqqa con il suo fuoristrada. L'uomo sfuggito in gennaio all'operazione che ha smantellato la cellula di Verviers. Quello che la Francia dà per certo in Siria, ma che in Francia è tornato per chiudere il conto. "Vite, vite! Partez, ça tire". Veloci, veloci, sparano. "Didi" è un'istituzione al Bataclan. Un po' buttafuori, un po' butta dentro, un po' angelo custode per chi, a notte, non si regge più in piedi per l'alcool. Ne ha viste tante. Non le ha viste tutte. Non quello che gli si è appena parato di fronte agli occhi. Due ragazzi usciti per fumare sono stati giustiziati da quei cavalieri dell'Apocalisse che ora puntano a passo svelto verso l'interno del teatro. Sono pochi passi. Tra la strada e la "fosse" dove si balla, si grida, si suda, sono pochi metri. Una porta a vetri, il guardaroba, due ante girevoli. "I meet the Devil and this is his song". Incontro il Diavolo e questa è la sua canzone, canta Jesse Hughes annunciando una delle loro hit, "Kiss the devil". Bacia il diavolo. La prima raffica sulla platea ne falcia una decina, ma suona come un effetto speciale. La seconda mette in fuga Hughes, mentre il chitarrista, Dave Catching, continua ancora per qualche istante a tenere il centro della scena. Poi, l'intera band si rifugia nel retro palco. La musica si interrompe e ora si sentono solo grida. Di dolore, di terrore, di implorazione. Le raffiche non cessano un solo istante. Chi non è riuscito a fuggire usando le uscite di emergenza sui lati della platea ora è sdraiato a terra. Sono centinaia. Qualcuno si finge morto. Qualcuno si copre con i morti. Altri strisciano in un lago di sangue e brandelli di carne. Gli uomini del commando hanno il volto di bambini e la voce da orchi vendicatori. "Avete ucciso i nostri fratelli in Siria, ora siamo qui". "È colpa del vostro presidente Hollande". In due, cominciano ad aggirarsi tra i corpi stesi. "Se qualcuno muove il culo, lo ammazziamo". Ma è una minaccia infame. Perché loro ammazzano anche chi resta immobile. Con un piede colpiscono chi è a terra per verificare se sia in vita o meno. E al primo cenno di reazione fanno fuoco alla nuca. Chi non è più in platea è in cerca di un qualunque nascondiglio. Le intercapedini del teatro, i camerini, i bagni, i locali della attrezzeria. In una delle toilette, un gruppo di ragazzi e ragazze sfonda il controsoffitto e si infila nei condotti della areazione. Una donna incinta si appende ad una delle finestre. Qualcuno salta giù chiudendo gli occhi fracassandosi gambe e bacino. Una colonna umana riesce ad arrampicarsi fino ai sottotetti. Qualcuno, guadagnate le scale antincendio, raggiunge il tetto del teatro e di lì salta sul palazzo prospiciente. Bussa disperatamente a porte e finestre.
22.01. Bfm, la televisione all news francese, annuncia: "Una sparatoria a colpi di kalashnikov ha provocato diversi morti in un ristorante nel decimo arrondissement di Parigi".
22.18. L'agenzia di stampa Reuters batte il primo take che annuncia l'orrore fuori dai confini del Paese. "Two dead, seven wounded in shooting in restaurant in central Paris". Due morti, sette feriti in sparatoria nel centro di Parigi. Nessuno immagina. Nessuno sa. Tranne chi è dentro il teatro e chi verso il teatro sta correndo impugnando una pistola. È un commissario di quartiere che ha raccolto il primo allarme e che resterà un angelo senza nome. Entra nell'edificio scavalcando decine di cadaveri. E nella hall distingue la sagome di uno dei macellai. Lo protegge soltanto un giubbotto antiproiettile. E quando le raffiche cominciano a raggiungerlo risponde al fuoco. Uno dei tre con il kalashnikov salito sul palco, crolla. Gli altri due fuggono verso la galleria. All'esterno del Bataclan arriva il furgone blindato nero della BRI la "Brigade recherche intervention", l'unità di élite della polizia giudiziaria. Gli uomini che ne scendono sono al comando di Christophe Molmy. È uno sbirro che, dieci mesi prima, ha condotto il blitz all'Hypercacher di Porte de Vincennes dove si era asserragliato Amedy Coulibaly. Ha scritto un romanzo, Loups blessés, lupi feriti, sull'umanità storta che ha combattuto per una vita: banditi, tossici, rapinatori. Gli mancano i martiri di Allah. Li ha trovati. Molmy è un uomo colto. Sa dare alle cose il loro nome. "E' l'inferno di Dante ", comunica alla centrale dall'interno del teatro. Pile di corpi smembrati, lamenti. Un silenzio di morte bucato dal concerto di decine di suonerie di cellulari che squillano a vuoto accanto a ragazze e ragazzi che non possono più rispondere. I due martiri in galleria si sono barricati in un locale con venti ostaggi. Vorrebbero negoziare. O almeno così dicono. Ma non si capisce cosa. Né a che prezzo. Molmy e le teste di cuoio che sono salite in galleria dove tutto è ancora buio e le uniche luci sono quelle dei puntatori laser dei fucili di precisione della BRI, raggiungono la porta che li separa dai due terroristi e dagli ostaggi. Uno di loro grida "Fermatevi o ci uccideranno tutti!". Convincono gli assediati a prendere un cellulare attraverso cui comunicare con il negoziatore della BRI. Lo stesso che aveva inutilmente trattato per ore con Coulibay. Con i due martiri va ancora peggio. Non riesce neppure il primo degli step del protocollo del negoziatore. Quello che impone di stabilizzare l'interlocutore. Raffreddarlo. Sgonfiarlo di adrenalina. Riportargli i battiti cardiaci a una condizione di lucidità. Dall'altra parte della porta si farfuglia soltanto di Siria e Hollande. Si minacciano decapitazioni e non si negozia nulla. Molmy capisce che i 20 ostaggi non sono e non saranno moneta di scambio. Sono solo animali sacrificali. E anche per questo quando i due provano a chiamare Bfm fanno cadere la linea del cellulare. Non vogliono che quello che sta per accadere vada in diretta televisiva e in mondovisione. Sono le 23.45. Negli ospedali di Parigi sono stati riaperti tutti i blocchi operatori d'emergenza e tutti i chirurghi richiamati. Dalle ambulanze vengono sbarcate lettighe su cui sono stesi uomini e donne che sembrano usciti da una trincea. Sul marciapiede di boulevard Voltaire il prefetto di Parigi Michel Cadot è in linea con Hollande e il ministro dell'Interno Cazeneuve. Il presidente ha appena parlato in tv alla nazione, visibilmente sconvolto. "Quello che vogliono è farci paura". Al telefono il Prefetto Cadot annuisce. La decisione è presa. Si dia l'assalto. Anticipate da lunghi minuti di scambio di fuoco, due deflagrazioni scuotono il piano superiore del Bataclan. È finita. Bisogna solo evacuare i feriti e contare i morti. Ottantanove. Ai tavolini del "Les Béguines", un pub nel cuore di Molenbeek, Bruxelles,Mohamed Hamri e Hamza Attou stanno fumando l'ennesima canna e buttando giù l'ennesima birra. Il locale ha riaperto da qualche giorno dopo essere stato chiuso dalla polizia belga per droga. Da due anni il proprietario èIbrahim Abdeslam. Da qualche ora, di quel proprietario è rimasto un tronco d'uomo carbonizzato in boulevard Voltaire. Ma questo Mohamed e Hamza non lo sanno. O, almeno, racconteranno di non saperlo. Squilla il cellulare. E' Salah, il fratello di Ibrahim. Chiama da Parigi. "Dimmi fratello". "Sono qui a Parigi. Ho bisogno che tu mi venga a prendere. Ora. Pago io la benzina e l'autostrada. Ti aspetto. Ci vediamo a Barbès", il quartiere arabo del diciottesimo arrondissement, dove verrà ritrovata la terza auto. La Clio nera. Alle tre del mattino una Volkswagen Golf 3 grigia targata ILJV 973 che percorre l'autostrada A2 Bruxelles-Parigi passa la frontiera tra il Belgio e la Francia. A bordo, Mohamed e Hamza, che dell'auto è il proprietario. Non c'è ombra di gendarme lungo la strada. La Francia ha appena annunciato la chiusura delle frontiere, ma il dispositivo fatica a mettersi in moto. Alle 5, la Golf è a Parigi e carica Salah.
Alle 9,15 del mattino di sabato 14 novembre, la Golf grigia va in senso inverso. All'altezza di Cambrai, accosta all'invito di una pattuglia della Gendarmerie francese. I quattro uomini mostrano i documenti. L'agente li controlla al terminale della banca dati del ministero dell'Interno. Tra le mani si ripassa il documento di quell'uomo indicato come Salah Abdeslam. Risultano precedenti per furto e spaccio di droga. Il gendarme torna alla Golf e restituisce i documenti ai tre uomini. "Bon voyage Monsieur".
L'attacco agli Usa dell'11 settembre 2001: gli schianti, il fumo e le vittime che cadono dal cielo, scrive la Redazione di Tiscali L'America subiva il peggior attacco della sua storia. E oggi quell'11 settembre del 2001 è ancora vivo perché alimentato da nuovi timori. Ecco la successione, minuto per minuto, della tragedia che ha cambiato anche gli equilibri politici internazionali. L'ora indicata è quella di New York e Washington, indietro di sei ore rispetto a quella italiana.
7.59 - Il volo American Airlines 11 decolla dal Logan International Airport di Boston. Sul Boeing 767, diretto a Los Angeles, vi sono 95 persone.
8.14 - Il volo United Airlines 175 decolla dallo stesso aeroporto con 65 persone a bordo. Anche questo è un Boeing 767 e anche questo è diretto a Los Angeles.
8.15 - Primo segnale di allarme. Il volo AA11 non rispetta le disposizioni dei controllori di volo.
8.15 - Il volo American Airlines 77 decolla dal Dulles Airport di Washington. E' un Boeing 757 con 64 persone a bordo, diretto a Los Angeles.
8.40 - Boston informa il Norad (North American Aerospace Defense Command) che il volo AA11 è stato probabilmente dirottato.
8.42 - Il volo UA93 decolla da Newark (New Jersey) alla volta di San Francisco. E' un Boeing 757, con a bordo 44 persone.
8.43 - La Faa (Federal Aviation Administration) notifica al Norad che anche il volo UA175 è stato dirottato.
8.46 - Il volo AA11 si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Il Norad ordina il decollo immediato di due caccia F-15 dalla base di Falmouth (Massachusetts).
8.49 - La Cnn interrompe le trasmissioni. "Un aereo ha colpito una delle torri del World Trade Center".
8.50 - La prima autopompa dei vigili del fuoco giunge al Wtc.
9.00 - Il presidente George W. Bush, in visita a una scuola elementare a Sarasota (Florida), viene informato dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice che un aereo ha colpito un grattacielo del Wtc.
9.03 - Il volo UA175 colpisce la Torre Sud.
9.07 - Bush è informato dal capo di gabinetto Andrew Card che "un secondo aereo ha colpito la seconda torre".
9.16 - La Faa informa il Norad che anche il volo UA93 è stato dirottato.
9.21 - Le autorità di New York chiudono i ponti e i tunnel di accesso a Manhattan.
9.24 - Il Norad apprende che anche il volo AA77 è stato dirottato.
9.26 - La Faa ordina il blocco di tutti i decolli negli aeroporti Usa.
9.30 - Bush in Florida: "L'America è sotto attacco".
9.32 - Wall Street interrompe le operazioni.
9.37 - I controllori di volo di Washington avvertono che un aereo non identificato è diretto verso la capitale.
9.43 - Il Volo AA77 colpisce il Pentagono.
9.45 - La Casa Bianca viene evacuata. Il vicepresidente Dick Cheney è portato nel bunker blindato sotto la residenza. La Faa blocca il traffico aereo sugli Usa.
9.55 - L'Air Force One con a bordo Bush decolla dalla Florida. Bush telefona a Cheney e ordina l'allerta delle forze militari Usa nel mondo.
9.58 - I passeggeri del volo UA93, informati di quanto accaduto agli altri velivoli, si scagliano contro i dirottatori per prendere il controllo dell'aereo.
9.59 - Crolla la Torre Sud.
10.03 - Il volo UA93 precipita in un campo della Pennsylvania, nei pressi di Shanksville.
10.28 - Crolla anche la Torre Nord.
10.45 - Le autorità ordinano l'evacuazione di tutti gli edifici federali di Washington.
12.36 - Bush parla alla nazione da Barksdale, Indiana. "La nostra libertà è stata attaccata da un codardo senza volto. La determinazione della nostra grande nazione è stata messa alla prova. Supereremo questa prova".
13.02 - Il sindaco di New York Rudolph Giuliani ordina l'evacuazione di Manhattan a sud di Canal Street.
13.27 - Dichiarato lo stato di emergenza a Washington.
14.50 - Bush si sposta in aereo al quartier generale del Comando Strategico Usa nella base aerea Offut (Nebraska) dove presiede una video-conferenza con i membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale a Washington.
17.20 - Crolla anche il Seven World Trade Center, un edificio di 47 piani.
18.45 - Bush rientra alla Casa Bianca.
20.30 - Il presidente parla a reti unificate alla nazione. "I responsabili la pagheranno. L'America non farà distinzioni tra i terroristi e coloro che li ospitano".
21.00 - Bush torna a riunirsi con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Viene discusso anche un primo piano di rappresaglia militare contro i terroristi.
Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.
I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.
Le puntualizzazioni saccenti della sinistra a sinistra.
DISINFORMAZIONE. Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Doppia disinformazione: da una parte una frase associata ad Oriana Fallaci, ma non è sua, mentre il contenuto di quella frase è stato alterato riportando una considerazione errata sul terrorismo, scrive il 18 novembre 2015 David Tyto Puente su “Bufale”. Da qualche giorno, ma già a inizio 2015 in seguito all’attentato terroristico contro Charlie Hebdo, viene largamente condivisa questa frase associata erroneamente ad Oriana Fallaci e citata da Giuliano Ferrara durante una puntata di Servizio Pubblico: Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. In realtà si tratta di una frase del musulmano saudita Abdel Rahman al Rashed (all’epoca direttore della televisione Al Arabiya) tratta da un suo editoriale e riportata nel libro “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’apocalisse”: Anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte dei terroristi sono musulmani. Tornando alla frase diffusa online e citata da Ferrara a inizio 2015, in questo articolo raccoglieremo qualche esempio di terrorismo di matrice non islamica.
Che cos’è il terrorismo? Prima di parlare di terroristi bisogna capire che cos’è il terrorismo: Il terrorismo è una forma di lotta politica che consiste in una successione diazioni criminali violente, premeditate ed atte a suscitare clamore come attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, ai danni di enti quali istituzioni statali e/o pubbliche, governi, esponenti politici o pubblici, gruppi politici, etnici o religiosi. Le organizzazioni dedite a tale pratica vengono definite “organizzazioni terroristiche”, mentre l’individuo è definito come terrorista, termine che in storiografia indica un membro del governo in Francia durante il periodo del Regime del Terrore. In realtà non esiste una definizione accettata da tutti del terrorismo, ma ne è stata data una, nel 1937, dalla Società delle Nazioni: “fatti criminali diretti contro lo Stato in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone”. Fatti criminali in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone. Teniamolo a mente.
Le statistiche. Secondo gli studi svolti dall’FBI, nell’arco di tempo tra il 1980 e il 2005, il 94% degli atti terroristici negli Stati Uniti non sono di matrice islamica. In questo grafico possiamo vedere che il 6% è di matrice islamica, il 7% di matrice ebraica, il 42% dei latinos e via dicendo. È innegabile il fatto che il numero di vittime dell’11 settembre sia ben superiore rispetto agli altri episodi. Ricordiamo che per atti terroristici non si considerano solo esplosioni o kamikaze. Ecco le tipologie di atti terroristici registrati dallo studio dell’FBI: Tutti i terroristi sono musulmani è come dire che tutti gli italiani sono mafiosi. Tra tutti i pregiudizi che calano sugli italiani il peggiore è senz’altro l’assioma “italiani=mafiosi”. All’estero incontriamo sempre qualcuno che appena sa che siamo italiani casca in questo luogo comune che, in un modo o nell’altro a seconda della pazienza di ognuno di noi, ci fa imbarazzare per la sua stupidità. Sentirci dare dei “mafiosi” è un insulto, per molti anche molto grave. Per chi non se ne è reso ancora conto, la Mafia è un gruppo terroristico a tutti gli effetti e di certo non è di religione musulmana.
Il terrorismo in Italia – Gli “anni di piombo”. La storia del terrorismo italiano è ben impressa nella memoria del nostro Paese, terrorismo ad opera degli stessi italiani nostri connazionali. Il periodo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta viene ricordato con il nome “anni di piombo” di cui ricordiamo la “strategia della tensione” (strategia politica da realizzare mediante un disegno eversivo, tesa alla destabilizzazione o al disfacimento di equilibri precostituiti). Non possiamo assolutamente dimenticarci le stragi di quei periodi:
Strage di piazza Fontana a Milano (diciassette vittime e ottantotto feriti);
Strage di Gioia Tauro (sei vittime e sessantasei feriti);
Strage di Peteano a Gorizia (tre vittime e due feriti);
Strage della Questura di Milano (quattro vittime e una quarantina di feriti);
Strage di Piazza della Loggia a Brescia (otto vittime e centodue feriti);
Strage dell’Italicus (Strage sull’espresso Roma-Brennero, dodici vittime e centocinque feriti);
Strage della stazione di Bologna (ottantacinque vittime e oltre duecento feriti);
Così come non possiamo dimenticarci le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.
Il terrorismo in Italia – La Mafia. Come dicevamo in precedenza, non si può negare in alcun modo che la mafia sia un gruppo terroristico a tutti gli effetti, la storia ne è testimone. Non bisogna dimenticare le stragi compiute ad atto della malavita organizzata:
Strage del Rapido 904 (17 morti e 267 feriti);
Strage di Pizzolungo (l’obiettivo era il magistrato Carlo Palermo, ma invece vennero uccisi una donna e dei suoi due figli gemelli);
Strage di via dei Georgofili (cinque morti e una quarantina di feriti);
Strage di via Palestro (cinque morti);
La strage di Capaci (dove rimasero uccisi il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, mentre una decina di persone restarono ferite);
La strage di via d’Amelio (dove rimasero uccisi il giudice Borsellino e cinque agenti di scorta, mentre ventitré persone restarono ferite).
Il terrorismo cristiano. Nella storia non esistono solo terroristi di religione islamica o ebraica, ma anche di fede cristiana: Il Terrorismo Cristiano comprende atti di terrorismo compiuti da gruppi o individui che citano obiettivi o motivazioni da loro interpretati come "cristiani", o entro un contesto di base di violenza tra diverse fazioni e/o pregiudizi quali l’intolleranza religiosa. Come altre forme di terrorismo religioso, i terroristi cristiani hanno indicato interpretazioni di principi di fede – in questo caso interpretazioni del Vecchio Testamento (bibbia) – come propria ispirazione per giustificare violenza e omicidi.
Il massacro di Utøya. Non possiamo dimenticarci del Massacro di Utøya, in Norvegia, ad opera del terrorista cristiano protestante Anders Behring Breivik, dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Lui stesso si autodefinisce “salvatore del Cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950“. Il suo gesto portò alla morte ben 77 persone, ma l’obiettivo di Breivik fu quello di mandare un segnale al popolo norvegese contro il Partito Laburista e fermare la distruzione della cultura norvegese causata dall’immigrazione musulmana.
Il movimento ultracattolico Christian Identity e il gruppo Army of God. Un gruppo ultracattolico che ritiene i cattolici ariani la “Razza Eletta del Signore”, guidati dal terrorista Eric Robert Rudolph (foto sotto), furono i colpevoli dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 (111 feriti ed un morto), della bomba contro la clinica per aborti ad Atlanta ed il bar Otherside Lounge (bar frequentato da clientela lesbica) nel 1997, della bomba contro la clinica per aborti di Birmingham nel 1998. Negli Stati Uniti d’America è presente anche un gruppo terroristico chiamato “Army of God“, a cui era associato anche il terrorista Eric Robert Rudolph, i quali rivendicarono gli attentati del 1997 contro le cliniche per aborti ed inviarono oltre 500 lettere contenenti polvere bianca, spacciata per antrace, a 280 operatori nel 2001. Nel 1999 furono arrestati e deportati da Israele i membri del gruppo ultracristiano Concerned Christians grazie all’operazione “Operation Walk on Water”, la quale aveva sventato il loro attentato contro la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Il gruppo terroristico ultracristiano era convinto di compiere un atto necessario per il ritorno di Gesù Cristo. Da non dimenticare il famoso gruppo terroristico americano Ku Klux Klan. Il gruppo terroristico americano giustificava la sua azione contro i neri e contro gli ebrei attraverso l’interpretazione di alcuni versetti della Bibbia tra cui quello della Genesi 9, 24-27: «Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli! Disse poi: Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» Per quanto possa sembrare strano, nella simbologia del KKK c’era anche la croce che brucia, simbolo usato per indurre terrore.
Il terrorismo ebraico. Non bisogna dimenticare il gruppo paramilitare sionista Irgun Zvai Leumi giudicato terrorista dal Regno Unito che operò durante il controllo britannico della Palestina dal 1931 al 1948, anno in cui il gruppo fu disciolto e i suoi membri vennero integrati nelle neo-costituite Forze Israeliane di Difesa. Da citare anche il gruppo paramilitare sionista Lohamei Herut Israel (chiamato dai britannici Banda Stern), di cui bisogna ricordare il massacro di Massacro di Deir Yassin, dove vennero uccise più di 100 arabi costringendo i superstiti a lasciare l’insediamento. Da non dimenticare l’attentato contro il King David Hotel di Gerusalemme nel 1946 (foto sotto), dove vennero uccise 91 persone di varie nazionalità. L’Italia se li dovrebbe ricordare soprattutto per l’attentato compiuto a Roma il 31 ottobre 1946, dove tre giovani terroristi attaccarono l’ambasciata britannica situata presso Porta Pia facendo esplodere due ordigni che causarono la totale distruzione dell’edificio.
L’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda. Non tutti conoscono l’esistenza dell’Esercito di resistenza del Signore, un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana (che opera anche nel nord dell’Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana). Il gruppo è guidato da Joseph Kony (foto sotto), il quale si dichiara fondamentalista cristiano contro all’Islam e a favore della creazione di una teocrazia basata sui Dieci Comandamenti.
I massacri degli islamici in Africa centrale. Parliamo dei massacri ad opera dei cristiani ed animisti anti-Balaka nello Stato di Centr’Africa, dove la minoranza musulmana viene massacrata. Nel solo mese di gennaio 2014 vi furono circa 1000 vittime, ma il conflitto dura da anni. A denunciare questi massacri fu Amesty International nel 2014. Ciò causò la fuga di numerosi credenti musulmani verso i paesi vicini.
Libano e Palestina. Non bisogna dimenticare il Lebanese Phalanges Party, il “partito delle falangi” di matrice cristiana, le cui milizie compirono i massacri di Sabra e del campo profughi di Shatila ai danni delle popolazioni musulmane e palestinesi durante la guerra civile libanese (1975-1990).
Eppure Ayman Al-Zawahiri, terrorista egiziano, leader di Al-Qā'ida: ha pronunciato queste frasi:«Il nostro messaggio per voi è chiaro, forte e definitivo: non vi sarà alcuna salvezza fino a quando non vi ritirerete dalla nostra terra, smetterete di rubare il nostro petrolio e le nostre risorse, porrete fine al vostro supporto agli infedeli e alla corruzione dei governanti....E' un fatto certo che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è altrettanto certo, ed eccezionalmente doloroso, che quasi tutti i terroristi sono musulmani.....Siamo una nazione fatta di pazienza. E noi resisteremo per combattervi, se Dio vorrà, fino all'ultimo minuto....Dobbiamo dissanguare economicamente l'America provocandola, in modo che continui a spendere massicciamente sulla sicurezza. [Dichiarazione del 13 settembre 2013].
Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” del 19 novembre 2015: invece di denunciare l'Isis manifestano contro di noi. La Francia ieri si è svegliata con le notizie del blitz delle teste di cuoio contro i terroristi islamici e in tutta Europa, Italia compresa, si è seguito in tv l'evolversi dell'assedio di Saint Denis. Tuttavia, mentre in ogni diretta televisiva si parlava dell'azione delle forze speciali francesi e di quella ragazza che ha scelto di farsi esplodere per evitare l'arresto, Maryan Ismail si preoccupava di far sapere a tutti di aver organizzato a Milano una fiaccolata sotto la sede di Libero. Sì, avete letto bene. Un raduno davanti alla redazione perché io e i colleghi chiedessimo scusa ai musulmani per il titolo di sabato scorso, «Bastardi islamici». Mentre in Europa ci sono tizi che, nel nome di Allah, vanno in giro ad ammazzare centinaia di persone colpevoli di vivere in Occidente - e dunque di andare allo stadio, a teatro o al ristorante -, la signora Ismail si preoccupava del titolo di Libero. Non chiedeva a ogni islamico di condannare gli attentatori, di invitare ogni imam a tenere un sermone contro gli assassini, di lanciare una fatwa contro il califfo Al Baghdadi e i suoi seguaci. Domandava a noi di scusarci con i musulmani per aver accostato ai bastardi che hanno sparato contro giovani inermi il riferimento all'islam. Vi chiedete chi sia Maryan Ismail? La signora, di cui fino a ieri ignoravo l'esistenza, è nata a Mogadiscio, in Somalia, ma da anni vive a Milano. Figlia di un diplomatico e politico somalo, è arrivata in Italia in qualità di rifugiata politica e la politica da quel che si capisce è la sua passione, tanto da averla indotta a iscriversi al Pd, entrando a far parte della segreteria cittadina del partito. (...) La sua biografia l'ho desunta da Internet, dove tra l'altro si trova una sua polemica a proposito della costruzione della moschea nel capoluogo lombardo. A Maryan non va giù l'idea che il comune, guidato come è noto da un sindaco sostenuto dal Pd, abbia fatto un bando per assegnare un lotto di terreno su cui edificare il luogo di preghiera degli islamici locali. La signora avrebbe preferito che l'amministrazione comunale invece di cedere a questa o a quella associazione la costruzione e la gestione della moschea, gestisse in proprio il sito, in modo da averne il controllo. Fosse passata la sua tesi, oltre agli asili e alle scuole comunali, a Pisapia sarebbe toccato pure fare l'imam o il muezzin, chiamando a raccolta i fedeli. Perfino i suoi, cioè quelli del Pd, l'hanno giudicata una follia, al punto che il segretario cittadino le ha risposto un po' piccato, facendole capire che la moschea non è l'Atm e non tocca all'amministrazione municipale occuparsi del servizio. La sensazione è che Maryan sia in cerca di un po' di visibilità, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali, quando cioè in primavera si dovrà eleggere il nuovo sindaco. E allora, cosa c'è di meglio se non organizzare una bella fiaccolata in nome della pace per fare la guerra a Libero? Di certo sfilando in piazza dichiarandosi vittime di un'offesa a mezzo stampa non si rischia una pistolettata. Per quanto le nostre parole e i nostri titoli non piacciano, mi risulta che non abbiano ancora ammazzato nessuno. Cosa ben diversa invece è contestare integralisti e terroristi, che come si sa, e come si è visto in questi giorni, non vanno troppo per il sottile, anche con quelli che in apparenza dovrebbero essere fratelli. Come ha scritto l'altro ieri Ernesto Galli della Loggia, nel mondo islamico, anche quello moderato che non si riconosce nelle tesi più radicali e nello Stato islamico, si fa molta fatica a condannare senza se e senza ma le fazioni più estremiste che si ispirano al Corano. A parte le dissociazioni post attentati, non esistono infatti prese di posizione nette contro gli integralisti. Ho provato anche a chiedere a Stefano Dambruoso, uno che da pm si è occupato di terrorismo, quante volte gli sia capitato di ricevere da appartenenti alla comunità islamica delle denunce contro persone sospette di predicare odio o di intrattenere rapporti con organizzazioni terroristiche. La risposta è stata: mai. A volte si ottiene qualche confidenza, nella speranza che si chiuda un occhio su altre faccende, ma vere e spontanee dichiarazioni all'autorità neppure il magistrato che per primo si è occupato di integralisti ne ha mai ottenute. E allora siamo sempre al punto di partenza: ci si indigna per un titolo che associa i terroristi e gli islamici, ma anche tra chi si dichiara moderato si fa poco o nulla per fermare i soggetti più pericolosi. Per certi versi par di vedere l'atteggiamento della sinistra ai tempi degli anni di piombo, quando qualcuno sosteneva che i brigatisti erano sedicenti. Vedrete, tra un po' ci diranno che anche quelli del Bataclan sono sedicenti islamici. Eh sì, sta a vedere che i jihadisti invece che figli di Maria sono figli della Cia.
Libero e Bastardi islamici, ecco cosa pensa Vittorio Feltri, scrive “Libero Quotidiano” il 19 novembre 2015. Nel lungo elenco di persone dotate di razionalità e onestà intellettuale che hanno difeso la scelta di Libero del titolo "Bastardi islamici" va doverosamente aggiunto il fondatore di questo quotidiano, Vittorio Feltri, che a Un giorno da pecora su Raidue ha prima ironizzato: "E come vogliamo chiamarli, discoli o birichini? Non credo sia esagerato definire bastardi i terroristi che hanno compiuto una strage come quella di Parigi". Poi Feltri ha spiegato: "Bisogna leggere oltre il significato delle parole: bastardi è un termine che si riferiva a tutti i terroristi, non a tutti gli islamici. Il titolo - ha aggiunto - si riferiva al fatto che i terroristi che hanno colpito in Francia non sono dei frati trappisti o degli scout, ma degli islamici". Feltri risponde anche alla provocazione della conduttrice Geppi Cucciari, quando chiede se in caso di attentati terroristi compiuti da italiani bisognerebbe fare un titolo "Bastardi cristiani". Feltri dice: "Se ci fossero dei terroristi cristiani che vanno in un Paese a compiere degli attentati, perché non definirli cristiani? Se lo facessero si potrebbe fare, ma non lo fanno, quindi non possiamo definire i cristiani terroristi. Mentre quelli a Parigi, guarda caso, sono islamici o islamisti".
Giorgia Meloni su “Libero Quotidiano” del 17 novembre 2015, perché difendo il titolo di Libero: dagli altri giornali l'Islam è sparito. "Caro direttore, leggo delle polemiche scatenate da "Bastardi islamici", titolo di apertura del suo giornale all' indomani degli attentati di Parigi. C' è chi è arrivato a chiedere le sue dimissioni, altri hanno paventato denunce. L' hanno insultata, chiesto la sua radiazione dall' ordine dei giornalisti, qualcuno ha addirittura invocato la galera. Ma sono la sola ad aver visto dietro quel titolo, che colpisce come un pugno perché appare come un insulto sfrontato, un significato molto più profondo di quello che gli è stato attribuito da chi si lascia condizionare dai pregiudizi della propria visione ideologica? Perché personalmente ho interpretato quel «bastardi» come illegittimi, fasulli, impostori: «Bastardi islamici» ovvero «Impostori islamici», islamici deviati. Un messaggio che addirittura potrebbe piacere ai fan del politicamente corretto. Per intenderci, se lo stesso titolo lo avesse pubblicato il manifesto gli stessi che oggi attaccano Libero starebbero plaudendo al genio comunicativo. A proposito del manifesto, titoli ad effetto come questo che colpiscono allo stomaco e costringono a riflettere, ne fa parecchi (il titolista non lo conosco ma è un genio vero). Mi viene in mente il titolo «Niente asilo» sopra la foto del piccolo Aylan, il bambino siriano morto sulle spiagge turche. Il messaggio era chiaro: gli è stato negato il diritto di asilo politico, e ora che è morto non potrà andare all' asilo come gli altri bambini. Nessuno è stato così idiota da credere che il manifesto stesse facendo sarcasmo o insultando un bambino morto. Lo stesso sforzo di perspicacia non guasterebbe anche per cercare di capire i titoli (choc) dei quotidiani vicini alla destra. E quindi, col solito anticonformismo che ci contraddistingue, le scrivo direttore per esprimere a lei e al suo giornale la nostra solidarietà. Piuttosto approfitterei per fare una riflessione su titoli e prime pagine di altri quotidiani, come ad esempio Repubblica: non troverete mai le parole «islam» e «musulmani», quasi che gli attacchi a Parigi fossero stati compiuti da indefiniti gruppi terroristici di matrice sconosciuta. Ma questa è un'altra storia (e un altro giornalismo). Giorgia Meloni
E LI CHIAMANO MODERATI...Islam, sondaggio tra i musulmani in Italia: il 20% non condanna la strage di Parigi, scrive “Libero Quotidiano" il 20 novembre 2015. Qual è la reazione dei musulmani (moderati) alla strage di matrice islamica di Parigi. Bruno Vespa oggi su Il Giorno illustra un sondaggio che ha mostrato a Porta a porta condotto da Ipr su un campione dei due milioni di musulmani residenti in italia (di cui 800mila ormai cittadini italiani). Di questi, l'80% condanna la strage di Parigi, il 12% la giustifica e l'8% dice di non avere una opinione in merito. Il 75% degli intervistati dice che i terroristi si comportano male, il 15% sostiene che sbagliano, ma li comprende e un 5% dice che agiscono bene, perché bisogna combattere la cultura occidentale. Secondo il sondaggio, un musulmano su 4 pensa che la colpa degli attacchi sia degli occidentali e meno della metà dice che si tratta di singoli terroristi che non hanno niente a che fare con la religione islamica. Il 40% ritiene che Francia sbaglia a reagire e ad attaccare militarmente "perché così si fomenta il terrorismo". Ma voi denuncereste un terrorista o qualcuno che lo favorisce? Il 70% risponde di sì. Quanto all'integrazione, il 25% non si sente parte del tessuto italiano, mentre la metà non ha alcuna intenzione di farlo.
Portavoce Ppe: "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Fratoianni: "Frase gravissima". L'articolo sul sito internet del Partito popolare europeo che attacca la sinistra. L'esponente di Sinistra Italiana contro le affermazioni di Monika Hohlmeier: "L'eurodeputata tedesca sfrutta le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei". Forenza (L'Altra Europa con Tsipras): "Ci aspettiamo delle scuse", scrive Monica Rubino su “La Repubblica” 19 novembre 2015. Sul sito del Partito popolare europeo, nella sezione "Comunicati stampa", c'è un articolo dal titolo "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Il pezzo riferisce che l'eurodeputata tedesca Monika Hohlmeier, coordinatrice del Comitato delle Libertà civili degli Affari Interni al Parlamento Europeo, ha criticato i colleghi di sinistra per il loro atteggiamento "lassista" nei confronti del terrorismo. Segue poi un virgolettato della Hohlmeier, che giustifica il titolo del comunicato: "Sembra che per i socialisti, i liberali, i verdi e i comunisti - sostiene l'esponente del Ppe - non ci sia nessuna lezione da trarre dagli attacchi di Parigi. Questi gruppi di sinistra invitano i terroristi a sfruttare le lacune della nostra legislazione sulla sicurezza al fine di perpetrare altri attentati". Per poi concludere: "Le buone intenzioni per prevenire il terrorismo non sono più sufficienti, è necessario cambiare le leggi". Il nesso stabilito dalla Hohlmeier fra i terroristi e il "lassismo della sinistra", come lei stessa dichiara, ha mandato su tutte le furie Sinistra Italiana, che interviene per bocca del deputato Nicola Fratoianni: "Trovo gravissime le affermazioni di Monika Hohlmeier - afferma l'esponente di SI - La deputata tedesca afferma senza vergogna che i terroristi voterebbero allegramente la sinistra, ed utilizza i morti e le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei, il respingimento dei profughi che scappano da Daesh, la chiusura delle frontiere. Esattamente le stesse posizioni che hanno i terroristi che insanguinano il Medioriente e le nostre città". "La destra estrema - prosegue il coordinatore di Sel - evidentemente ha fatto egemonia all’interno del Ppe. Quello che mi impressiona di più è quanto le posizioni della destra europea finiscano per fare il gioco dei terroristi, che nella loro agghiacciante propaganda scommettono proprio su questo: ridurci alle leggi speciali, alla paura, all’indifferenza verso chi soffre. I terroristi stanno già votando la destra estrema in Europa, a suon di morti e paura. Perchè odiano la democrazia. La signora Hohlmeier - conclude Fratoianni - farebbe bene a pensarci prima di parlare”. "Le parole della collega deputata europea Monika Hohlmeier – dichiara Eleonora Forenza, capodelegazione dell’Altra Europa con Tsipras al Parlamento europeo – sono inaccettabili. Da militante di sinistra ed europarlamentare del gruppo Gue/Ngl, voglio dire all’esponente popolare che noi siamo da sempre, e realmente, contro i terroristi, contro ogni forma di terrorismo: perchè lavoriamo per politiche di pace e giustizia sociale, difendiamo i diritti dei migranti, siamo contro chi usa la paura e l’odio per affermare la propria idea di società. Anche per queste ragioni ci opponiamo alle politiche della grande coalizione di cui fa parte il Ppe: fondare l’Europa sul neoliberismo e sulla solidarietà militare. Mi aspetto da Hohlmeier delle scuse per questa indecente dichiarazione, che strumentalizza in modo bieco e maldestro il dramma di Parigi".
Eppure…
Terrorismo, per Laura Boldrini l'Isis siamo noi: "Abbiamo seminato odio", scrive su “Libero Quotidiano” di Enrico Paoli il 19 novembre 2015. L’Europa parla di guerra, di attacco senza precedenti. Ed è un linguaggio che non è più isolato, fuori sincrono rispetto alle scene che ci passano davanti agli occhi nei telegiornali e nei servizi dedicati alla Francia. È semplicemente la dura realtà che i fatti di Parigi hanno messo al centro del dibattito politico di tutti i Paesi. Eppure l’illuminata e progressista presidentessa della Camera, Laura Boldrini, ha sentito ancora una volta l’urgenza, se non proprio l’impellenza, di marcare il proprio territorio, di mettersi fuori dal coro. Come se starci dentro fosse un problema, un neo da rimuovere. Quando il neo in questione, a dire il vero, è il fenomeno del terrorismo con tutte le sue complicazioni. Ma la Boldrini è così, un eterno salmone anche quando la storia richiederebbe ben altro. In una lunga intervista al settimanale L’Espresso, in edicola oggi, la terza carica dello Stato sostiene che la guerra all’Isis si combatte «con la politica», dialogando con gli attori in campo, esclusa ovviamente la stessa Isis». La presidente della Camera fa notare che «dopo cinque anni di guerra in Siria ci sono state 250mila vittime, oltre la metà della popolazione è fuori casa forzatamente», sostiene la Boldrini, «ci sono quattro milioni di profughi di cui due in Turchia». «La guerra è nefasta, crea odio e disfacimento», sostiene l’inquilina di Montecitorio, «abbiamo seminato odio, abbiamo creato contrapposizione. Abbiamo predicato lo scontro di civiltà, l’errore più grave di tutti. Ora proseguire su questa strada sarebbe miopia politica». Insomma, le forze della coalizione, la stessa Europa, l’America in particolare, avrebbero provocato il processo di reazione che si sta traducendo in atti terroristici, in stragi che colpiscono i civili nella loro quotidianità. La colpa è nostra, sembra essere la sintesi estrema del ragionamento fatto dalla Boldrini. Non solo. La presidente della Camera, sottolineando come la sua sia «una posizione realista, non buonista», rimarca il fatto di non essere mai stata «contro gli interventi militari a prescindere, mi è capitato anche di lavorare in situazioni in cui erano l’unico modo per fermare il massacro di civili innocenti. Ma bisogna evitare di creare odio su odio», sostiene la Boldrini, «fermarsi a riconsiderare gli strumenti con cui vogliamo combattere questa guerra. Tagliare i finanziamenti. Non comprare più il petrolio che arriva dai territori occupati dai tagliagole, un milione di dollari al giorno. Rafforzare l’intelligence: fare un salto nell’integrazione europea significa anche avere una sola politica di sicurezza e di difesa». Tutte belle ricette, tutte belle idee, ma che fanno drammaticamente a cazzotti con la realtà. Nel momento in cui prendi uno schiaffo, non puoi fermarti a chiedere perché, puoi solo reagire, con una forza simile se non addirittura superiore. Poi arriva il momento del dialogo, dunque della politica. Perché veniamo attaccati, perché hanno insanguinato Parigi è già passato. Le domande riguardano già il futuro. L’Europa, in questo momento non ha tutto questo tempo. Parigi ha dimostrato che siamo in una fase di emergenza. Soprattutto di carattere tecnico militare, inteso come sicurezza dei cittadini. E poi c’è il capitolo socio-economico, che la Boldrini ama in modo particolare. «I rifugiati sono le prime vittime del terrore. Chi vuole rimandarli indietro fa un regalo all’Is che si presenterebbe come l’unica protezione», sostiene la terza carica dello Stato, «chi dice che tutti i musulmani sono uguali consegna a poche migliaia di miliziani la rappresentanza di miliardi di persone. Una follia. Si pensa sempre che il nemico venga da fuori», fa notare la Boldrini, «invece è qui, in casa nostra. Le ricette semplici sono un inganno. E sono anche le meno efficaci. Perché il terrorismo è una minaccia globale, che colpisce ad ogni latitudine: a Parigi come a Beirut, ad Ankara come a Nairobi». Ecco, se le cose stanno esattamente così, è evidente la contraddizione in termini contenuta nel ragionamento della Boldrini, che spegne le ipotesi di risposta militare come soluzione ma parla di nemico già presente in casa nostra. Dobbiamo tenercelo? «Il governo ha finora tenuto una posizione ragionevole che condivido. Sulla lotta al terrorismo», ribadisce la Boldrini, «serve senso di responsabilità da parte di tutti». Già, la responsabilità. Noi riflettiamo, loro attaccano. Ancora.
Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. “Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta .– si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.
Il Movimento 5 Stelle, da sempre dalla parte del terrorismo, scrive “Il Corriere del Giorno” il 16 novembre 2015. Degli attivisti del Movimento5Stelle dal baso della loro evidente “ignoranza” ci accusano di percepire contributi dello Stato, quando in realtà chi viene retribuito con i soldi pubblici (ed altro che gli sbandierati e promessi 2.500 euro in campagna elettorale!) sono i loro deputati e consiglieri comunali e regionali, ed i loro “portaborse”, che spesso sono loro parenti diretti o indiretti! Ma questa volta vogliamo ricordarvi alcuni comportamenti dei loro rappresentanti nelle sedi istituzionali.
Era il 12 novembre 2013 e la deputata Emanuela Corda, esponente del Movimento 5 Stelle, non poteva trovare giorno migliore… per commemorare a modo suo, l’attentatore kamikaze che ha ucciso 19 Carabinieri a Nassiriya. Infatti quel giorno, 12 novembre, ricadeva il decennale di quella strage. Con squallido e volgare tempismo, l’onorevole “grillina” ha voluto spendere parole d’affetto e di comprensione nei confronti del giovane attentatore. Nel suo discorso, pronunciato davanti agli attoniti colleghi deputati, Emanuela Corda ha ricordato, dopo una doverosa introduzione in memoria dei 19 italiani e 9 iracheni uccisi: “Nessuno ricorda il giovane marocchino che si suicidò per portare a compimento quella strage. Quando si parla di lui se ne parla come di un assassino, e non anche come vittima, perché anch’egli fu vittima oltre che carnefice”. Parole squallide, allucinanti, quasi incredibili, cui la deputata grillina sembra porre rimedio: “Una ideologia criminale l’aveva convinto che quella strage fosse un gesto eroico e lo aveva mandato a morire“, ma l’apparente rinsavimento durò poco, perché Emanuela Corda continuò così: “e non è escluso che quel giovane come tanti kamikaze islamici fosse spinto dalla fame, dalla speranza che quel suo sacrificio sarebbe servito per far vivere meglio i suoi familiari, che spesso vengono risarciti per il sacrificio del loro caro“. Avete letto bene. Si lo ha giustificato in quanto “spinto dalla fame”. Come se per logica conseguenza si potesse uccidere per fame. Anche il giovane marocchino, ricordato “affettuosamente” dalla deputata grillini, è stato una vittima. Vero, è morto anch’egli nell’attentato. Ma ha scelto di uccidere 28 persone. Commemorarlo in un giorno come questo, in ricordo delle vittime di Nassiriya, appare tanto fuori luogo quanto di cattivo gusto. Ancor più in una istituzione come il Parlamento italiano. Cosa ne penseranno i delusi dalla politica, che votando Movimento 5 Stelle hanno contribuito a portare persone come Emanuela Corda in Parlamento?
Il 12 novembre 2014, l’anno successivo e questa volta, sempre in occasione della ricorrenza dell’anniversario di Nassirya, è stato un consigliere regionale (candidato Governatore) della Regione Lazio per il M5S, a manifestare la sua “vicinanza” ideologica al terrorismo. Infatti, durante il minuto di silenzio che il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Daniele Leodorifece osservare, tutti i consiglieri si sono alzati in piedi tranne quello del M5S, Davide Barillari. Il consigliere del Ncd, Giuseppe Cangemi, tra l’altro ex paracadutista, subito dopo gli si e” fatto sotto e stava per attaccarlo fisicamente se non fosse stato trattenuto da alcuni consiglieri, tra i quali Gino De Paolis di Sel e Daniele Mitolo di Per il Lazio. Barillari provo a replicare: “Vorrei alzarmi per ogni morto che abbiamo nel Lazio, in ogni scenario di lotta, comprese le morti bianche. Dovremmo alzarci continuamente. Semmai è questione di chiedersi perchè muoiono queste persone. Queste persone sono morte a causa di una guerra”. Le reazioni “Il consigliere Barillari si dovrebbe vergognare: rimanere seduto durante il minuto di silenzio per l’undicesimo anniversario della strage di Nassiriya e per la Giornata del ricordo dei caduti nelle missioni internazionali è una provocazione inaccettabile”. E’ quanto dichiarò Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. “Il consigliere grillino- aggiunse- ha oltraggiato la memoria dei militari che hanno perso la vita, dileggiato la sofferenza delle loro famiglie e offeso tutti gli italiani che si sono inchinati davanti alle bare dei nostri caduti a Nassiriya. Barillari dovrebbe chiedere scusa oppure dimettersi”. Lo sdegno nei confronti dell’esponente del M5S fu “bipartizan”. Marco Vincenzi, presidente del gruppo del Partito democratico al termine del minuto di silenzio per commemorare l’eccidio dei militari italiani a Nassiriya, dichiarò: “Il consigliere del M5SBarillari questa mattina si e” reso responsabile di un gesto grave che offende l’istituzione regionale, l’Italia e l’intera comunità internazionale. I nostri militari caduti a Nassiriya, e in altri teatri di guerra, erano in missione di pace, impegnati a difendere la popolazione civile. Strumentalizzare come ha fatto il consigliere Barillari, la barbarie di Nassiriya, rappresenta uno dei peggiori episodi per l’Aula consiliare della Regione Lazio che stigmatizzo e condanno con forza. Desidero esprimere, infine, a nome del gruppo del Partito democratico, solidarietà e vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per l’impegno quotidiano a difesa della pace nelle missioni internazionali”.
Era il 13 agosto 2014 ed i deputati “grillini” della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico. “Mogherini e Pinotti giocano a fare la guerra in Iraq senza aver consultato il Parlamento preventivamente. Si fermino e vengano a riferire in Aula prendendosi le loro responsabilità di fronte al Paese. Bombardamenti e forniture di armi non fanno altro che alimentare gli stessi fenomeni che si vogliono contrastare. Praticamente è come curare un diabetico con iniezioni di glucosio.” “Il duo Ue-Usa decide di bombardare per mettere pace, con la giustificazione che tutto ciò serva a prevenire il genocidio, mentre per uguali situazioni nel vicinissimo Medio oriente non si procede certo con misure analoghe – concludevano – Violenza genera violenza e l’articolo 11 della costituzione non è un optional.” Una posizione molto netta, ribadita anche dal capogruppo M5S in commissione Esteri alla Camera Manlio Di Stefano in un’intervista a La Stampa: “Noi occidentali abbiamo dato per scontato che la nostra fosse l’unica democrazia possibile. Affrontare le cause con rispetto significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono.” Di Stefano attaccò anche gli Stati Uniti e il loro “interventismo accanito contro alcuni territori e il totale oblio di altri territori” (il riferimento era alla Palestina, ndr). Come soluzione, propose “un intervento diplomatico forte”, o al massimo interventi di corpi non armati e interventi umanitari, invece dei “bombardamenti veri e propri” che “polarizzano ulteriormente le divisioni”. “Vero, sono terroristi – concludeva Di Stefano – Ma siamo sicuri che ogni terrorista morto non ne nascano altri cento? Quella provocazione del Califfato di arrivare fino a Roma significa questo: più voi intervenite, più noi reagiremo.” Solo pochi giorni prima Di Stefano era stato al centro di una polemica politica dopo aver attaccato Israele, definendo “genocidio” quello in atto in questi mesi a Gaza. Contro di lui si erano espressi portavoce delle comunità ebraiche e anche l’ambasciata d’Israele in Italia.
Era il 16 agosto 2014 ed un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, i cui proventi pubblicitari non entrano nelle casse del M5S ma del loro “padre-padrone-comico-guru”, il deputato Alessandro Di Battista scriveva: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione”. Non a caso in quei giorni i deputati grillini della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico invitando alla “calma” e al “rispetto” per capire “fenomeni radicali come Isis“, adesso è la volta di Di Battista che nel post pubblicato sul blog di Grillo scriveva: “L’obiettivo politico (parlo dell’obiettivo politico non delle assurde violenze commesse) dell’ISIS, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la I guerra mondiale, ha una sua logica“. Ma l’apice del lunghissimo post arrivava quando il grillino parlava del terrorismo: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore”, scriveva Di Battista. Non era la prima volta che il M5S difende le posizioni più estreme dell’Islam. Ancor prima di impegnarsi attivamente in politica Beppe Grillo, durante i suoi spettacoli, attaccava le politiche occidentali e giustificava quelle islamiche. Fino ad arrivare all’intervista del 2012 a un giornale israeliano in cui si prodigava in una strenua difesa dell’Iran di Ahmadinejad: “Quelli che scappano, sono oppositori. Ma chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all’estero. L’economia lì va bene, le persone lavorano. È come il Sudamerica: prima si stava molto peggio. Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati”. Non contento…. il deputato M5s disse la sua anche sull’11 settembre : “L’attentato alle Torri Gemelle fu una panacea per il grande capitale nordamericano. Forse anche a New York qualcuno “alle 3 e mezza di mattina rideva dentro il letto” come capitò a quelle merde dopo il terremoto a L’Aquila. Quei 3.000 morti americani vennero utilizzati come pretesto per attaccare l’Afghanistan, un paese con delle leggi antitetiche rispetto al nostro diritto ma che con il terrorismo internazionale non ha mai avuto a che fare”. Quelle parole di Di Battista riuscirono ad unire tutta la politica italiana, accomunata dallo sdegno: da Forza Italia al Partito Democratico, passando per l’Udc e Scelta Civica. Il coro fu unanime: “Siamo al game over per la credibilità e per il margine di tollerabilità del Movimento 5 Stelle” (Forza Italia). “Di Battista a ferragosto deve aver preso un brutto colpo di sole” (Italia dei Valori), “l’ignoranza di Di Battista fa pena” (Ncd). Ma questa volta, alla luce dell’attentato di Parigi, riecheggiano le parole di Di Battista. Ma cosa aspettarsi da uno che ha un padre che partecipando ad una manifestazione dei grillini, dichiarò: “Io di destra? Sono fascista, è un’altra cosa”. Ecco, cari lettori, da chi è composto il Movimento 5 Stelle. Con loro l’Italia ha definitivamente toccato il fondo.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 20 novembre 2015 umilia Vauro: "Coniglio e bastardo: ti spiego pure perché". Allora sei un bastardo anche tu, Vauro Senesi, e di che religione non importa, anzi sei un coniglio, un coniglio mannaro, uno che mette sullo stesso piano i lettori di Libero e i plauditori della strage di Parigi, uno che ha trovato la soluzione allo scontro di civiltà, e cioè questa: arrestare Maurizio Belpietro e le sue sporche truppe. Ma prego, Vauro, a te la parola, come hai fatto nella mattinata di ieri nel vacuo parolaio che è L' aria che tira su La7: avevano appena trasmesso un servizio su un islamico di Catania (uno tutto contento per i morti di Parigi) e poi eccoti: «Sono il primo a condannare il pazzo che a Catania dice quelle cose, però...». C' è un però: «Quando quel pazzo lì sarà arrestato, perché è un fomentatore di odio, ma allora: il signor Belpietro? Quando lo arrestiamo il signor Belpietro, che scrive un titolone così "Bastardi islamici?"». Perché, che ha fatto in concreto Belpietro? «Il signor Belpietro mette a rischio la mia sicurezza, e la sicurezza di ognuno di noi, perché al pari - che non è al pari, perché quello è un poveraccio ignorante, mentre il signor Belpietro dovrebbe essere un intellettuale (voci che si sovrappongono, ndr) ... è criminale, mette in pericolo la vita dei nostri figli, perché se domani un cretino fomentato dal titolo di Belpietro prende a accoltella il primo che incontra... (voci che si sovrappongono, ndr) ... la paura che ho, è che quelli che ci dovrebbero difendere dal terrorismo sono gli stessi che hanno creato il terrorismo». Riassunto: il terrorismo l'ha creato Belpietro o quelli come lui, il quale, non pago, vuole altro sangue e allora aizza gli islamici col titolo «Bastardi islamici» dopo che degli islamici (bastardi) hanno fatto a pezzi dei civili; Belpietro dunque mette in pericolo i figli di Vauro e tutti gli altri. Parentesi: è record, perché l'altro giorno Giafar al Siqilli (come si è ribattezzato ridicolmente Pietrangelo Buttafuoco) aveva scritto sul Fatto che «se il musulmano è un bastardo, un coltello prima o poi se lo ritrova», ora invece arriva Vauro e aggiunge che lo stesso titolo «mette in pericolo la vita dei nostri figli». Insomma, con un solo titolo fai fuori tutti. Ecco spiegata vignetta che Vauro ha piazzato in prima pagina sul Fatto di lunedì: la scritta «Il sangue non si è ancora asciugato» e Belpietro e Salvini che dicono «possiamo sguazzarci». Ma dicevamo de La7 e de L' aria che tira: nel bailamme a quel punto interveniva la conduttrice Myrta Merlino (le cui pettinature sono l'unica giustificazione all' esistenza dell'Isis) e con vacuo cerchiobottismo cercava di sedare: «Belpietro ha fatto un titolo sbagliato, ma...». Ma. Però. Tuttavia. È anche vero che. Insomma, povero Vauro, forse no, forse non sei un bastardo: mettere sullo stesso piano Libero e gli assassini di Parigi è da bastardi e basta, ma è solo che hai una fottuta paura. Ce l'avevi nel 2006, quando attaccasti le vignette danesi anti-Maometto perché, detto con parole tue, «messaggi violenti provocano reazioni violente». Poi però andasti da Santoro con la maglietta di solidarietà, che nel tuo caso avrebbe dovuto essere: «Siano tutti Charlie, da oggi». E poi via, al calduccio a fare vignette su Berlusconi e su Renzi. Ti teneva compagnia Maurizio Crozza, secondo il quale era meglio sfottere il Papa o Bush «perché loro influenzano il nostro modo di vivere». I bastardi musulmani, in effetti, influenzano il nostro modo di morire.
Niente Adeste Fideles a scuola: "È troppo cristiana". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie, scrive Mario Valenza Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Il brano della tradizione natalizia “Adeste fideles”? "Troppo cristiano, non si può suonare". La pensa così, almeno, il dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo di Casazza, la professoressa Maria Antonia Savio, che, nell’imminenza del consueto appuntamento annuale della festa della scuola, ha fatto pervenire i suoi rilievi al Corpo parrocchiale musicale che sarà protagonista dell’appuntamento, riservato ai ragazzi e alle loro famiglie. Una presa di posizione, quella della preside, che naturalmente non ha mancato di suscitare polemiche nel paese bergamasco. "Cosa significa “troppo cristiano”?", sbotta qualche anziano nella piazza all’ombra del campanile della chiesa. "Dovremo forse chiedere il permesso a qualcuno per intonare i nostri canti di Natale? E un concerto di Natale se non è cristiano cosa è?". Secondo la dirigente Savio, bisogna attingere a un repertorio meno legato alla sensibilità cristiana, visto che l’istituto è frequentato anche da figli di immigrati. Una spiegazione che tuttavia appare poco convincente. Così come la preside appare più realista del re, visto che nessuno tra le famiglie degliu alunni aveva sollevato il problema. "Ci è stato fatto presente - dice Silvia Micheli, 28enne componente del consiglio direttivo della banda al Giorno - che, siccome Casazza è un paese multiculturale, occorre non urtare la sensibilità di nessuno. La richiesta ci ha un po’ sorpresi perché noi siamo una banda parrocchiale. In ogni caso, essendo ospiti, abbiamo deciso, senza polemica, di optare per “Jingle bell rock”, meno connotato". Infine il consigliere regionale della Lega Nord, Silvana Santisi Saita, ha subito rilanciato la notizia sulla propria pagina Facebook rilevando che "La scuola, che dovrebbe formare e integrare, dopo il Presepe adesso censura anche la musica".
Altro che corano: citiamo il Padre Nostro. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità, scrive Alessandro Sallusti Sabato 21/11/2015 su "Il Giornale". E tre. Dopo l'aereo russo e la notte di Parigi, lo stragismo islamico fa tappa in Africa, a Bamako, capitale del Mali. Nel grande hotel degli occidentali si contano i morti e in Europa si rinnova la falsa indignazione di chi a parole fa il duro ma in realtà si tiene ben alla larga dall'affrontare il nemico come si dovrebbe in una situazione come quella che stiamo vivendo. Fa paura pensare che una religione dichiari guerra agli infedeli, ma - coerentemente con quanto scritto nel Corano - è esattamente quello che sta accadendo. Che non si tratti di tutto l'islam o solo di una parte, non so quanto minoritaria, è rebus che lasciamo agli esperti di statistica. Perché, per quanto riguarda la sostanza, i fatti parlano sempre più chiaro. Ieri a Bamako è successo che i terroristi hanno sottoposto 170 ostaggi all'esame di Corano: chi sapeva recitare i versetti del profeta ha avuto salva la vita, chi no è finito nella lista dei condannati a morte. In questa tragedia c'è una beffa atroce, perché se i terroristi islamici avessero voluto - per paradosso - graziare anche i conoscitori dei vangeli, credo che in pochi l'avrebbero scampata, tanta è l'ignoranza di un Occidente che si è voluto auto-scristianizzare in nome del multiculturalismo, fenomeno bello in astratto ma, nei fatti, bomba (in tutti i sensi) pronta a esplodere quando meno te lo aspetti, come infatti sta accadendo. Non parlo della mancanza di fede, che è fatto personale. Parlo della consapevolezza della storia che ci ha generato, che invece dovrebbe essere patrimonio collettivo e collante di civiltà. A un terrorista islamico che puntandoti il mitra ordina di recitare versetti coranici, chiunque di noi, laico o fedele che sia, dovrebbe rispondere con le parole del Padre Nostro, che è preghiera di libertà e carità. Se non altro per dimostrare a questa gentaglia «come muore un occidentale» o «come muore un cristiano», sulla scia della celebre frase pronunciata in faccia al boia da Fabrizio Quattrocchi durante la guerra in Irak. Ma forse è chiedere troppo. In un Paese dove Laura Boldrini è presidente della Camera non è tempo di eroi, è il tempo di coccole per i 200mila immigrati islamici «moderati» che in cuor loro tifano Isis. Che brutti tempi.
In Europa crescono i crimini legati all'odio contro i cristiani. È questo uno dei trend che emerge dai dati sugli "hate crimes" diffusi dall'Osce/Odihr per l'anno 2014: in Europa sempre più spesso ad essere colpiti da questo tipo di crimini sono gli appartenenti alla maggioranza della comunità, scrive Alessandra Benignetti Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Chi lo ha detto che sono solo le minoranze ad essere perseguitate? Dal rapporto dell’OSCE/ODIHR, che qualche giorno fa ha reso pubblici i dati del 2014 sui cosiddetti“hate crimes” in 46 paesi del mondo, compresa l’Italia, emerge un quadro ben diverso. Uno dei dati più interessanti di questo rapporto infatti, che ogni anno raccoglie dati sugli "hate crimes", ovvero quei crimini contro persone o beni che sono motivati da un pregiudizio o discriminazione, è infatti quello sui crimini contro i cristiani negli stessi Stati europei. Questo trend è evidenziato dai dati collezionati dall’Osce attraverso un duplice sistema di raccolta informazioni, che coinvolge, da un lato i punti di contatto nazionali ufficiali di 43 Paesi, e dall’altro le segnalazioni di 122 ONG legate alla società civile. Secondo i dati forniti da questi diversi attori, si evince che almeno in tre grandi Stati dell'Europa occidentale, come Francia, Germania ed Italia, le aggressioni fisiche e materiali con alla base pregiudizi contro la fede cristiana, supererebbero in certi casi sia quelle nei confronti di altri gruppi religiosi, sia quelle derivanti da pregiudizi di altra natura. In Italia, infatti, nel 2014 gli “hate crimes” a sfondo religioso, anche contro i Cristiani, vengono subito dopo quelli legati alla xenofobia. A confermare questo trend si aggiungono anche i dati che riguardano, ad esempio, gli “hate crimes” in Francia nell’anno 2013, dove si sono registrati 602 casi di crimini motivati da pregiudizio contro i Cristiani, tra cui 197 casi di profanazione di cimiteri e 405 casi di danneggiamento di chiese. Nello stesso anno in Francia, “solo” 301 sono stati invece, secondo l’Osce/Odihr, gli “hate crimes” contro i musulmani. Anche i dati che riguardano la Germania per il 2014 riportano centinaia di casi di violenza nei luoghi di preghiera, nelle chiese, la profanazione di un cimitero e, nel 2013, anche alcuni casi di aggressione fisica. "Benché i dati pubblicati dall'OSCE/ODIHR siano tra i più completi a livello internazionale, certamente vi è un ampio numero oscuro di “hate crimes” non registrati”, ha commentato Mattia Ferrero, delegato per le attività internazionali dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, sentito al telefono da ilGiornale.it, “tuttavia, è possibile svolgere alcune considerazioni sui trend riscontrabili”. “Uno degli aspetti di maggiore interesse consiste nel fatto che gli “hate crimes” colpiscono tanto le minoranze, quanto le maggioranze. In particolare, gli “hate crimes” contro i Cristiani, anche e soprattutto nell'Europa occidentale, rappresentano un numero molto significativo, comparabile, se non superiore in alcuni casi, a quelli nei confronti di altre comunità religiose” continua l’avvocato Ferrero, “in secondo luogo, essendo gli “hate crimes” motivati da odio religioso, principalmente degli atti di violenza contro luoghi di culto e non violenze contro le persone, le vittime e le autorità sono portati a sottovalutarli, ed è quindi necessario aumentare l'attenzione, sia a livello politico e di opinione pubblica, sia da parte delle autorità, verso gli “hate crime” anticristiani”. Inoltre il delegato dell’Unione Giuristi Cattolici ha sottolineato come occorra “valutare con molta attenzione gli "hate crimes" più ricorrenti, ovvero quelli motivati da odio etnico, razziale, nazionalistico e religioso, perché si tratta di fenomeni che sono in grado di portare ad un escalation di violenza a livello interno ed internazionale”. “La prevenzione di conflitti ed instabilità dell'area europea passa anche attraverso la prevenzione e lotta di questo tipo di hate crimes" ha affermato l’avvocato. Un altro trend che emerge dai dati del report, è quello che vede, in quasi tutti i Paesi esaminati, i casi di hate crimes contro persone LGBT, sottostare in valore numerico ai casi di violenza motivati da odio etnico e religioso, che sono invece predominanti. È quanto ha evidenziato in una nota stampa l’associazione Pro Vita Onlus, tramite il portavoce dell’associazione Alessandro Fiore. “Alcune associazioni e molti organi di stampa presentano il fenomeno dei crimini d'odio contro persone LGBT come un'assoluta emergenza nazionale, i dati oggettivi a nostra disposizione ci restituiscono un quadro diverso”, ha dichiarato il portavoce. Come ha affermato l’Osce nella decisione di Atene n.9 del 2009, quindi, anche gli individui appartenenti alla maggioranza della comunità possono essere vittime di “hate crimes”, ed è importante per questo, si legge nella decisione della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, contrastare i crimini di odio a tutti i livelli. Sono soprattutto questo tipo di crimini spesso, infatti, a minacciare la “sicurezza dei singoli e la coesione sociale”, fino a sfociare in “conflitti e violenza su larga scala”.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 21 novembre 2015 umilia Antonio Di Pietro: ecco la prova, parla arabo. Islam moderato, titoli moderati: trovare un linguaggio comune è la cosa più importante. Chi meglio di Antonio Di Pietro? Ecco il suo contributo (iperstestuale) espresso ieri mattina a «Coffee Break», su La7: «Guardi, si fa presto a riempirsi la bocca... ehm... di... ergh... agenti segreti, la sicurezza, la la... il controllo del territorio... tra i dire e il fare non è mica facile, eh, perché prendi case di questo genere, per poi accorgersi semplicemente quando è già fatta la frittata, non è facile andare all’interno... ma prevenire: bisogna prevenire, ma bisogna anche avere il senso del... ergh... la responsabilità di dire fino a che punto è possibile, ecco perché io ritengo, quel che sta succedendo, che succederà questa manifestazione che fanno... Ergh… domani, sia importante per un motivo molto semplice: perché deve far capire al popolo italiano che... l’islam è una cosa... bh... è una cosa, ebeh... l’Isis è un’altra, che... ergh... la religione musulmana è una cosa, che coloro che... usz.. zhezhe... si riempono la bocca di questa parola ma che in realtà... ergh... sono problemi psichiatrici, sono problemi mentali, sono problemi che... per risolverli bisogna semplicemente isolarli e cercare che qualcuno dica di chi li conosce, di chi ha rapporti con lui, ci dica qualchecosa. Ecco perché sotto questo aspetto io ritengo che il messaggio che viene mandato in questo momento dalle istituzioni, anche dal governo Renzi che io ho sempre contrastato con tante altre (incomprensibile) sia un messaggio corretto... in questo momento dobbiamo stare tutti uniti. Questo momento cominciare a fare polemica quello non va bene quello non va bene quello non va bene, serve semplicemente a creare confusione... il... quel che a me preoccupa qual è? È il proselitismo... quel che a me preoccupa è che ci sono menti malate che vedendo tutto quel che sta vedendo, lo voglio fare anch’io, lo voglio fare anch’io. Perché viene in mente a fare tutto questo. Ecco, in questo senso che cosa può avvenire? Il controllo del territorio siamo innanzitutto noi stessi, senza stare seduto sulla sedia e pensare: perché quello non ha fatto quello? Ma mica è Mandrake, il poliziotto, bisogna che qualcuno glielo dico, e allora quando succedono queste cose, come quelle che avete visto adesso in questa ragazza, sicuramente, nel suo entourage, nel suo ambiente, nel suo territorio, tante persone hanno capite che qualcosa non andava, e allora facciamo una cosa: d’ora in poi ogni volta che capiamo qualcosa che non va, meglio una una segnalazione in più, magari sbagliata... non chiudiamoci... perché i migliori agenti in sicurezza di noi stessi siamo noi stessi. Dobbiamo essere tutti partecipi tutti insieme. Io mi metto a dire male del governo Renzi perché poteva mettere più poliziotti: ma se ci stai pure tu a vederle e segnala il fatto, no?». Così disse il noto moderato Antonio Di Pietro: perché trovare un linguaggio comune - tra l’italiano e l’arabo - è la cosa più importante.
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
Il Politicamente corretto ha ucciso la cultura occidentale, scrive Francesco Giubilei su "Il Giornale il 13 novembre 2015. Uno dei principali mali della nostra società – forse il più profondo e grave perché subdolo, ramificato e stratificato – è il politicamente corretto. Una vera e propria dittatura – come recita il sottotitolo del libro di Annalisa Chirico che tratta di tutt’altro argomento “contro la dittatura del politicamente corretto” – che è diventata ancor più evidente con il web. Perché in una società di tuttologi, di esperti in ogni settore dello scibile umano, in un bar sport a cielo aperto come è diventata la società del XXI secolo, avere posizioni che contrastano il pensiero comune non è ormai più concesso, in barba alla democrazia. Criticare la visione della massa porta ad essere tacciati come snob o, peggio ancora, con un paradosso che stento a comprendere, di essere antidemocratici. Perché sostenendo posizioni scomode o non omologate, si offende l’altrui libertà. Così non è più possibile pubblicare sui social la foto di una cena a base di maialino arrosto perché si offende la sensibilità dei vegani, non si può più pubblicare un crocifisso perché si è irrispettosi verso le altre religioni. Il risultato è quello di annichilire la nostra storia, le nostre tradizioni e la nostra cultura, creando una società senza valori e identità e quindi senz’anima. Proprio in questi giorni sono avvenuti due episodi in tal senso sconcertanti, uno negli Stati Uniti e uno nel nostro paese. La celebre catena di caffetterie Starbucks ha deciso di eliminare la scritta “Merry Christmas” dalle tazze di Natale per rispettare le altre credenze religiose. Mi chiedo a questo punto quale sia l’utilità delle tazze natalizie se non si celebra il Natale, ah già il denaro… L’episodio accaduto a Firenze è invece ancor più grave e preoccupante: “le crocifissioni di Chagall e Guttuso, la pietà di Van Gogh, la via crucis di Fontana potrebbero urtare <la sensibilità delle famiglie non cattoliche>, e per questo le terze classi dell’elementare Matteotti di Firenze non andranno a visitare la mostra dove queste opere sono esposte, cioè la ‘Bellezza Divina’ a Palazzo Strozzi”, scrivono Adinolfi e Bocci su la Repubblica. Siamo giunti al punto che anche le opere d’arte di alcuni dei principali artisti al mondo possono urtare la sensibilità dei credenti di altre religioni, non resta che abbattere chiese e monumenti per evitare che possano creare fastidi e malumori.
Firenze, la mostra con le tele di Chagall e Van Gogh vietata ai bimbi della scuola: "Urta i non cattolici". I genitori contro la scelta del consiglio interclasse delle terze elementari dell'istituto Matteotti di fermare la gita all'esposizione "Divina Bellezza" sul rapporto tra arte e sacro. Il preside: "Nessun motivo religioso, la programmazione è ancora in corso". Inviato un ispettore del Miur, scrivono Gerardo Adinolfi e Valeria Strambi il 12 novembre 2015La Crocifissione bianca di Chagall, il quadro preferito da Papa Francesco che per l'occasione della sua visita a Firenze era stato spostato da Palazzo Strozzi al Battistero, non potrà essere visitato dagli alunni della terza elementare della scuola Matteotti del capoluogo toscano. E così neanche la Pietà di Van Gogh, la Crocifissione di Guttuso, l'Angelus di Millet e le altre cento opere della mostra Divina Bellezza. Ai bambini dell'istituto così non sarebbe concesso di conoscere le sculture di Fontana, ma anche i quadri di Munch, Picasso, Matisse che, nell'esposizione fiorentina, riflettono sul rapporto tra arte e sacro avendo come filo conduttore proprio il tema della religione. La gita per gli alunni del Matteotti è vietata. Il motivo? "La visita è stata annullata per tutte le terze per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra", si legge, secondo quanto riporta il quotidiano La Nazione, dal verbale della riunione del consiglio interclasse dello scorso 9 novembre redatto da un rappresentante di classe e distribuito a tutti i genitori. Con le proteste partite proprio da molte famiglie arrabbiate dalla decisione: "I nostri figli non potranno più studiare storia dell'arte, basata proprio sull'arte sacra? - si sono chiesti i genitori contrari al divieto - siamo a Firenze, vedremo quindi negare le gite a Santa Croce, in Duomo e agli Uffizi perché ci sono figure sacre?". Domande poste anche al preside dell'Istituto Alessandro Bussotti che però ribatte alle accuse e spiega: "La visita non è stata annullata perché nessuna visita era precedentemente stabilita, la programmazione è ancora in corso e non è detto che non si faccia. Una classe delle medie dell'Istituto comprensivo la farà. Se gli insegnanti nella programmazione avevano deciso di non farla sicuramente non è stata per motivazioni religiose. Tutti indipendentemente dalla fede devono poter godere delle bellezze dell'arte". Ribattono anche gli insegnanti delle terze del Matteotti: “L’inclusione, o meno, di visite a mostre o musei non ha motivazioni di ordine religioso, ma esclusivamente di natura didattica, nell’ambito dell’attività di progettazione, che è propria della libera espressione dell’attività docente, in relazione all’efficacia della ricaduta sul processo di apprendimento degli allievi.” Cosa sia successo nel consiglio di interclasse spetterà dunque scoprirlo ad un ispettore del Miur che arriverà forse già domani da Roma alla scuola elementare di viale Morgagni per fare luce sul caso. A confermare l'ispezione è stato il direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale della Toscana Domenico Petruzzo. "Stamani - ha affermato Petruzzo - ci siamo sentiti con l'ispettore" che arriverà alla scuola "al più presto, forse domani". "Dobbiamo vigilare e avere cognizione del caso in modo preciso" ha continuato il direttore dell'Usr Toscana, spiegando che "occorre riserbo" fino a che non saranno "accertate con precisione le cose come stanno". Al termine degli accertamenti, ha detto ancora, "saranno prese le misure per le responsabilità che ci sono". Di sicuro c'è che quelle tre righe in uno dei quattro verbali sono state scritte, e diffuse tra i genitori. Se è vero che una scuola fiorentina ha annullato la visita degli alunni ad una delle più belle mostre fiorentine di arte sacra degli ultimi anni 'per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche' saremmo davanti ad un fatto quantomeno insensato. Non solo perché siamo da sempre la città del dialogo interreligioso, ma anche perché sarebbe un errore grossolano escludere dalle scuole la fruizione del nostro patrimonio di storia e cultura che comprende oggettivamente anche l'arte sacra, che per forza di cose da noi è arte cristiana", ha detto il sindaco di Firenze Dario Nardella. "Senza togliere che alla mostra "Bellezza divina", accolta in Palazzo Strozzi vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo... ma a cosa pensano certi insegnanti? - va avanti il sindaco - Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?". Forza Italia parla invece di "Follia ideologica" mentre la Lega Nord ha organizzato una protesta pacifica all'esterno della struttura per la prossima settimana.
L'ARTE SACRA VIETATA A SCUOLA: LA STUPIDITÀ DI UN DIVIETO. Alla scuola elementare Matteotti di Firenze è stato deciso di non far visitare la mostra “Bellezza Divina” in corso a Palazzo Strozzi con opere di Van Gogh, Guttuso, Matisse, Picasso e la celebre Crocifissione Bianca di Chagall per non urtare la sensibilità dei non cattolici visto il tema religioso. Allora si dovrebbero eliminare tutte le gite ai musei italiani ed europei e togliere la storia dell’arte dai programmi, scrive Antonio Sanfrancesco il 12 novembre 2015 su “Famiglia Cristiana”. Quando l’ideologia, unita alla mancanza di buonsenso, entra nelle scuole accadono cose assurde. È il caso della scuola elementare Matteotti di Firenze dove il consiglio interclasse del 9 novembre scorso, come riferisce La Nazione, ha deciso di annullare per tutte le classi terze della scuola la visita già programmata alla mostra “Bellezza Divina” allestita a Palazzo Strozzi. Il motivo? «Per venire incontro alla sensibilità delle famiglie non cattoliche visto il tema religioso della mostra», recita il verbale della riunione redatto da un rappresentante di classe. Nell'esposizione si possono ammirare oltre cento opere di celebri artisti italiani che vanno da metà Ottocento al Novecento tra cui capolavori famosissimi come l’Angelus di Jean-François Millet, eccezionale prestito dal Musée d’Orsay di Parigi, la Pietà di Vincent van Gogh dei Musei Vaticani, laCrocifissione di Renato Guttuso delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, laCrocifissione bianca di Marc Chagall, proveniente dall’Art Institute di Chicago. Più altre opere di artisti del calibro di Gaetano Previati, Felice Casorati, Gino Severini, Renato Guttuso, Lucio Fontana,Pablo Picasso, Max Ernst, Stanley Spencer, Georges Rouault, Henri Matisse. I non cattolici potrebbero aversene a male, e quindi meglio non far conoscere nulla ai ragazzi. In base a questo scellerato principio, anche la storia dell’arte dovrebbe essere bandita dai programmi scolastici visto che la stragrande maggioranza di essa è sacra e ha per tema la religione cristiana. A scuola non si dovrebbe studiare la Commedia di Dante e – per restare a Firenze – dovrebbero essere abolite anche le gite in Duomo, in Santa Croce o gli Uffizi dove le immagini sacre di certo non mancano. Se così fosse, i cristiani che vanno a Istanbul non potrebbero visitare la Moschea Blu o ammirare un tempio induista in India. Il preside dell’Istituto, Alessandro Bussotti, ha fatto sapere che non era presente alla riunione spiegando che «l’eventuale esclusione della visita non ha motivazioni religiose e non è escluso che la mostra possa essere reinserita nei programmi didattici se non di tutte, almeno di alcune classi». A completare il quadro di una vicenda inquietante e grottesca insieme c’è il commento, di assoluto buonsenso, dell’imam di Firenze, Izzedin Elzir, che ha detto che andrà a vedere la mostra e che il Crocifisso «non offende nessuno ed è il simbolo di una fede religiosa che rispettiamo». Di scelta «insensata» parla il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Alla mostra», ha scritto in un post su Facebook, «vi sono mirabili pitture del grande Chagall che proprio cattolico non è! A volte mi chiedo...ma a cosa pensano certi insegnanti? Forse che io, cattolico, non possa fare una gita ad Istanbul o a Tel Aviv perché queste città ferirebbero il mio credo?».
Il direttore del museo: "Vietare la mostra? All'estero non sarebbe mai successo". Arturo Galansino, direttore generale di Palazzo Strozzi: "Quando l'ho saputo sono rimasto interdetto. Vieteranno anche i lavori di Michelangelo e Leonardo perché trattano di arte sacra?", scrive Giovanni Masini Venerdì 13/11/2015 su "Il Giornale”. Quando lo raggiungo al telefono, Arturo Galansino sembra più divertito che altro. Il giovane direttore generale di Palazzo Strozzi, fresco di nomina (è a Firenze da marzo, in precedenza aveva lavorato a Louvre e National Gallery, ndr), non si capacita della bufera che si è scatenata dopo che a una scolaresca fiorentina è stato vietato di visitare la mostra sull'arte sacra allestita proprio nel suo museo per "non offendere i bimbi non cattolici".
D'altronde il politicamente corretto è eccepito solo alla controparte politica.
Cristo nell'urina: l'opera scandalo patrocinata dalla regione Toscana. L'opera di Andres Serrano verrà esposta al Photolux Festival di Lucca e ritrae un crocifisso in un bicchiere di urina. L'ira della Lega Nord, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Un crocifisso, simbolo non solo di una religione ma anche della cultura italiana ed europea, immersa nell'urina. Chiamatela pure arte. Ma blasfema. Al Photolux Festival di Lucca, dal 21 novembre al 13 dicembre prossimi, verrà esposta "Piss Chirst", una fotografia realizzata da Andres Serrano, fotografo statunitense, che ha immortalato un crocifisso immerso in un bicchiere pieno della sua urina. Sono anni che l'opera crea scandalo. Succede dalla sua prima esposizione nel lontano 1987 negli Usa. In quel caso due senatori repubblicani portarono il caso anche in Parlamento. Da noi, invece, il Pd ha deciso addirittura di patrocinare la mostra in cui verrà esposta. Il simbolo della regione Toscana, infatti, campeggia su volantini e sul sito della mostra internazionale di di fotografia. A denunciare il fatto sono stati due esponenti locali leghisti in una nota: "È inammissibile - affermano i consiglieri regionali Manuel Vescovi ed Elisa Montemagni - che si sostengano iniziative di questo genere, dove vengono esposte opere che offendono pesantemente il cristianesimo. Un'opera che umilia Cristo e rende omaggio all'Islam". Gli esponenti leghisti annunciano che durante il festival "organizzeranno un presidio davanti alla sede della mostra per esprimere il nostro totale dissenso. Invitiamo i cittadini toscani ad unirsi a noi in questa forma di pacifica protesta che vuole difendere le nostre profonde radici cristiane". Secondo il direttore del festival, Enrico Stefanelli, invece, l'opera ha pieno diritto ad essere esposta. "Lo spirito del festival - ha detto - è quello dell'equilibrio in un contesto di libertà". "Quell'opera - continua - non è nata come un oltraggio o una contestazione del Cristo, quanto piuttosto della mercificazione delle immagini. Poi dobbiamo collocarla nel periodo storico in cui è stata realizzata, negli anni '80". Sarà. Ma mentre il crocifisso nell'urina merita di essere visto e pubblicizzato, solo ieri in una scuola di Firenze ad alcuni bambini è stata vietata la mostra con dipinti raffiguranti il Cristo perché i crocifissi "urtano i non cattolici". Allora facciamo una proposta: si annulli anche questa che urta i cattolici. Anche se già sappiamo che i buonisti ci diranno di no ed utilizzeranno i soliti due pesi e due misure. Le ragioni dei cattolici, per loro, non hanno ragione d'esistere.
Al contrario.
“Carabiniere spara”: la canzone controcorrente indigesta ai buonisti. Il singolo di Matteo Greco in difesa del diritto delle forze dell'ordine di sparare per fare il loro lavoro è stata sommersa dagli insulti della sinistra, scrive Giuseppe De Lorenzo Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. “Mi sento un cantautore controcorrente. So bene che questo non mi renderà famoso. Ma non importa”. Matteo Greco non ne è irritato. La sua canzone “Carabiniere spara” ha provocato reazioni stizzite dalla maggioranza degli ascoltatori. “Perbenisti”, li chiama lui. Ma se ne farà una ragione: sa bene che il successo è più facile con un testo buonista, piuttosto che di buonsenso. L’ultimo singolo del cantautore di Falconara Marittima è diventato famoso, suo malgrado, per la quantità di insulti ricevuti. Il motivo è tutto - o quasi - nel titolo: “Carabiniere spara”. Spara ai ladri che rendono impossibile la vita nelle città. Spara (metaforicamente) al governo che non fa nulla per cambiare le cose. E così è stato messo all’indice dalle varie sinistre, culturali e non. Gli hanno dato del razzista, istigatore d’odio e c’è anche chi ha avanzato denuncia alla procura della Repubblica per apologia di reato. La canzone, la cui musica può piacere o meno, lancia un messaggio semplice su sicurezza e immigrazione. “La cittadinanza non si può regalare - afferma Greco - bisogna conquistarsela. Per ridurre la criminalità è necessario gestire l’immigrazione con maggiore intelligenza”. Concetto reso chiaro sin dalla prima strofa: “Spiegami cosa ci fa un uomo con machete in mano, nessuno che lo può fermare, nessuno che gli può sparare”.
Da cosa nasce questa canzone?
“Da due casi di cronaca. Quello di Milano, quando Kabobo ha creato il panico con il suo machete. E la vicenda molto simile di Jesi, dove un ragazzo sfondò la vetrina di un negozio, prese due machete e si mise a camminare per tutto il centro storico. Venne fermato da un carabiniere - quello della canzone - che aveva la pistola in mano, ma non sparò”.
A lui rivolgi un complimento: “Tanto onore a te”. Perché allora il titolo della canzone sembra biasimare la scelta di non aver aperto il fuoco?
“Bisogna partire dal principio. Una cosa simile non dovrebbe succedere: il poliziotto non dovrebbe essere messo nelle condizioni di usare le armi. Questo è (sarebbe) il ruolo dello Stato, che però non sta assolvendo al suo compito”. Ma quel carabiniere avrebbe dovuto sparare, sì o no? “Cristianamente dico che una vita risparmiata è sempre una vittoria. Il gesto che io richiamo nella canzone, “Carabiniere spara”, più che una richiesta è un avvertimento. Se non verranno trovate delle soluzioni, se i cittadini continueranno a sentirsi insicuri, saranno costretti a farsi giustizia da soli. Il mio grido è un allarme: bisogna permettere alle forze dell’ordine di fare il loro mestiere”.
Le forze dell’ordine si sentono frustrate dall’impossibilità di garantire la sicurezza dei cittadini.
“Sono anni che sento poliziotti e carabinieri lamentarsi di essere in trincea con mezzi insufficienti. Agenti che perdono un’intera giornata a identificare un malvivente, che rischiano la vita per arrestarlo e poi lo vedono il giorno dopo fuori di prigione. Inutile lamentarsi poi delle città insicure”.
Te la prendi anche con il governo “che non dice niente”.
“Il Governo è colpevole di non aver messo al primo posto la sicurezza e la tutela della vita dei cittadini. Sembra essere distante dalla vita reale, è percepito assente”.
Perché i “buonisti”, come li chiami tu, ti hanno criticato così tanto?
“La gente non ragiona. Preferisce stare con gli occhi bendati e coccolarsi nei bei pensieri buonisti. Bisogna invece essere razionali. Parlare di difesa significa focalizzarsi sulla vita di una persona. Pensiamo agli anziani, che hanno pagato anni di tasse per ritrovarsi obbligati a stare chiusi in casa perché se escono rischiano di essere rapinati o aggrediti. E’ questa l’Italia per cui hanno lavorato? A me questo Paese non va più bene. E l’ho cantato”.
Nel testo dici di “rivolere la mia Italia, una città libera”.
“Il nostro è un Paese non più libero di essere vissuto. La mia Italia, invece, è quella in cui i ragazzini sono di nuovo padroni delle loro piazze e i nonni delle loro panchine.
Qualcuno ti avrà spiegato però che non è il tipo di canzone con cui si diventa famosi.
“Lo so benissimo. Ma io scrivo quello che penso. So di andare controcorrente, ma sono anche fiero di essere riuscito a coinvolgere le forze dell’ordine. Ho ricevuto tantissimi messaggi di apprezzamento di agenti, poliziotti o soldati. Una volta l’ho anche fatta ascoltare in piazza ad alcuni carabinieri”.
E come hanno reagito?
“Con un semplice ‘grazie’. Che vale più di mille parole. E pensare che tra i passanti che mi hanno sentito suonare e che si sono fermate, c’erano soprattutto stranieri. Questo sa cosa vuol dire?” Mi dica. “Che nel loro Paese sono abituati a far rispettare le regole. Solo in Italia vale il contrario”.
A proposito della foto del ministro Marianna Madia pubblicata su "Chi" con il titolo "con il gelato ci sa fare". c'è chi scrive Madia-Signorini: giù le mani dal pompino! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. Giù le mani dal pompino! Ecco, di fronte alla querelle Signorini-Madia, volendo essere epici, ma ancora di più sinceri, onesti, popolari, bisognerebbe dire subito così, affermando questa semplice verità, quasi un bisogno di liberazione dalla falsità, perfino dall’ipocrisia virtuosa da educandato o perfino terrazza di sinistra. E ancora di più, occorrerebbe aggiungere abbasso ogni forma di allusione, assodato che alludere in certi casi, quando c’è di mezzo il piacere, il corpo, la realtà genitale, cioè la fica e il cazzo, significa innanzitutto non consentire a un concetto di liberamente volare, quasi che dovessimo vergognarci d’aver semplicemente chiamato una certa cosa, un certo atto, con il suo nome proprio. Dunque, così come una rosa è una rosa, una fellatio è una fellatio, un pompino è un pompino, un cazzo, una fica, ecc…Per questa ragione, sebbene ne abbiamo appena pronunciato la parola, talvolta è davvero da ipocriti dire fellatio, quasi a voler nascondere dietro la grazia remota e letteraria di un affresco pompeiano la realtà delle cose, la realtà concreta del pompino, come atto di piacere e d’amore. Di voglia. Punto. Al di là di chi lo pratica e dei sessi implicati, cioè in questione. Volendo restare in ambito storico, c’è stato un tempo in cui molti infelici, forti di una cultura da bordello, erano assolutamente convinti che quella del pompino fosse una pratica “degradante”, non a caso le prostitute, attribuendo loro un tratto razzista, erano dette e ritenute anche “pompinare”, quasi come un titolo-marchio di felice e necessaria infamia, un Collare della Santissima Annunziata ulteriore, lì a garantire le loro prerogative, la loro abiezione quasi, e tuttavia doverosa. Menzogne, tutte bugie, tutti e tutte, uomini e donne, amano i pompini: farli e averli fatti, riceverli e offrirli. Tutte sciocchezze da antichi tabù da sottoscala o refettorio cattolico concentrazionario sessuofobico che tutto ciò non sia vero. Per questa ragione le allusioni alle foto della ministra Marianna Madia che lecca un cono gelato sono innanzitutto desolanti, così come lo è altrettanto, se non di più, l’idea d’essere in presenza di una lesa maestà per il fatto stesso di avere associato quel gelato all’atto sessuale di cui sopra. Anche il manifesto di “Lolita” con la ragazza Sue Lyon che, armata di occhiali a forma di cuore, tiene tra le labbra un lecca-lecca alludeva, e tuttavia quelle immagini nella loro allusione sembravano esser lì a tracciare un ideale arcobaleno di piacere nel cielo della consapevolezza sessuale. Fa davvero specie che i volti sfigurati dei bambini morti in guerra non facciano suonare la stessa sirena dello sdegno pieno, così come invece accade con il pensiero stesso di un coito orale. Ripeto: nulla è più penoso della cultura rionale dell’allusione, dell’ammicco, del doppio senso di cui si è nutrito l’avanspettacolo del peggiore casino per decenni, forte di canzoni come “Ai romani piaceva la biga, più dinamica della lettiga” o del poema di Ifigonia e delle sue ancelle che “nell’arte di fare pompini battevano le troie di tutti i casini”, e giù con le risate, e giù a ridere ancora con la mano sul “pacco” – ma è ancor più ripugnante pensare che si debba rigorosamente arrossire o magari provare sdegno davanti a un qualcosa che appartiene all’immaginario desiderante, cioè del piacere, dunque della condivisione, poiché in nome di un sacro codice ipocrita si è ritenuto che si tratti di cose indicibili. Anni fa, ragionando nero su bianco sulla sparizione del cosiddetto 69 su un quotidiano, mi ritrovavo a constatare che quel genere di doppio scambio era pressoché svanito dal palmarès delle predilezioni condivise, al contrario, volate via le vecchie bugie sessuofobiche della cultura da bordello, la fellatio – cioè il pompino o bocchino o pompa – e chiamarli qui con il loro nome è innanzitutto un fatto politico, liberatorio, viveva invece intatto e acclamato sull’ideale tabellone luminoso delle predilezioni, dei desideri, delle voglie, per questa ragione non c’è davvero scandalo nelle immagini di Marianna Madia felice del suo gelato da leccare, così come non c’è scandalo nell’affiancare quelle stesse foto al già citato manifesto del film di Kubrick. Giù le mani!
Il mondo è una community sui social network. Nessuno comunica più fisicamente. L’anonimato sui social ci protegge. Fisicamente non ci rimane che comunicare a gesti, oppure conformarsi al politicamente corretto di sinistra o al bacchettone bigotto di destra.
Riportiamo l'opinione del Dr Antonio Giangrande, sociologo storico e noto saggista, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo".
La virtualizzazione della società si fa sentire in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Uno degli ambiti in cui è più presente, e spesso ha effetti più limitanti, è quello della comunicazione fra mezzi d’informazione e pubblico, fra istituzioni e cittadini, fra cittadini e altri cittadini.
Era della comunicazione dove non comunichiamo. Questo paradosso la dice lunga e ci avverte che non si ascolta più, si parla e basta.
Leggiamo sui giornali o ascoltiamo in televisione, morto per overdose…, si uccide perché va male a scuola, bambino di tre anni ucciso in circostanze misteriose,…, figli che uccidono i genitori, madri che uccidono i figli e quel che è incredibile è che le persone si stanno abituando ai fatti negativi. Divenendo negativi essi stessi. Abitudine che potrebbe essere la punta di un iceberg, dove sotto c’è un vuoto di valori causato anche da una generazione che è riuscita a mettere in discussione tutto e il contrario di tutto.
Sono andati in crisi le istituzioni, la chiesa, la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro e siamo senza un collante per regole e certezze e la community virtuale è la nostra isola felice dove sfogarci.
Ci indaffariamo a cercare amici sui social e ad aumentarne il numero sui nostri profili per avere visibilità e proseliti, per poi scoprire che proprio amici non sono. Ostilità od indifferenza sono le loro caratteristiche. Le nostre caratteristiche, perchè loro siamo noi.
Recentemente, ci sono stati diversi casi di chiusura di account legati a minacce ed offese sui principali social network. Non ultimo, il direttore del TG di La7, Enrico Mentana, che ha deciso di cancellare il proprio profilo Twitter a causa di continui insulti. Personaggi noti, del mondo dello spettacolo e non, denunciano quasi quotidianamente questo fenomeno dilagante. Insulti gratuiti, minacce, gravi offese e istigazioni alla violenza di ogni genere. C'è un po' di tutto nei social network più famosi. Chiunque, sui social network, inserisce ciò che vuole: considerazioni su politica, personaggi dello spettacolo, link divertenti, video divertenti, fotografie, aggiornamenti di stato….
Questo popolo social ciarlante ed imperito, spesso, vuol far politica......
Il paradosso è che il potere si difende punendo questi comportamenti, con l'intento di renderci tutti conformisti.
Conformista come già cantò Giorgio Gaber
"Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista.
Sono sensibile e altruista, orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista.
Da un po' di tempo ambientalista, qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo, per carità lo dico in senso letterale.
Sono progressista, al tempo stesso liberista, antirazzista e sono molto buono, sono animalista.
Non sono più assistenzialista, ultimamente sono un po' controcorrente, son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta.
Il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa, è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani e quando ha voglia di pensare, pensa per sentito dire.
Forse da buon opportunista, si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza.
Il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza, è un animale assai comune che vive di parole da conversazione.
Di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori, il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo e farsi largo galleggiando.
Il conformista, il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario, sono femminista
Son disponibile e ottimista, europeista, non alzo mai la voce, sono pacifista.
Ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone.
Il conformista aerostato evoluto, che è gonfiato dall'informazione, è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie, poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato.
Vive e questo già gli basta e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi.
Il conformista, il conformista.
Io sono un uomo nuovo, talmente nuovo che si vede a prima vista sono il nuovo conformista."
Non so più dove girarmi. Giornali on line e non, social network, radio, tv…Non c’è scampo: il buonismo dilaga ovunque. Un buonismo fintissimo: quello politicamente corretto.
Perché oggi, in Italia, se critichi qualsivoglia malvivente sei razzista (se è straniero).
Sei intollerante (se è italiano).
Sei sessista (se è un uomo e tu una donna, e viceversa).
Sei cattivo (se è un essere umano).
Dobbiamo essere tutti bravi, altruisti e generosi. Comprensivi, giusti e dalla mente aperta. Certo che dobbiamo! Ma non significa certo che dobbiamo anche giustificare tutto e tutti o conformaci alla cultura mediatica che va per la maggiore.
Potremmo esprimere il nostro pensiero con un linguaggio che nel gergo quotidiano è consentito, mentre se diffuso a mezzo stampa è definito scorretto?
Potremmo esprimere un'opinione, senza essere tacciati come discriminatori?
La discriminazione consiste in un trattamento non paritario attuato nei confronti di un individuo o un gruppo di individui in virtù della loro appartenenza ad una particolare categoria. Alcuni esempi di discriminazione possono essere il razzismo, il sessismo, lo specismo e l'omofobia.
L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.
Insomma, politicamente corretto significa ipocrisia.
"L'ipocrisia è il linguaggio proprio della corruzione". Lo afferma Papa Francesco, nell'omelia durante la messa mattutina celebrata nella cappella della Domus Santa Marta in Vaticano, presenti fra gli altri i vertici della Rai, con la presidente Anna Maria Tarantola e il direttore generale Luigi Gubitosi. "L'ipocrisia - sottolinea il Papa, facendo riferimento alla pagina del Vangelo sulla domanda dei farisei sulla liceità del tributo da dare a Cesare - non è un linguaggio di verità, perché la verità mai va da sola, mai, ma va sempre con l'amore. Non c'è verità senza amore, l'amore è la prima verità e se non c'è amore non c'è verità". I farisei, gli ipocriti, "vogliono invece una verità schiava dei propri interessi; l'amore che c'è è quello di se stessi e a se stessi: quell'idolatria narcisista li porta a tradire gli altri, li porta agli abusi di fiducia". Francesco punta il dito sui falsi amici che "sembrano tanto amabili nel linguaggio", sui "corrotti che con questo linguaggio cercano di indebolirci". Infatti, "gli ipocriti che cominciano con la lusinga, con l'adulazione, finiscono cercando falsi testimoni per accusare chi avevano lusingato. Il nostro linguaggio - conclude il Papa - sia il parlare dei semplici, con anima di bambini, il parlare in verità dall'amore".
Il politicamente scorretto è tale, però, ad intermittenza.
Sto pensando agli epiteti che sono stati lanciati ad Andreotti sulla sua scoliosi, a Berlusconi o Brunetta per la loro altezza, Alfano per il suo viso... etc. La scusa sciocca della satira non basta: anche al sesso maschile (o femminile purchè del campo avverso) vengono riservate considerazioni sgradevoli. Vogliamo fare una carrellata che non ha scandalizzato stranamente nessuno?
"Condoleezza [Rice], con quelle guancette da impunita, è la leader maxima delle donne-scimmia" (Lidia Ravera, L'Unità, 25 ottobre 2004).
"Di sicuro [il Ministro Gelmini] non è un essere umano. Dovremmo chiamare i professori di chimica per capire che cos’è" (Andrea Camilleri).
"Se dopo De Nicola, Pertini e Fanfani, ci ritroviamo con Schifani, sono terrorizzato dal dopo: le uniche forme residue di vita sono il lombrico e la muffa. Anzi, la muffa no perché è molto utile" (Marco Travaglio).
Appari politicamente scorretto, anche se non lo sei? Scatta l'invettiva, secondo l'accusa dei giornalisti, anche per frasi o comportamenti innocenti.
L'invettiva razzista. Il caso forse più noto tra quelli registrati, però, riguarda la televisione. Si tratta della vicenda che ebbe per protagonista Paolo Bonolis il quale, nel corso della trasmissione di Canale 5 “Avanti un altro” ebbe la infelice idea di travestirsi da domestico filippino e di esibirsi in una gag che scatenò la reazione indignata della comunità filippina in Italia, stufa di essere considerata alla stregua di un'associazione di camerieri e di donne di servizio. Romulo Sabio Salvador, consigliere aggiunto di Roma Capitale, a nome dei suoi connazionali scrisse una lettera indignata a Mediaset, all'Agcom e, appunto, all'Unar. E proprio a proposito di filippini. Il presidente della Sampdoria parlando con Massimo Moratii, ex presidente dell’Inter, ebbe a dire a proposito di Thohir, il suo successore all’Inter: “caccia quel filippino”, giustificandosi poi con Valerio Staffelli su Striscia La Notizia dicendo “l’ho saputo dalla televisione che era indonesiano….”. Carlo Tavecchio, presidente FIGC, ha dichiarato: «Le questioni di accoglienza sono un conto, le questioni del gioco sono un altro. L’Inghilterra individua i soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare. Noi, invece, diciamo che Opti Poba - dice inventando un nome - è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio. E va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree». Tavecchio è stato punito dai media, dalla UEFA e dalla FIFA.
L'invettiva omofoba. Eziolino Capuano, allenatore dell’Arezzo (Lega Pro), «Prendere gol in superiorità numerica al 90’ è vergognoso, non lo accetto», ha detto a Radio Groove dopo la sconfitta di Alessandria degli amaranto, e prima di esplodere: «Se avessero perso in maniera diversa non avrei detto nulla, però in campo le checche non vanno bene. In campo devono andare gli uomini con le palle e non le checche» Capuano è stato crocifisso dai giornali. Ormai la lobby gay in Parlamento non solo mira ad avere un matrimonio tutto loro ed avere figli non loro, ma sulla comunicazione comune vieta ogni parola riferita alla loro condizione sessuale. Più per gli uomini. Ormai è vietato dire quelli dell'altra sponda, quelli dell'altra parrocchia e poi frocio, ricchione, finocchio, culo, culattone, culano, culatino, bucaiolo, buso o busone, bardassa o bardascia, buggerone, checca, cupio, garrusu, invertito, gay, urningo o uraniano, femminello, mezzafemmina, pederasta, sodomita, invertito, pigliainculo.
L'invettiva sessista. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini pubblica quattro fotogrammi rubati del ministro mentre mangia un gelato con il titolo “ci sa fare con il gelato” e l'Ordine dei giornalisti apre un procedimento. "Uno schifo". "Qualcosa di disgustoso". "Spazzatura". L'indignazione, a dir poco, esplode in rete insieme a disgusto e incredulità per quattro fotogrammi rubati al ministro Marianna Madia, e messi in doppia pagina su "Chi" con un titolo volgare e ammiccante. I tweet e i post su Facebook sono migliaia. Due facciate che vengono "difese" proprio dal direttore di Chi, Alfonso Signorini, che twitta: "Calippo si e gelato no?", con l'ashtag #duepesiduemisure. Il riferimento è alle foto di Francesca Pascale apparse nel febbraio 2013. Il riferimento non è puramente casuale, anzi è chiaro e diretto al servizio pubblicato tempo fa da Oggi, gruppo Rcs, in cui venivano riproposte vecchie immagini di Francesca Pascale che mangiava un Calippo nel corso di una clip per una televisione locale. Il direttore di Chi poi, intervistato da Giorgio Mulè alla presentazione del suo libro "L’altra parte di me" nella tappa catanese del tour Panorama d’Italia, ha spiegato meglio il suo pensiero: "Chi oggi s’indigna per il titolo che ho fatto alle foto della Madia che mangia il cono gelato ha marciato per anni sul calippo della Pascale. Io aderisco a una scuola di pensiero secondo cui la malizia sta negli occhi di chi guarda e non di chi la fa, accusare me di sessismo o di persecuzione a sfondo sessuale è assurdo, per non parlare di certe campagne davvero infamanti, per usare la stessa parola che usano oggi contro di me, sulle giarrettiere della Brambilla o il calendario della Carfagna".
L'invettiva pedofila. Del resto oggi tutto ha il sapore di proibito, ma anche solo pensare di essere amorevole con i figli, ti conduce subito sulla sponda più terribile: quella dei genitori oggetto di riprovazione. È una categoria semplice, assoluta e falcidiante. Ha il potere di bloccare l'azione sul nascere, perché influisce direttamente sul pensiero: è la forza del politicamente corretto, che rovina perfino i momenti di divertimento o di affetto. È il motivo per cui non si dà più un bacio innocente o una carezza, agli adulti, così come ai bambini: passi immediatamente per un maniaco o per un pedofilo. Ecco il motivo per cui i bambini non giocano più nei cortili, non prendono più un ascensore da soli, non possono giocare a palla in riva al mare, mentre è così difficile fermare i piccoli sbandati o i delinquenti, quelli veri. Ed è molto più facile fare sentire un genitore come un criminale, che fare divertire un bambino.
L'invettiva giudiziaria. Le lacrime e la rabbia lasciano il posto alla determinazione. «Mi devono uccidere per fermarmi», dice Ilaria Cucchi all’indomani della sentenza della corte di appello di Roma che vede tutti assolti gli imputati per la morte del fratello Stefano, deceduto il 22 ottobre di cinque anni fa dopo una settimana di ricovero in ospedale. Una vicenda che ha provocato uno strascico di polemiche su cui interviene anche il presidente della Corte d’Appello di Roma, Luciano Panzani: «Basta gogna mediatica, non c’erano prove».
L'invettiva specista. Lo specismo è l'attribuzione di un diverso valore e status morale agli individui a seconda della loro specie di appartenenza. Il termine fu coniato nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, per calco da razzismo e sessismo, con l'intento di descrivere in particolare gli atteggiamenti umani che coinvolgono una discriminazione degli individui animali non umani, inclusa la concezione degli animali come oggetti o proprietà. Il termine viene usato comunemente nel contesto della letteratura sui diritti animali, per esempio nelle opere di Peter Singer e Tom Regan. Succede spesso di leggere sui giornali o di vedere video su youtube di incredibili salvataggi, per mano umana di animali (specialmente cani) in difficoltà. Quello che però lascia perplessi è leggere di un intervento simile proprio in un luogo come quello di Carloforte, noto per la tradizionale mattanza dei tonni. Questo salvataggio, se ci si sofferma un attimo a pensare, ha davvero dell’incredibile. Uomini che si uniscono e si impegnano con tutte le loro energie per salvare una vita da annegamento certo mentre stanno per calare le reti che spezzeranno le vite, attraverso una lenta e dolorosa sofferenza, di centinaia e centinaia di pesci. Purtroppo questo è lo specismo, che quotidianamente e ovunque nel mondo continua a dilagare ma che dobbiamo cercare di abbattere. Come per l'allevamento Green Hill, ovvero: la preoccupazione riguarda solo i cani di Green Hill, non c'è nessuna condanna delle inenarrabili crudeltà perpetrate in laboratorio su altri animali quali topi, ratti o maiali.
Era della comunicazione dove non comunichiamo. Non si ascolta più, si parla e basta....
In conclusione. Come si può non essere politicamente corretti e conformisti? Basta essere corretti e veritieri nell’espressione del pensiero. Basterebbe abbeverarsi dal sapere dei buoni maestri senza tema di smentita, pensare un attimo a quello che si dice o si scrive e non vedere cose brutte in cose estremamente innocenti!
L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da una guerra civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti. Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.
Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".
Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione. Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.
LA LIBERTA'.
La libertà? Bella storia Iniziata 40mila anni fa, scrive Dino Cofrancesco su “Il Giornale”. Nella Collana dell'Istituto Bruno Leoni, Mercato, Diritto e Libertà, esce in traduzione italiana un saggio davvero esemplare, la Breve storia della libertà di David Schmidtz e Jason Brennan, con una Prefazione acuta e divertente di Guido Vitiello. Il titolo va preso alla lettera, non si tratta di una storia delle teorie sulla libertà ma di una storia della libertà. Nel loro rapido excursus, gli autori cavalcano i secoli con una competenza mai disgiunta da uno stile leggero e da un distacco ironico tipicamente anglosassone: dalla preistoria della libertà al rule of law apparso agli inizi dell'XI secolo, dalla libertà religiosa del secolo XVI alla libertà di commercio del secolo successivo, fino alla libertà civile, trionfante nel '900 e all'ultima frontiera, la libertà psicologica, il lettore entra nel vivo di una vicenda esaltante desinata a non concludersi mai e ne riporta un senso di gratitudine per chi gli ha consentito di chiarirsi le idee e di liberarsi da vecchie idee e inveterati pregiudizi. Schmidtz e Brennan, però, non si fermano alla storia ma nei sei densi capitoli del libro, mettono a fuoco il nucleo centrale della teorica liberale contemporanea in modo da dissipare i tanti equivoci che i fautori della comunità chiusa, soprattutto nel nostro paese, hanno riversato sulla «società aperta», sulla sua natura, sulle sue caratteristiche. A dare l'incipit non poteva non essere l'ombra di Isaiah Berlin, il filosofo delle «due libertà»: la libertà negativa - intesa come non impedimento, libertà da, posta alla base del liberalismo- e la libertà positiva -intesa come dotazione di risorse che consentono di realizzare quanto si desidera, libertà di, posta a fondamento della democrazia. Da tempo immemorabile, i critici del liberalismo vedono nella libertà negativa, nel migliore dei casi, una sorta di visconte dimezzato, riproponendo, senza variazioni sostanziali, lo stesso ritornello: «Io potrei essere libero dalle interferenze dello Stato, libero dall'oppressione di un rigido sistema di caste e così via, eppure potrei restare nell'impossibilità di fare granché a causa della mancanza di ricchezza. La libertà negativa è la libertà di essere poveri, di dormire su un marciapiede pubblico». Schmidtz e Brennan non sottovalutano l'argomento e prendono quasi le distanze da Berlin, citando tra l'altro con rispetto l'inconsistente teorico del neo-republicanism Philip Pettit. Berlin, scrivono, e molti liberali classici «sono sospettosi nei confronti della libertà positiva, pensando che riconoscere il suo valore può essere interpretato erroneamente come un avallo del socialismo, o più in generale, come una licenza che diamo ai burocrati perché ci costringano a essere liberi». Il problema, però, non è quello di negare che non me ne faccio niente della libertà (negativa) di andare a Roma, se mi mancano i soldi (la libertà positiva) per il biglietto, bensì di stabilire chi ce li può dare quei soldi. «Riconoscere semplicemente la libertà positiva come una specie pregiata del genere libertà non ci impegna ad accogliere nessuna particolare idea su quale regime la promuove meglio». In altre parole, si potrebbe scoprire che lavoro, salute, benessere sono più garantiti là dove c'è meno Stato e più mercato. «Le società commercialmente più avanzate di ogni epoca», l'antica Atene, Venezia e Firenze nel Rinascimento, o New York, «non assicurano solo il cibo», ma moltiplicano per tutti le possibilità di vivere una vita più umana e confortevole. Il discorso è convincente anche se non farei troppo affidamento, per confutare i critici del liberalismo, sulla domanda: «Anche la libertà positiva è importante ma la garantisce di più un'economia aperta o un regime collettivista?». In un'ottica liberale, la libertà negativa avrà sempre uno status ontologico superiore giacché se nessuno m'impedisce di fare alcunché ma io non ho i mezzi per farlo, posso sempre rimboccarmi le maniche, organizzarmi con altri per procurarmeli (nessuno, appunto, me lo impedisce) laddove la libertà positiva, rinviando all'eguaglianza anche dei punti di arrivo, per garantire a tutti «dignità e benessere», deve consegnare ad alcuni un potere politico e legislativo così grande da rendere problematica la libertà negativa: più si rendono alcuni individui «eguali», infatti, più diminuisce la sfera di azione di quanti, con la loro abilità e il loro ingegno, potrebbero reintrodurre le diseguaglianze. «Gli ingredienti fondamentali della libertà negativa» scrivono del resto gli autori parlando delle riforme di Turgot, «erano la chiave per stimolare l'ingegnosità e la perseveranza grazie alle quali» i lavoratori «avrebbero potuto liberarsi della deprivazione materiale, e quindi passare dalla libertà negativa alla libertà positiva». Appunto, come volevasi dimostrare.
Il credo liberale di Berlin contro la tirannia delle idee. La convinzione che i conflitti si possano superare e tutti i valori umani siano conciliabili è falsa. Ed è la base dei totalitarismi del Novecento, scrive Giancristiano Desiderio su “Il Giornale”. C'è qualcosa di commovente in questo breve scritto di Isaiah Berlin che Adelphi ha pubblicato: Un messaggio al Ventunesimo secolo. Il volumetto, piccolo e prezioso, è composto di due discorsi: il primo, già pubblicato in Il legno storto dell'umanità , è La ricerca dell'ideale : Berlin lo considerava il suo testamento spirituale e fu pronunciato in occasione della consegna del Premio Giovanni Agnelli nel 1988; il secondo è Un messaggio al Ventunesimo secolo : Berlin in una lettera all'amico John Roberts lo definì «breve credo» e fu scritto nel 1994 in occasione della laurea ad honorem in Giurisprudenza conferitagli dalla Università di Toronto. Il lettore, se accetta un consiglio, inverta l'ordine dell'indice e legga prima il credo e poi il testamento. Il «breve credo» è non solo commovente - un moto d'affetto lo attraversa tutto dalla prima all'ultima riga - ma fulminante e il lettore si troverà davanti il cuore del pluralismo liberale di Berlin e il volto della verità che così si può riassumere: l'idea di conciliare tutti i valori umani è non solo ardua ma falsa e chi la persegue sta riproponendo il totalitarismo del Novecento. Gli uomini si ammazzano da sempre, tuttavia le imprese di Attila, di Gengis Khan, di Napoleone e perfino i massacri degli armeni «impallidiscono di fronte alla Rivoluzione russa e ai suoi postumi». Infatti, l'oppressione, le torture, gli assassinii, gli stermini «di cui si resero responsabili Lenin, Stalin, Hitler, Mao, Pol Pot, e la sistematica falsificazione dell'informazione mediante la quale si occultarono per anni quegli orrori - dice Berlin che fu testimone della Rivoluzione d'Ottobre e attraversò tutto il “terribile Novecento” - sono cose che non hanno precedenti». Perché? Perché gli stermini di massa e l'annientamento dell'umanità sono stati concepiti e realizzati - tenetevi forte - per il bene dell'umanità. È in questo paradiso tramutato in inferno che sir Isaiah si cala per smontare pezzo per pezzo l'insana sintesi di Verità e Potere che l'ideologia per eccellenza della modernità - il marxismo - ha perseguito con ogni mezzo. Una volta Heine disse che se Kant non avesse distrutto la teologia forse Robespierre non avrebbe ghigliottinato il re di Francia. Le idee hanno un gran potere sul potere e le idee del XX secolo sono assassine. I gulag e i lager - dice Berlin - «sono stati causati dalle idee; o meglio, da una specifica idea». Marx, proprio lui che svalutava l'importanza delle idee, ha «provocato con i suoi scritti la trasformazione del Ventesimo secolo, sia nella direzione che egli auspicava, sia, per reazione, nella direzione opposta». Cosa vi era in quegli scritti? Un sogno rivelatosi un incubo: l'idea del compimento necessario della storia umana e della realizzazione della perfezione. È sotto l'influsso di questa idea - o alibi - che gli uomini hanno ucciso e sterminato con la «coscienza tranquilla». È un meccanismo infernale: se hai in mano la soluzione di tutto, allora, nessun prezzo è così alto da pagare per avere il paradiso. Neanche lo sterminio di massa: «Lenin se ne convinse dopo aver letto Il capitale. Predicava risolutamente che se coi mezzi da lui propugnati si poteva creare una società giusta, pacifica, felice, libera e virtuosa, allora il fine giustificava qualunque mezzo, letteralmente qualunque mezzo». Sennonché, questa verità è falsa giacché è falsissimo il convincimento che le domande basilari della vita umana, individuale e sociale, hanno una ed una sola risposta. E così è un dio falso e bugiardo quello che sostiene che i valori fondamentali dell'umanità siano armoniosi mentre sono inconciliabili: sono non conciliabili, per esempio, libertà e uguaglianza, libertà e sicurezza, giustizia e misericordia, ragione e spontaneità, Stato e Chiesa, verità e felicità. L'idea che si possa superare il conflitto è peggiore del (presunto) male: è proprio l'esistenza del conflitto che garantisce la nostra libertà. Dunque, per dirla con Lenin, che fare? Bisogna star calmi, far compromessi, accordi, baratti e - dice Berlin - «so bene che questa non è una bandiera sotto la quale molti giovani idealisti ed entusiasti vorrebbero marciare - è troppo ragionevole, troppo borghese - ma dovete credermi, non si può avere tutto ciò che si vuole, e non solo in pratica, anche in teoria». Insomma, la risposta migliore è la democrazia liberale che, nonostante tutto, si sta diffondendo: «Le grandi tirannie sono cadute, o presto cadranno - anche in Cina il giorno non è troppo lontano».
Croce, quando la libertà viene prima del liberismo. Il "Papa laico" della cultura italiana scomunicò persino Luigi Einaudi in tema di mercato. Ma la sua lezione sui "valori comuni" è attualissima, scrive Dino Cofrancesco su “Il Giornale”. Sessant'anni fa, il 20 novembre 1952, si spegneva, nell'austero Palazzo Filomarino, il Senatore Benedetto Croce, un pensatore epocale, un protagonista unico della storia della cultura occidentale. Unico a prescindere dalla sua concezione del mondo - analizzata, criticata, integrata in una saggistica, italiana e straniera, a dir poco, sterminata - giacché non s'era mai visto uno scrittore capace di far scuola sia nella storia dell'estetica e della critica letteraria, sia nella storiografia politica, sia nella filosofia. Anche nel Settecento, Hume e Voltaire si erano occupati della storia del loro Paese - e il secondo anche di quella svedese e russa - ma non avevano fondato nessun laboratorio di ricerca. Croce, al contrario, tra i suoi allievi non ebbe soltanto filosofi devoti, come il grandissimo Carlo Antoni, ma, altresì, storici tra i maggiori del XX secolo come Federico Chabod, Rosario Romeo, Adolfo Omodeo, Vittorio de Caprariis, Nicola Matteucci, allievi autentici e, in quanto tali, pensosi e problematici, non mere fotocopie sbiadite, se non caricature, del Maestro. Una personalità così ingombrante e multiforme non poteva arare lo scibile umano senza offrire il fianco a critiche e riserve spesso non prive di fondamento. Nelle sue teorie estetiche, non v'era spazio per la comprensione del decadentismo europeo, di Charles Baudelaire, di Gabriele D'Annunzio, di Giovanni Pascoli o di un gigante del teatro contemporaneo come Luigi Pirandello. Nel suo pensiero filosofico venivano liquidati, con eccessiva disinvoltura, non soltanto il vecchio positivismo - oggetto di ironia per il suo versante umanitario e riformista - ma, altresì, il pragmatismo, il neocriticismo e lo stesso esistenzialismo tedesco e francese. Nella sua concezione storiografica, venivano svalutate le nuove metodologie della ricerca che avevano trovato in Italia, nella scuola economico-giuridica, due esponenti di elevata cifra morale e intellettuale come Gioacchino Volpe e Gaetano Salvemini. E nondimeno, tra le tante critiche mosse al filosofo napoletano ve ne sono alcune che il tempo va forse ridimensionando. Il suo liberalismo è decisamente «superato» come hanno scritto politici intellettuali, come Giovanni Malagodi o accademici come Giovanni Sartori? È proprio vero che, nel confronto critico con Luigi Einaudi su liberalismo e liberismo, iniziato nel 1931, lo sconfitto è Croce? Come si ricorderà, la polemica tra i due giganti del liberalismo italiano verteva sul ruolo del libero mercato in una coerente teorica liberale. Per Einaudi, la libertà imprenditoriale è, come la libertà politica e la libertà civile, incorporata nel liberalismo dei moderni; per Croce, al contrario, il liberismo è uno strumento al servizio della Libertà, un mezzo di cui occorre misurare, di volta in volta, l'adeguatezza al fine. «La libertà come la poesia, come la morale, come il pensiero, non si lega mai a nessuna particolare condizione di fatto, istituzione e costume, sistema economico o altro che sia, ma tutti questi adopera secondo la situazione delle cose ossia il corso della storia, come mezzi pratici dell'opera sua». Per noi, le argomentazioni di Einaudi restano ineccepibili: come si può pensare, infatti, una società aperta senza mercato, ingabbiata da uno stato protezionista all'esterno e dirigista all'interno? Sennonché anche le ragioni di Croce cominciano ad apparirci come quegli scogli che dopo essere stati sommersi da ondate di chiacchiere riemergono più irremovibili e saldi di prima. In realtà, il rispettoso interlocutore di Einaudi non era suo contemporaneo ma restava un uomo dell'Ottocento. Alexis de Tocqueville aveva scritto: «Chi cerca nella libertà altra cosa che la libertà stessa è fatto per servire. Essa soltanto è in grado di strapparli al culto dell'oro e alle meschine faccende giornaliere dei loro affari privati, per far loro sentire e vedere, in ogni momento, la circostante e sovrastante presenza della patria; essa soltanto può sostituire di tempo in tempo all'amore del benessere passioni più energiche ed alte, offrire all'ambizione scopi maggiori che non quello di far quattrini, creare la luce che permette di scorgere e giudicare i vizi e le virtù degli uomini». Ebbene, al fondo, non era la stessa libertà di Croce, quella che gli artefici del Risorgimento avevano vissuto come «un principio religioso, che rende forti i cuori e illumina le menti e redime le genti e le fa capaci di difendere i loro legittimi interessi»? Croce ci richiama a una lezione dimenticata: senza valori comuni, in assenza di una identità comunitaria forte - per lui, l'Italia di Cavour e di Giolitti - si costruisce sulla sabbia. Indubbiamente questa idea rischiava di fargli sottovalutare l'analisi puntuale delle istituzioni politiche, economiche, culturali (le a torto detestate sociologia e scienza politica) ma, ad approfondirla, ci spiega assai bene perché sul patriottismo costituzionale alla Jürgen Habermas si fondano solo i villaggi Potemkin delle buone intenzioni.
Un Belpaese dal liberismo impossibile, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Nel Novecento - sulla tracce dei tre totalitarismi che avevano dominato il secolo - era stata la politica a dettare principi e procedure all'opinione pubblica che ad essi doveva adeguare il proprio consenso. Nel secondo millennio, con l'allargarsi della base democratica prodotta dal '68, è il populismo, diffuso soprattutto nelle sfere più basse e meno attrezzate culturalmente, più sensibili alla demagogia della popolazione, a dettare alla politica, che vi si adegua, le condizioni del proprio consenso. È la conseguenza dell'abbandono dello studio della storia - che era stata la base sulla quale si era sviluppata la filosofia politica moderna - che ha fatto perdere di vista i fatti, la realtà effettuale che, da Aristotele a Machiavelli, aveva empiricamente condizionato la diffusione della filosofia politica moderna. Ora, sono posti sotto accusa liberalismo e capitalismo - che pur sono stati fondamento delle libertà e del benessere dei quali ha goduto l'umanità dalla fine del Settecento - in nome di una regressione, se non alla contrapposizione ideologica ottocentesca fra liberalismo e comunismo, quanto meno a quella fra liberalismo e comunitarismo, che è la versione attenuata del collettivismo, condannato e sconfitto dalle «dure repliche della storia». È singolare che istanze collettive, di matrice marxiana, smentite e condannate dalla storia, pretendano di avere il sopravvento sull'individualismo liberale, negandone attualità e validità, per ripristinare contrapposizioni ottocentesche, se non fra liberalismo e comunismo, quanto meno fra liberalismo e comunitarismo. Il fenomeno è soprattutto acuto da noi, in Italia, non a caso il Paese che ha generato, e coltivato, il più forte comunismo occidentale fino alla sua dissoluzione e anche il Paese più in ritardo rispetto ad un approccio empirico di matrice anglosassone. L'Italia paga il prezzo di non aver sviluppato una cultura liberale, quando ce n'erano le condizioni storiche, ai tempi della Riforma protestante, e di essere stata influenzata da una controcultura cattolica, che aveva trascurato il contributo individuale del protestantesimo alla formazione di una mentalità politica liberale diffidente di ogni autorità costituita, compresa quella della Chiesa, oltre a quella dello Stato. Il liberalismo - che con Cavour e i Savoia ha contribuito alla nascita e allo sviluppo dell'unità nazionale - non è contrario allo Stato, come una vulgata popolare tende a far credere in funzione del dominio di una sinistra demagogica, bensì è a favore di uno Stato centrale sufficientemente forte da fissare le regole del gioco alle quali l'opinione pubblica deve poi attenersi. L'esperienza dei Paesi anglosassoni insegna. Il nodo della questione sta tutto nella differenza fra un approccio alla realtà di tipo empirico e uno di tipo ideologico, là dove il primo si fonda sulla realtà storica, sulla realtà effettuale, e genera autonomia e libertà, mentre il secondo su un'idea della realtà come dovrebbe essere, che genera sudditanza.
La libertà non accetta consigli. Nel suo “Saggio sulla libertà”, John Stuart Mill, scrive Mariagrazia Gazzato su “L’Espresso”: " …l’argomento più forte contro l’interferenza del pubblico nella condotta puramente individuale è che, quando si verifica, si verifica con ogni probabilità, sia nei modi sbagliati che nel posto sbagliato. Nella questione di moralità sociale, di doveri nei confronti degli altri, l’opinione del pubblico, cioè della stragrande maggioranza, è più spesso giusta che sbagliata, poiché si tratta soltanto di giudicare sui propri interessi, su come verrebbero coinvolti da un dato comportamento, se venisse consentito. Ma l’opinione di una simile maggioranza, imposta come legge ad una minoranza, in questioni di condotta strettamente individuale, ha uguali probabilità di essere giusta o sbagliata, poiché nel migliore di questi casi, opinione pubblica significa l’opinione di alcuni su che cosa sia bene o male per altri e molto spesso non significa neanche questo, il pubblico con la più perfetta indifferenza, ignora i sentimenti e le esigenze di coloro di cui biasima la condotta e pensa solo alla propria preferenza. Molti considerano lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta che loro dispiaccia e se ne risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti, simili a quel bigotto che, accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli altri, ha ribattuto che sono loro a disprezzare i suoi persistendo nel loro abominevole culto e credo.” E qui seguono vari esempi, ma mi sembra sufficiente per esprimere la mia opinione sul tema della libertà individuale in rapporto ai doveri che ciascuno ha verso la società. E’ fuor di dubbio che qualsiasi azione individuale che non comporti alcun danno a terzi, non possa e non debba essere in alcun modo sanzionata o semplicemente frenata senza incorrere nella limitazione della libertà personale che attiene al singolo giudizio dell’individuo. Non occorre portare esempi, l’attuale società costringe il legislatore ad imporre leggi che limitino azioni che ledono la libertà altrui di godere appieno della propria individualità in base ai gusti, alle preferenze e alla condotta di vita che ciascuno ritiene più idonea per sé. Un caso molto evidente è il reato di stalking come quello di mobbing che, il legislatore, usando due parole mutuate dalla lingua inglese, ha recentemente introdotto nella nostra giurisprudenza. Sono due reati gravissimi perché limitano in maniera ossessiva e sistematica l’altrui libertà di azione. Ma ci sono esempi continui di limitazione della libertà personale anche in casi considerati di scarsa importanza, che non necessitano di una legge per essere regolamentati ma che attengono al generale “buon senso comune” e ad un etica comportamentale della quale alcuni sono completamente digiuni. Alcuni si arrogano (del tutto arbitrariamente) il diritto di giudicare, di consigliare, addirittura in alcuni casi di imporre, comportamenti da questi giudicati più giusti o più consoni per il mantenimento di una dignità nell’ambito societario, più confacente ai propri schemi mentali. Ma imporre i propri schemi mentali mediante suggerimenti o consigli non richiesti, soprattutto quando questo avviene additando palesemente o nascostamente, sconfinando nel pettegolezzo, colui il quale in base al proprio giudizio, si comporta in maniera riprovevole arrivando persino all’estrema ratio (irrazionale) di gridare allo scandalo è, a mio avviso e a giudicare da quanto espresso in uno dei saggi più popolari sul tema della libertà, davvero riprovevole. La cosiddetta dittatura della maggioranza che impone le proprie regole, a volte assurde, a chi non le condivide è una delle storture più evidenti e deformanti della democrazia. Ed è deteriore al punto di frenare le potenzialità individuali che altrimenti si svilupperebbero più armoniosamente e renderebbero un maggior beneficio alla società che dalle differenze, dalle molteplicità di stimoli, dalle diverse opinioni non può che trarre indubbio vantaggio.
LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?
Le piazze si affollano di gente che protesta, le cabine elettorali si svuotano, gli esecutivi si riempiono di tecnocrati. Tutti sintomi del fatto che la forma di governo più amata dall'Occidente versa ormai in crisi conclamata. Come spiegano molti pensatori nei loro libri più recenti, scrive Angiola Codacci Pisanelli su “L’Espresso”. La democrazia? «Non è una vetta conquistata per sempre, ma l’instabile punto d’arrivo di un processo intrinsecamente esposto al rischio di crisi e di catastrofe». Parola di Raffaele Simone, linguista e politologo, che dopo aver messo a fuoco nel 2008 il vero volto della nuova destra in ascesa (“Il mostro mite”), oggi si concentra sulla forma di governo che ancora sentiamo nostra ma che attraversa una fase molto difficile. Una crisi mondiale: dovunque cresce l’astensione e calano le iscrizioni ai partiti, cresce il peso politico di organismi finanziari sovranazionali (Fmi, Bce...) e cala la fiducia nelle istituzioni democratiche, mentre le piazze sempre più piene di proteste testimoniano il senso di distacco dell’elettorato da quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti. Una crisi dimostrata anche in Italia da un ricco filone editoriale - lo si vede in questo articolo, che si limita a citare testi usciti nelle ultime settimane - e da manifestazioni come la Biennale Democrazia che nel marzo scorso a Torino ha festeggiato la quarta edizione. Dove porterà questa fase, la nuova analisi di Simone lo dichiara già dalla copertina: “Come la democrazia fallisce” (Garzanti). Un titolo scelto dall’editore («Io avevo proposto “La fata democratica”, che sarà usato nelle tre edizioni straniere già in corso di stampa») che corrisponde perfettamente all’ultimo capitolo del libro. Dove lo studioso mostra come e perché l’Italia del governo Renzi sta facendo da apripista verso quella «democrazia assertiva» o francamente «autoritaria» che si va delineando in molti stati occidentali. La “Fata democratica” di Simone è il corrispondente “buonista”, progressista e di sinistra, del “Mostro mite” di destra che si è andato affermando negli ultimi anni fino a conquistare seggi su seggi in tutte le recenti elezioni europee. «La democrazia è diventata gradualmente un’entità benefica e onnipotente, una fata alla quale si può chiedere tutto anche a costo di sfiancarla». Il Mostro e la Fata: sembrano due personaggi da commedia dell’arte. E in effetti in tutto il saggio i rimandi allo spettacolo sono frequenti, fin dalla tesi di base: la democrazia si regge non su concetti realmente esistenti ma su finzioni. Solo che, a differenza di uno spettacolo teatrale in cui lo spettatore crede a quello che vede pur sapendo che non è la realtà, nel momento in cui le finzioni della democrazia mostrano la corda, secondo Simone il «gigantesco gioco di simulazione» crolla non come un castello di carte - che implicherebbe un progetto razionale e preciso - «ma come gli stecchini dello shangai». Di legame tra democrazia e teatro avevano già parlato diversi studiosi, da Hans Kelsen a Georges Balandier. Di «palinsesto che Renzi e gli altri insieme e dopo di lui sono chiamati a recitare» parla il politologo Mauro Calise, in un recente saggio sul “Mulino”. «Il titolo di questo palinsesto è lo stesso che, da anni, governa la grande maggioranza dei nostri partner occidentali: siamo diventati anche noi una “democrazia del leader”»: e Calise intitola così un volume in uscita da Laterza nel 2016. Anche Geminello Preterossi, direttore del Festival del diritto di Piacenza, denuncia l’incombere di una «politica come fiction, che distrae dalla consegna della decisione a logiche non democratiche». In “Ciò che resta della democrazia” (Laterza), Preterossi scrive che «l’inaridirsi degli spazi di partecipazione effettiva determina, per compensazione, il bisogno che nutre l’illusione della democrazia “immediata”, “veloce”, “semplice”». Una deriva pericolosa («Lo scivolamento verso una forma di neoautoritarismo elettivo, nell’indifferenza di un’opinione pubblica sfiancata, può essere molto breve») che secondo Preterossi può ancora essere evitata: «Per impedire che questa espropriazione si compia del tutto, occorre interrompere la fiction, tornare alla forza della politica in carne e ossa, come conflitto e alternativa». Simone è meno ottimista: «Del resto la mia è un’analisi, non un libro propositivo», sottolinea, anche per prendere le distanze da chi lo ha definito reazionario. E allora ecco quali sono le finzioni che reggono il “gioco delle parti” democratico: «È fittizia la cessione della sovranità: con il voto io cedo la mia volontà in forma inarticolata - mettendo solo una croce su una scheda - a qualcuno che posso anche non aver mai visto e che fino alle elezioni seguenti, non avendo vincoli di mandato, potrà fare quello che vuole. Non è realistica l’uguaglianza: siamo uguali solo in quanto viene permesso a tutti di mettere una croce sulla scheda, poi l’uguaglianza si esaurisce. Ed è irrealistica la formazione di una opinione pubblica informata, che è il presupposto di una libera scelta politica: noi cittadini in realtà andiamo avanti tra stereotipi, informazioni manipolate, notizie false e non controllabili». Il risultato è una crisi che scatena allarmi in tutto il mondo. In un recente articolo sul “New York Times” che partiva da un sondaggio del World Values Survey sull’importanza dei valori democratici, Roberto Foa e Yascha Mounk hanno collegato al calo di fiducia la tentazione dei cittadini di «lasciar prendere le decisioni al presidente senza preoccuparsi del Congresso e di affidare le decisioni più importanti a esperti e non a eletti, alla Federal Reserve o al Pentagono». Per i due giovani politologi di Harvard, il cuore del problema è economico e può essere risolto con «ambiziose riforme istituzionali che pongano un freno al potere politico dei ricchi». Ma con Donald Trump in testa ai sondaggi per le prossime presidenziali, una proposta del genere sembra arrivare platealmente troppo tardi. Se Foa e Mounk temono che all’orizzonte si stia materializzando un “governo dell’esercito”, altri politologi invece vedono di buon occhio alcune forme di “democrazia senza elezioni”: perfino il sorteggio delle cariche, come propone David Van Reybrouck nel suo libro appena tradotto da Feltrinelli (e recensito da Giuseppe Berta due settimane fa sull’“Espresso”). Reybrouck, che i lettori italiani già conoscono per il magistrale reportage “Congo”, e che anima una piattaforma politica chiamata G1000, in “Contro le elezioni” lancia una provocazione: rinunciare al voto e sorteggiare le cariche, come facevano i greci. Una provocazione stroncata sul “Corriere della Sera” da Luciano Canfora (che alla “Democrazia” ha dedicato un longseller pubblicato da Laterza). «Le cariche decisive della città erano elettive», ha ricordato. Ma Reybrouck - che di formazione è archeologo - lo sa, e da Atene parte per un excursus che passa dalla Venezia dei Dogi per finire nell’Islanda di oggi, dove la costituzione è stata modificata attraverso un lungo processo che ha permesso la partecipazione diretta dei cittadini. Secondo Simone invece «in Italia alla democrazia senza elezioni ci stiamo arrivando a poco a poco. Del resto, da vent’anni non esprimiamo preferenze sui candidati. Il nuovo senato non è eletto dai cittadini e una parte dei deputati saranno nominati dal partito. Il nostro presidente del Consiglio non è stato eletto e la formazione del governo, così ricco di tecnocrati, ricorda la designazione dei componenti di un consiglio di amministrazione». La frecciata contro i tecnocrati ricorda che i veri nemici, secondo Simone, non sono tanto i politici che vogliono tenersi il potere, ma i tecnici. «In astratto i tecnici sono risorse strumentali a cui il politico - che è per definizione un “incompetente”, uno del popolo - si rivolge per affrontare un determinato problema. Oggi però i tecnocrati non si fidano più dei politici e governano da soli. Lo fanno indirettamente - attraverso la Banca centrale europea o il Fondo monetario internazionale, o peggio ancora attraverso lobby invisibili - o direttamente: Dick Cheney, vicepresidente di George W. Bush, era tra i capi di una multinazionale che prima vendeva le armi e poi bonificava i terreni danneggiati dai bombardamenti». Ma forse la crisi della democrazia è una fase di crescita inevitabile: in fondo tanti politologi la considerano solo una fase di un ciclo che per Polibio va dalla monarchia al caos (il “potere della plebe”), per Kelsen da guerra a guerra - una fase che il giurista austriaco misurava in circa 60 anni. «E certo», continua Simone, «non aiuta questo quadro storico eccezionalmente avverso. Gli effetti della globalizzazione, che tolgono sempre più potere e sovranità alle amministrazioni dei singoli Stati. La crescente impossibilità di arrivare a una conoscenza dei fatti che già prima era difficile ma oggi è impossibile per la proliferazione di fonti data dalla Rete. E per finire l’immigrazione di massa, che superata una certa soglia di percentuale di immigrati porta la società al collasso. Un etologo, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, ha calcolato il limite sostenibile al 30 per cento. Lui ha studiato i topi, e noi non siamo esattamente uguali ai topi, però...» Simone ricorda che in molti casi la democrazia è «un modo per raggiungere il potere con il consenso del popolo e senza spargimenti di sangue», e in effetti anche la sua crisi ha un percorso bonario: per la sua dissoluzione non serve la violenza, basta la paura. Lo “Stato di paura” che permette di “tenere buoni” i popoli, denunciato da un maestro del thriller come Michael Crichton nel libro che è stato il suo testamento spirituale: «Tutti gli elementi del quadro storico avverso sono elementi di paura», spiega Simone. «E la Grande Paura spinge a destra. Del resto la democrazia presuppone un mondo tranquillo, pacificato. È stato il primo tipo di governo che non solo lasciava vivere i nemici - cosa che colpiva molto i pensatori classici - ma addirittura permetteva loro di alternarsi al potere. Qualche volta, storicamente, è andata male: Mussolini e Hitler sono arrivati al potere con “quasi libere” elezioni». E allora, possiamo solo stare a guardare mentre la democrazia preme verso l’antidemocrazia o il caos?Non è possibile ipotizzare dei “lavori di manutenzione” anticrisi? «Dovrebbe pensarci la scuola, che però in Italia è sempre meno in grado di farlo. Non solo per la cronica svalutazione dell’insegnamento dell’educazione civica, ma anche per le pressioni esterne che spingono verso un insegnamento pratico e non critico». Viene da pensare che tutto si tiene, che un governo che viaggia verso una “democrazia assertiva” ha tutto l’interesse a minare il pensiero critico che dovrebbe essere il frutto di una scuola veramente “Buona”. E anche questo fa sì che, per chiudere come il libro di Simone, proprio in Italia oggi la democrazia appaia così «malconcia, mal coltivata e malprotetta».
A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?
Hitler non è morto nel 1945. Per l'Fbi era in Argentina dopo la guerra, scrive “Libero Quotidiano”. History Channel ha realizzato una serie di documentari sulla presunta fine di Hitler. Il network ha messo insieme un pool di ricercatori davvero particolare. A guidarlo c’è una leggenda della Cia, Robert Baer. Con lui John Cencich, esperto di indagini scientifiche e regista dell’inchiesta internazionale che ha portato all’incriminazione del presidente serboSlobodan Milosevic. Nel gruppo anche un incursore, Tim Kennedy, che ha partecipato alle missioni delle forze speciali in Afghanistan per cercare il rifugio di Osama Bin Laden. Il gruppo ha analizzato file desecretati, tracce, testimonianze per rispondere alla domanda del XX: Hitler è morto nel bunker della cancelleria a Berlilno nel 1945 L’inchiesta si basa sui files resi pubblici dall’Fbi lo scorso anno, in cui si registrano molte decine di segnalazioni sulla fuga di Hitler tra il 1945 e il 1950. Baer le ha analizzate con i programmi informatici usati dalla Cia per scovare i terroristi islamici, incrociandole con le notizie raccolte dagli storici e col database degli interrogatori alleati fino a creare una mappa dei possibili nascondigli. Poi i risultati sono stati verificati sul campo. Il primo passo è come lasciare il bunker della cancelleria senza essere visti. A Berlino c'erano centinaia di chilometri di passaggi sotterranei, gli unici sicuri durante l’assedio dell’Armata Rossa. Dal 1999 questi cunicoli vengono esplorati da un’associazione di speleologi. L’aeroporto di Tempelhof era l’unica installazione nazista risparmiata dai raid alleati e dall'avanzata russa. Qui hangar a prova di bomba proteggevano i quadrimotori Condor, che erano in grado di raggiungere la Spagna senza scalo. Il 21 aprile 1945 ne sono decollati diversi, trasferendo alcuni alti ufficiali in Baviera, baluardo del Reich. Su alcuni velivoli erano imbarcate 'le proprietà personali di Hitler'. Secondo le fonti ufficiali l'ultimo decollo risalirebbe al 23 aprile, mentre altri Condor sono stati presi intatti dai russi cinque giorni dopo. Ma fino ad oggi non era stato individuato un collegamento diretto tra l'ultimo quartier generale di Hitler e questo punto di decollo. Il bunker comunicava con le gallerie della metropolitana. Tutti i superstiti dell’entourage hitleriano hanno negato però l'esistenza di un percorso diretto per Tempelhof. Usando un georadar tattico, il team di History ha scoperto un cunicolo che collega l’aeroporto alla stazione del metro. È bloccato dal 1945 e adesso si attendono le autorizzazioni per demolire gli accessi ed esplorarlo. Restava poi il problema di sparire, cosa non facile per un uomo tanto famoso. L’esame dei files Fbi porta a escludere la rotta sudtirolese, sfruttata da molti nazisti per raggiungere il Sudamerica. La pista dell'Fbi porta nella Spagna Franchista, amica del Reich. Le segnalazioni hanno portato ad un monastero molto particolare, perché unito con un lungo tunnel sotterraneo al comando della polizia militare. Dalla spagna il viaggio sarebbe proseguito verso le Canarie, ultimo approdo degli U-boot che non volevano arrendersi agli alleati: tre salparono dalla Germania dopo la resa, consegnandosi in Argentina quasi tre mesi dopo. È nel paese sudamericano che gli avvistamenti di Hitler si sono moltiplicati. L’analisi dei files ha portato il team in una cittadina isolatissima, Charata, e in un altro bunker. La struttura si trova sotto una fattoria, lontana centinaia di chilometri da tutto. In questo luogo era presente una vasta colonia tedesca che negli anni '40 iscriveva i figli alla locale Hitlerjugend. Ma i dossier dell’Fbi indicano anche un covo a Misiones al confine di tre stati. A Misiones una spedizione archeologica sta esplorando i resti di tre edifici degli anni ’40 nel cuore della giungla. Uno è un’abitazione con finiture di pregio. L’altro un impianto idroelettrico. La residenza era quindi autonoma. In una parete è stata trovata murata una scatola di biscotti. Dentro il contenitore c'erano monete del Terzo Reich e delle foto. Una ritrae una giovanissima recluta delle SS. Un’altra mostra il primo incontro tra Benito Mussolini e Hitler, a Venezia nel 1934: l’unico in cui il cancelliere è in abiti civili. Indizi, ricostruzioni verosimili e segnalazioni che però non sono in grado con assoluta certezza, neppure con le più moderne tecnologie, di stabilire se Hitler sia veramente morto nel 1945 o no.
Mancano prove della morte del dittatore. E gli ultimi dossier Fbi desecretati descrivono la sua fuga da Berlino. History Channel li ha fatti esaminare da un ex agente Cia e da uno dei cacciatori di Bin Laden. Scoprendo che la sua presenza fu segnalata in Argentina negli anni Cinquanta, scrive Gianluca De Feo su “L’Espresso”. Un tunnel dove una persona riesce a camminare solo piegandosi, il segmento finale per completare un puzzle di passaggi sotterranei. E cercare di trovare una chiave nascosta per riaprire il mistero del XX secolo, che resiste intatto da settanta anni. Perché nemmeno le ultime tecnologie riescono a offrire una sola prova oggettiva della morte di Adolf Hitler. Gli storici hanno pochi dubbi. Per loro il führer si è ucciso il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria, con un colpo di pistola alla testa e forse una dose di veleno. Anche i testimoni diretti dell’epilogo però sono scomparsi nell’apocalisse del Terzo Reich: restano solo racconti di seconda mano o di figure dall’attendibilità relativa. Nulla che oggi potrebbe permettere a un giudice di attestare il decesso. Dal 26 ottobre al 14 dicembre, ogni lunedì alle 21.00 History Channel (canale 407 di Sky) presenta 'Hunting Hitler' il progetto documentaristico in otto puntate di un'ora sul mistero della morte del dittatore tedesco. Il corpo infatti non fu ritrovato nel bunker di Berlino. Il team di History Channel, che include la 'leggenda' della Cia Robert Baer, ha indagato sui file dell'Fbi sulla presenza di Hitler in Argentina negli anni Cinquanta. Non a caso Thomas J. Dodd, capo delle delegazione americana al processo di Norimberga, ha usato parole chiare: «Nessuno può dire con certezza che Hitler è morto». C’è un vuoto di riscontri, scientifici e fotografici: i resti del dittatore e della donna che aveva sposato alla vigilia della fine sono stati definitivamente inceneriti e dispersi dal Kgb nel 1970. Ventitré anni dopo dagli archivi di Stato moscoviti sono ricomparsi due frammenti di cranio, che il test del dna realizzato nei laboratori americani ha attribuito nel 2009 a una giovane di età compatibile con Eva Braun. In quel teschio però c’è anche il segno di un proiettile in uscita, mentre i racconti tramandati dal bunker hanno parlato sempre di avvelenamento. I documenti desecretati nel corso del tempo non aiutano a fare luce, anzi infittiscono l’enigma. Quelli usciti un anno fa dagli schedari americani sono zeppi di rapporti dell’Fbi consegnati personalmente al gran capo Edgar Hoover che segnalano la presenza del führer in diversi paesi. Come se i detective federali, monopolisti dell’intelligence statunitense nell’immediato dopoguerra, avessero dato fede alle parole di Stalin, a quel “no” con cui durante la conferenza di Potsdam aveva risposto alla domanda diretta del presidente Truman: «Hitler è morto?». Da allora decine di saggisti e romanzieri di alterno valore si sono misurati con l’ipotesi di un’odissea nazista verso un nascondiglio remoto dove attendere la rinascita della follia ariana. Ad affrontare la questione con un approccio diverso arriva adesso un progetto voluto da History Channel, presentato in anteprima a “l’Espresso”. Invece di affidare le ricerche a un pool di accademici, il network dei documentari ha messo in campo una squadra di veri investigatori d’ultima generazione. A guidarla c’è una leggenda della Cia, Robert Baer, che ha ispirato l’agente interpretato da George Clooney in “Siriana”. Un veterano ancora in attività: l’ultima missione è stata a Beirut, indagando sull’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri per conto del Tribunale speciale del Libano. John Cencich invece è un esperto di indagini scientifiche ed è stato il regista dell’inchiesta internazionale che ha portato all’incriminazione del presidente serbo Slobodan Milosevic. Al loro fianco un incursore: Tim Kennedy, un sergente dei ranger statunitensi che ha partecipato alle missioni delle forze speciali in Afghanistan per stanare il rifugio di Osama Bin Laden e in Iraq per catturare Zarqawi. Un pool pragmatico, che si è servito di esperti specializzati per affrontare i singoli problemi: giornalisti investigativi britannici, cacciatori israeliani di criminali, studiosi argentini delle comunità tedesche o ricercatori spagnoli sui rapporti tra Franco e il Reich. Il lavoro di questo pool è durato un anno, con un budget multimilionario e un dispendio di strumenti hi-tech, dai georadar ai droni: dotazioni e risorse che difficilmente i ricercatori universitari possono ottenere. Il risultato è un lunghissimo documentario, “Hunting Hitler”, otto puntate di un’ora che saranno trasmesse su History a partire da lunedì 26 ottobre (ore 21, canale 407 di Sky). La resa televisiva è estremamente dinamica, con un passo da grande film d’azione. Sicuramente troppo movimentata per trovare consensi tra gli storici, ma non si tratta certo di un prodotto di nicchia: è un investimento per catturare pubblici vasti. Il punto è capire se dietro la spettacolarizzazione c’è sostanza, ossia se questo approccio innovativo può offrire un contributo reale alle ricerche. Gli esiti sembrano interessanti, anche se neppure le tecnologie più avanzate e i software elaborati per la sfida mondiale ad Al Qaeda sono riusciti a dare una parola finale sulla sorte di Hitler. È sorprendente ad esempio notare come le ricerche sul campo ancora oggi abbiano dovuto fare i conti con muri di reticenza forti in diversi paesi. E comunque con la volontà di non riaprire un capitolo che si preferisce dimenticare: è il caso degli ultimi familiari di Eva Braun, che non accettano il confronto tra il loro codice genetico e quello dei resti riscoperti a Mosca. «Siamo nati dopo la guerra, per noi quella storia è chiusa», spiegano. L’architrave dell’inchiesta sono i files che l’Fbi ha reso integralmente disponibili lo scorso anno: molte decine di segnalazioni più o meno accurate sulla fuga di Hitler trasmesse tra il 1945 e il 1950. Baer le ha analizzate con i programmi informatici che la Cia utilizza per scovare le tracce dei terroristi islamici, incrociandole con le notizie raccolte dagli storici e col database degli interrogatori alleati fino a creare una mappa dei possibili nascondigli. Per poi andare a verificare sul terreno ogni informazione. Si parte dalle vie per lasciare il bunker della Cancelleria senza essere visti. Nella Berlino dei bombardamenti continui esistevano centinaia di chilometri di passaggi sotterranei, gli unici percorsi sicuri durante l’assedio dell’Armata Rossa. Sono catacombe che dal 1999 vengono sistematicamente esplorate da un’associazione di speleologi. Ma finora mancava l’anello finale dell’itinerario tra la residenza corazzata del führer e l’aeroporto di Tempelhof: l’unica installazione nazista risparmiata dai raid alleati e dalle cannonate sovietiche, con hangar a prova di ordigno che proteggevano i quadrimotori Condor, aereo in grado di raggiungere la Spagna senza scalo. Il 21 aprile 1945 ne sono decollati diversi, trasferendo un manipolo di alti ufficiali nel caposaldo bavarese del Reich: in alcuni di questi velivoli erano imbarcate “le proprietà personali di Hitler”. L’ultima partenza nota avviene il 23 aprile, mentre altri Condor sono stati catturati intatti dai russi cinque giorni dopo. Sotto l’aeroporto c’è un alveare di locali blindati con impianti idrici ed elettrici autonomi, una sorta di monastero di cemento e acciaio, con decine di celle cubiche su tre livelli. In parte custodivano negativi e filmati raccolti dalla ricognizione tedesca: chilometri di pellicole incendiate poi dall’esplosivo dei genieri sovietici nell’ultimo assalto, con un rogo durato giorni che ha incenerito tutto. «Senza vie di fuga, un bunker diventa una trappola», sottolinea Baer. Dal comando della Cancelleria infatti si entrava nelle gallerie della metropolitana. Tutti i superstiti dell’entourage hitleriano hanno negato però che esistesse un percorso diretto per gli hangar di Tempelhof. Usando un georadar tattico, identico a quello impiegato per ispezionare le caverne di Tora Bora dove a lungo si è pensato fosse morto Bin Laden, il team di History ha scoperto un cunicolo che unisce l’aeroporto alla stazione del metro. È bloccato dai giorni della battaglia e adesso si attendono le autorizzazioni per demolire gli accessi ed esplorarlo. In ogni caso, c’erano altri modi per sottrarsi all’attacco sovietico. Robert Ritter von Greim e Hanna Reitsch sono atterrati in una pista improvvisata a pochi metri dalla porta di Brandeburgo e ripartiti il 30 aprile dopo avere incontrato Hitler nei meandri della Cancelleria. Già, ma dove poteva andare un uomo così famoso e così odiato? L’esame dei files Fbi porta a escludere la rotta sudtirolese, sfruttata da molti nazisti per raggiungere il Sudamerica attraverso i porti italiani e la copertura della gerarchia cattolica. Nel caso del führer i rischi dovevano essere ridotti al minimo, contando su rifugi predisposti da tempo in paesi ancora amici. Come la Spagna di Francisco Franco. Lì le segnalazioni raccolte dai detective di Hoover hanno portato la squadra di Robert Baer in un monastero molto particolare, perché unito con un lungo camminamento sotterraneo al comando della polizia militare. Poi le Canarie, ultimo approdo degli U-boot che non volevano arrendersi agli alleati: tre salparono dalla Germania dopo l’annuncio della resa, consegnandosi in Argentina quasi tre mesi più tardi. È nel paese sudamericano che gli avvistamenti di Hitler si sono moltiplicati. L’analisi dei files ha portato il team in una cittadina isolatissima, Charata, e in un altro bunker: una struttura costruita sotto una fattoria, lontana centinaia di chilometri da tutto. Lì negli anni ’40 una vasta colonia tedesca iscriveva i figli a centinaia nella sede locale della Hitlerjugend. Ma i dossier dell’Fbi indicano un altro “covo” ancora più a nord, a Misiones, terra di predicatori gesuiti al confine di tre stati: una posizione da sempre sfruttata per traffici e contrabbandi. A Misiones dallo scorso marzo una spedizione archeologica sta esplorando i resti di tre edifici costruiti negli anni ’40 nel cuore della giungla. Uno è un’abitazione di qualità, con vasca da bagno e decorazioni. L’altro probabilmente un impianto idroelettrico con alcune officine. Insomma, una residenza autonoma: gli scavi finora hanno riportato alla luce riserve di cibi in scatola e medicinali, tutti di quel periodo. In una parete era stata murata una scatola di biscotti, contenente monete del Terzo Reich e alcune foto. Una ritrae una giovanissima recluta delle SS, forse non tedesca, forse uno dei volontari europei accorsi a combattere sotto la svastica. Un’altra mostra il primo incontro tra Benito Mussolini e Hitler, a Venezia nel 1934: l’unico in cui il cancelliere indossa abiti civili. Indizi, piccoli e grandi, di una rete di protezione dei fuggitivi nazisti. Che però non scalfiscono il mistero del secolo.
L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?
Le persone di sinistra sono più intelligenti? Si Chiede su “La mente è Meravigliosa”. “Tutti i giorni la gente si sistema i capelli, perché non il cuore?” Vi sembra una frase intelligente? Queste parole sono state formulate dalla mente di Ernesto Che Guevara, il famoso rivoluzionario. Ci sono molte altre citazioni epiche di questo mito che sono sopravvissute fino ai giorni d’oggi. Ciò ha forse a che vedere con la sua ideologia di sinistra? Uno studio della Brock University sostiene di sì. Lo studio della Brock University nell’Ontario, Canada. Secondo i risultati ottenuti dai ricercatori della Brock University, nell’Ontario, Canada, coloro che sono meno intelligenti già durante l’infanzia sviluppano un’ideologia di destra e tendenze razziste e omofobe, rispetto alle ideologie di sinistra, che sono più aperte e comprensive. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori si sono basati su studi condotti negli anni 1958 e 1970 nel Regno Unito. Questi studi analizzarono il livello d’intelligenza di migliaia di bambini tra i 10 e gli 11 anni, che poi risposero a domande di politica una volta raggiunta l’età di Cristo, 33 anni. Tra le domande poste ai bambini ormai adulti, c’erano questioni riguardo i pregiudizi di vivere affianco a vicini di una razza diversa o sulle preoccupazioni che sorgono quando bisogna lavorare con qualcun altro. Altre domande alle quali dovettero rispondere i soggetti riguardavano l’ideologia politica conservatrice, come rendere più severe le pene dei criminali o mostrare ai bambini la necessità di ubbidire all’autorità. Le persone di sinistra sono davvero più intelligenti? Alcune delle conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della Brock University sostengono che i politici conservatori facilitano la nascita di pregiudizi. Basandosi sui risultati delle ricerche inglesi, i ricercatori sostengono che le persone meno intelligenti si localizzano nello spettro della destra politica, perché qui si sentono più sicuri. Secondo i creatori di questo studio, è l’intelligenza innata a determinare il livello di razzismo di una persona, molto più dell’educazione e dell’istruzione. Nemmeno lo status sociale ha un ruolo importante a proposito. Semplicemente affermano che l’ideologia conservatrice è la via giusta per trasformare bambini che hanno difficoltà a ragionare in persone razziste. Le capacità cognitive sono fondamentali per avere una mente aperta. Ciò significa che coloro che hanno capacità cognitive ridotte o molto ridotte tendono ad adottare ideologie conservatrici per la sensazione di ordine che implicano. Questa è un’altra delle conclusioni dello studio. Intelligenza innata. Secondo le ricerche condotte dalla Brock University, tutto ciò significa che l’intelligenza innata ha un ruolo determinante nell’ideologia ultima adottata da un individuo. Questo significa che essere di destra è sinonimo di stupidità? Assolutamente no. Oggigiorno, in tutto il mondo le ideologie politiche sono un po’ ingarbugliate. Niente è più ciò che sembra. Possiamo definire un regime comunista come quello imposto in Corea del Nord di sinistra? Qui, i cittadini si sono abituati a vivere sotto gli ordini di un dittatore che si definisce d’ideologia progressista, ma che manipola i destini di milioni di persone con un pugno di ferro. Esistono altri esempi di paesi in cui si è tentato di stabilire un regime di sinistra e comunista, ma senza successo. Russia o Cuba, per esempio, hanno sofferto terribili repressioni popolari durante la fase della dittatura del proletariato, che alla fine si è trasformata nel mandato di un singolo leader come Stalin o Castro, con accesso limitato alla libertà o al pensiero. Ciò significa che, tra i partiti della sinistra mondiale, c’è gente camuffata che in realtà è di destra? È possibile che nell’ideologia progressista si siano infilate persone poco intelligenti che in realtà sono conservatori? Non esiste una risposta chiara a questo tipo di domande, poiché le ideologie hanno sempre meno peso in un mondo mosso meramente da interessi economici e dei partiti. In realtà, ciò che importa è avere una mente aperta e curiosa. Imparate da tutti coloro che hanno qualcosa da apportarvi nella vita. Se non avete un’intelligenza innata che apra la vostra mente, almeno stimolate la vostra intelligenza emotiva. Siate sensibili a qualsiasi tipo di tendenze e modi di essere e adottate una vita piena e felice. Come diceva Ernesto Che Guevara, se siete in grado di avere capelli splendenti, siete anche capaci di avere un cuore nobile e buono.
Quell'ossessione dello Stato di regolare la nostra vita. In Italia, sul cibo, c'è la stessa ossessione regolamentatrice dell'Unione Sovietica, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". L'idea che si possano, anzi, si debbano, regolamentare i comportamenti sociali, non lasciando il minimo spazio allo spontaneismo individuale e collettivo è l'ossessione di ogni politica. Particolarmente affetto ne è quel filone della politica, eredità del razionalismo settecentesco, che si è storicamente incarnato nella sinistra dopo la Rivoluzione bolscevica e la nascita dell'Unione Sovietica. Ho ritrovato, e osservato, tale ossessione in due Paesi che hanno interpretato la politica da versanti opposti, pervenendo a risultati profondamente diversi. In Unione Sovietica non c'era ambito della società civile che la politica non volesse regolamentare e non regolamentasse. Il risultato era stata l'estrema esasperazione del sistema politico totalitario che aveva soffocato l'intera società civile russa, mentre, di converso, lo spontaneismo sociale promuoveva quella cinese, empirica e sperimentale. In Cina, la convinzione che solo lasciando alla società civile ampi ambiti di autonomia, soprattutto economica, il Paese sarebbe uscito dal dirigismo maoista e decollato verso la modernità e la crescita, ha dato i suoi frutti; oggi, la Repubblica popolare cinese è uno dei Paesi al mondo esemplari di più felice combinazione fra spontaneismo sociale e sviluppo economico, modernizzazione, crescita economica e sociale. Ricordo che, quand'ero in Cina, avevo osservato, e apprezzato lo spirito di iniziativa di certi cinesi, maschi e femmine, che avevano affrontato l'avventura liberista, godendo e approfittando della libertà che la politica lasciava loro di intraprendere e commerciare. Ho ritrovato la stessa ossessione regolamentatrice sovietica, da noi, in Italia, da parte soprattutto di quel filone politico, terreno di sperimentazione, da parte del Partito comunista, che aveva guardato all'Urss come ad un modello da imitare, e, entro certi limiti, da parte della cultura politica e sociale di matrice religiosa, non meno autoritaria di quella comunista. È stata la grande illusione razionalistica prodotta e diffusa dalla Rivoluzione francese con la pretesa di creare, e far crescere, la «società perfetta», dove nulla era lasciato al caso e tutto dipendeva dalla previsione e dalla programmazione politica. Non credo di sbagliarmi dicendo che l'Italia è il Paese al mondo col maggior numero di permessi, licenze, e divieti e anche quello dove queste forme di razionalismo condizionano la società civile e le impediscono di sviluppare autonomamente le proprie potenzialità. Il guaio è che l'ossessione regolamentatrice fa crescere la domanda di regolamentazione, e, quindi, di politica e di burocrazia ogni volta che si rivela inadeguata ad assolvere le funzioni che le sono impropriamente assegnate...Personalmente, sono cresciuto culturalmente all'ombra dell'empirismo anglosassone generatore dell'Illuminismo scozzese che si è distinto dal razionalismo francese proprio grazie al suo scetticismo rispetto alle virtù salvifiche della regolamentazione e della conseguente previsione-programmazione razionalistica. Sono liberale grazie anche a questa formazione culturale della quale sono debitore ad uno dei miei maestri all'Università di Torino di formazione anglosassone e col quale mi sono laureato, Alessandro Passerin d'Entreves, e ho imparato da Norberto Bobbio, l'altro mio grande maestro, a leggere i classici della cultura politica moderna, evitando, allo stesso tempo, di diventare prigioniero del positivismo politico, non meno di quello giuridico, cui era afflitto Bobbio, lui sì convinto erede del razionalismo francese. Grazie a Bobbio, ho letto David Hume e sono entrato in familiarità con l'empirismo anglosassone e l'Illuminismo scozzese. Detesto ogni pretesa previsionale e programmatrice proprio a ragione della loro scarsissima prevedibilità e capacità di programmazione razionale, e coltivo, con l'empirismo, un sano scetticismo sulle capacità razionali dell'uomo. Per intenderci: non vado in giro con la Dea Ragione sulle spalle come amano fare i razionalisti di tutte le tendenze e, in particolare, quelli di formazione transalpina. Ho imparato che il mondo è popolato da individui, ciascuno dei quali persegue i propri fini, con i propri mezzi, che coincidono solo inconsapevolmente con quelli degli altri - attraverso quell'empatia della quale parla Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali - in modo spontaneo ricercando il proprio Utile senza attenersi a calcoli previsionali e programmatici altrui... Se c'è qualcosa - diciamo pure molto! - che non va nella politica italiana è la convinzione si possano regolamentare i comportamenti sociali attraverso permessi, licenze, divieti che, poi, si rivelano l'ostacolo a quello spontaneismo che sta a fondamento della dottrina liberale e della nostra civilizzazione. Mi auguro, come ho scritto recentemente, che Berlusconi faccia iniezioni di empirismo e di liberalismo nella propria cultura politica e in quella di Forza Italia. Ce n'è effettivamente bisogno...
Mille euro al minuto a un comunista. L'ex ministro greco Varoufakis ospite da Fazio per 24mila euro. Il canone serve a questo? Si chiede Alessandro Sallusti su "Il Giornale" del 29/10/2015. Mille euro al minuto. È quanto la Rai ha pagato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco, per sparare pirlate a «Che tempo che fa», il salotto televisivo personale di Fabio Fazio. Ventidue minuti, andati in onda il 27 settembre, che urlano vendetta. Non è la cifra in sé, 24mila euro appunto, più viaggio aereo pagato in prima classe, ma lo sperpero di denaro pubblico. Con in più la beffa che a staccare l'assegno è stato il più moralista dei conduttori tv a favore del più comunista dei politici europei, quello che aveva fatto accorrere ad Atene a osannarlo una nutrita pattuglia della sinistra italiana a inneggiare agli eroi di Tsipras. Lungi da noi cadere nel facile moralismo. Se uno ha mercato è giusto che incassi il dovuto. Non ci formalizziamo. È che non capiamo che mercato possa avere mister Varoufakis, economista messo al bando sia dall'Europa sia dal suo Paese. Lo hanno cacciato e a quanto risulta, nel suo girovagare per tv e salotti di mezzo mondo, noi italiani siamo stati gli unici a pagare per godere del suo verbo. Il che stride con il pianto, anche quello greco, di chi ci governa e lamenta mancanza di liquidità. Si tolgono soldi ai pensionati e poi, via Rai, si sprecano euro con i comunisti chic. Si sfora il debito e il premier si compra un nuovo lussuoso aereo. Si spendono 3 miliardi per l'emergenza immigrati e non c'è un soldo in più per i terremotati dell'Emilia e gli alluvionati della Campania. Se è così che Renzi e i neo-nominati vertici della Rai pensano di usare i soldi di quella nuova tassa occulta che è il canone in bolletta Enel, allora siamo alla truffa. Sanno gli italiani che la Rai spende due dei loro milioni ogni anno per pagare Fabio Fazio? E sanno che Luciana Littizzetto, spalla del conduttore buonista, è ricompensata con ventimila euro a puntata? Credo che a molti verrebbe voglia di farsi staccare la luce da Renzi, piuttosto che vedere buttati così i propri risparmi. Che tanto, per sapere «Che tempo che fa» basta leggere le previsioni o guardare fuori dalla finestra.
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia: Caro Dago, le consuete diatribe su quanto o quantissimo vengono pagate le star televisive sono davvero male impostate. Ci sono personaggi della televisione che marchiano a fuoco il programma da loro condotto. Lo faceva Michele Santoro, bravissimo nel suo genere (che non è il mio); lo fa Barbara D’Urso, irresistibile nei confronti del suo pubblico meridiano (i cui gusti sono distantissimi dai miei); lo fa Massimo Giletti, da anni ostinatissimo nel sorreggere lo “share” della domenica pomeriggio di Rai1. Se qualcuno obiettasse sui compensi di personaggi siffatti, io direi che non sanno di che cosa stanno parlando. Se una trasmissione di quelle che ho nominato fa o faceva due punti percentuali di ascolto in più, erano soldoni che venivano dalla pubblicità e che compensavano alla grande i cachet. La televisione funziona così, e quella pubblica e quella privata. Se paghi lautamente un ospite che ti fa scena e “ascolto” sono soldi spesi benissimo, e sta a zero l’invidia (inevitabile) di gente e scribacchini. Il caso Varoufakis è profondamente diverso. E’ figlio di una di una dinamica completamente diversa. Tanto è vero che solo alla Rai e in una televisione giapponese, il noto motociclista è stato trattato talmente con i guanti: e tanto più se stiamo parlando della Rai, di un’azienda in un cui un comune mortale tratta alla morte se avere trenta euro in più o in meno per una prestazione professionale. I 24mila euro netti (e dunque 50mila lordi) pagati all’ex ministro greco hanno tutt’altra logica. Nascono dalla necessità spasmodica di buona parte del palinsesto di Rai3 di “offrire” qualcosa di sinistra al suo pubblico che ne arde. Che di meglio di uno che da ministro greco faceva l’orgogliosissimo nel momento in cui il suo governo e il suo Paese chiedevano all’Europa i soldi di che sopravvivere sino al giorno dopo in ragione dell’Himalaya di debiti che avevano accumulato. Voi ricordate i commenti di tanti al risultato grottesco del referendum greco, all’annuncio che i greci non ne volevano sapere di pagare i loro debiti. Dio che orgogliosi, commentarono subito alcuni quaquaraquà del pronto intervento ideologico. E chi meglio del motociclista, che è poi un gran rivale di Fabrizio Corona quanto a turgore maschile, poteva rappresentare quell’orgoglio in una delle case madri della superiorità razziale della sinistra, ossia la trasmissione garbatamente condotta su Rai3 da Fabio Fazio? L’ho visto quando Varoufakis si è presentato e seduto. Da soli quella posa e quell’atteggiamento valevano i 24mila euro. Dio che cipiglio, Dio che turgore. Fuffa ideologica, la migliore di tutte. Non ha prezzo perché è una merce che ha un pubblico imponente, non meno grande di quello di Barbara D’Urso. Cappello. Che poi la Luciana Litizzetto abbia in quella trasmissione un cachet di 20mila euro a botta, davvero non so giudicare. Io non ho mai riso una volta nella mia vita alle sue battute. La mia compagna Michela sì, quasi sempre. Non so, davvero non so.
Pansa intervista Pansa su “Libero Quotidiano”: "Devo tutto alla guerra".
Caro Giampaolo, come ti senti adesso che hai compiuto gli ottant' anni?
«Tutto sommato, mi sento bene, a parte qualche acciacco inevitabile alla mia età. Ma il resto funziona e non posso che ringraziare il Padreterno. La testa è ancora lucida e la voglia di scrivere tanta. Devo confessare che il piacere di scrivere, invece di diminuire, con l'età è cresciuto. La mattina mi alzo presto e una delle prime cose che faccio è accendere il computer. Poi mi dedico a un articolo, al capitolo di un mio nuovo libro, a una lettera da inviare a un amico. Impegnarmi ogni giorno in questo esercizio mi gratifica molto. E mi ricorda che sono sempre stato un uomo fortunato».
In che cosa consiste la tua fortuna?
«Prima di tutto, nella data di nascita. Sono un ex ragazzo del 1935. L' essere venuto al mondo in quell' anno mi ha regalato molte opportunità. La prima è stata di vedere con i miei occhi il disastro di una guerra mondiale. È iniziata nel 1940 quando avevo cinque anni ed è finita nel 1945 quando mi avviavo a compierne dieci. Quello che ho visto, sia pure con lo sguardo di un bambino, mi ha insegnato che non bisogna mai lamentarsi di quanto ci accade, perché il peggio può sempre arrivare».
Il tuo ricordo più orribile del tempo di guerra?
«I bombardamenti aerei. Casale Monferrato, la mia città, non era un obiettivo strategico, ma aveva due ponti sul Po, uno pedonale e l'altro ferroviario, abbastanza vicini al centro. A partire dall' estate del 1944, gli apparecchi angloamericani tentarono di distruggerli come avevano iniziato a fare con tutti i ponti della Pianura padana. Nella convinzione che, dopo la liberazione di Roma, la guerra stesse per finire e dunque fosse necessario ostacolare la ritirata dei tedeschi. Il ponte pedonale lo colpirono subito, quello ferroviario mai. Per questo i bombardieri alleati ritornavano di continuo all' assalto».
E allora?
«Allora ho nella memoria lo schianto delle bombe. Un rumore da film degli alieni, che si insinuava dentro di te, si impadroniva del tuo corpo e ti faceva temere di morire. Invece l'andare nei rifugi antiaerei durante la notte, per me era divertente. Può sembrare una bestemmia, lo so. Ma da ragazzino precoce mi sentivo attratto dalle donne sempre un po' discinte. Se qualcuno mi chiedesse quando ho cominciato a osservare l'altro sesso, risponderei: nel grande rifugio della marchesa della Valle di Pomaro, situato a cento metri dal nostro appartamento, un palcoscenico straordinario di varia umanità».
Ma non avevi paura?
«Dopo il primo bombardamento sì, ho provato il terrore di essere ucciso. Poi mi sono abituato. Tanti anni dopo, nel leggere quel che era accaduto in Gran Bretagna, ho compreso che l'Italia, soprattutto nelle piccole città, era stata una specie di paradiso. Gli abitanti di Londra e di altri centri inglesi, come Coventry avevano vissuto l'inferno dei continui bombardamenti tedeschi. Gli inglesi stavano assai peggio di noi. Hanno sofferto la fame, da loro il tesseramento è rimasto in vigore sino agli anni Cinquanta. Noi ce la siamo cavata molto meglio».
Che cosa dicevano i tuoi genitori della guerra?
«La consideravano un castigo di Dio e speravano che finisse presto. Ma non hanno mai lasciato trasparire le loro paure con me e a mia sorella Marisa. Mio padre Ernesto, classe 1898, da giovanissimo si era sciroppato gran parte della Prima guerra mondiale, nel Genio radiotelegrafisti della III Armata, quella del Duca d' Aosta. E aveva visto gli orrori di quel conflitto. Gli inutili assalti alla baionetta, i cadaveri straziati dalle cannonate, i tanti feriti, i mutilati, i soldati con la malaria e il colera abbandonati in lazzaretti di fortuna. Era un uomo buono e pessimista, rimasto orfano di padre da bambino, insieme a cinque tra fratelli e sorelle. Mia madre Giovanna, invece, era una donna ottimista. Aveva un negozio di mode in centro, guadagnava tre volte lo stipendio di papà, operaio guardafili delle Poste. Insieme mi hanno insegnato come si deve stare al mondo».
Quando hai scoperto che ti piaceva scrivere?
«Alla conclusione della terza media. Eravamo nell' estate del 1947 e avevo dodici anni e mezzo, poiché nelle elementari avevo fatto insieme la quarta e la quinta. Come premio per un'ottima pagella, papà mi regalò una macchina per scrivere di seconda mano: una Underwood del 1914, fabbricata in America. Ho imparato subito a usarla e mi sono accorto di avere una vocazione: quella di diventare un giornalista. Cominciai presto a collaborare al settimanale della mia città, Il Monferrato. Non mi pagavano, però mi lasciavano fare. Quando sono andato all' università di Torino, a Scienze politiche, ho dedicato tutto il mio tempo alla tesi di laurea. L'argomento era la guerra partigiana tra Genova e il Po. L' avevo iniziata per partecipare a un concorso indetto dalla Provincia di Alessandria. Divenne un malloppo pazzesco, di ottocento pagine».
E che cosa accadde?
«Mi laureai con il massimo dei voti e la dignità di stampa. Era il luglio del 1959 e avevo 23 anni e nove mesi. Nel novembre del 1960 la mia tesi vinse il Premio Einaudi che mi fu consegnato dall' ex capo dello Stato, Luigi Einaudi, nella sua villa di Dogliani, con una cerimonia solenne. Quel premio convinse il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti, a convocarmi per capire che tipo ero. Il nostro incontro durò meno di un quarto d' ora. E lui mi assunse, come in seguito fece con altri giovani laureati. Voleva svecchiare la redazione, così mi venne detto».
Un altro colpo di fortuna…
«Sì. Ma anche il risultato di una serie di circostanze che non riguardavano soltanto me. Quando iniziai a lavorare alla Stampa era il gennaio 1961. L' Italia era appena uscita del suo primo boom economico. I grandi quotidiani andavano a gonfie vele. A insidiarli non esisteva la televisione e meno che mai il maledetto web. Vendevano molte copie, raccoglievano tanta pubblicità, avevano la cassa piena di soldi».
Condizioni oggi irripetibili...
«Non c' è dubbio. Gli stipendi erano più che buoni, compresi quelli dei redattori alle prime armi. In compenso bisognava lavorare, o ruscare come diciamo noi piemontesi. Dieci ore di presenza dalle due del pomeriggio a mezzanotte. Nessuna settimana corta. Un rigore assoluto, garantito dai capi servizio, a loro volta onnipotenti. De Benedetti era un dittatore indiscusso. Quando entrava nella grande sala della redazione, tutti ci alzavamo in piedi. Soltanto quando Gidibì ringhiava: "Signori, seduti!", il lavoro riprendeva».
Fammi un esempio del rigore della «Stampa»…
«Eccone uno. Lavoravo da parecchio al notiziario italiano, quando Carlo Casalegno, il giornalista assassinato nel 1977 dalle Brigate rosse, mi chiese una recensione per la terza pagina, quella culturale. Riguardava un libro appena uscito in Italia: Il giorno più lungo di Cornelius Ryan, sullo sbarco alleato in Normandia nel giugno del 1944. La scrissi e la riscrissi con il cuore in gola. La consegnai al direttore e Gidibì la tenne nel cassetto per una settimana. Poi mi convocò e ruggì: "Questa non è una recensione, ma una cattiva cronaca dello sbarco in Normandia". Quindi iniziò a stracciarla in pezzi sempre più piccoli. E li fece nevicare sotto gli occhi».
Poi hai lasciato la «Stampa». Come mai?
«È un altro esempio della fortuna che assisteva un ragazzo del 1935. Negli anni Sessanta, un direttore che apprezzava il tuo lavoro aveva il potere assumerti da un giorno all' altro. Una circostanza irreale se guardiamo ai giorni nostri. Italo Pietra, allora direttore del Giorno, nel 1964 mi offrì un contratto da inviato speciale. Mi chiese: "Dove vuoi essere mandato in servizio: a Voghera o nel Golfo del Tonchino dove sta per cominciare una guerra che si estenderà al Vietnam?". Da monferrino sveglio risposi: "A Voghera, direttore". Pietra sorrise: "Risposta esatta. Ti assumo. Ecco il contratto da firmare. Se dicevi il Tonchino, non ti avrei mai assunto"…».
Quanto sei rimasto al «Giorno»?
«Sino alla fine del 1968. Poi Alberto Ronchey, il successore di Gidibì, mi rivolle alla Stampa, sempre come inviato. La mia base era Milano, una metropoli sconvolta dalla violenza e dagli attentati. Cortei militanti a tutto spiano, l'omicidio dell'agente di polizia Annarumma, la strage di Piazza Fontana, la fine oscura dell'anarchico Pinelli, l'arresto di Valpreda, i primi segni di vita delle Brigate rosse. Ho imparato a conoscere l'Italia, un paese ingovernabile, travolto dall' estremismo politico».
Se non sbaglio, nel 1973 sei passato al «Messaggero» dei Perrone…
«Sì, a fare il redattore capo, un mestiere che non era il mio. Ma la fortuna continuò ad assistermi. Piero Ottone mi volle al Corriere della sera. Ci rimasi sino al 1977, poi Eugenio Scalfari mi assunse a Repubblica, nata l’anno precedente. Rimasi con Barbapapà un'infinità di tempo. Quindi andai all' Espresso con Claudio Rinaldi, ero il suo condirettore. Nel 2008 lasciai il gruppone di Scalfari e mi arruolai nel Riformista di Antonio Polito. Di lì sono passato a Libero, dove sto con grande soddisfazione mia e, spero, del direttore Maurizio Belpietro e dell'editore Giampaolo Angelucci».
In tanti anni di professione, immagino che tu sia stato costretto ad affrontare non poche delle emergenze che hanno tormentato l'Italia. Quale di loro ricordi?
«Almeno tre. La prima è il terrorismo, soprattutto quello delle Brigate Rosse. Oggi non ce ne ricordiamo più, ma è stata una seconda guerra civile durata quasi un ventennio. Con un'infinità di morti ammazzati, centinaia di feriti, allora si diceva gambizzati, e un delitto che ricordo come fosse avvenuto ieri: il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Tuttavia l'aspetto peggiore, e infame, di quel mattatoio fu il comportamento di una parte importante della borghesia di sinistra. Eccellenze della cultura, dell'università, del giornalismo, delle professioni liberali. E della politica comunista e socialista. Per anni negarono l'esistenza del terrorismo rosso. Sostenevano che si trattava di fascisti travestiti da proletari. Soltanto qualcuno ha fatto ammenda di quella farsa tragica. Ma pochi, per non dire pochissimi. Molti pontificano ancora e si considerano la crema dell'Italia».
E la seconda emergenza?
«È la corruzione, un cancro che intacca, con una forza sempre più perfida, partiti, aziende, pubblica amministrazione. È un virus che si estende anno dopo anno. Ha avuto un picco al tempo di Mani Pulite o di Tangentopoli. Era il 1992 e allora sembrò che le indagini del pool giudiziario di Milano avessero la meglio. Invece era soltanto una pausa breve. Infatti tutto è ricominciato alla grande. Devo dire la verità? L' Italia è una repubblica fondata sulla mazzetta. Non può consolarci il fatto che tante nazioni siano uguali a noi».
La terza emergenza?
«È il discredito sempre più devastante che ha mandato al tappeto il sistema politico italiano. Per anni ho seguito da vicino e ho raccontato la crisi dei nostri partiti. Li ho visti ammalarsi, peggiorare, arrivare vicini all' estinzione. Adesso mi sembrano malati terminali. Molte parrocchie politiche sono già morte. E altre moriranno. Alla fine resteranno in piedi soltanto pochi personaggi, i più scaltri, i più demagoghi. È facile prevedere che saranno loro a comandare in Italia».
Stai pensando a Matteo Renzi, il nostro presidente del Consiglio?
«Certo, penso al Fiorentino, ma non soltanto a lui. Renzi oggi comanda e temo che continuerà a comandare per parecchio tempo. Avremmo bisogno di un nuovo De Gasperi, ma l'Italia del 2015 è messa peggio di quella del 1948. Allora eravamo un paese senza pace, alle prese con tutti i guai del dopoguerra. Ma avevamo fiducia in noi stessi, voglia di rinascere, capacità di sacrificio, entusiasmo politico, anche faziosità all' ennesima potenza. Oggi siamo una nazione di morti che camminano, non parlano, non si occupano di quello che un tempo veniva chiamato il bene pubblico. Prevale la paura di diventare sempre più poveri».
Come vedi il futuro dell'Italia?
«Buio e tempestoso. Adesso qualche gregario di Renzi dirà che sono un vecchio gufo menagramo, ma è proprio il personaggio del Fiorentino a indurmi al pessimismo. Non è un leader politico poiché non ha la statura intellettuale e umana per esserlo. È soltanto l'utilizzatore finale di una crisi antica della Casta dei partiti, cominciata molti anni fa. Renzi sta dominando su uno scenario di macerie. A lui interessa soltanto il potere. Non è un generoso come sanno esserlo i veri numero uno. È un piccolo demagogo, egoista, vendicativo, che si è circondato di una squadra di yes man incompetenti, pronti a obbedirgli e a seguirlo fino a quando resterà in sella. Nessuno lo scalzerà dalla poltrona e lui seguiterà a vincere per abbandono di tutte le controparti».
Nemmeno il centrodestra riuscirà a scalzare Renzi?
«Ma non raccontiamoci delle favole! Il centrodestra mi ricorda l'ospizio dei poveri della mia città. Sono convinti, o fingono di esserlo, che soltanto loro abbatteranno il Fiorentino. Ma è un pio desiderio, nient' altro. In realtà tutti i capetti di una volta si combattono per spartirsi il poco che è rimasto dell'impero di Silvio Berlusconi. Giocano con il pallottoliere e, sommando una serie di piccoli numeri, si illudono di sconfiggere Renzi. Il loro futuro è persino più nero di quello italiano. Ce lo conferma la crisi drammatica del Cavaliere. Ha un anno meno di me e nel 2016 taglierà il traguardo degli ottanta. Gli auguro di conservare la villa di Arcore e di non sentire che un giorno, all' alba, bussa alla sua porta qualche scherano di Renzi con un'ordinanza di sfratto».
Sei certo che gli oppositori attuali di Renzi non siano in grado di fermarlo?
«Forse potrebbe farcela un'alleanza che oggi sembra una chimera. Quella fra Grillo, Salvini, la Meloni e quanto resta di Forza Italia. Ma nel caso molto improbabile che questo asse prenda forma, chi può esserne il leader? Viviamo in un'epoca che considera la figura del capo un fattore indispensabile per contendere il potere politico, con la speranza di conquistarlo. Però dove sta il nuovo leader del centrodestra? Io non lo vedo».
E del centrosinistra che cosa mi dice?
«Che sta peggio del centrodestra. Quando esisteva ancora la Democrazia cristiana, un anziano deputato doroteo di Caltanissetta mi disse: "Il mio partito ricorda la masseria dello curatolo Cicco: il primo che si alza, pretende di comandare". Non rimpiango di certo la scomparsa del Pci, ma la sua fine ha lasciato un vuoto enorme. Si sta realizzando una profezia del vecchio Pietro Nenni: rischiamo di diventare una democrazia senza popolo. È quello che accade in Italia, pensiamo al grande numero di elettori che non vanno più alle urne».
Nella prima e nella seconda Repubblica tu hai votato sempre a sinistra, se non sbaglio…
«Sì, ho votato per il Pci, per il Psi e per i radicali. Poi non sono più andato a votare, da quando ho scoperto la vera natura della sinistra italiana. Me ne sono reso conto del tutto nel 2003, dopo aver pubblicato il mio libro dedicato a quanto era accaduto dopo il 25 aprile 1945: Il sangue dei vinti. Un lavoro minuzioso, che non ha mai ricevuto una smentita o una querela. Posso definirlo una prova di revisionismo storico da sinistra? Eppure la sinistra italiana, in tutti i suoi travestimenti, mi ha maledetto. E non ha smesso di sputarmi addosso nemmeno quando si è resa conto che quel libraccio aveva un successo enorme. A tutt' oggi ha venduto un milione di copie».
Tu fai il giornalista dal 1961, ossia da cinquantaquattro anni. Ha ancora senso questo nostro mestiere?
«Penso di sì, anche se è diventato una professione proibita ai giovani. Nessuno li assume, i compensi per chi vuole iniziare sono minimi. Ma io sono difeso dalla mia età. A ottant' anni mi protegge un antico imperativo del filosofo tedesco Immanuel Kant. Recita: fai quel che devi, avvenga quel che può».
L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.
Frasi, citazioni e aforismi sull’uguaglianza. Pubblicato da Fabrizio Caramagna.
Nasciamo uguali, ma l’uguaglianza cessa dopo cinque minuti: dipende dalla ruvidezza del panno in cui siamo avvolti, dal colore della stanza in cui ci mettono, dalla qualità del latte che beviamo e dalla gentilezza della donna che ci prende in braccio. (Joseph Mankiewicz)
Tutti gli uomini nascono uguali, però è l’ultima volta in cui lo sono. (Abraham Lincoln)
Ognuno è impastato nella stessa pasta ma non cotto nello stesso forno. (Proverbio Yiddish)
Dovunque sono uomini, sono diversità di opinioni, disparità di sentimenti, differenza di umori, tali e tante variazioni temporanee o permanenti, che il consenso perfetto è impossibile, non dico fra tutti o fra molti, ma fra pochi, fra due. (Federico De Roberto)
Equa distribuzione della ricchezza non significa che tutti noi dovremmo essere milionari – significa solo che nessuno dovrebbe morire di fame. (Dodinsky)
L’uguaglianza sarà forse un diritto, ma nessuna potenza umana saprà convertirlo in un fatto. (Honoré de Balzac)
È falso che l’uguaglianza sia una legge di natura: la natura non ha fatto nulla di eguale. La sua legge sovrana è la subordinazione e la dipendenza. (Marchese di Vauvenargues)
L’uguaglianza consiste nel ritenerci uguali a coloro che stanno al di sopra di noi, e superiori a coloro che stanno al di sotto. (Adrien Decourcelle)
Egalitarista. Il genere di riformatore politico e sociale interessato a fare scendere gli altri al proprio livello più che a sollevarsi a quello degli altri. (Ambrose Bierce)
In America tutti sono dell’opinione che non ci sono classi sociali superiori, dal momento che tutti gli uomini sono uguali, ma nessuno accetta che non ci siano classi sociali inferiori, perché, dai tempi di Jefferson in poi, la dottrina che tutti gli uomini sono uguali vale solo verso l’alto, non verso il basso. (Bertrand Russell)
Ci sono due dichiarazioni sugli esseri umani che sono vere: che tutti gli esseri umani sono uguali, e che tutti sono differenti. Su questi due fatti è fondata l’intera saggezza umana. (Mark Van Doren)
Davanti a Dio siamo tutti ugualmente saggi… e ugualmente sciocchi. (Albert Einstein)
Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo. (Michel De Montaigne)
L’uguaglianza deve essere quella delle opportunità, non può essere ovviamente quella dei risultati. (John Dryden)
Ho letto tempo fa che nel futuro gli uomini saranno tutti uguali. Ugualmente ricchi o ugualmente poveri? (Zarko Petan)
Gli uomini sono nati uguali ma sono anche nati diversi. (Erich Fromm)
La figlia del re, giocando con una delle sue cameriere, le guardò la mano, e dopo avervi contato le dita esclamò: “Come! Anche voi avete cinque dita come me?!”. E le ricontò per sincerarsene. (Nicolas Chamfort)
Noi sosteniamo che queste verità sono per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini i governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo diventi perniciosa a questi fini, è nel diritto del popolo di modificarla o di abolirla. (Thomas Jefferson, Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America)
“Libertè, Egalitè, Fraternitè”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, 1795)
Tutta la società diventerà un unico ufficio e un’unica fabbrica con uguale lavoro e paga uguale. (Vladimir Lenin)
Il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’uguale condivisione della miseria. (Sir Winston Churchill)
Allo stato naturale… tutti gli uomini nascono uguali, ma non possono continuare in questa uguaglianza. La società gliela fa perdere, ed essi la recuperano solo con la protezione della legge. (Montesquieu)
La prima uguaglianza è l’equità. (Victor Hugo)
L’uguaglianza ha un organo: l’istruzione gratuita e obbligatoria. (Victor Hugo)
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 3, 1947)
Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela. (Malcolm X).
Finché c’è una classe inferiore io vi appartengo, finché c’è una classe criminale io vi appartengo, finché c’è un’anima in prigione io non sono libero. (Eugene V. Debs)
Le lacrime di un uomo rosso, giallo, nero, marrone o bianco sono tutti uguali. (Martin H. Fischer)
C’è qualcosa di sbagliato quando l’onestà porta uno straccio, e la furfanteria una veste; quando il debole mangia una crosta, mentre l’infame pasteggia nei banchetti. (Robert Ingersoll)
L’uguaglianza non esiste fin a quando ciascuno non produce secondo le sue forze e consuma secondo i suoi bisogno. (Louis Blanc)
Amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. (Martin Luther King)
Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. (William Faulkner)
Fino a quando la giustizia non sarà cieca al colore, fino a quando l’istruzione non sarà inconsapevole della razza, fino a quando l’opportunità non sarà indifferente al colore della pelle degli uomini, l’emancipazione sarà un proclama ma non un fatto. (Lyndon B. Johnson)
Un uomo non può tenere un altro uomo nel fango senza restare nel fango con lui. (Booker T. Washington)
Viviamo in un sistema che sposa il merito, l’uguaglianza e la parità di condizioni, ma esalta quelli con la ricchezza, il potere, e la celebrità, in qualunque modo l’abbiano guadagnato. (Derrick A. Bell)
Se le malattie e le sofferenze non fanno distinzione tra ricchi e poveri, perché dovremmo farlo noi? (Sathya Sai Baba)
Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? (William Shakespeare)
Guardo i volti delle persone che lottano per la propria vita, e non vedo estranei. (Robert Brault)
Qualunque certezza tu abbia stai sicuro di questo: che tu sei terribilmente come gli altri. (James Russell Lowell)
Lo stesso Dio che ha creato Rembrandt ha creato te, ed agli occhi di Dio tu sei prezioso come Rembrandt o come chiunque altro.” (Zig Ziglar)
È bello quando due esseri uguali si uniscono, ma che un uomo grande innalzi a sé chi è inferiore a lui, è divino. (Friedrich Hölderlin)
Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)
Il sole splende per tutti. (Proverbio latino)
La pioggia non cade su un tetto solo. (Proverbio africano)
In quanto uomini, siamo tutti uguali di fronte alla morte. (Publilio Siro)
La morte è questo: la completa uguaglianza degli ineguali. (Vladimir Jankélévitch)
Nella vita si prova a insegnare che siamo tutti uguali, ma solo la morte riesce ad insegnarlo davvero. (Anonimo)
Nella democrazia dei morti tutti gli uomini sono finalmente uguali. Non vi è né rango né posizione né prerogativa nella repubblica della tomba. (John James Ingalls).
Finito il gioco, il re e il pedone tornano nella stessa scatola. (Proverbio Italiano).
L’uguale distribuzione della ricchezza dovrebbe consistere nel fatto che nessun cittadino sia tanto ricco da poter comprare un altro, e nessuno tanto povero che abbia necessità di vendersi. (Armand Trousseau)
L’amore, è l’ideale dell’uguaglianza. (George Sand)
L’amore pretende di parificare, ma il denaro riesce a differenziare. (Aldo Busi)
Noi che siamo liberali e progressisti sappiamo che i poveri sono uguali a noi in tutti i sensi, tranne quello di essere uguali a noi. (Lionel Trilling)
La saggezza dell’uomo non ha ancora escogitato un sistema di tassazione che possa operare con perfetta uguaglianza. (Andrew Jackson)
Nessun uomo è al di sopra della legge, e nessuno è al di sotto di esso. (Theodore Roosevelt)
Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti a coloro che devono applicarla. (Stanislaw Jerzy Lec)
La maestosa uguaglianza delle leggi proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per strada e di rubare il pane. (Anatole France)
Perché in Italia la stupenda frase “La Giustizia è uguale per tutti” è scritta alle spalle dei magistrati? (Giulio Andreotti)
La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori. (Erri De Luca)
Qui vige l’eguaglianza. Non conta un cazzo nessuno!” (Dal film Full metal jacket)
Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. (George Orwell)
Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? (Massimo Gramellini)
La via dell’uguaglianza si percorre solo in discesa: all’altezza dei somari è facilissimo instaurarla. (Conte di Rivarol)
La parità e l’uguaglianza non esistono né possono esistere. E’ una menzogna che possiamo essere tutti uguali; si deve dare a ognuno il posto che gli compete. (Pancho Villa)
Fu un uomo saggio colui che disse che non vi è più grande ineguaglianza di un uguale trattamento di diseguali. (Felix Frankfurter)
Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. (Lorenzo Milani)
Quella secondo la quale tutti gli uomini sono eguali è un’affermazione alla quale, in tempi ordinari, nessun essere umano sano di mente ha mai dato il suo assenso. (Aldous Huxley)
L’uguaglianza è una regola che non ha che delle eccezioni. (Ernest Jaubert)
Nell’incredibile moltitudine che potrebbe venir fuori da una sola coppia umana, che disuguaglianze e varietà! Vi si trovano grandi e piccoli, biondi e bruni, belli e brutti, deboli e forti. Tutto vi figura: il peggiore e l’eccellente, la tara e il genio, la mostruosità in alto e quella in basso. Dall’unione di due individui, tutto può nascere. Punto di congiunzione da cui non si deve sperare tutto e temere tutto. La coppia più banale è gravida di tutta l’umanità. (Jean Rostand)
Anche tra egualitari fanatici il più breve incontro ristabilisce le disuguaglianze umane. (Nicolás Gómez Dávila)
Io non ho rispetto per la passione dell’uguaglianza, che a me sembra una semplice invidia idealizzata. (Oliver Wendell Holmes Jr)
Il significato della parola uguaglianza non deve essere “omologazione”. (Anonimo)
Sì, c’è qualcosa in cui noi ci assomigliamo: tu e io ci crediamo differenti in modo uguale. (Jordi Doce)
Le donne che cercano di essere uguali agli uomini mancano di ambizione. (Timothy Leary)
Assistere l’autodeterminazione del popolo sulla base della massima uguaglianza possibile e mantenere la libertà, senza la minima interferenza di qualsivoglia potere, neppure provvisorio. (Michail Bakunin)
L’uguaglianza non può regnare che livellando le libertà, diseguali per natura. (Charles Maurras)
I legislatori o rivoluzionari che promettono insieme uguaglianza e libertà sono o esaltati o ciarlatani. (Goethe)
Quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata. (Jeremy Bentham)
Una società che mette l’uguaglianza davanti libertà otterrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza avrà un buon livello di entrambe. (Milton Friedman)
Libertà, Uguaglianza, Fraternità – come arrivare ai verbi? (Stanislaw Jerzy Lec)
“Libertà, Fraternità, Uguaglianza”, d’accordo. Ma perchè non aggiungervi “Tolleranza, Intelligenza, Conoscenza?” (Laurent Gouze)
Dicesi problema sociale la necessità di trovare un equilibrio tra l’evidente uguaglianza degli uomini e la loro evidente disuguaglianza. (Nicolás Gómez Dávila)
Credo nell’uguaglianza. Gli uomini calvi dovrebbero sposare donne calve. (Fiona Pitt-Kethley)
Nel mondo contemporaneo l’unico posto dove si realizza la perfetta uguaglianza è nel traffico. (Fragmentarius)
Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l’annua riproduzione si restringe al puro necessario, e l’industria s’annienta, poiché il popolo cade nel letargo. (Pietro Verri)
Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero. (William Butler Yeats)
Chiunque può fuggire nel sonno, siamo tutti geni quando sogniamo, il macellaio e il poeta sono uguali là. (EM Cioran)
Io amo la notte perché di notte tutti i colori sono uguali e io sono uguale agli altri…(Bob Marley)
Il mio diritto di uomo è anche il diritto di un altro; ed è mio dovere garantire che lo eserciti. (Thomas Paine)
Chi vede tutti gli esseri nel suo stesso Sé, ed il suo Sé in tutti gli esseri, perde ogni paura. (Isa Upanishad)
«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso
che se veduto avesse uomo farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso.
(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv.82-84)
L’invidia sociale, scrive Francesco Colonna, su ”Facci un salto”. Si sono impiegati molti decenni per sradicare il tratto fondamentale del marxismo, cioè la lotta di classe. Gli argomenti contrari a quel principio si riassumono in un concetto semplice: la collaborazione è più efficace della lotta. Permette di costruire di più, di fare più cose, di redistribuire meglio non solo i soldi, ma le competenze e la giustizia. Gli argomenti a favore invece erano e sono quella di una divergenza di interessi che si concilia male con l’idea di giustizia sociale. Non importa qui dibattere il tema. Quel che conta è quell’idea non circola più, e infatti nessuno ne parla e nessuno la usa per sostenere le proprie tesi. Di conseguenza, la logica sarebbe questa, tutto dovrebbe essere più tranquillo, una società più conciliante, meno aggressiva, più disposta alla collaborazione, nella quale i problemi si risolvono in modo pacifico e ragionato. E invece a quella ideologia (giusta o sbagliata che fosse non importa) si è sostituito non un pensiero o una filosofia nuovi ma un sentimento: l’invidia, alla quale si può aggiungere l’aggettivo “sociale”. L’invidia nelle sue forme più comuni si riferisce alla cose, invidia per ciò che non ho e altri hanno. Invece nella nostra società fatta di immagine e comunicazione (parole che sembrano sempre sottintendere una falsità o almeno una irrealtà) l’invidia è rivolta all’essere, ai modelli di successo, di fama o di notorietà. E questa invidia prende tante forme: dalla ostilità alla imitazione. E, per capire bene cosa significhi e comporti, basta guardare alla etimologia: invidere in latino vuol dire guardare storto, guardare in modo non corretto. Cioè l’invidia impedisce di vedere giusto e quindi di capire. Ed è trasversale, colpisce ovunque. Mentre la lotta di classe comunque dava una identità, una appartenenza, l’invidia sociale disgrega, atomizza la lotta, relegandola nell’intimo, pur esibendosi poi come ricerca di giustizia sociale. Difficile che in questa luce si possa trovare una strada comune, al massimo si cercano nemici, veri o presunti. Una caccia nella quale brillano il sospetto, la vendetta, il complotto, il pregiudizio. E con questo carico sulla coscienza diviene difficile ragionare e scegliere bene il tipo di società nel quale vivere.
Monti, Bersani, Vendola e Cgil: il club della patrimoniale. La tentazione di patrimoniale è sempre più forte: Bersani ne vuole una light, Vendola punta alle rendite finanziarie, la Cgil sogna una stangata da 40 miliardi, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. E, adesso, patrimoniale. La spinta è forte. In piena campagna elettorale, la tentazione di fare una tentazione extra sui grandi patrimoni sembra impossessarsi trasversalmente sui leader di molti partiti. Il primo a proporla è stata Mario Monti che, nella sua agenda, l'ha inserita (senza farsi troppi problemi) per riuscire a ridurre la pressione fiscale, a partire dal "carico fiscale gravante su lavoro e impresa". In men che non si dica, una schiera di amanti delle tasse hanno subito fatto propria la smania di andare a mettere le mani sui risparmi degli italiani. "I ricchi devono andare all'inferno". Sebbene si riferisse al Gerard Depardieu che, per l'eccessiva tassazione, ha deciso di lasciare la Francia e accogliere il passaporto russo offertogli da Vladimir Putin, l'imprecazione lanciata da Nichi Vendola dà una chiara idea della crociata che, in caso di vittoria alle politiche, la sinistra condurrà contro i beni degli italiani. Dove potrà, razzolerà per far cassa e appianare i debiti di una macchina statale che fagocita tutti i soldi che vengono versati nell'erario pubblico. Nel giorni scorsi, in una intervista a Radio24, il leader del Sel aveva poi spiegato che, quando sarà al governo, andrà a "stanare" la ricchezza che deriva dalle rendite finanziarie. "Se si immagina che quella finanziaria del Paese è stimata in 4mila miliardi di euro e che viceversa meno di mille persone dichiarano nella denuncia dei redditi più di un milione di euro all'anno di reddito, siamo di fronte a una ricchezza largamente imboscata - ha spiegato Vendola - la tassazione alle transazioni finanziarie e sugli attivi finanziari non è una proposta bolscevica". Nascondendosi dietro alla ragione economica tesa alla ricostruzione del Paese, il governatore della Puglia sembra muoversi solo per una ragione di invidia sociale. Il primo a parlare di patrimoniale è stato, però, il Professore. Nell'agenda presentata a dicembre, Monti ha spiegato che è possibile tagliare le tasse a scapito di altri cespiti: "Il carico corrispondente va trasferito su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio". Si legga: patrimoniale e appesantimento dell’Iva sui beni di lusso. Insomma, al premier uscente sembra non bastare l'aver introdotto l'Imu che, è già di per sé, una patrimoniale sull'abitazione. E, su questo punto, si trova in perfetta sintonia con Pierluigi Bersani che ieri sera, negli studi di Ballarò, ha spiegato chiaramente che l’imu non è una patrimoniale "abbastanza progressiva" per i suoi gusti. "Nel prossimo anno non saremo in condizione di ridurre le entrate dell’imu ma potremmo fare un riequilibrio caricando sui possessori di grandi patrimoni immobiliari - ha spiegato il segretario del Partito democratico - a fronte di una detrazione del 5% dobbiamo caricare con un’imposta personale sui detentori di grandi patrimoni immobiliari dal valore catastale di 1,5 milioni di euro". La segreteria di via del Nazareno, modificando leggermente i propositi iniziali vagamente massimalisti, ha fatto balenare una patrimoniale light da applicare agli immobili oltre il milione e mezzo di valore catastale. Lo staff di Bersani ha, invece, specificato che si tratterebbe di circa tre milioni a prezzi reali. Al suo fianco si è subito schierato anche Antonio Ingroia che ha già annunciato di voler togliere l'Imu perché la ritiene "un peso insopportabile e intollerabile". Il progetto del leader di Rivoluzione civile è rendere "il sistema economico più equo" mettendo "una patrimoniale sui redditi più alti e sui patrimoni più consistenti". Il sindacato di Susanna Camusso, che garantisce un’area elettorale decisiva per il Pd, ha preparato una piano fiscale che presenterà a Roma il 25 e 26 gennaio. Piano che fa impallidire gli slogan anti ricchi di Vendola: la Cgil punta, infatti, a reperire 40 miliardi di euro all'anno dalla patrimoniale, 20 miliardi dalla "ristrutturazione della spesa pubblica", 10 miliardi dal riordino dei finanziamenti alle imprese e 10 miliardi dai fondi dell'Unione europea. Gli 80 miliardi rastrellati verrebbero destinati, ogni anno, al lavoro (creazione di nuovi posti, sostegno dell’occupazione e nuova riforma del mercato del lavoro), al welfare e alla "restituzione fiscale" attraverso il taglio della prima aliquota dal 23 al 20% e della terza dal 38 al 36%. Progetto che senza la patrimoniale da 40 miliardi non sta in piedi.
Ci volevate uguali? Ora sim tutti poveri, scrive Mimmo Dato su "L'Intraprendente". In questo nostro bel paese, mio caro Mictel o come ti chiami, abbiamo avuto imponenti correnti d’ispirazione populista, con orientamenti internazionali con sguardo alla sovietizzazione ed al marxismo, forse un po’ radicalizzanti ma certo, a loro dire, pacifisti. Insomma tutta gente all’opposizione che ha vissuto una vita a gridare quanto fosse giusto eliminare le diseguaglianze economiche e ridistribuire le ricchezze, per ovvio sempre prodotte dagli altri e mai da loro; che bisognava aumentare le spese dello Stato per attuare queste pseudo misure egualitarie. Insomma tutti questi contro tutti quelli che non ponevano quale obiettivo principe la massimizzazione dell’uguaglianza. Poi il sogno in Italia si avvera e i governi a marchio populista, pacifista, egualitario si succedono a raffica pur senza che nessuno li elegga ma la Costituzione non viene infranta per questo, per i comunisti il voto non serve, ed eccoci all’oggi, tutti poveri uguale. Tutte le decisioni per la sopravvivenza del paese sono state omesse come qualunque sistema libero e democratico farebbe, tasse da record mondiale, caccia alle streghe, si è omesso di rafforzare le forze di difesa e di cercare le alleanze a garanzia internazionale. Quindi tutte le decisioni sono tendenti alla massimizzazione dell’uguaglianza in povertà contro quelle tese a garantire l’indipendenza e la sopravvivenza del sistema economico e democratico, si legga la nuova legge elettorale che dovrebbe esser varata. Ma allora, caro Mictel, ti chiederai chi erano e chi sono i veri potenti? Forse i ceti abbienti che sostenevano gruppi di maggioranza senza aver avuto, per loro frazionamento ed opportunismo, la capacità di arrestare forme populiste egualitarie o questi ultimi che hanno preso il potere da anni e stanno perseguendo opzioni politiche da disastro, spesa pubblica e disoccupazione al cielo? Vedi Mictel se tu mi fai la domanda, e non me la fai, su come la penso credo che oggi esistano due gruppi di pensatori, quelli che non vogliono l’uguaglianza nemmeno come valore e quelli che pensano che sia comunque impossibile. A questo punto, inutili e terra di conquista, che ci compri la Russia o la Cina. Eppoi il tuo nome sembra americano e mi dici esser cinese. Come ho fatto a non capirlo quando sei sceso da quel macchinone di lusso?
Altro che tutti uguali. Meglio tutti più ricchi. Frankfurt: ridurre le differenze di reddito non è un ideale morale. Il problema è invece che troppi sono poveri, scrive Harry G. Frankfurt Martedì 27/10/2015 su "Il Giornale". In un recente discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Barack Obama ha dichiarato che la disuguaglianza di reddito è «la sfida che definisce la nostra epoca». A me sembra, invece, che la sfida fondamentale per noi non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono ampiamente disuguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere. Dopo tutto, la disuguaglianza di reddito potrebbe essere drasticamente eliminata stabilendo semplicemente che tutti i redditi devono essere ugualmente al di sotto della soglia di povertà. Inutile dire che un simile modo di ottenere l'uguaglianza dei redditi - rendendo tutti ugualmente poveri - presenta ben poche attrattive. Eliminare le disuguaglianze di reddito non può quindi costituire, di per sé, il nostro obiettivo fondamentale. Accanto alla diffusione della povertà, un altro aspetto dell'attuale malessere economico è il fatto che, mentre molte persone hanno troppo poco, ce ne sono altre che hanno troppo. È incontestabile che i molto ricchi abbiano ben più di ciò di cui hanno bisogno per condurre una vita attiva, produttiva e confortevole. Prelevando dalla ricchezza economica della nazione più di quanto occorra loro per vivere bene, le persone eccessivamente ricche peccano di una sorta d'ingordigia economica, che ricorda la voracità di chi trangugia più cibo di quanto richiesto sia dal suo benessere nutrizionale sia da un livello soddisfacente di godimento gastronomico. Tralasciando gli effetti psicologicamente e moralmente nocivi sulle vite degli stessi golosi, l'ingordigia economica offre uno spettacolo ridicolo e disgustoso. Se lo accostiamo allo spettacolo opposto di una ragguardevole classe di persone che vivono in condizioni di grande povertà economica, e che perciò sono più o meno impotenti, l'impressione generale prodotta dal nostro assetto economico risulta insieme ripugnante e moralmente offensiva. Concentrarsi sulla disuguaglianza, che in sé non è riprovevole, significa fraintendere la sfida reale che abbiamo davanti. Il nostro focus di fondo dovrebbe essere quello di ridurre sia la povertà sia l'eccessiva ricchezza. Questo, naturalmente, può benissimo comportare una riduzione della disuguaglianza, ma di per sé la riduzione della disuguaglianza non può costituire la nostra ambizione primaria. L'uguaglianza economica non è un ideale moralmente prioritario. Il principale obiettivo dei nostri sforzi deve essere quello di rimediare ai difetti di una società in cui molti hanno troppo poco, mentre altri hanno le comodità e il potere che si accompagnano al possedere più del necessario. Coloro che si trovano in una condizione molto privilegiata godono di un vantaggio enorme rispetto ai meno abbienti, un vantaggio che possono avere la tendenza a sfruttare per esercitare un'indebita influenza sui processi elettorali o normativi. Gli effetti potenzialmente antidemocratici di questo vantaggio vanno di conseguenza affrontati attraverso leggi e regolamenti finalizzati a proteggere tali processi da distorsioni e abusi. L'egualitarismo economico, secondo la mia interpretazione, è la dottrina per cui è desiderabile che tutti abbiano le stesse quantità di reddito e di ricchezza (in breve, di «denaro»). Quasi nessuno negherebbe che ci sono situazioni in cui ha senso discostarsi da questo criterio generale: per esempio, quando bisogna offrire la possibilità di guadagnare compensi eccezionali per assumere lavoratori con capacità estremamente richieste ma rare. Tuttavia, molte persone, pur essendo pronte a riconoscere che qualche disuguaglianza è lecita, credono che l'uguaglianza economica abbia in sé un importante valore morale e affermano che i tentativi di avvicinarsi all'ideale egualitario dovrebbero godere di una netta priorità. Secondo me, si tratta di un errore. L'uguaglianza economica non è di per sé moralmente importante e, allo stesso modo, la disuguaglianza economica non è in sé moralmente riprovevole. Da un punto di vista morale, non è importante che tutti abbiano lo stesso, ma che ciascuno abbia abbastanza. Se tutti avessero abbastanza denaro, non dovrebbe suscitare alcuna particolare preoccupazione o curiosità che certe persone abbiano più denaro di altri. Chiamerò questa alternativa all'egualitarismo «dottrina della sufficienza», vale a dire la dottrina secondo cui ciò che è moralmente importante, con riferimento al denaro, è che ciascuno ne abbia abbastanza. Naturalmente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia di per sé un ideale sociale moralmente cogente non è una ragione per considerarla un obiettivo insignificante o inopportuno in qualsiasi contesto. L'uguaglianza economica può avere infatti un importante valore politico e sociale e possono esserci ottime ragioni per affrontare i problemi legati alla distribuzione del denaro secondo uno standard egualitario. Perciò, a volte, può avere senso concentrarsi direttamente sul tentativo di aumentare l'ampiezza dell'uguaglianza economica piuttosto che sul tentativo di controllare fino a che punto ognuno abbia abbastanza denaro. Anche se l'uguaglianza economica, in sé e per sé, non è importante, impegnarsi ad attuare una politica economica egualitaria potrebbe rivelarsi indispensabile per promuovere la realizzazione di vari obiettivi auspicabili in ambito sociale e politico. Potrebbe inoltre risultare che l'approccio più praticabile per raggiungere la sufficienza economica universale consista, in effetti, nel perseguire l'uguaglianza. E ovviamente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia un bene in sé lascia comunque aperta la possibilità che abbia un valore strumentale come condizione necessaria per ottenere beni che posseggono, questi sì, un valore intrinseco. Pertanto, una distribuzione di denaro più egualitaria non sarebbe sicuramente criticabile. Tuttavia, l'errore assai diffuso di credere che esistano potenti ragioni morali per preoccuparsi dell'uguaglianza economica in quanto tale è tutt'altro che innocuo. Anzi, a dir la verità, tende a essere una credenza piuttosto dannosa. (2015 Princeton University Press2015 Ugo Guanda Editore Srl)
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
Gli intoccabili. Il caso Saguto e la società delle caste, scrive Pino Maniaci su "Telejato" il 26 ottobre 2015. IL CASO SAGUTO E LA SOCIETÀ DELLE CASTE: L’ANTIMAFIA, I GIUDICI, I BUROCRATI, I POLITICI. E POI LA PLEBE. Di fronte a tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in questi ultimi tempi sul caso della gestione personalizzata dei beni sequestrati da parte di un nutrito numero di magistrati, componenti del CSM, cancellieri, funzionari della DIA, personale giudiziario e amministratori giudiziari, sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Ci chiediamo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti: Se a un comune mortale cittadino italiano fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stato sottoposto agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Ci chiediamo ancora una volta, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che a “Zà Silvana” indossi ancora la toga? È opportuno che tutte le persone coinvolte in favoritismi, raccomandazioni e assunzioni ad amici e parenti restino ancora al loro posto? È opportuno che funzionari della DIA al servizio di questo sistema continuino a svolgere ancora funzioni pubbliche? Non comprendiamo quale sia la differenza tra questi soggetti e chi incassa una tangente. Entrambi utilizzano i propri ruoli istituzionali per rubare soldi pubblici. La giustizia è davvero uguale per tutti? Non ci soddisfano più le assicurazioni che tutto sarà chiarito. Sarà chiarito da chi? Quando e davanti a chi? Tutti invece devono essere immediatamente rimossi dai loro pubblici incarichi, in modo trasparente perché come cittadini abbiamo concesso credito a giudici che abbiamo ritenuto credibili, che abbiamo rispettato per la loro vita blindata, giudici che abbiamo ascoltato e dei quali abbiamo rispettato il lavoro senza alcuna delegittimazione preventiva. Vengano rimossi senza stipendio per rispetto verso tutti quei magistrati che hanno onorato e onorano i valori di autonomia e indipendenza, assicurando credibilità alla Giustizia con i comportamenti di tutti i giorni. Vengano rimossi per rispetto a tutti quei servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere. Vengano rimossi e gli vengano sequestrati i beni per rispetto a tutti coloro che chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria con compiti delicatissimi e complessi lo fanno con coraggio. Pochi giorni fa i deputati della nostra regione hanno approvato in Commissione in tempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle società partecipate dalla Regione e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxicompensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia, Crocettino, è diventato il Santo protettore della casta. Ricordiamo che negli anni ’80, ’90, il sogno di tanti giovani era quello di una società nella quale se sei bravo e se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli antimafia, come se l’antimafia fosse una categoria dello spirito, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. E in quanto tali trattano gli altri con arroganza e sfacciataggine. Ci sentiamo come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che ha detto “Se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo a “Zà Silvana” che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. È la Rivoluzione Francese ai tempi da “Zà Silvana”. Un ultimo e accorato appello a tutte le Associazioni Antiracket e Antimafia che non sentono la necessità di proferire parola neanche davanti a delle gravissime minacce ricevute dal Direttore di Telejato, Pino Maniaci, da parte della Saguto (a “Zà Silvana”) e del Prefetto Cannizzo, che parlando tra di loro hanno affermato: “Pino Maniaci ha le ore contate”. E ai ragazzi di Addiopizzo. Forza ragazzi fate sentire la vostra variopinta presenza e alzate in coro la voce organizzando graziosi sit-in di protesta nelle pubbliche piazze e davanti al Tribunale di Palermo, datevi da fare ad appendere sui pali e le vetrine di Palermo la scritta: “Un Magistrato e un Prefetto che usano il loro potere per fini personali sono persone senza dignità”.
Il caso Saguto e la società delle caste: l'antimafia, i giudici, i burocrati, i politici. E poi la plebe. L'inchiesta che riguarda il giudice Saguto, insieme ad una serie di altri fatti di cronaca mi hanno convinta che viviamo in una società divisa in caste. Da un lato gli intoccabili, i privilegiati, dall'altro la plebe. Ai tempi di Maria Antonietta lei diceva "mangiate biscotti se non avete pane", oggi c'è un giudice che non si accorge di 18 mila euro di conto non pagato al supermercato..., scrive domenica 25 Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. Il caso Saguto non mi ha fatto dormire la notte. Per 10 giorni ho avuto il panico temendo quale cosa raccapricciante avrei letto il giorno dopo a proposito dell’inchiesta su Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione misure preventive del Tribunale di Palermo. L’indagine su quel che accadeva nella gestione dei beni confiscati alla mafia (che in Sicilia rappresentano il 43% del totale) sta facendo emergere di tutto. La Saguto spaziava dalle nomine di amministratori giudiziari nelle società confiscate in cambio di incarichi per il marito, i parenti e gli amici, all’utilizzo dell’auto blindata come taxi per prelevare la nuora e accompagnarla nella villa al mare, o delle sue ospiti per non incappare nel traffico palermitano, oppure dal farsi recapitare a casa per le cene 6 chili tonno fresco, lamponi, (di provenienza da aziende sotto sequestro) al conto da quasi 20 mila euro non pagato al supermercato confiscato (“una dimenticanza, non sono io quella che va a fare la spesa..”). La “zarina” delle misure preventive si è data da fare per la laurea del figlio ottenuta grazie all’aiuto del docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano che in cambio veniva nominato consulente. Il giovane laureato, stando alle intercettazioni, la festa proprio non la voleva “questa laurea è una farsa, gli altri sgobbano per averla” ma il giudice non sentì ragioni e affidò l’organizzazione proprio al professore Provenzano che oltre a scrivere la tesi ha provveduto al menù, così come avverrà per la successiva festa di compleanno della Saguto. Gli agenti della scorta infine venivano utilizzati per andare in profumeria a fare acquisti. Ciliegina sulla torta del dichiarazioni del giudice antimafia a proposito dei figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Anna. Il 19 luglio, anniversario dell’assassinio di Borsellino, Silvana Saguto partecipa come madrina alla manifestazione Le vele della legalità, fa il suo bel discorso antimafia, poi sale a bordo dell’auto blindata ed al telefono dice ad un’amica: “Poi Manfredi che si commuove, ma perché minc...a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff....o". Di fronte a tutto questo sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Mi chiedo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti ma se a Donna Sarina fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stata agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Mi chiedo, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che indossi ancora la toga? La giustizia è davvero uguale per tutti? Leggo anche dell’arresto per corruzione dell’ex direttrice del carcere di Caltanissetta Alfonsa Miccichè. La signora affidava progetti con somme inferiori ai 40 mila euro (quindi non soggetti ad evidenza pubblica) a società che in cambio assegnavano incarichi alla figlia ed al genero. Sempre in questi giorni scopro che al Comune di Sanremo il 75% dei dipendenti è assenteista e c’è chi è stato filmato mentre timbrava il cartellino in mutande e poi tornava a letto o lo faceva timbrare da moglie e figli. Il sindaco di Sanremo dichiara: “sto valutando i provvedimenti da prendere. Forse ANCHE il licenziamento”. A prescindere dal fatto che se licenzi questi ladri di lavoro almeno puoi assumere qualcuno onesto che ti fa funzionare il Comune e adesso è disoccupato, mi chiedo signor sindaco: che significa ANCHE il licenziamento? Che vorresti fare? Premiarli? Che differenza c’è tra questi assenteisti e l’impiegato che incassa la tangente? Entrambi rubano soldi pubblici. Torniamo in Sicilia dove pochi giorni fa i deputati hanno approvato in Commissione intempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle partecipate e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxi compensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia è diventato il Santo protettore della casta. A Roma mentre la sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu viene rinviata a giudizio per peculato per rimborsi da 81 mila euro il presidente del Consiglio Renzi annuncia di voler togliere l’Ici sulla prima casa a TUTTI, sia che abbiamo un castello che un tugurio. E si definisce di sinistra….Ricordo negli anni ’80, ’90, il sogno della Milano da bere era quello di una società nella quale se sei bravo, se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli “antimafia”, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. La Barracciu era la candidata che Renzi voleva ad ogni costo per la presidenza della Regione Sardegna. A causa dello scandalo, ha ripiegato per un posto di sottosegretario. La Barracciu, la Saguto, le leggi ad personam mentre la Sicilia muore di fame. E’ la sfacciataggine degli intoccabili. Mi sento come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che dice “ma se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo il giudice antimafia Silvana Saguto che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. E’ la Rivoluzione Francese ai tempi della Saguto. Rosaria Brancato.
Cultura antimafia con pregi e difetti, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 ore” del 26 Ottobre 2015. I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti – istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi – in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della “mela marcia”. Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo – sostiene Saguto – sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari – anche molto meno esposti di Palermo – che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, gli ammontari, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere «una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta» (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un po’ più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti.
QUESTIONI DI FAMIGLIA. I fatal mariti, scrive Sabato 19 Settembre 2015 Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Silvana Saguto è costretta a lasciare il suo incarico a causa di una indagine che riguarda presunti favori al marito. La corsa di Anna Finocchiaro verso il Quirinale è stata frenata anche dal caso del Pta di Giarre che coinvolse il coniuge. E non sono gli unici casi, dalla consulenza del "signor Chinnici" al ritardo di "mister Monterosso". La moglie di Cesare deve apparire più onesta dell'imperatore. L'immagine è rievocata a ogni scandalicchio e parentopolina. Qualcuno, però, in questi anni ha forse dimenticato i mariti delle imperatrici. Fatal mariti, in molti casi. È il caso di Silvana Saguto, ma non solo il suo. Perché i coniugi delle donne di potere, in qualche caso, hanno finito per frenare e troncare carriere. O, in qualche caso, per trascinare nella centrifuga di polemiche più o meno sensate, le mogli. Ne sa qualcosa, come abbiamo già detto, Silvana Saguto, che ha lasciato l'incarico di presidente della Sezione misure di prevenzione. È indagata per corruzione e abuso d'ufficio. E la questione riguarda anche il marito, appunto. L'accusa al magistrato infatti è relativa ai rapporti con Gaetano Cappellano Seminara, il più noto degli amministratori giudiziari. A lui sono giunti diversi incarichi di gestione di beni confiscati alla mafia. Una fiducia ripagata – questa l'accusa, tutta da dimostrare – tramite consulenze che lo stesso Cappellano Seminara avrebbe assicurato a Lorenzo Caramma, marito della Saguto. Quanto basta, ovviamente, per fare da miccia a un'esplosione di veleni e accuse incrociate che pare ancora all'inizio. E ha già portato all'estensione dell'indagine ad altri tre magistrati. Intanto, la Saguto ha fatto le tende. Attenderà un altro incarico. Ma il “colpo” alla carriera del magistrato è stato durissimo. Marito, fatal marito. Che a pensarci bene, un'altra storia di coniuge “scomodo” potrebbe aver contribuito a chiudere le porte del Quirinale a una donna siciliana. È il caso di Anna Finocchiaro e soprattutto del fatal marito, Melchiorre Fidelbo. Quest'ultimo è infatti finito dentro una inchiesta su un maxi appalto dell'Asp di Catania destinato all'apertura del “Pta” di Giarre: una struttura sanitaria “intermedia” che avrebbero dovuto alleggerire il peso dei grossi ospedali. Fidelbo nell'ottobre del 2012 è stato anche rinviato a giudizio per abuso di ufficio e truffa: è accusato di aver fatto pressioni indebite sui dirigenti dell'Azienda sanitaria con lo scopo di ottenere l'affidamento. Una vicenda ovviamente tirata fuori dai detrattori della Finocchiaro, nei giorni caldi che hanno portato alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Siciliano, ma uomo. Nonostante la Finocchiaro pare piacesse molto anche a Forza Italia. Ma quella storia... Chissà cosa si saranno detti, invece, Patrizia Monterosso e Claudio Alongi, suo marito. E no, non c'entrano nulla i potenziali conflitti di interesse tra un Segretario generale che contribuisce a scrivere le norme sui dipendenti regionali e il commissario dell'Aran che – visto il ruolo – con i dipendenti regionali deve discutere le norme che li riguardano. No, la storia è un'altra. Ed è, in fondo, sempre la stessa. Quella per la quale la plenipotenziaria di Palazzo d'Orleans è stata condannata dalla Corte dei conti a oltre un milione di risarcimento per la vicenda degli extrabudget nella Formazione professionale. Una condanna giunta nonostante l'appassionata difesa del marito-avvocato Claudio Alongi. Anzi, “tecnicamente” proprio a causa dell'avvocato-consorte. Perché il ricorso della Monterosso, al di là delle questioni di merito che, stando ai giudici sarebbero rimaste tutte in piedi, è stato respinto per un ritardo nella presentazione di alcuni documenti. Ritardo dei legali, appunto. Marito compreso. Paradossi delle vite coniugali che si intrecciano con le vite pubbliche. Ne sa qualcosa Caterina Chinnici. Fu lei la massima sostenitrice di una legge sulla trasparenza che finalmente poneva dei paletti (in questi anni a dire il vero, serenamente ignorati) riguardo alla pubblicazione degli atti, degli stipendi e degli incarichi pubblici. Il caso, però, ha voluto che a ignorare quelle disposizioni fosse anche un consulente dell'Asp di Siracusa, Manlio Averna. Marito di Caterina Chinnici. Un caso che creò anche tensioni all'interno della giunta di Raffaele Lombardo, con Massimo Russo, ad esempio, molto critico sulla “dimenticanza” dell'Azienda siracusana. "Non si può addebitare alla sottoscritta – replicò Caterina Chinnici - l'eventuale inadempienza di coloro che dovrebbero controllare”. Polemiche, ovviamente, poco più. Nulla a che vedere col “caso Saguto”, se non il ricorrere di questi “incroci pericolosi” tra il divano di casa e le scrivanie del sistema pubblico. Fastidi, o poco più, in cui il marito non sarà stato “fatale” per la carriera, ma che certamente ha regalato alla consorte qualche minuto o qualche giorno di tensione. Avvenne anche a Vania Contrafatto, attuale assessore all'Energia. E il casus belli fu addirittura una cena, organizzata da Sandro Leonardi, candidato dell'Idv al Consiglio comunale e marito della Contrafatto. All'appuntamento c'erano, tra gli altri, il procuratore Francesco Messineo e gli aggiunti Leonardo Agueci e Maurizio Scalia. Quest'ultimo era il magistrato che coordinava l'indagine sui brogli alle primarie del centrosinistra. Una rivelazione, quella, lanciata ironicamente nel corso di una conferenza stampa da Antonello Cracolici: “Per sapere qualcosa sui presunti brogli alle primarie - disse il capogruppo del Pd all'Ars - forse avremmo dovuto essere a una cena elettorale che si è tenuta sabato a Mondello alla quale hanno partecipato, oltre al candidato sindaco Leoluca Orlando, alcuni pm di Palermo che seguono le indagini sulla vicenda". Orlando aveva denunciato brogli a quelle consultazioni accusando il vincitore di quelle primarie, Fabrizio Ferrandelli. Tutto si sgonfiò presto, con una nota del pm Scalia con la quale il magistrato spiegò di aver preso parte “a un ricevimento in una casa privata di una collega e amica per festeggiarne l'inaugurazione”. Vania Contrafatto, appunto. Una delle cene probabilmente più indigeste per quello che sarebbe diventato il futuro assessore all'Energia. E un marito può essere fatale persino “a costo zero”. Chiedete a Valeria Grasso, nominata da Crocetta Soprintendente della Fondazione orchestra sinfonica. Tra i consulenti, ecco spuntare il marito Maurizio Orlando: “Ma è qui a titolo gratuito”, provò a spiegare l'imprenditrice antiracket. Pochi mesi dopo, Crocetta l'avrebbe rimossa dalla guida della Foss.
Lo scandalo dei beni sequestrati alla mafia e il ruolo della Massoneria, scrive Riccardo Gueci su "La Voce di New York" dekl 29 ottobre 2015. Tutti sapevano come veniva gestita la Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ma nessuno parlava. E il motivo è semplice: perché dietro questo grande affare c’è la Massoneria. I grandi 'numeri' della holding di don Ciotti, Libera: chi guadagna sulle lucrose vendite dei prodotti agricoli di questa associazione antimafia? Sull’indegna questione che ha investito la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo vanno in scena le sceneggiate di tanti protagonisti. Il primo è un esponente del mondo politico. A recitarla è l'onorevole Claudio Fava, membro autorevole della Commissione parlamentare Antimafia. Salvo Vitale - come riportato nella pagina Facebook di Riccardo Compagnino - riprende una dichiarazione del deputato di Sinistra Ecologia e Libertà nella quale si legge: “C'è un punto di cui nessuno ci ha mai parlato, ovvero che il marito della presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, avesse una preziosa consulenza con lo studio del commercialista che si occupa della gran parte dei beni sequestrati”. A questa dichiarazione, Salvo Vitale, con la serenità di chi sa il fatto suo, ribatte: “A parte il fatto che Cappellano Seminara è un avvocato e non un commercialista, non è giusto, né corretto che tu faccia questa affermazione”. E, nel far trasparire che egli con quel deputato ha avuto una qualche frequentazione, continua: “Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi (presidente della Commissione Antimafia, ndr) per 'tutelare' l'immagine di un settore della Procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del Prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c'era sotto, hai abbassato il capo, dicendo che bisognava intervenire, ma forse eri distratto”. Vitale prosegue nella sua replica affrontando un aspetto che, con tutta probabilità, è quello di maggiore rilevanza economica e sociale di questo andazzo affaristico-massonico: il fallimento di aziende, anche quelle sequestrate a gente che è risultata estranea agli affari di mafia. Questa serie di fallimenti ha concorso a determinare l'impoverimento dell'economia di Palermo e della sua provincia, che già di suo non è mai stata prosperosa. “Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura - aggiunge Vitale - cosa peraltro ripetuta dal giudice Morosini - sarebbe stato più utile per la storia che ti porti appresso chiedere di far pulizia all'interno di essa, anche perché la fiducia dei cittadini non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto, quando bisogna far pulizia in casa. Bastava guardare a Villa Teresa (Villa Santa Teresa, clinica privata confiscata all’ingegnere Michele Aiello ndr) - dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Andrea Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili - per renderti conto che la signora Saguto Silvana, il signor Caramma Elio, suo figlio, e il signor Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti sulla lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla signora Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E, invece, non si è fatto niente. E' facile dire che non sapevamo...è difficile crederci”. In sostanza, il deputato di Sel e vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia ha recitato la sua sceneggiata e Vitale con dovizia di particolari e di argomenti l'ha recensita a dovere. Fin qui l'arringa di Vitale. Ma c'è un'altra fonte di notizie che va tenuta in debita considerazione ed è quella di Pino Maniaci, direttore di TeleJato, la testata che per prima ha sollevato il caso. Maniaci è stato intervistato dal nostro Giulio Ambrosetti “per conoscere qualche dettaglio in più e le sue valutazioni sul caso” ed ha avuto modo di annotare alcune sue valutazioni assai interessanti. In particolare su quanto riportato in un articolo del Giornale di Sicilia che rende noti alcuni stralci delle intercettazioni telefoniche tra la dottoressa Silvana Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dove si fa riferimento all'impresa Calcestruzzi. Pino Maniaci, saggiamente, precisa: “Quando si parla di Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere (del Tribunale di Palermo ndr) amministra almeno dodici aziende di calcestruzzo”. Quindi l’affondo: “La dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera. Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”. Ad una seconda domanda generica sulle associazioni antimafia, “parliamo un po' di Libera e di Addiopizzo”, Pino Maniaci puntualmente fa rilevare che “sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta 5/6 euro, un vasetto di caponata 5 euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Sull'argomento ho chiesto un parere a don Ciotti. Ma non ho avuto risposte”. Le tirate moralistiche di don Luigi Ciotti le dobbiamo considerare anch'esse sceneggiate? “Poi c'è la questione legata ai sequestri. Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Matello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”. E sempre a questo proposito, che risulta essere uno dei temi più delicati del sistema delle confische, Maniaci prosegue nel ricordare come in alcune vicende che hanno visto tante imprese avere avuto riconsegnate le loro aziende dopo il sequestro, svuotate di ogni attività, al limite del fallimento. Con questa procedura “è stata distrutta buona parte dell'economia di Palermo e della sua provincia”. Ed aggiunge “sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”. E ricorda la vicenda dell'impresa Niceta che con tutta probabilità chiuderà i battenti: “Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa 50 dipendenti e ne hanno assunti 24. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici del solito giro. L'ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare le teste lasciando il corpo non serve a nulla. A che serve mandare via Virga se poi i coadiutori, nominati dallo stesso Virga, restano?”. E continua: “Dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti”. Fin qui l'intervista a Pino Maniaci. C'è poi un'altra sceneggiata, che sa di paradosso. Stavolta la limitiamo al massimo. La dottoressa Saguto, poverina, a causa del magro stipendio che le passa lo Stato per il suo lavoro di magistrato, si era ridotta a contrarre un debito con il supermercato - sequestrato alla mafia - dove faceva la spesa per sfamare la famiglia. Ed addirittura secondo un articolo apparso sul Giornale di Sicilia, la poverina non aveva i soldi per pagare la bolletta della luce. Le cronache ci consegnano questo quadro, al netto delle intercettazioni telefoniche che riguardano giudizi del tutto gratuiti sui figli di Paolo Borsellino, il magistrato fatto saltare con la sua scorta in via D'Amelio nel 1992, delle quali ci intratterremo in seguito. Queste cronache ci inducono a sottolinearne alcuni aspetti. Il primo riguarda il sistema gerarchico del Tribunale di Palermo. Se la Sezione Misure di prevenzione procede al sequestro di beni per i quali la stessa ‘macchina’ della Giustizia ha escluso la provenienza mafiosa, non c'è in quel sistema gerarchico qualcuno che faccia presente che quel sequestro è illegittimo? La ragione di questa 'assenza' è dovuta ad un potere occulto, che anche i ciechi e i sordi sanno fare capo alla Massoneria. Infatti, tutti gli uffici del Tribunale, specialmente Civile e in parte del Lavoro, sono largamente infiltrati dal potere massonico. Lo sanno tutti, ma nessuno parla. Nel giro è compresa larga parte dell'avvocatura. La cosa non è nuova, basta ricordare quello che è accaduto al dottor Alberto Di Pisa quando, sull'argomento, si 'permise' di esprimere qualche opinione. Ricordate la vicenda del “corvo”? Da allora non è cambiato nulla. Anzi! Non va trascurato il fatto che molto spesso tra la Massoneria e la mafia è esistita una intesa molto stretta. Infatti, tra sette segrete ci si intende più facilmente e si possono curare affari molto lucrosi se si opera di comune accordo. Intanto quelle aziende, affidate alle 'cure' di amministratori di fiducia vengono distrutte e, talora, riconsegnate ai legittimi proprietari semi fallite e con le maestranze licenziate. Con il bel risultato di avere provocato sia un danno all'economia, sia un contributo in più alla disoccupazione. Il secondo fa riferimento alle perplessità manifestate da Pino Maniaci a proposito di Libera, l'associazione creata dal don Luigi Ciotti per amministrare, attraverso un sistema di cooperative, i beni immobili, specialmente terreni agricoli confiscati alla mafia. Maniaci fa riferimento ai prezzi proibitivi dei prodotti agricoli di queste cooperative e di averne chiesto inutilmente le motivazioni a don Ciotti. E rileva che ormai Libera è una vera e propria holding. A proposito di tale questione va ricordato che le cooperative agricole, promosse da Libera, che gestiscono i terreni agricoli confiscati alla mafia sono finanziate con le risorse finanziarie europei dei PON, cioè dei Piani Operativi Nazionali, sezione fondi strutturali europei per la sicurezza. In definitiva quelle cooperative hanno i costi di gestione coperti dai fondi europei e, spesso, utilizzano locali di vendita dei loro prodotti anch'essi confiscati alla mafia. Non solo. Per l'uso dei terreni agricoli non pagano nulla, ancorché in affidamento. Il capitale investito dai loro soci è di entità simbolica. In sostanza, gestiscono soltanto utili. In presenza di queste condizioni irripetibili in nessuna parte del mondo, non si capisce la ragione economica del perché i loro prodotti abbiano questi prezzi proibitivi destinati al consumatore di reddito medio alto. A chi vanno questi ragguardevoli profitti? Un’indagine su costi, ricavi e investimenti delle cooperative di Libera non sarebbe del tutto fuori luogo. Il terzo riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Secondo quanto riferito dalla dottoressa Silvana Saguto, l'organo di autogoverno dei magistrati ha invitato tutti coloro che sono implicati nelle vergognose vicende ricordate in precedenza a chiedere il trasferimento. Questo è un punto delicato per la credibilità della Magistratura che rischia di farla apparire una corporazione al di sopra e al di fuori della legge che vale per tutti gli altri cittadini italiani. La questione, invece, è molto semplice: la dottoressa Saguto, nell'ambito dei suoi compiti d'istituto, ha compiuto quegli atti che le vengono addebitati? Allora: se quegli atti si configurano non conformi alla deontologia professionale o, addirittura, come reati, la dottoressa Saguto e i suoi complici vanno licenziati in tronco alla stregua di qualsiasi altro lavoratore che non svolga i compiti che gli sono assegnati con la dovuta correttezza. In questo caso nella condizione del licenziamento dovrebbe figurare pure il divieto perenne ad entrare in un'aula di qualsiasi Tribunale italiano, neanche come avvocato. Il congresso del sindacato italiano dei magistrati, ove volesse darsi un minimo di dignità, dovrebbe discutere di deontologia e di valori etici nell'esercizio della professione per dare più forza e credibilità alla funzione del magistrato. *Riccardo Gueci è un dirigente pubblico in pensione. Cresciuto nel vecchio Pci, non ha mai dimenticato la lezione di Enrico Berlinguer. Per lui la politica non può essere vista al di fuori della morale (Berlinguer, grande leader del Pci, a proposito della gestione del potere in Italia, parlava infatti di "Questione morale"). Per noi Gueci commenta i fatti legati alla politica estera e all'economia. Oggi affronta il tema delle polemiche che stanno accompagnando la gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Tema che affronta da una particolare angolazione: quella economica, per l'appunto. Sottolineando il ruolo che nell'economia siciliana - spesso in modo occulto - viene svolto dalla Massoneria.
Il caso Saguto e il brutto silenzio dell’antimafia che non mangia antimafia. Come si può spiegare l'imbarazzante e prolungato silenzio dei grandi quotidiani nazionali sullo scandalo che scuote dalle fondamenta l’immagine della magistratura in Sicilia? Scrive Riccardo Arena il 02 Novembre 2015 su “Il Foglio”. L’antimafia schiodata di Silvana Saguto e Gaetano Cappellano Seminara è in qualche modo figlia dell’antimafia chiodata di caselliana memoria: ma non nel senso di una quanto mai improbabile affinità tra i due gruppi; perché all’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo stava – ad esempio – fortemente antipatico un personaggio come Antonio Ingroia, definito senza mezzi termini “scarsissimo, un co…”. No, il collegamento sta nel metodo più che nelle persone, nella visione del mondo più che nei comportamenti, nella filosofia di vita più che nella cultura della deontologia. Perché, fermo restando che a ciascuno va riconosciuto il suo, dunque a ciascuno la sua antimafia, con o senza chiodi, come dare torto a Walter Virga, uno degli indagati di questa riedizione in versione reality del dramma di Ugo Betti “Corruzione al palazzo di giustizia”, come biasimare il giovane Virga quando dice che basta che tocchi un magistrato e gli altri ottomila sono pronti a difenderlo? Virga, avvocato che nel 2013, a 33 anni, si ritrovò a gestire patrimoni da un miliardo (di euro), forse perché figlio di un magistrato che nel 2013 era al Csm e avrebbe “protetto” la collega Saguto in difficoltà, sa qualcosa di questi meccanismi di protezione, gli stessi che per anni hanno indotto i grandi organi di informazione e gli opinion maker a difendere sempre e comunque i magistrati da qualsivoglia attacco, critica o semplice rimbrotto. Non tutti i magistrati, talvolta, solo quelli che “decidono” nel senso che piace ai grandi geni del diritto, ai tuttologi che tutto sanno e tutto possono, e che possono pure comodamente esaltare la sentenza di un giudice che condannò Giulio Andreotti senza in realtà condannarlo (grazie alla prescrizione), cercando poi di stroncare la carriera di quell’altro giudice, che ebbe il torto di assolvere Mario Mori. Dimenticando però che il giudice in questione era lo stesso e si chiama Mario Fontana. Ecco dunque che, se questo è il modo di ragionare, si può spiegare l’imbarazzato, imbarazzante e prolungato silenzio dei grandi quotidiani nazionali su uno scandalo che scuote dalle fondamenta l’immagine della magistratura in una terra come la Sicilia, in cui giudici coraggiosi hanno speso anni e anni – e molti ci hanno perso la vita – per affermare la superiorità del diritto. Ma giudici o non giudici, erano e sono tutti uomini, perbacco: e come tali potevano e possono fare cose eccezionali, ma anche solenni castronerie. Un buzzurro tutt’altro che imbecille come Balduccio Di Maggio, il pentito del bacio tra Andreotti e Riina, si fece beffe dell’intero sistema giudiziario italiano. Un altro buzzurro decisamente meno attrezzato di Di Maggio, Vincenzo Scarantino, si fece beffe del sistema giudiziario senza volerlo, e pur avendo ritrattato le proprie accuse rivolte a innocenti non venne creduto e fino in Cassazione fu dato seguito alla sua versione accusatoria e non a quella “ritrattatoria”. Nessuno di quei magistrati, della giudicante e della requirente, nessuno di coloro che con ogni evidenza sbagliarono, ha mai pagato dazio. Silvana Saguto è riuscita a fare ancora di meglio. Lei, che distribuiva incarichi di amministrazioni giudiziarie a persone di sua assoluta fiducia, quasi sempre le stesse; lei, che è accusata di avere avuto le mazzettine da cento euro a casa; lei, che non pagava i conti del supermercato sequestrato alla mafia, ma secondo i pm di Caltanissetta avrebbe ricevuto a domicilio un trolley contenente “documenti” (cioè soldi, nel linguaggio dei tangentisti); lei è riuscita a dare forza alle denunce e a inchieste giornalistiche certamente alimentate, sollecitate, spinte dalle denunce degli stessi “proposti”, i presunti mafiosi ai quali i beni venivano sequestrati e tenuti sotto chiave per anni e anni, con procedimenti lunghi lenti e macchinosi – la cui lunghezza, ipotizza oggi chi indaga, era finalizzata unicamente a sostenere il mercato delle amministrazioni giudiziarie, con prebende e compensi che andavano ad amministratori e coadiutori spesso scelti (lo ha maliziosamente detto la stessa Saguto a Repubblica) con il consenso o le indicazioni di Libera e Addiopizzo, associazioni protagoniste poi di un timido tentativo di replica che non ha spostato di molto la questione. Perché Silvana Saguto, oggi reietta come il suo collega Tommaso Virga, che va in giro per il Palazzo di giustizia lamentandosi perché nessuno lo saluta, era una potenza. Faceva parte, la Saguto, di quell’antimafia perennemente in prima fila che poi si legittimava con le cene e i passaggi al prefetto Francesca Cannizzo, ma anche nominando o consentendo le nomine del genero di Maria Falcone, naturalmente estranea alla vicenda ma anche lei adesso in un comprensibile stato di disagio, che l’ha indotta a un insolito silenzio. Comunque finisca questa storia, è una storia terribile. Perché la delegittimazione e l’isolamento, in Sicilia, preludono spesso a “male cose”, al pericolo che la mafia, che in questa vicenda si sente incredibilmente dalla parte della ragione, torni a farsi sentire a modo suo.
Invece la sinistra parla d'altro. A quarant’anni dalla morte, “l’Espresso” pubblica un libro sullo scrittore, poeta e regista che aveva previsto il destino del nostro Paese. Tra mille contraddizioni, ma con una lucidità che oggi fa impressione, scrive Wlodek Goldkorn su “L’Espresso”. "Le ceneri di Gramsci", “Una vita violenta” e “Il Vangelo secondo Matteo”; Geno Pampaloni, Paolo Milano e Alberto Moravia. Sono gli autori delle recensioni pubblicate da “l’Espresso” rispettivamente di un libro di poesie, di un romanzo e di un film di Pier Paolo Pasolini tra la metà degli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta, e che immediatamente suscitarono polemiche. Un settimanale come il nostro - moderno, radicale, non ideologico, curioso di tutto quello che succedeva in Italia e nel mondo - quell’intellettuale friulano, irregolare, eccessivo, restio a ogni disciplina e schieramento pregiudiziale lo ha seguito da molto vicino. E lo ha fatto a modo suo: rispettoso, spesso irriverente, impegnato, ma senza paraocchi. Quello che “l’Espresso” ha scritto di Pasolini e quel che Pasolini ha scritto per “l’Espresso” è stato ora raccolto in un libro, in uscita la settimana prossima intitolato “L’Espresso Pasolini”, con le prefazioni di Alberto Asor Rosa e di Marco Belpoliti, che rileggono con gli occhi di oggi la più straordinaria figura di intellettuale in Italia del dopoguerra, a 40 anni dalla sua morte. Le firme vanno da Alberto Arbasino a Umberto Eco, ma ci sono anche articoli di Enzo Siciliano e di Walter Veltroni, di Enzo Golino e Edoardo Sanguineti, di Stefano Rodotà e di Franco Fortini, di Roberto Roversi e Federico Fellini, e poi Leonardo Sciascia, Gianni Vattimo, Dacia Maraini, Renzo Paris e tanti altri. C’è anche un dossier con i versi scritti dai più importanti poeti italiani per ricordare nel 1995 il collega ucciso nel novembre di vent’anni prima. Sono pagine in cui si spiega perché il fantasma di Pasolini è sempre tra di noi: si possono leggere i versi di Attilio Bertolucci, Giovanni Giudici, Mario Luzi, Valerio Magrelli, Andrea Zanzotto e altri. “Intellettuale scomodo”, si è detto sempre di Pasolini, profeta della catastrofe che stiamo attraversando ora, con una società dove la modernità (parola, bisogna ripeterlo, cara a “l’Espresso”) è spesso sinonimo di barbarie e di legami affettivi e collettivi spezzati o mai immaginati. E ancora, scrittore, cineasta, poeta e difensore del dialetto. C’è di tutto in Pasolini, compresa una certa misoginia (si veda l’intervista che Dacia Maraini fa al regista di “I racconti di Canterbury”). E non va dimenticato il Pasolini critico del linguaggio (e Eco e Moravia hanno da ridire per le sue inesattezze e forse perché, dicono in fondo quando denuncia il linguaggio troppo tecnico e burocratico dei politici, e siamo alla prima metà degli anni Sessanta, non scopre niente di nuovo). Insomma, non c’è polemica importante, senza Pasolini protagonista. Ma forse è utile tornare all’inizio, alle origini di tutto; alla recensione di Pampaloni di “Le ceneri di Gramsci”. Cosa colpisce in quel testo? Ovvio: la sua acutezza. Pampaloni dice una cosa, in apparenza semplice, ma a pensarci bene geniale e che riassume già allora quello che è stato l’autore di quel volume di poesie: «Con “Le ceneri di Gramsci”, il Pasolini entra nella poesia socialista, ma vi entra ancora attraverso il decadentismo». E che dire di Paolo Milano, al tempo critico letterario di questo settimanale, un uomo di una cultura e intelligenza fuori dal comune, lettore di tutto quello che di valido usciva nel mondo? Parlando di “Una vita violenta”, Milano ne individuava (già allora, anche lui), un’intrinseca debolezza. Scrive infatti il nostro recensore: «Il romanziere (...) invece di far vivere i suoi personaggi e servirli con artistica fedeltà, li manipola ai propri fini letterari, morali e ideali». Milano riconosce a Pasolini un’immensa abilità nell’uso del linguaggio, ma gli rimprovera un difetto che ripercorrerà quasi tutta la sua produzione artistica: una certa mancanza di autonomia dei protagonisti dei suoi film e romanzi. Mancanza dovuta non alle scarse capacità creative, ma al contrario all’eccesso di immaginazione, imprigionata nella necessità di “trasmettere un messaggio”. E anche Moravia, amico di Pasolini e suo compagno di viaggi, parlando di “Il Vangelo secondo Matteo”, che gli piace, indica qualche difetto del cineasta. L’elenco di sopra serve per far capire quanto Pasolini fin dall’inizio della sua attività artistica fosse poco classificabile (bravissimo, ma con evidenti contraddizioni) e quanto le sue opere fossero estranee a un canone prestabilito, ma anche quanto chi scriveva per “l’Espresso” se ne rendesse conto e come questo giornale non avesse timore di affrontare un personaggio così scomodo. A proposito della scomodità di Pasolini, le pagine che raccontano il grande intellettuale a partire dalla sua celebre poesia contro gli studenti, dopo gli scontri a Valle Giulia a Roma nel 1968, rilette oggi preservano la stessa tensione politica e civile di allora. “L’Espresso” pubblica quei versi, poi organizza una discussione con esponenti del movimento studentesco, intellettuali, sindacalisti e così continua il dibattito. Oggi forse si può azzardare un’ipotesi: Pasolini nella sua antipatia nei confronti dei giovani “borghesi” , figli del benessere del boom economico e del paternalismo della regnante Democrazia Cristiana, tocca un punto fondamentale, o forse lo intuisce soltanto. Il concetto della generazione (i sessantottini sarebbero stati definiti in seguito come una generazione), l’idea dei giovani che contestano lo status quo in nome di un futuro migliore e che vedono negli “anziani” e in ciò che è “vecchio” il sinonimo del conservatorismo e quindi del Male, è relativamente recente nella storia umana. Ed è legato, a sua volta al mito del progresso. Ecco: Pasolini non solo ha intuito quanto il progresso sarebbe finito in una specie di melassa, un magma postmoderno e consumistico, ma ha anche intravisto in quei ragazzi che dicevano di voler fare la rivoluzione una specie di ultima generazione. Aveva ragione: la crisi del mito del progresso; il consumismo e la postmodernità hanno avuto come corollario la fine di una solidarietà generazionale, il cessare di un legame culturale naturale tra i giovani e contro “gli anziani”. Per accorgersene basta vedere i trentenni e i quarantenni di oggi, soli, individui e non un gruppo con solidi e evidenti legami sociali e culturali. Sono poi tutte da leggere le polemiche in seguito alla morte di Pasolini. Le discussioni attorno ai suoi film, soprattutto l’ultimissimo “Salò o le 120 giornate di Sodoma”; o al romanzo incompiuto “Petrolio”. Resta la forza delle parole di coloro che spesso non andavano d’accordo con lui. È stupefacente, oggi, constatare con quanto rispetto, gli avversari parlassero l’uno dell’altro. Quanto l’Italia, fosse un Paese civile. E quanto la cultura di sinistra fosse seria e basata su idee e parole forti. Rimane, come scrive Asor Rosa, uno scrittore. E come sottolinea Belpoliti, resta il ricordo di un corpo sublime e allo stesso tempo volgare, il corpo di un Narciso e al contempo di Cristo. Resta il ricordo di un grande.
Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi il 03/11/2015 su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia ( Il mio filo rosso , Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l' io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.
MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.
Una verità alternativa raccontata da Paolo Guzzanti: fu il Kgb ad uccidere Falcone e Borsellino. Una gigantesca operazione di riciclaggio dei soldi dei servizi segreti e del PCUS. I conti della mafia in Italia come “lavatrice” del tesoro sovietico. Un misterioso finanziere italiano. Il gran rifiuto di D’Alema, ma anche, subito dopo la morte dei due magistrati, l’impegno del Pci-Pds-Ds per alzare un polverone e celare la terribile e scomoda verità. L’ex vicedirettore de “il Giornale” e deputato del Partito Liberale Italiano svela al giornale della politica italiana questo misconosciuto “mistero italiano” (e non solo): una vera e propria operazione di guerra, che non sarebbe stata nelle possibilità e nemmeno nella volontà della mafia siciliana, alla base del martirio, possiamo chiamarlo così, di Falcone e Borsellino, che stavano indagando sulla vicenda. Una storia che sfugge al controllo persino di un protagonista della nostra politica della potenza di Giulio Andreotti, che ad un certo punto ammette di trovarsi di fronte a qualcosa di «più grande di me» e invita Giancarlo Lehner a lasciare perdere il progetto di scrivere un libro-denuncia su tutto questo. A distanza di anni, Guzzanti riapre il caso. Un pezzo da non perdere, solo sul giornale della politica italiana, “Il Politico.it”. «Vi spiego perché hanno ammazzato Falcone e Borsellino, e perché nessuno fiata di fronte alla messa funebre solenne approntata alla svelta dal vecchio PCI per imbalsamarli e santificarli a furor di popolo inquadrato per processioni, prima che qualcuno avesse la malsana idea di indagare sulle vere ragioni della loro inspiegabile morte: “Chi ha ammazzato il povero Ivan?». Ecco la vera storia che nessuno ha il coraggio di raccontare perché ancora oggi si rischia la pelle. L’ambasciatore sovietico, e poi russo Adamishin andò da Cossiga e disse: Fermate questa rapina, i soldi russi del KGB e del PCUS stanno transitando in Italia per essere riciclati. Fate qualcosa. Cossiga chiamò D’Alema e gli chiese: State per caso riciclando per conto del KGB su conti gestiti da Cosa nostra? Ohibò, disse D’Alema, assolutamente non io, ma posso dire che un grandissimo finanziere – che se ti dicessi il nome cadresti dalla sedia – mi ha offerto l’affare del riciclaggio e io ho detto di no. Dunque il fatto esiste, ma non sono io. Allora Cossiga disse ad Andreotti, primo ministro: Volete fermare questa porcheria che sta dissanguando la Russia? E Andreotti rispose: NO, perché un gesto del genere sarebbe vissuto dal PCI come aggressivo nei loro confronti e io devo preservare l’equilibrio nel governo. Ma ho un’idea: chiama Falcone e digli di fare qualche passo informale che soddisfi i russi. Cossiga chiamò Falcone e gli spiegò la situazione. Falcone disse: ma io sono ormai soltanto un direttore generale del ministero della giustizia, che cosa posso fare? E Cossiga: incontra questi russi, tranquillizzali, fai vedere che stiamo facendo qualcosa.
Falcone incontrò i giudici russi e organizzò meeting riservati, coperto dalla Farnesina che gestì l’affare. Poi chiamò Paolo Borsellino e gli spiegò il problema che si era creato. Borsellino, vecchio militante del MSI e anticomunista intransigente disse: tu sei un impiegato al ministero, ma io no. Io posso indagare. Aprirò una mia Agenda Rossa su questa faccenda e discretamente cercherò di capire di più. Bum!! Capaci. Borsellino qualche settimana dopo si dette una manata sulla fronte e disse: cazzo, ho capito chi e perché ha ammazzato Giovanni: BUM! Via D’Amelio. Il PCI che sapeva perfettamente la storia, si avventò come un branco di jene sui due morti santificandoli alla svelta con un rito abbreviato e intenso di processioni popolari mummificandoli nella sua glassa mediatica affinché NESSUNO MAI potesse rivangare la verità. E’ come il “missile” inesistente di Ustica. E’ come la strage “fascista” di Bologna. Quando il partito copre la merda, tutti devono dire: che profumo di violette. Giancarlo Lehner voleva scrivere questa storia avendo una moglie russa che aveva parlato con Stepankov, il procuratore di tutte le Russie che aveva trattato con Falcone e che si era subito dimesso per paura: “Io ho famiglia, ho visto quel che hanno fatto a Giovanni”. Giovanni in russo si dice Ivan, e i giornali russi alla morte di Falcone avevano scherzato su “Chi ha fatto fuori il povero Ivan”, sulla falsariga di una filastrocca popolare. Tutti a Mosca sapevano chi e perché aveva fatto fuori il povero Ivan. In Italia nessuno sapeva spiegare perché fosse stato ucciso il povero Ivan. Non era un pericolo attuale per la mafia. E la mafia non uccide “alla memoria” o per vendetta a posteriori. E allora: perché e chi ha ucciso il povero Ivan. Lehner disse a un settimanale del suo progetto di libro sulla morte di Falcone. Andreotti lo mandò a chiamare nel suo studio di piazza in Lucina e gli disse: Voglio aiutarla, spero di recuperare i fonogrammi riservati con cui la Farnesina ha preparato gli incontri segreti con i giudici russi. Quella è la prova del fatto che Falcone indagava, senza averne un mandato, ma era andato molto più avanti del semplice contatto diplomatico con i russi, tanto per far vedere che in Italia il riciclaggio del tesoro sovietico era tenuto sotto osservazione. Poi Andreotti chiamò il giornalista e gli disse: Caro Lehner, butti nel cestino il suo progetto di libro, se non vuole lasciarci la pelle. Come sarebbe a dire?, fece quello. Sarebbe a dire, disse Andreotti, che dalla Farnesina mi hanno risposto che i dispacci si sono persi e che non si trovano più. Questo vuol dire che l’operazione è stata cancellata e le sue tracce distrutte. Dunque ci troviamo di fronte a un nemico più grande di noi due. Lasci perdere la morte di Falcone, dia retta. Alla Camera, in un giorno di votazioni a Camere congiunte, io Lehner e Andreotti abbiamo rivangato il fatto. Giancarlo parlava, Giulio annuiva con un sorriso tirato. Nessuno avrebbe potuto attivare il pulsante di Capaci con la certezza di fare il botto al momento giusto, se non ci fosse stato un emettitore di impulsi sulla macchina. Le due operazioni Capaci e D’Amelio sono operazioni di guerra condotte con tecniche di guerra, del tutto ignote alla mafia siciliana. Il resto sono chiacchiere da bar dello sport. Parola di Paolo Guzzanti.
Tante piste che andrebbero seguite. Come quel "Grande Gioco" che costò la vita al giudice Falcone. Verità analizzato da Daniela Coli su “L’Occidentale”. Ci si lamenta che non c’è più libertà di stampa, si protesta contro la "legge bavaglio", ma in Italia non esiste più nemmeno l’ombra del giornalismo investigativo. Per i delitti comuni, gli articoli dei quotidiani sono quasi sempre simili: il bravo giornalista di cronaca, un po’ detective, è scomparso e ora tutti si adeguano alle tesi del pm di turno, senza farsi, né fare domande, sbattendo in prima pagina il mostro di turno e soprattutto le intercettazioni, quando c’è di mezzo un politico. I magistrati politicizzati poi procedono a colpi di teoremi. Per l’uccisione di Falcone, prima hanno battuto sul teorema di Giulio Andreotti capo della Cupola (come nel Padrino III di Francis Ford Coppola, uscito nel 1990), per abbattere la prima Repubblica. Fallito il tentativo di trovare il capo della mafia in uno statista sette volte Presidente del Consiglio e cinque volte ministro degli Esteri, hanno ripiegato su Berlusconi, che avrebbe usato la mafia, compiuto le stragi del ’92-’93, per creare un nuovo sistema politico e prendersi l’Italia. L’ostinazione con cui la sinistra ripete la trama del Padrino III di Coppola, dove la mafia sicula diretta dal potente Lucchesi-Andreotti, come una piovra è dappertutto, in politica, nella finanza, in Vaticano, col solito Calvi in fuga per Londra, è una fiction scadente. Veltroni rilancia la tesi del Cav. mente delle stragi del ‘92-‘93 e sostiene che furono fatte per sconfiggere gli ex-comunisti. Veltroni non si rende conto che nel ‘94 votammo tutti Berlusconi perché quella fiction non era credibile e per questo i "progressisti" persero. Per chi è abituato a seguire CSI Miami, dove è presente il tema della mafia e del narcotraffico, oppure NCIS, dove Gibbs e i suoi sono come cane e gatto con Fbi e Cia, sa benissimo che i protagonisti indagano a 360 gradi su ogni omicidio, scoprendo per altro traffici d'armi coperti dai servizi segreti. Mentre lavora sulla morte di un grande trafficante d' armi francese, coperto da Cia e Fbi, la battuta più frequente di Gibbs è: "E poi dicono che non riescono a trovare bin Laden…". Gli americani sono più scafati di noi e conoscono quanti strani affari una grande potenza può essere costretta a fare. L’Irangate o l’Iran-Contras affair nel 1985-86 rivelò che alti funzionari dell’amministrazione Reagan erano coinvolti in un traffico illegale d'armi verso l’Iran, paese formalmente nemico degli Stati Uniti dopo i 52 americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981, ma, benché l’Iran fosse all’epoca in guerra con l’Iraq e violentemente antiamericana, la vendita delle armi all’Iran fu considerata necessaria per liberare gli ostaggi americani in mano agli Hezbollah libanesi, legati all’Iran. L’affare si complicò ulteriormente, perché i ricavati delle armi vendute all’Iran furono usati per finanziare i Contras che stavano combattendo il governo sandinista del Nicaragua. Nell’85-86 a Washington non si parlava d’altro che del colonnello Oliver North e delle tonnellate di crack (droga dei poveri) che i Contras vendevano negli Stati Uniti. L’affare dell’Iran-Contras era un’operazione clandestina, non approvata dal Congresso e coinvolse North, l’ex capo della Cia Casey e molti alti funzionari governativi. Si chiuse quando il presidente Bush senior garantì il perdono a tutti gli indagati per avere agito nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Una insufficiente cultura investigativa induce alcuni magistrati a costruire teoremi sulle stragi del ‘92-‘93 sullo schema del Padino III e a derubricare la morte di Falcone a "strage di Stato", un concetto che in Italia sembra far luce su qualsiasi mistero e che dimostra solo il disprezzo per lo Stato del quale i giudici si proclamano enfaticamente servitori. I media italiani, diversamente da quelli americani, si limitano a ripetere questi teoremi politici, mettendo in evidenza il degrado del giornalismo. Non c’è più uno Sciascia, né un direttore del Corriere come Piero Ostellino pronto a pubblicarlo. Chissà cosa avrebbe detto Sciascia dei teoremi sulla morte di Falcone. Dal Padrino I (1972), ispirato dal romanzo di Mario Puzo, a La Piovra (1984-2001), si sono riproposti rozzamente i temi della saga del Padrino e non si distingue più tra fiction, letteratura e realtà. È strano come nelle indagini sulla morte di Falcone i magistrati si affidino ai pentiti, alle intercettazioni e non si siano mai soffermati sulle indagini internazionali di Falcone. Sollecitato dal giudice Chinnici, il cui maggiore onore era essere stimato dagli americani, Falcone aveva cominciato ad indagare su Rocco Spatola e, recandosi negli Stati Uniti nel 1980, iniziò a lavorare con Victor Rocco, investigatore del distretto di New York est. Falcone era convinto dell’esistenza di uno stretto rapporto tra mafia americana e siciliana. Lavorava su un traffico di morfina che dalla Siria e l’Afghanistan era approdato tramite un trafficante turco a Palermo nel 1975 e la città era diventata una raffineria che riforniva di eroina gli Stati Uniti. Le indagini si svolsero negli anni dell’occupazione russa dell’Afghanistan, mentre gli Stati Uniti appoggiavano i mujaheddin contro i sovietici, la Cia li riforniva di armi e ai funzionari della Dea (Drug Enforcement Administration) fu chiesto di chiudere un occhio sul traffico di oppio afghano. Prima di morire Falcone si occupava di riciclaggio di denaro in Svizzera. Denaro proveniente dal traffico d'armi e di droga. E proprio i dollari finiti nelle banche svizzere avevano impressionato gli americani, che all’inizio non avevano dato importanza alle sue indagini. Falcone collaborò all’operazione "Pizza Connection" con Louis Freeh, capo del FBI nominato da Clinton. Louis Freeh è finito poi indagato dalla commissione d’indagine sull’11 settembre per non avere tenuto conto delle segnalazioni del controterrorismo e di un agente del Fbi di Phoenix, che nel luglio 2001 fece rapporto su membri di Al Qaeda che frequentavano una scuola di volo: tra loro c’erano alcuni terroristi dell’attacco alle Twin Towers. Il rapporto di Freeh con Clinton, tanto sbandierato dalla sinistra, era tale che, scaduto il mandato al Fbi, Freeh rimase per non dare a Clinton la possibilità di nominare il nuovo capo del Bureau. Il processo di "Pizza Connection" del 1984, dove fu condannato Rosario Gambino, implicato anche nel presunto rapimento Sindona, consolidò il rapporto tra Freeh e Falcone. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto attenzione per la Sicilia. Lo stesso Sindona, come altri mafiosi italo-americani e siciliani, aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia, fu arruolato nella Cia, andò negli States e fu per anni un rispettato banchiere. Anche la Sicilia indipendentista di Salvatore Giuliano aveva guardato all’America. Per la posizione geopolitica dell’isola, il rapporto degli Stati Uniti con la Sicilia attraverso gli immigrati siculi e le loro relazioni con amici e parenti siciliani è sempre stato importante. Anche Falcone riteneva fondamentale il rapporto con gli Stati Uniti. Fu grazie ai rapporti stabiliti con l’Fbi con "Pizza connection" che Falcone ottenne il trasferimento di Buscetta in Italia. Boss del narcotraffico, Buscetta fu arrestato in Brasile nel 1983, Falcone andò a trovarlo nelle carceri di San Paolo per chiedergli se era disposto a collaborare con la giustizia italiana. Buscetta fu estradato negli Stati Uniti nel 1984, collaborò con l’Fbi, che gli fornì una nuova identità e nel luglio dello stesso anno fu estradato in Italia. Buscetta, primo mafioso pentito, ebbe un feeling particolare con Falcone e fece rivelazioni esplosive, fino a indicare in Giulio Andreotti il referente principale di Cosa nostra, proprio come nel Padrino III e ne La Piovra. Dopo le dichiarazioni di Buscetta e il maxiprocesso di Palermo, Falcone divenne famoso e fu chiamato a partecipare al talk show di Maurizio Costanzo. Il magistrato aveva rapporti con Carla Dal Ponte, il giudice svizzero amica di Madeleine Albright, e nel 1991 scrisse un libro sulla mafia con Marcelle Padovani, del Nouvel Observateur, la poliedrica giornalista mitterandiana all’occorrenza rivoluzionaria e guerrigliera, amica di Régis Debray. Falcone, che nel suo studio aveva una fotografia insieme a Bush senior e Peter Secchia, era diventato ormai un magistrato di fama internazionale. Fiero di essere stimato da Bush senior, il presidente della prima Guerra del Golfo del ’90-91. Bush dichiarò lutto nazionale il giorno della morte di Falcone l’accademia dell'Fbi a Quantico gli dedicò persino un monumento. Il presidente degli Stati Uniti in visita a Roma nel 1989 volle incontrarlo e gli riservò un’ora di colloquio. L’ambasciatore Secchia non faceva mistero della stima per Falcone a Roma per collaborare con Martelli, lo immaginava come un futuro possibile ministro. Bush, Louis Freeh e Rudy Giuliani lo stimavano e, secondo alcuni, pensavano a lui anche come primo ministro. Si è anche fantasticato di un patto tra Falcone e gli Stati Uniti per sbarazzarsi di Craxi dopo Sigonella e della politica filoaraba di Andreotti e si è sbandierata l’ipotesi che sia stato ucciso a Capaci prima dai soliti Andreotti e Craxi e ora da Berlusconi per impedirgli di essere un protagonista della seconda Repubblica. È nota l’amicizia dei Bush per Silvio Berlusconi, gli inviti alla Casa Bianca, al Congresso americano: se vi fosse stata anche soltanto l’ombra di una qualche implicazione nella strage di Capaci questo speciale rapporto col Cavaliere non vi sarebbe stato. Paradossalmente, coloro che oggi ricordano la stima dei Bush per Falcone, fanno parte della sinistra che manifestava contro la Guerra del Golfo di Bush e dava del fascista a Bush jr per la guerra in Afghanistan e in Iraq. Purtroppo non c’è stato un Gil Grissom, né un Gibbs a indagare a 360 gradi sulla morte di Falcone. Alla sinistra faceva comodo dare la colpa ad Andreotti nel ’92-93 e ora fa comodo creare polveroni su Berlusconi. Forse, invece, proprio Falcone ha dato la chiave del suo assassino. "Si muore generalmente perché si è rimasti soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande". Falcone con le sue indagini era entrato davvero senza volerlo nel Grande Gioco e pare avesse anche temuto l’alleanza di servizi segreti stranieri con la mafia. Invece di fissarsi su teoremi italiani, forse sarebbe il caso di vagliare ipotesi alternative. A uccidere Falcone potrebbe essere stato qualche servizio segreto orientale, qualche gruppo del narcotraffico, ma pure anche chi temeva le indagini sul flusso di rublo-dollari che giungevano in Italia attraverso i canali di vecchi compagni del Pci, soldi che venivano riciclati in tutta Europa. Falcone aveva già incontrato il magistrato russo Valentin Stepankov e doveva incontrarlo nel maggio del ’92, se non fosse stato ucciso. Ad assassinare Falcone potrebbe anche essere stato qualche servizio segreto occidentale che operava in Medio Oriente e non gradiva un giudice troppo attento ai traffici di armi e droga. Falcone potrebbe anche essere stato cinicamente ucciso da chi voleva destabilizzare la politica italiana, aiutato da qualche sinistro cervello italiano. Fu ucciso in maniera spettacolare in Sicilia, non a Roma, dove sarebbe stato più facile colpirlo, per inviare un messaggio chiaro alla Dc, mentre in Parlamento si votava per il Presidente della Repubblica. Il nuovo presidente doveva essere Andreotti e si elesse Scalfaro, un magistrato, due giorni dopo la morte di Falcone. Nel giugno del ’92, in certi ambienti di Londra, si parlava di regime change per l’Italia e di un'imminente rivoluzione dei giudici. Però, la corte d'Assise di Roma, pochi giorni, fa ha preso in considerazione anche l’ipotesi che Roberto Calvi sia stato ucciso dai servizi segreti inglesi, perché aveva venduto armi all’Argentina durante la guerra delle Falkland. Falcone e Calvi erano diversissimi, ma avevano in comune il problema che tanti li volevano morti. Dopo la morte di Falcone si sono scoperti tutti falconiani, pochi però hanno indagato davvero sulla sua morte, limitandosi soltanto a riproporre il vecchio film di Francis Ford Coppola. E’ noto che dopo l’uccisione di Falcone gli agenti del Fbi si precipitarono subito sulla scena del crimine di Capaci, raccolsero mozziconi di sigaretta nel luogo dove fu azionato il pulsante del detonatore che provocò l’esplosione di tritolo, che investì le auto della scorta e di Falcone. Il Dna delle prove raccolte dal Fbi non corrispondeva però a quello di Giovanni Brusca, il pluriomicida pentito, che ha goduto di un trattamento carcerario estremamente leggero. In qualsiasi giallo, questo dato provocherebbe qualche dubbio. Forse, chissà, tra una ventina d’anni sapremo qualcosa di più sulla morte di Giovanni Falcone, un uomo coraggioso che non meritava di essere sepolto sotto la retorica del santino buono per tutte le stagioni.
Un’altra verità la racconta Gennaro Ruggiero. Geronimo, alias Paolo Cirino Pomicino, nel suo libro bomba “Strettamente Riservato”, fa alcune considerazioni. In pratica si sofferma su alcune coincidenze molto preoccupanti. Infatti, pare che Giovanni Falcone, avrebbe dovuto incontrare, qualche giorno dopo la sua morte, il procuratore di Mosca Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dalla Russia di grosse somme di denaro esistenti nelle casse del PCUS. Tutto confermato da Valentin Stepankov, il quale ha detto anche che, dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Eppure Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima. Falcone, venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale. Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Scotti e Martelli in Tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone. Il Giornale il 3 novembre 2003, raccontava che Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, prima di morire si stava occupando dei finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano: o meglio del riciclaggio di soldi, tanti soldi, che nella fase di dissolvimento dell’Urss lasciavano Mosca attraverso canali riconducibili al Pci. Per questo motivo Falcone si era già incontrato con l’allora procuratore generale russo Valentin Stepankov che su questo stava concentrando tutta la sua attività. Falcone è stato ucciso alla vigilia di un nuovo e decisivo incontro sollecitato dallo stesso Stepankov. Ci sono telegrammi con oggetto: «Finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano».
L’ambasciatore Salleo comunica al Ministero a Roma: “Il Procuratore generale della Federazione russa, Stepankov, mi ha fatto pervenire lettera con cui, facendo riferimento a colloqui da lui a suo tempo avuti con i magistrati Falcone e Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma) mi informa della sua intenzione di effettuare nel periodo 8-20 giugno una missione di cinque giorni a Roma nel quadro della inchiesta sui finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano”. C’era solo un motivo per cui il magistrato russo sollecitava la collaborazione di Giovanni Falcone; dopo averne apprezzato la competenza negli incontri precedenti: Falcone era l’unico in grado di accertare l’eventuale coinvolgimento della «criminalità organizzata internazionale», cioè della mafia (o delle mafie), nel riciclaggio del tesoro sovietico. Falcone, vale la pena ricordarlo, da poco più di un anno ricopriva il ruolo di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Era stato chiamato da Claudio Martelli, allora Guardasigilli. Da quel momento attorno gli era stato fatto il deserto. Quei mesi prima della strage di Capaci, Falcone aveva visto bruciare la sua candidatura a procuratore nazionale anti mafia dai suoi nemici al Palazzo di giustizia di Palermo e dentro la magistratura: al Csm al momento di scegliere il «superprocuratore» tre membri laici del Pds gli preferirono Agostino Cordova. I due governi, vale sempre la pena di ricordare, presieduti da Giulio Andreotti dal ‘90 al ‘92, con il ministro dell’Interno Enzo Scotti e i due ministri socialisti alla Giustizia, prima Giuliano Vassalli e poi Martelli che aveva voluto Falcone al suo fianco, avevano emanato un numero impressionante di provvedimenti contro la mafia. Per ricordarne alcuni: dal mandato di cattura per decreto legge che riportò dietro le sbarre i grandi mafiosi del primo maxi processo istruito a Palermo dallo stesso Falcone, alle norme anti-riciclaggio, al varo della Dna, la Direzione nazionale anti mafia. Curiosamente gli uomini di questi due governi che più si erano esposti nella guerra dichiarata dallo Stato alla mafia, con la sola eccezione di Vassalli, saranno tutti travolti da Tangentopoli, e il premier, Andreotti, addirittura accusato di essere il baciatore di Totò Riina, il puparo della mafia e il mandante di un omicidio (quello di Mino Pecorelli). Da quando Falcone aveva accettato l’incarico al ministero, Martelli si era trovato a sostenere uno scontro pressoché quotidiano con il Consiglio superiore della magistratura. Questo era il clima che ha avvelenato la vita di Falcone, prima di Capaci.
Racconta Enzo Scotti: «Lo aveva visto pochi giorni prima che partisse per Palermo, era giù di tono. Era stanco e avvilito. Finora degli incontri tra Falcone e il giudice Stepankov si era saputo per sentito dire. Il primo a parlarne è stato l’ex ministro dc Cirino Pomicino nel suo libro “Strettamente riservato”. «L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga » spiega Cirino Pomicino «mi ha raccontato che fu lui a chiedere a Falcone di indagare, su quel flusso di denaro del Pcus che usciva dall’ex Unione sovietica ».
Andreotti ha confermato di aver visto i «telegrammi riservatissimi» giunti alla Farnesina nel maggio del ‘92. Adesso c’è la prova documentale. Nel primo, quello dell’11 maggio, è indicato con precisione il periodo in cui Stepankov intendeva venire in Italia, tra «l’8 il 20 giugno», per indagare su finanziamenti de Pcus, mafia e Pci. Il procuratore generale russo rispondeva positivamente anche alla richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dal magistrati romani che indagavano su Gladio Rossa (inchiesta poi frettolosamente archiviata). Per l’incontro con Falcone non ci sarà tempo, poco prima delle 18,30 del 23 maggio una gigantesca carica di esplosivo lo ha fermato per sempre. Del 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la carneficina, è il secondo telegramma «urgentissimo» e «riservatissimo» dall’ambasciata di Mosca alla Farnesina, questa volta firmato da Girardo. Valentin Stepankov non può far altro che esprimere l’«amarezza» e il «profondo dolore », e prega di portare le condoglianze ai parenti delle vittime. Ma tramite la nostra ambasciata, dopo aver sottolineato come fosse stato in programma di lì a poco il loro incontro, Stepankov non rinuncia a ricordare Falcone «quale degno cittadino dell’Italia, uomo di alto impegno professionale e morale». Peccato che i due telegrammi «urgentissimi» non abbiano mai attirato l’attenzione della commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante e Vice presieduta dal democristiano Paolo Cabras: nel ‘93 preferirono mettere sotto processo la Dc e Giulio Andreotti. E oggi si vuole accusare Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi. Ma allora tutta la storia, perché è di storia che stiamo parlando non di leggenda, che fine ha fatto? Allora è vero che c’è una regia politica dietro tutta la vicenda Spatuzza & Co. Purtroppo stavolta non ci sono Falcone e Borsellino, magistrati veri ed imparziali, ci sono solo quelli che come allora accusarono a vuoto Andreotti; ma adesso chi salterà in aria? E chi lo farà, visto che l’unione sovietica è morta? Ma non è morto anche il comunismo? O ci sono i residui bellici ancora vivi? Lascio al lettore analizzare le notizie storiche che mi sono permesso di riportare in questo resoconto.
"Il viaggio di Falcone a Mosca. Indagine su un mistero italiano", il libro di Francesco Bigazzi, Valentin Stepankov. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci (...) Dopo il fallito golpe di Mosca dell'agosto 1991 e l'affidamento a Stepankov della relativa inchiesta, la visita del procuratore russo a Roma nel febbraio 1992 e l'incontro con Falcone costituiscono il primo atto di un'intesa destinata a interessanti sviluppi e formalizzata dalla promessa di un imminente viaggio del magistrato siciliano in Russia. Ma quella data, già appuntata nell'agenda delle due Procure, viene letteralmente cancellata dal più devastante attentato mafioso della storia, attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta... Contributi di Carlo Nordio e Maurizio Tortorella.
I misteri dell'ultimo viaggio di Falcone a Mosca. In un libro-intervista al procuratore della Russia postcomunista, il possibile movente politico-economico per la morte del magistrato: l'oro del Pcus al Pci, scrive il 30 ottobre 2015 Maurizio Tortorella su "Panorama". Il 23 maggio 1992, nella strage di Capaci, sparirono Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ma anche l'inchiesta internazionale che il magistrato aveva iniziato a seguire sull'Oro di Mosca: rubli e dollari versati segretamente al Pci per un valore di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Nel libro Il viaggio di Falcone a Mosca: chi furono davvero i mandanti della strage di Capaci? (Mondadori, 152 pagine, 20 euro), Francesco Bigazzi e l’allora procuratore generale della Federazione russa Valentin Stepankov ricostruiscono quelle indagini e ipotizzano che gli assassini di Falcone, o meglio, i loro mandanti, vadano ricercati tra coloro che guardavano con terrore all’inchiesta più esplosiva del secolo: Pcus, mafia, l’oro di Mosca e i “partiti fratelli”. È stato più volte smentito che il magistrato, in quel momento direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, potesse essere stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus, arrivati segretamente in Italia. Ma Stepankov conferma autorevolmente il fatto. Del resto, anche Il Corriere della Sera del 27 maggio 1992 riportò la notizia: "Tra la fine di maggio e i primi di giugno Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus". Nel libro, la cui uscita è prevista per martedì 3 novembre, Stepankov racconta a Bigazzi di avere avuto subito la sensazione che dopo Capaci le inchieste avviate sarebbero finite su un binario morto. Venuto a mancare Falcone, del resto, nessuno si curò più di collaborare con la Procura russa. Il libro ricostruisce anche come, nel corso del tempo, quattro diversi ministri (Claudio Martelli, Giulio Andreotti, Paolo Cirino Pomicino e Renato Altissimo) abbiano dichiarato pubblicamente che Falcone, nel giugno 1992, avrebbe dovuto recarsi in Russia per confermare una cooperazione giudiziaria sul tema, parlandone (e non era la prima volta) con Stepankov. Tra la metà del 1991 e i primissimi mesi del 1992, sostengono tre di quei quattro ministri, Falcone aveva ricevuto direttamente da Cossiga l’incarico di seguire l'inchiesta dal versante italiano.
Il viaggio di Falcone a Mosca. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci e sul ruolo giocato da mafia internazionale e...
Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in Italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti su "Il Giornale”. Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.
Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..., scrive Dario Fertilio su “Il Giornale”. Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe.Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina.E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.
58 giorni. Cossiga va da Borsellino: “Sei tu l’erede di Falcone”, scrive il 15 giugno 2013 Giovanni Marinetti su “Barbadillo”. 13 giugno 1992. Cossiga incontra Borsellino. L’ex presidente della Repubblica giunge a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di Capaci. Accompagnato dal prefetto Mario Jovine, Cossiga mostra il suo cordoglio ai parenti delle vittime e prega, inginocchiato, assieme alla moglie di Vito Schifani, Rosaria. «Presidente, preghi forte: voglio sentire cosa dice». È Rosaria a chiederlo a Cossiga, e insieme recitano il De Profundis, un Pater e un’Ave. Nel pomeriggio incontra Paolo Borsellino. Sarà lo stesso Cossiga a ricordarlo: «Glielo dissi chiaro e tondo, è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone Lei e nessun altro». Sul Corriere della Sera, il ministro Martelli polemizza con i magistrati, che definisce “professionisti dell’Associazionismo”. Mentre il Psi critica la linea politica di Bettino Craxi, iniziando a voltargli le spalle, i giornali riportano la celebrazione che il Wall Street Journal fanno di Antonio Di Pietro. Il Sole 24 Ore, invece, nell’articolo dal titolo “Affari di droga tra mafia e Pcus. Falcone indagava con i russi”, riporta le parole di Teldman Gdlian, ex giudice della Procura generale dell’Urss, che sostiene che il Cremlino ricavava miliardi di lire vendendo in Italia la droga delle repubbliche asiatiche dell’Urss in accordo con la mafia siciliana. Insomma, il viaggio di Falcone a Mosca, dice, non stava bene né alla mafia italiana né a quella russa. 14 giugno 1992. Il governo fatica a vedere la luce, ma i mercati iniziano a “innervosirsi”. Il Giornale: “Traballa anche la lira”. Scrive l’editorialista Giancarlo Mazzuca: «Un superministro per l’economia? Ciampi al governo? Non c’è più tempo, ormai, per i soliti dibattiti: bisogna agire. A cominciare dalle privatizzazioni appena decollate che, anche dal punto di vista psicologico, possono rappresentare il sospirato segnale di svolta». Tutti i quotidiani riportano i risultati di un’indagine sulla criminalità: metà degli italiani vuole la pena di morte contro i boss mafiosi, e nove cittadini su dieci pensano che la mafia sia la più grave delle minacce per il paese. Il clima è questo. E la politica è debolissima, spaventata dalle inchieste milanesi, in continua lite con la magistratura e senza leadership nei partiti.
IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.
"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia". Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l'esplosione: "Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi", scrive Raffaella Fanelli su “La Repubblica”. "Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un'enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...". Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L'ex uomo d'onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. "Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l'aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari 'na pizza".
Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell'autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi...
"Degli uomini in mimetica non so niente... Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri".
Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?
"C'era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri... Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato".
Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?
"In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l'ho mai riconosciuto... Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate".
Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del '93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?
"Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".
Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.
"So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi... che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità".
La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?
"Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso... Ma è una mia deduzione".
L'omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?
"Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino".
L'omicidio Mattarella?
"Per quel che ne so io, fu voluto da politici".
Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l'omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra...
"Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove".
La strage di via D'Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino?
"Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all'inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l'avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c'è traccia: sono spariti verbali e registrazioni".
Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina... Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?
"Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra... Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l'estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un'auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L'auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti".
Ha conosciuto il Capitano Ultimo?
"Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l'arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori".
Il cortocircuito del Fatto su Ultimo. Da fiancheggiatore di Riina a giustiziere contro Renzi. Il quotidiano di Travaglio cambia idea: il Capitano dei Carabinieri, prima vituperato e radiato per la vicenda del covo del boss mafioso, diventa ora l'arma per "scardinare il Palazzo" con le intercettazioni tra il premier e Adinolfi, scrive Luciano Capone l'1 settembre 2015 su "Il Foglio". Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, è tra i pochi eroi viventi del nostro paese. Reso immortale dalla fiction con Raoul Bova, è l’investigatore che si è conquistato l’immensa stima e riconoscenza degli italiani per aver condotto con i suoi metodi innovativi le indagini che hanno portato, dopo la stagione delle stragi, all’arresto di Totò Riina, il Capo dei capi. Questo per la gran parte degli italiani. Per un’altra parte, minoritaria, è considerato una specie di mafioso, una pedina fondamentale della trattativa stato-mafia, il braccio operativo del generale Mario Mori (suo capo al Ros): i due sono stati processati su iniziativa di Antonio Ingroia con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Totò Riina (una strategia investigativa concordata con l’allora procuratore Giancarlo Caselli), accusa da cui sono stati poi assolti. L’assoluzione definitiva non è servita a Ultimo (e a Mori) a evitare che il suo nome venisse accostato a uno scambio di favori con Cosa nostra e alla Trattativa stato-mafia (una teoria, quella della trattativa, che Ultimo ha definito una “pagliacciata”). Tra quelli che a più riprese hanno accusato De Caprio e il suo ruolo definito ambiguo più che eroico c’è sempre stato Marco Travaglio, che ha sempre creduto più alle parole del pentito Massimo Ciancimino che a quelle del carabiniere. Travaglio si è occupato del tema, e in particolare della mancata perquisizione del “covo” di Riina, in tantissimi articoli, libri, programmi televisivi, monologhi e spettacoli teatrali. “Oggi, con tutto quello che è emerso sulla trattativa e sui mandanti esterni alle stragi, è naturale collegare la mancata perquisizione del covo agli accordi fra i trattativisti e Provenzano. Che aiutò i carabinieri a rintracciare Riina e a eliminare l’‘ala stragista’ di Cosa nostra, ma certo non lo fece gratis”, scriveva il direttore del Fatto quotidiano. E ancora, in un altro articolo: “I due ufficiali (Mori e Ultimo, ndr) non perquisirono il covo, lasciandolo svuotare dalla mafia e ingannando la Procura”. È stato quindi sorprendente pochi giorni fa, il 21 agosto 2015, leggere sul giornale diretto da Travaglio un articolo in cui si prendono le parti del colonnello Sergio De Caprio, esautorato dei suoi compiti operativi al Noe (Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri). Ultimo ha condotto diverse indagini delicate, tra le quali quelle in cui compaiono le intercettazioni tra il premier Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, e proprio questo secondo il Fatto sarebbe il motivo della “purga”: “Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale – scrive il Fatto - di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto”. Ma come, non erano la sua indipendenza e i suoi metodi un punto cruciale della “Trattativa”? “Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori”, scrive Pino Corrias, cancellando in 4 righe anni di teorie sulla Trattativa del suo direttore. Per Travaglio, Ultimo, insieme al suo amico e capo Mori, ha proprio le caratteristiche del delinquente, del fiancheggiatore della mafia, è uno degli uomini chiave degli indicibili accordi tra politica, mafia, terzi livelli e servizi (deviati, ovviamente): "È chiaro che il Ros ha mentito e ha ingannato la Procura. Ora, delle due l’una: o Mori e Ultimo sono due dilettanti allo sbaraglio; oppure hanno agito di proposito per favorire la mafia, o se stessi, o altri uomini dello Stato", scriveva Travaglio. Insomma, Ultimo avrebbe servito Bernardo Provenzano più che lo Stato, si tratta di un traditore, un delinquente che meriterebbe l’ergastolo, altro che la rimozione della “guida operativa” del Noe! Ma il Fatto non si è occupato del colonnello De Caprio solo in quell’articolo, lunedì gli ha fatto una lunga intervista. Quale migliore occasione per mettere alle strette questo personaggio da sempre visto dal direttore come un criminale? Ecco invece come viene descritto: “È il carabiniere che ha arrestato Riina, inquisito Orsi e Bisignani, aperto il fascicolo sulle Coop e intercettato Renzi col generale Adinolfi. Senza troppa reverenza nei confronti del Palazzo. E l’hanno punito”. E ancora: “È stato il protagonista di una lunga serie di indagini. Quelle scomode, soprattutto, portano la sua firma: lui è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto da tutti come il Capitano Ultimo”. E questo è solo l’inizio, ora arrivano le bordate: “Un uomo costretto a non mostrare mai il suo volto, Ultimo ama più la strada che i palazzi del potere. Semplice, pratico ed irrequieto. Pensa ai risultati, non alla burocrazia: per lui il fine è solo l’utile, i mezzi tutti quelli possibili”. Ma come? E la Trattativa? Provenzano, Mori, il favoreggiamento? E il covo? Ah sì, del covo se ne parla: “Il Colonnello Sergio De Caprio ha iniziato questa intervista in quello che ormai è ritenuto il suo “covo”: la casa famiglia Capitano Ultimo "creata per l’esigenza di aiutare chi è in difficoltà". Ma non aiutava la mafia? Non è che nel suo covo ospita il latitante Messina Denaro? Ma è solo l’inizio, ecco che arrivano le domande scomode, quelle che nessuno gli ha mai fatto: “Quale sensazione ha provato quando ha arrestato Totò Riina, per lei era la fine o l’inizio di qualcosa?”, “Quali attività vengono svolte nella Casa Famiglia Ultimo?”, “All’interno della struttura c’è l’allevamento dei falchi da lei personalmente curato. Perché proprio i falchi?”, “Quanto le è costato trascurare la sua vita privata per il lavoro. È riuscito a conciliare tutto?”. Il paginone dedicato a Ultimo è finito, non c’è spazio per le domande sul covo, sull’accordo con Provenzano per arrestare Riina, sul papello, la trattativa, Ciancimino. Niente. Quello che veniva trattato da mafioso quando arrestava Totò Riina diventa un eroe per aver intercettato Renzi, da fiancheggiatore della mafia a uomo “semplice, pratico ed irrequieto” che “ama più la strada che i palazzi del potere”. In realtà Ultimo è sempre lo stesso, è al Fatto che hanno una lingua per i magistrati di Palermo e una per De Caprio. Nella prossima edizione del suo libro “Slurp”, quello sulla leccaculagine dei giornalisti italiani, il direttore del Fatto potrebbe aggiungere un capitolo su una nuova pratica estrema che pare conoscere bene, il bilinguismo.
Da Riina all'inchiesta nissena. Chi è la signora dei beni confiscati, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Dura e pura. Spigolosa e intransigente. A volte scontrosa nei rapporti umani, anche con gli avvocati che ne contestavano spesso i metodi processuali. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Prima il brusio e i sospetti sugli incarichi assegnati dalla sezione Misure di prevenzione da lei presieduta, poi lo scandalo esploso nei giorni scorsi. Perché la Saguto adesso è accusata di avere gestito come se fosse un suo feudo un settore delicato come quello dei sequestri e delle confische dei beni mafiosi. Avrà tempo e modo di difendersi, ma la bomba è scoppiata. La luce propria si è spenta fino al punto che per riaccenderla, sempre secondo i pm nisseni, il magistrato avrebbe fatto filtrare, pochi mesi fa, la notizia che la mafia volesse ucciderla. Anche Livesicilia quella notizia la verificò e la scrisse, avendo saputo che i servizi segreti avevano rilanciato un pericolo segnalato un anno prima. Ora si scopre che, secondo i pm, dietro quell'allarme ci sarebbe stata la regia della Saguto che avrebbe cercato di rispondere alle polemiche che erano esplose attorno alla sua gestione dell'ufficio. Il magistrato, a fine 2013, era già finita su tutti i giornali perché il prefetto aveva deciso di rafforzarle la scorta. Lei stessa aveva preparato un dossier, come riportavano i quotidiani, per raccontare l'escalation di minacce subite assieme ai colleghi della sezione: teste di capretto, telefonate anonime, pedinamenti. Tutto ciò accadeva meno di due anni fa, quando i mugugni sulle Misure di prevenzione erano già forti, eppure sembra che sia passato un secolo. Anche e soprattutto alla luce dell'inchiesta che l'ha travolta. Pesano come un macigno le ipotesi di corruzione e abuso d'ufficio. La gestione dei beni sarebbe divenuta per il magistrato un affare di famiglia visto che sono indagati pure il marito, il padre e il figlio. Nel decreto di sequestro compare anche l'ipotesi di autoriciclaggio forse legata all'anziano genitore. La Saguto oggi siede sul banco dei cattivi. Lo stesso su cui hanno trovato posto coloro che il giudice ha combattuto nel corso di una lunga carriera. Il suo nome è legato ad alcune pagine rimaste nella storia giudiziaria. Ad esempio, non ebbe timore nel 1993, a “sfidare” Totò Riina, quando si sentiva ancora forte l'odore acre del tritolo esploso a Capaci e in via D'Amelio. La Saguto era il giudice a latere - presidente Gioacchino Agnello - nel processo in corte d'assise per gli omicidi di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Durante una pausa le telecamere in aula restarono accese. E così i magistrati, che si erano ritirati, ascoltarono Riina mentre invitava il pentito Gaspare Mutolo a tornare ad essere il “Gasparino” di sempre. “Farai la fine di Matteo Lo Vecchio”, gli disse il padrino corleonese citando uno dei personaggi del libro “I Beati Paoli” che viene ritrovato impiccato a piazza della Vergogna. E così al rientro in aula la Saguto chiese al padrino corleonese: “Che fine ha fatto Matteo Lo Vecchio, mi interessa”. “Ma non lo so c'è un libro che ne parla”. E la Saguto: “Quindi lei legge libri a metà”. Nessuno un ventennio dopo avrebbe immaginato di ritrovare la Saguto indagata per corruzione. Lo stesso giudice inflessibile che in molti hanno conosciuto quando da Giudice per le indagini preliminari firmava decine di ordini di arresto, oppure infliggeva pesanti condanne in Tribunale. Così come inflessibile è stata nel suo incarico alle Misure di Prevenzione sequestrando miliardi di beni tolti ai più importanti gruppi imprenditoriali palermitani. Tra questi, Niceta, Rappa, Virga. È alle Misure di prevenzione, però, che la stella antimafia della Saguto si oscura.
SOLDI A PALATE. PARENTI DELLE VITTIME PAGATI PER ANDARE IN TV E LE BUFALE SPACCIATE PER VERITA’.
L’avvocato Galoppa, re dei salotti televisivi, ha querelato il direttore di Pugliapress. Intanto l’Ordine degli avvocati sta per aprire un nuovo procedimento a suo carico dopo la presenza a Domenica In, scrive il direttore di “Puglia Press” il 28 febbraio 2011. L’avvocato Daniele Galoppa ha querelato il direttore di Pugliapress Antonio Rubino per una foto pubblicata in prima pagina il 6 dicembre u.s. che conteneva la scritta: ‘Cresce la popolarità di Daniele Galoppa, lo vedremo anche a Sanremo? In un editoriale dello stesso direttore, intitolato: ‘Si eviti a Galoppa di andare in TV’. si faceva riferimento ad un procedimento disciplinare nei confronti dell’avvocato di Grottaglie da parte dell’Ordine degli avvocati per violazione dell’art.12 del codice forense. In alcune trasmissioni, come ad esempio Quarto grado in onda su Rete 4, l’avvocato di Michele Misseri aveva lasciato intendere delle novità che erano ancora vincolate dal segreto istruttorio. La sensazione era quella che, per giustificare ogni volta la sua presenza a trasmissioni giornalistiche per le quali riceveva un compenso, l’avv. Galoppa era costretto a dare delle anticipazioni sul caso Sarah Scazzi. La satira sulla eventuale presenza dell’avv. Galoppa a Sanremo era motivata dal fatto che è stato ospite di quasi tutte le trasmissioni, non solo giornalistiche, ma anche di intrattenimento, sia sulla reti Rai che su quelle Mediaset. Per ogni presenza in TV, l’avv. Galoppa, ha preteso un gettone che mediamente è stato di 3000 euro. Sintomatico il fatto che lo stesso ha disertato trasmissioni giornalistiche su televisioni locali e regionali che non prevedevano un compenso. Nonostante gli sia stato revocato il mandato da Michele Misseri, l’avv. Galoppa frequenta ancora oggi salotti televisivi come opinionista, violando a quanto pare il codice deontologico dell’ordine degli avvocati che vieterebbe a chi è stato l’avvocato di fiducia di un indagato in un processo penale di parlare del caso. Sembra che a seguito della sua apparizione televisiva nella trasmissione l’arena di ieri, condotta da Giletti, stia per essere aperto un altro procedimento a suo carico dallo stesso Ordine degli avvocati. L’avv. Galoppa che certamente ha beneficiato economicamente ed in termini di immagine di un caso di cronaca nera, solo per essere stato inizialmente avvocato d’ufficio del presunto autore dell’omicidio. Essendo un avvocato ha il diritto di querelare quando si sente diffamato. Ad un giornalista la facoltà di commentare e criticare i comportamenti di chi assurge alla ribalta televisiva pur ricoprendo in quella circostanza un ruolo assolutamente delicato.
I soldi delle tv per il "crime show" di Avetrana: pagati avvocati, consulenti e familiari, scrive “Blitz Quotidiano”. Qualche migliaio di euro per la comparsata televisiva dell’avvocato, ottomila euro per le foto esclusive del garage della famiglia Misseri, soldi stando a quanto dice il legale di Michele Misseri, anche a Sabrina e Cosima. Ad Avetrana, insomma, l’orrore cede il passo al business. Quanto fosse ghiotto il boccone lo si è capito da subito, da quella domenica in cui, oltre che dai reporter, casa Misseri era assediata anche da frotte di curiosi. E in tanti hanno cercato di guadagnarci qualcosa. Alla fine sono partite le inchieste: quella dell’Ordine degli avvocati, del Garante della Privacy, e, soprattutto della Procura di Taranto. Il legale di zio Michele è il più loquace, e ammette senza grossi problemi i pagamenti. Una linea difensiva ricorrente, di quella sentita in tante altre storie: “Lo fanno tutti, che problema c’è?”. Per lui forse nessuno ma l’Ordine degli Avvocati la pensa diversamente e lo ascolterà. La difesa dell’avvocato d’ufficio di Misseri è che per stare in tv perde ore di lavoro. Come se l’apparizione davanti alle telecamere fosse irrinunciabile. Galoppa, poi, parte all’attacco degli altri protagonisti della storia: “Anche Sabrina e Cosima hanno preso soldi”. Tutti colpevoli, nessun colpevole, insomma. Delicata anche la posizione del consulente tecnico dell’avvocato Russo. E’ un tecnico che doveva analizzare il garage. L0 ha fatto, poi ha scattato le foto ed ha tentato di piazzarle al Tg2 per 10.000 e poi 8.000 euro. Il giornalista ha registrato la conversazione e poi l’ha mandata in onda. Risultato: perquisizione a casa del tecnico con tanto di ritrovamento di foto identiche a quelle trasmesse da un programma Mediaset. Cosima e Valentina, oltre che da Galoppa sono chiamate in causa anche dal loro ex portavoce, Valentino Castriota. L’uomo fu “esautorato” proprio da Sabrina, ma in quindici giorni racconta di aver fatto in tempo a sentire offerte di tutti i tipi: da compensi di migliaia di euro fino a regali costosi.
Sarah Scazzi: parenti e legali pagati dal circo mediatico? Si chiedono Giorgio Piccitto e Carmine Della Pia su “New Notizie”. Il caso di Sarah Scazzi non è più, ormai, relativo al solo omicidio della povera quindicenne di Avetrana. Nascono, infatti, altri piccoli episodi come in un imbuto: la ragazzina uccisa, unica protagonista e vittima della tragica storia, la famiglia in tv, lo zio colpevole, la cugina complice, ancora la famiglia in tv, i legali degli assassini richiamati all’ordine, e infine il circo mediatico che pagherebbe personaggi e comprimari di quella che somiglia, sempre più, a una fiction televisiva. Il Consiglio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, con a capo Corrado Calabrò, invia oggi una segnalazione al Comitato per l’applicazione del codice di autoregolamentazione nelle trasmissioni televisive. Già il Codacons si era espresso a sfavore della sovraesposizione del caso, poi è sopraggiunta la fuga delle notizie. Si è parlato, inoltre, di veri e propri salari che Sabrina avrebbe ricevuto per presentarsi al talk show di turno, improvvisatosi di colpo punto di informazione e cronaca, e piangere, o recitare, il dolore per la cugina scomparsa. La vicenda si è ripercossa anche su coloro che dovrebbero garantire almeno l’ultimo granello di serietà e rispetto per un reato gravissimo: gli avvocati dei (ancora presunti) colpevoli. I tre sono stati richiamati al decoro dall’ordine degli avvocati di Taranto per comportamenti poco deontologici, e ascoltando le parole di Daniele Galoppa, difensore di Michele Misseri, la convocazione ci stupisce poco: “Si, ho percepito denaro per andare in trasmissioni tv, qual è il problema? Lo fanno tutti, non capisco perché non dovrei farlo anch’io. Alcune trasmissioni pagano, è vero, ma bisogna saperci fare. Anche Cosima e Sabrina sono state lautamente compensate”. Foto e notizie in anteprima sulla tragedia sarebbero state vendute lautamente alle telecamere, allontanate proprio recentemente da via Deledda grazie all’invito del sindaco, che aveva promesso una vera e propria ordinanza nel caso in cui la strada non fosse stata sgombra, l’indomani, di telecamere e giornalisti tv.
Rai e Mediaset pagano i famigliari di Sarah Scazzi per andare in tv? Si chiede Riccardo Spiga su “Blogo”. Desta sempre più incredulità e biasimo la massiccia presenza dei famigliari di Sarah Scazzi in televisione: prima, durante e dopo il ritrovamento del corpo della loro congiunta. La madre Concetta in diretta a "Chi l'ha visto?" mentre viene data notizia della morte della figlia, il fratello Claudio che compare nello studio della Vita in diretta a poche ore dalla scoperta del cadavere della sorella e poi ancora le figlie dell'assassino da Barbara D'Urso e a Matrix, e di nuovo il fratello in compagnia del padre a Porta a porta. Ci manca solo che mettano telecamere e microfoni in casa Scazzi e in casa Misseri, stile Grande fratello: per il resto è già stato fatto tutto, violando qualsiasi elementare norma di pietà e di rispetto per la privacy altrui. Ho già scritto che questa remissività di fronte all'invadenza televisiva, che sfiora la complice disponibilità, da parte dei famigliari di Sarah probabilmente è spiegabile con una certa deprivazione culturale (e forse anche emotiva); ma quale che sia la spiegazione la responsabilità del triste spettacolo offerto rimane interamente giornalistica: di chi, cioè, dirige e conduce quelle trasmissioni. Perché non ci si può attendere che il rispetto degli standard etici minimi e delle più basiche regole di deontologia professionale provengano dalle scelte dei privati, in questo caso dei famigliari della povera vittima. La loro disponibilità a essere protagonisti del macabro reality show intessuto intorno alla morte di Sarah non autorizzava e non giustifica la scelta di metterli al centro della ribalta mediatica, tra opinionisti e pseudo esperti malati di protagonismo che - sempre i soliti - animano questi indegni teatrini, da Cogne a Garlasco passando per Erba e Novi Ligure. Piuttosto, serpeggia una domanda che non trova risposta e neppure visibilità sui mezzi d'informazione, a cui io invece voglio dare voce, sperando in una qualche risposta: i parenti di Sarah sono pagati da Rai e Mediaset per andare in video? E, lasciando perdere la tv commerciale, è eticamente accettabile che l'emittente di stato, finanziata con i soldi di tutti noi, offra dei quattrini (quanti poi?) ai congiunti della vittima di un omicidio atroce per comprare la loro intimità e spettacolarizzare il loro dolore? Credo che a queste domande la dirigenza Rai sia tenuta a darci risposta. Resta da vedere se il signor Masi è in grado di assumere un'iniziativa senza l'input berlusconiano, se il presidente Garimberti è capace di destarsi un momento dal letargo che lo avvolge per occuparsi della vicenda e se magari quell'altro bell'addormentato del presidente della commissione di Vigilanza, il giovanotto Zavoli, abbia la voglia di chiedere qualche chiarimento ai vertici di Viale Mazzini. Aspettiamo, per nulla fiduciosi.
Loris Stival, parenti stipendiati per comparsate tv. “3mila euro per andare da Barbara D’Urso”. Dalle intercettazioni depositate dalla procura di Ragusa agli atti dell’indagine sull’omicidio del piccolo emerge come i familiari di Veronica, mamma della vittima accusata di avere ucciso il figlio, abbiano ricevuto compensi per rilasciare interviste a trasmissioni televisive, soprattutto quelle delle reti Mediaset, scrive Giuseppe Pipitone il 16 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Pagamenti anticipati per le interviste, richieste di “regalini” e offerte di aiuti, anche attraverso il pagamento di visite mediche. È un quadro inquietante quello che emerge dalle decine d’intercettazioni telefoniche depositate dalla procura di Ragusa agli atti dell’indagine sull’omicidio del piccolo Loris Stival, il bambino trovato morto nel comune di Santa Croce Camerina il pomeriggio del 29 novembre 2014. La procura guidata da Carmelo Petralia ha chiuso le indagini e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio di Veronica Panarello, la madre di Loris, per omicidio aggravato. Quello ricostruito dalle oltre 250 pagine d’informativa, depositate nelle ultime ore, è però uno scenario che racconta di come i familiari di Veronica abbiano ricevuto migliaia di euro per rilasciare interviste a trasmissioni televisive, soprattutto quelle delle reti Mediaset (contattati dal Fatto Quotidiano, dallo staff della società del Biscione preferiscono non commentare) . “La morte di Loris per l’intera famiglia Panarello è diventato un business economico”, scrivono gli inquirenti, guidati dal capo della mobile Nino Ciavola. Carmela Anguzza e Antonella Panarello, rispettivamente madre e sorella di Veronica, “hanno trovato un’ottima risorsa economica nei proventi derivanti dalle loro partecipazioni ai programmi televisivi, nei giorni a seguire, mutando totalmente il contenuto delle loro dichiarazioni rese innanzi agli organi inquirenti, in presenza delle telecamere, fanno dichiarazioni totalmente contrastanti rispetto a quanto riferito”. Un esempio? È il 21 gennaio 2015 e un’addetta della trasmissione Domenica Live, chiama Carmela Anguzza. “Successivamente – annotano gli inquirenti – l’Anguzza interloquisce direttamente con la conduttrice del programma Barbara D’Urso. La D’Urso dice all’Anguzza che deve tornare in trasmissione a dire che ha visto sua figlia e, guardandola negli occhi, costei le ha detto che è innocente. La D’Urso insiste sul fatto che in questo momento devono rimanere sul pezzo perché altrimenti l’opinione pubblica si convince sempre più che Veronica è colpevole”. La donna però ha qualche tentennamento. “Cercano in tutti i modi di convincerla – continuano gli investigatori – dicendole che sono disposte ad aiutare il figlio minore con eventuali consulti presso strutture mediche e con dei piccoli regali”. E se all’inizio la madre di Veronica dice di non volere andare in tv perché le sembra di fare “sciacallaggio”, in seguito le chiamate registrate dagli inquirenti diventano una vera e propria trattativa: alla donna vengono offerti duemila euro. Lei “risponde, dapprima che non sa ancora se sarà possibile e successivamente, chiede il motivo dell’esiguità del compenso”. Poi, “si consulta con il figlio in merito ai compensi offerti precedentemente e risponde alla giornalista” chiedendo “se è possibile anticipare a 30 il pagamento, anziché a 60 giorni, perché ha bisogno di soldi”. Stesso copione quando a chiamare è il produttore della trasmissione Delitti e Segreti. “La informa – scrivono gli inquirenti – del fatto che lei era venuta in trasmissione a Domenica Live e avevano percepito la prima volta 3.500 euro e la seconda volta 2 mila euro. Lui le farà direttamente 3 mila euro”. E quando i pagamenti arriveranno, ma “a pezzi a pezzi”, e cioè rateizzati, la sorella di Veronica non si lamenterà. “È come se gli stanno dando uno stipendio un po’ alla volta”. Ma non solo. Perché dalle intercettazioni emergono anche delle profonde divisioni tra i familiari di Veronica. Come quando Antonella Stival (prozia di Loris), confida ad un amico di ritenere Francesco Panarello, e cioè il padre di Veronica, “un parassita”. Il motivo? Si sarebbe appropriato del denaro versato dai sostenitori della tesi innocentista su una Postepay intestata alla stessa Veronica.
Loris Stival, lo schifo dei parenti comprati e venduti in tv, scrive Lucio Fero su “Blitz Quotidiano”. I talk-show di cronaca, gli show di chiacchiere televisive intorno, sopra e sotto i delitti, i fatti di sangue ricucinati e rimestati in tv…quando ci metti l’occhio sopra e quando li annusi forti sono i sentori e le sensazioni che siano assemblati con materiale di riporto e di sentina. Ma, come sempre, la realtà supera l’immaginazione: non è solo materiale di scarto, talvolta c’è a impastare il talk show di cronaca vero e proprio letame. Letame, non altrimenti può essere definita la pratica di comprare a suon di euro i “protagonisti della cronaca e del dramma”. Comprarli per far loro dire quel che meglio di volta in volta serve alla sceneggiatura immaginata, inventata in regia, in studio, negli uffici che guardano all’audience.
Letame che i responsabili di uno o più “approfondimenti di cronaca” si applichino in questo comprare manichini umani per applicarci sopra emozioni finte. Ovviamente, per valere la tariffa, i manichini umani devono avere un parete, un congiunto ammazzato o sparito. Altrimenti sul mercato valgono poco o nulla. Se solo intimi della vittima un gettone di presenza. Se parenti…Letame che parenti di una vittima si vendano: 3.500 euro a intervista (intervista ovviamente per dire quel che il regista o il conduttore ha stabilito faccia ascolto e gioco), 2.000 euro a comparsata in studio. E’ stata la tariffa che Mediaset ha corrisposto alla sorella e alla madre di Veronica Panarello. Perché ci fossero, fossero innocentiste a comando, anzi a tariffa. Ma potevano anche essere colpevoliste, dipendeva da quanto e come doveva durare il gioco del talk-show, della puntata in onda che annuncia la prossima puntata…Schifo che tutto questo avvenga letteralmente sul corpo di un povero bambino di otto anni forse ucciso dalla madre. Di certo gettato in una discarica da morto e anche da dopo morto. La discarica, il pozzo nero dove grufolano i cacciatori di audience, i compratori di “protagonisti del dramma”, le famiglie che come quella Panarello si auto congratulano perché “è come se ci pagassero uno stipendio”. Dicono nel paese dove Loris Stival è stato ucciso che Francesco, il padre di Veronica, si sia messo in tasca singola i soldi di una colletta per la famiglia colpita dal dramma. Forse è una malignità e forse no, comunque è ottima materia per farci sopra una puntata. Per lo schifo in tv c’è sempre posto. Lo schifo in tv piace a milioni di telespettatori? Con lo schifo in tv si fanno fulgide carriere da conduttori e ci si guadagna un sacco di soldi? Quelli pagati per andare in tv esistono e non solo nei teatrini Mediaset? Certo, vero. Ma sempre schifo è. E quando si intesse e si cuce e si intreccia e si impasta il proprio schifo su un bambino di otto anni ammazzato, allora non è più neanche schifo. E’ letame, letame e talk show di cronaca che intimamente si fondono e si riconoscono l’un l’altro come fatti della stessa natura.
«Vi racconto come ho fatto soldi a palate spacciando bufale razziste sul web». Parla lo studente che era diventato il re del finto giornalismo a base di caccia all'immigrato online. Il suo sito, oggi chiuso dalla polizia postale, si era trasformato in una terra promessa per gli aspiranti Ku Klux Klan all'italiana. «Le mie notizie erano palesemente false. Ma diventavano immediatamente virali. E io guadagnavo sempre di più», scrive Maurizio Di Fazio su “L’espresso” il 16 ottobre 2015. Il sito Senza Censura chiuso dalla polizia postale "Catania, 15enne bruciato vivo. Massacrato perché cristiano". "Roma: extracomunitario tenta di stuprare bambina. Interviene un passante e lo demolisce". "Napoli, ospitano un pakistano a cena: stupra la figlia e viene picchiato dal padre". "Marocchino salva bambino in mare e poi muore per la fatica". "Quattro tunisini stuprano la moglie e poi uccidono il marito a sprangate". "Nigeriano stupra madre e figlia, il marito gli getta l’acido sul pene". "Immigrato violenta bambina di 7 anni. Il padre gli taglia le palle e gliele fa ingoiare". Con quest'ultimo titolo, e relativo "articolo", "ho fatto più di cinquecentomila visite, e guadagnato mille euro, solo nella prima settimana". Senza contare le centinaia di migliaia di Mi piace e condivisioni su Facebook. Funzionava così: il protagonista del nostro articolo ha aperto un blog, l'ha trasformato in un giornale di informazione in Rete e ha cominciato a pubblicare notizie molto spesso inventate di sana pianta, bufale e fandonie che mettevano al centro della scena (del crimine) sempre e soltanto lui: il nemico immigrato e le sue nefandezze. Più la sparava grossa, più ingannava deliberatamente, più soffiava sul fuoco dello spirito peggiore del nostro tempo e più gli aumentava il volume di visualizzazioni e lettori. Che lievitavano a numeri inimmaginabili. E a questo punto faceva soldi veri, talvolta a palate, grazie alla pubblicità di Google Adsense e similari. Ogni click, un tot di centesimi. "Ogni mille visite guadagnavo due euro" ci rivela. Conta solo la quantità di "contatti": alla propaganda di massa ci pensavano Facebook e gli altri social newtork, dove condivideva e spammava gli articoli falsi attraverso una girandola di fake e pagine fittizie forti, a loro volta, di consensi impressionanti: quasi 87 mila i followers di "Uomo d'onore", e ben 130 mila quelli di "Cresciuti per le strade". Un like, si sa, tira l'altro e a furia di essere diffusa qualsiasi notizia può diventare virale, e quindi verosimile, e perciò "vera". Gli algoritmi dell'advertising sul web non sono programmati per riconoscere le categorie del bene e del male. Dalla sua cameretta di San Cataldo, nella provincia di Caltanissetta, un giovane studente di nemmeno vent'anni, Gianluca Lipani, era diventato un piccolo imperatore del finto giornalismo a base di razzismo e caccia all'immigrato online. Prima che circa un mese fa la Polizia postale siciliana lo scoprisse e denunciasse per istigazione alla discriminazione razziale. Il suo sito di "informazione", "Senzacensura.eu", "il blog senza peli sulla lingua", oggi oscurato, era seguitissimo: "Viaggiavo sui 500 mila lettori al mese". Senzacensura.eu era una terra promessa per tutti gli aspiranti o magari inconsapevoli Ku Klux Klan all'italiana. Perché raccontava, o meglio, immaginava storie raccapriccianti dove gli italiani, "brava gente già stremata dalla crisi", erano sempre vittime di immigrati brutti, sporchi e cattivi, colpevoli dei reati più immondi, mentre lo Stato lassista e parassitario sta a guardare. Sbatti il mostro - extracomunitario of course - in homepage. Tutto ciò per puro spirito di "mercato". "Non agivo per risentimento nei confronti di soggetti di diversa nazionalità. Lo scopo della mia attività era quello di attirare l'attenzione sul mio sito guadagnando, con i banner pubblicitari, dagli ingressi degli utenti" ha dichiarato il ragazzo ai carabinieri, e lo stesso ha fatto a noi, nell'intervista esclusiva che segue. "Non siamo di fronte a un singolo articolo, ma c'è stata una reiterazione nel tempo e molte persone erano portate ad avere un senso di risentimento nei confronti degli extracomunitari" è stato il commento del dirigente della polizia postale Marcello La Bella. E Senzacensura.eu era solo uno dei tanti portali che "commercializzano" la tragedia di migranti in fuga da guerre e orrori. Sul suo profilo Facebook "ufficiale", Gianluca Lipani ha 3310 amici. Posta roba innocente, indistinguibile da quella dei suoi coetanei. Calcio, humour greve, battute sulla nuova Miss Italia e foto d'amore con la fidanzatina, che gli scrive: "Sei la persona più bella del mondo. Sei un ragazzo d'oro". Gianluca porta i capelli dritti e sparati come quelli dell'ex attaccante del Milan El Shaarawy. Orecchini. Fisico palestrato il giusto. Sopracciglia ad ali di gabbiano. Una passione generazionale per il rap. Quando Senza Censura.eu era ancora online, lui si firmava "Il Divulgatore" e si descriveva così: "Sono un webmaster che cerca di dar voce agli italiani tramite la diffusione virale. Da troppo tempo noi italiani subiamo le spergiure di uno Stato ignobile che pensa a sfamare i propri governanti e lasciare nella miseria i cittadini. Da questo momento saprete la verità grazie alle informazioni che vi pongo giorno dopo giorno. Solo tramite l'informazione, QUELLA VERA, riusciremo a distruggere questa situazione che ormai affligge la vita di molti italiani".
Come e perché hai aperto questo sito di "informazione", Gianluca?
"É nato per dare realmente voce a fatti che sono trascurati dai giornali; ma purtroppo queste cose non sono seguite, ricevono pochissime visualizzazioni, nessuno le condivideva sui social e allora mi son chiesto: "Quali fatti potrebbero coinvolgere più gente?". Osservando dal tg le gesta di un noto uomo politico, con i suoi famosi discorsi populistici contro i migranti, ho notato subito la notevole attenzione che catturavano le sue parole d'ordine. E allora mi è venuto in mente di creare un sito con discorsi e una retorica simile: se può farlo un Onorevole, perché non può farlo un ragazzo disoccupato?".
Parliamo della natura dei tuoi "articoli".
"Le mie notizie erano chiaramente inventate: solo chi non ha facoltà di discernimento poteva crederci. Dico questo senza voler offendere in nessun modo il mio pubblico, grazie a cui le notizie diventavano estremamente virali, e alla velocità della luce. Una volta resomi conto di quanto tirasse il tema "immigrazione", ho proseguito su questo solco continuando a pubblicare notizie false e infondate. Fingendo che fossero vere, altrimenti chi le avrebbe più lette? Tu mi dirai: hai violato la legge. E perché, allora, i nostri politici continuano a dire e promettere cose non vere e assurde, senza pagare mai per le loro frottole?".
Che cos'è, per te, la verità?
"La verità, quella vera, non esiste, o meglio esisteranno sempre delle verità nascoste dietro a un racconto e soprattutto dietro a una notizia: perché le baggianate proliferano anche nel giornalismo vero, proprio per spingere il lettore a leggere gli articoli".
Qual è la differenza tra una notizia vera e una bufala?
"La notizia vera è sempre seguita da una fonte; la bufala si capisce dal modo stesso in cui viene scritta. Nei miei articoli ricreavo un linguaggio comprensibile a tutti, pur se grammaticalmente non corretto. Basta conoscere l'italiano per comprendere se una notizia è vera o fasulla".
Perché pubblicavi notizie infondate?
"Come gli uomini cercano la virilità, io inseguivo la viralità. Mi costruivo da solo i miei scoop. E provavo a guadagnarmi in questo modo qualche euro".
Com'era il tuo modus operandi "giornalistico"?
"Alcuni articoli li pescavo da altri siti, mentre altri li inventavo totalmente: sa, non ci vuole mica molta immaginazione, basta pensare a ciò che desidera l'italiano medio, e le idee affiorano da sole. L'italiano medio purtroppo (o per fortuna) non riesce a separare una notizia vera da una bufala, anche perché molte notizie false sono molto simili a quelle vere. Davo al lettore ciò che il lettore voleva".
Il tuo "articolo" più controverso ha questo titolo: "Immigrato violenta bambina di 7 anni. Il padre gli taglia le palle e gliele fa ingoiare”.
"In passato avevo condiviso sulle mie innumerevoli pagine Facebook la storia davvero accaduta di un immigrato che stuprò una bambina, e tra i commenti al post ci fu chi scrisse una roba del tipo "Eviratelo e fateglielo mangiare a forza" e "Buttategli l'acido addosso". Questi commenti macinavano centinaia di like; e così ho deciso di farne il format del mio blog. Ho avuto quasi 6 milioni di visualizzazioni e 800 mila condivisioni...".
Quanto ti rendeva la tua attività?
"Il guadagno andava a periodi".
Ti consideri un razzista?
"Certamente no: io non sono un razzista, né tantomeno un divulgatore di odio razziale, ma un ragazzo normalissimo che cercava di fare qualche euro scrivendo".
E cosa pensi, allora, degli immigrati?
"Non provo nessun risentimento nei loro confronti, ma solo su coloro che speculano sulla loro pelle".
I tuoi articoli seminavano odio sociale?
"Non mi sembra che dopo aver letto i miei articoli i lettori siano scesi in piazza con un machete per colpire gli extracomunitari di passaggio. Altrimenti dovrebbero farlo anche dopo aver visto un tg".
Vuoi diventare un giornalista?
"No".
Secondo te, i social network sono uno strumento di conoscenza o di ignoranza?
"I social sono una miniera di diamanti per chi pubblica qualcosa, ma non per chi legge. Consiglio di utilizzarli per passatempo: non per informarsi".
L'ANTIMAFIA DEI PROFESSIONISTI ED IL CONTESTO SPUTTANATO.
Mafia Capitale, segreto violato: "Denunciati tutti i quotidiani". La Camera Penale di Roma denuncia alla Procura tutte le principali testate nazionali per aver diffuso atti coperti dalle indagini: 78 i giornalisti a rischio sanzioni. Una presa di posizione che non ha precedenti in Europa, scrive Martedì, 13 ottobre 2015 Valentina Renzopaoli su “Affari Italiani. Mafia Capitale: violato il segreto istruttorio. La Camera Penale di Roma denuncia alla Procura della Repubblica tutte le principali testate nazionali per aver diffuso atti coperti dalle indagini. Duecentosettantotto gli articoli finiti nel mirino, pubblicati all'indomani dello scandalo giudiziario che ha travolto Roma. E ora settantotto giornalisti e diciotto direttori rischiano di incorrere in azioni disciplinari. Una presa di posizione che non ha precedenti in Europa, come conferma ad affaritaliani.it l'avvocato Giovanni Pagliarulo co-estensore dell'atto insieme al presidente della Camera Penale di Roma Francesco Tagliaferri: “E' la prima volta in assoluto. Ora il Re è nudo: a quanto pare nessuno si era reso conto che esiste una norma non conosciuta o non applicata che vige da quanto è stato scritto il codice penale”. Con l'esposto, che porta la data del 24 settembre, si chiede al Procuratore Giuseppe Pignatone di segnalare l'illecito disciplinare ai competenti Ordini professionali. Secondo l'associazione di penalisti, i giornalisti di tutta Italia che compaiono nel lunghissimo elenco, avrebbero violato l'articolo 114 che vieta la pubblicazione testuale, anche parziale, degli atti del procedimento in fase di indagini e di quelli del fascicolo del pubblico ministero, compresi quindi verbali di interrogatorio e conversazioni oggetto di intercettazione telefonica e ambientale. Atti che divengono pubblicabili solamente quando diventano oggetto di dibattimento. Gli articoli a cui l'esposto fa riferimento sono apparsi sui giornali cartacei tra il 3 e il 9 dicembre 2014, nei sette giorni successivi all'esecuzione della prima ordinanza che ha disposto le misure cautelari per il primo filone dell'inchiesta Mondo di Mezzo; e tra il 5 e il 6 giugno 2015, successivamente alla seconda ondata di arresti. “Sarebbe bastato monitorare un solo giorno: il nostro obiettivo è evidenziare un fenomeno di una portata enorme. In quasi tutti i processi si assiste a questa prassi deviante e illecita e qualunque avvocato o cittadino che se ne accorge dovrebbe segnalarla” spiega l'avvocato Pagliarulo.
Mafia Capitale. Cronisti nei guai. Sono 78 i giornalisti denunciati per aver pubblicato le carte dell’inchiesta, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. Anche i giornalisti adesso rischiano di entrare a far parte della maxi inchiesta «Mafia Capitale». Per la prima volta in Italia e in Europa sono stati denunciati in blocco tutti i giornalisti che si sono occupati dell’indagine che ha portato in cella decine e decine di persone in meno di un anno. Il motivo? Hanno raccontato ai lettori nel dettaglio il lavoro svolto dalla procura di Roma. Per alcuni, però, forse in maniera troppo dettagliata, tanto da convincerli ad andare in procura e depositare un esposto contro 78 giornalisti e 18 direttori di testate nazionali. A chiedere al procuratore capo Giuseppe Pignatone di valutare il comportamento dei giornalisti sono stati gli avvocati della Camera penale di Roma, che da giorni stanno contestando, tra l’altro, le decisioni prese dal Tribunale in merito al processo che inizierà il prossimo 5 novembre: da una parte il calendario (quattro udienze a settimana fino a luglio), dall’altra invece la scelta di trasferire il dibattimento nell’aula bunker di Rebibbia e di utilizzare la videoconferenza dalle carceri dove sono detenuti gli indagati. Secondo i legali, dunque, c’è stata «la plurima violazione del divieto di pubblicazione degli atti di un procedimento penale nella fase delle indagini preliminari». Un esposto del genere, dunque, non era mai stato presentato in nessuna procura. Al documento, depositato il 24 settembre scorso, sono stati allegati anche tutti gli articoli pubblicati tra il 3 e il 9 dicembre 2014 (appena scoppiato lo scandalo) e il 5 e 6 giugno (giorni in cui sui quotidiani sono stati riportati (nel dettaglio) gli ulteriori arresti nell’ambito dell’inchiesta «Mafia Capitale». «La procura non procederà contro i giornalisti, ma un freno va messo», ha detto l’avvocato Francesco Tagliaferri, presidente della Camera penale di Roma, che ha firmato l’atto insieme al collega Giovanni Pagliarulo. «Il giudice non può leggere gli atti prima sui giornali - continua il presidente - molti documenti infatti non entreranno neanche nel dibattimento. Il diritto di cronaca va bene, però va coniugato con le norme esistenti». Nel mirino dei legali, quindi, le intercettazioni, le ordinanze di custodia cautelare, i verbali di interrogatori pubblicati in quei giorni. «Trattasi di divieto che opera anche quando sia venuto meno i cosidetto "segreto interno" (la conoscenza dell’atto da parte dei destinatari dello stesso) - scrivono i penalisti - essendo previsto a tutela della corretta formazione della prova in dibattimento, dunque della neutralità cognitiva del giudice». Il 5 novembre, comunque, in aula insieme agli imputati ci saranno anche i giornalisti per raccontare minuziosamente il processo.
Invece c'è chi dà un altro taglio alla notizia: Mafia Capitale, e adesso gli avvocati danno la colpa ai giornalisti. La Camera penale di Roma accusa una folta schiera di giornalisti di aver violato il divieto di pubblicazione degli atti del procedimento che riguarda la banda di Massimo Carminati. Il procuratore Giuseppe Pignatone dovrà valutare se sia stato commesso reato e, eventualmente, informare gli organi titolari del potere disciplinare, scrivono Anna Dichiarante e Giovanni Tizian su "L’Espresso". «Il giornalista de “l'Espresso” meriterebbe il premio Pulitzer». Secondo Giosuè Naso, avvocato di Massimo Carminati, il “Cecato”, le inchieste sui Re di Roma sono da premiare con il prestigioso riconoscimento. Lo dice scherzando durante un'intervista radiofonica mentre commenta, tra le altre cose, il film in uscita “Suburra”. Ma queste dichiarazioni sono solo un assaggio di una ricetta che gli avvocati romani sembrano voler utilizzare contro quello che, secondo loro, è un abuso dei giornalisti che si occupano di cronaca giudiziaria: la pubblicazione integrale o parziale dei verbali e delle intercettazioni. L'inchiesta “Mafia Capitale”, evidentemente, sta molto a cuore alla Camera penale di Roma. Tanto che il presidente Francesco Tagliaferri, insieme al collega Giovanni Pagliarulo, ha presentato un esposto in procura contro un esercito di giornalisti, compresi direttori di testata, colpevoli di aver pubblicato integralmente o in parte documenti giudiziari. “L'Espresso”, “la Repubblica”, “Il Corriere della Sera”, “Il Tempo”, “Il Mattino”, “Il Messaggero” e tante altre testate sono così finite nel documento consegnato al procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. A lui è infatti rimessa la valutazione sull'eventuale violazione di norme penali, ma, soprattutto, a lui spetta il compito di informare i Consigli di disciplina territoriali, cioè gli organi competenti ad avviare procedimenti disciplinari e a irrogare sanzioni nei confronti dei giornalisti che abbiano commesso illeciti. Secondo i due avvocati, insomma, tutti i cronisti indicati nell'esposto e i rispettivi direttori avrebbero violato più volte il divieto di pubblicazione testuale, anche parziale, degli atti di un procedimento penale nella fase delle indagini preliminari e di quelli contenuti nel fascicolo del pm, se si va a dibattimento. Un divieto sancito dall'articolo 114 del codice di procedura penale che opera anche quando questi atti siano venuti a conoscenza dei loro destinatari, perché mira a tutelare la corretta formazione della prova nel corso del processo. In altre parole, il giudice del dibattimento dev'essere neutrale e non deve essere influenzato dalla conoscenza pregressa degli atti d'indagine: da qualunque fonte questa conoscenza gli arrivi, stampa compresa. Per questo, nel loro documento, Tagliaferri e Pagliarulo hanno elencato una serie di articoli pubblicati tra il 3 e il 9 dicembre 2014 (settimana successiva alla prima ondata di arresti nell'ambito di “Mafia Capitale”) e altri usciti tra il 5 e il 6 giugno 2015, cioè i due giorni seguenti alla seconda ordinanza cautelare che portò in carcere, tra gli altri, i politici della Capitale Luca Gramazio, Mirko Coratti e Daniele Ozzimo. Una selezione di pubblicazioni fatta «per ovvie esigenze di sintesi» – scrivono i legali – perché, in realtà, «la divulgazione a mezzo stampa degli atti del procedimento» avrebbe «avuto luogo per un periodo considerevolmente più lungo». Sarebbe a dire, quindi, che nessuno stralcio di ordinanza cautelare, nessun virgolettato di intercettazione telefonica o ambientale e nessun passaggio tratto dai verbali di interrogatorio avrebbe potuto essere riprodotto sui giornali. Sulla base dell'esposto della Camera penale, quindi, Pignatone dovrà valutare se i giornalisti siano incorsi nel reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (che il codice penale punisce con ammenda o arresto fino a trenta giorni) e, nel caso riscontrasse violazioni, dovràinformare gli organi titolari del potere disciplinare. Ora due domande sono legittime. Perché questa crociata per la tutela degli imputati di "Mafia Capitale" e perché alla vigilia del processo contro Carminati & Co?
Giornalisti che come sciacalli si buttano anche sulle carogne dei loro colleghi: Bulgarella: nella stampa amici e nemici. Favori al direttore di Panorama, proteste contro la Gabanelli. Mulè smentisce tutto e fa un esposto contro i magistrati al ministero della Giustizia. Gli sviluppi dell'inchiesta che coinvolge il vice presidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. Dalle intercettazioni emergono i legami e il network dell'imprenditore., scrive Francesco Viviano su "La Repubblica" del 9 ottobre 2015. Una parte dell’inchiesta della Dda di Firenze che ha coinvolto il vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona e Andrea Bulgarella, entrambi indagati assieme ad altri 8 tra imprenditori e dirigenti della banca, è dedicata al successo economico dell’imprenditore Bulgarella e ai suoi legami con ambienti di “Cosa nostra”, ma anche con dirigenti di banca, funzionari e amministratori pubblici, oltre che con il mondo della politica, con la massoneria e con la stampa. Con i giornali, rapporti amichevoli o conflittuali come nel caso del direttore di Panorama, Giorgio Mulè e con Milena Gabanelli di Report. E “significativi”, scrivono i carabinieri del Ros i commenti di Bulgarella mentre conversa con il direttore di Panorama Giorgio Mulè. "Le conversazioni intercettate evidenziano anche uno scambio di favori tra il direttore di Panorama e Andrea Bulgarella". Bulgarella commenta la notizia che Mulè era stato condannato per diffamazione nei confronti del Procuratore di Palermo, Francesco Messineo e subito dopo gli invia un sms di solidarietà. Mulé, nella lettera che pubblichiamo in calce a questo articolo, smentisce la circostanza. In altre conversazioni intercettate Mulè chiede a Bulgarella di ospitare una coppia di suoi amici in uno degli alberghi di Trapani e di prenotare per lui una stanza preso l’hotel “Monasteri” di Siracusa dal 21 al 27 luglio. "Bulgarella si mette subito a disposizione di Mulè ospitando gratuitamente la coppia. Mulè ha soggiornato al “Monasteri Resort” per una settimana, pagando, dietro insistenze, la somma di 360 euro ricevendo una fattura pari a 720 euro. Mulè ringrazia e comunica a Bulgarella che nel successivo numero di Panorama un’intera pagina sarà dedicata all’ Hotel Monasteri "e gli chiede se preferisce che nell’articolo si faccia espresso riferimento anche al gruppo Bugarella, ricevendo risposta affermativa". Subito dopo Bulgarella telefona ad un suo amico Nello Bologna che è anche amico di Mulè e lo informa dell’imminente pubblicazione dell’articolo sul albergo "compiacendosi del fatto che se avesse dovuto pagare un’inserzione pubblicitaria avrebbe speso intorno ai 10.000 euro ed il risultato sarebbe stato sicuramente meno efficace". Il 12 giugno, quando Bulgarella apprende della procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale avviata dal Csm nei confronti del Procuratore di Palermo Francesco Messineo a causa della mancata cattura di Matteo Messina Denaro, si complimenta con Mulè inviandogli il seguente sms: “Sei il Messi dei giornalisti anche a Palermo avevi visto lungo, complimenti”. Poco dopo è Mulè a telefonare a Bulgarella ed entrambi esprimono soddisfazione e felicità per le disavventure di Messineo. Un altro episodio, stavolta conflittuale, riguarda la conduttrice di Report, Milena Gabanelli e la possibilità di Bulgarella di arrivare ai vertici della Rai per lamentarsi attraverso le sue conoscenze politiche. Nel gennaio del 2005 Report intervista Bulgarella intitolando il servizio “La mafia che non spara”. L’intervista è relativa al fatto che da quando la “Calcestruzzi ericina” era sotto sequestro Bulgarella ed altri imprenditori edili non compravano più calce e cemento. Bulgarella appare in difficoltà anche quando, rispondendo ad altre specifiche domande, dichiara di essere un imprenditore che sta dalla parte dello Stato che, a suo dire, però, non sempre era stato presente e di non aver mai avvertito il peso della mafia. Dopo l’intervista, per evitare che venisse mandata in onda Bulgarella scrive una lettera al direttore di Rai 3 Paolo Ruffini, lamentandosi della condotta delle due giornaliste che lo avevano intervistato (Milena Gabanelli e Maria Grazia Mazzola). Tale episodio sarà poi oggetto della riunione della Commissione di Vigilanza RAI del 25 gennaio 2005, nel corso della quale l’onorevole Pippo Gianni, componente della Commissione condividendo il contenuto delle lamentele del Bulgarella, stigmatizza le modalità con le quali l’intervista è stata condotta. "L’intervento in Commissione dell’onorevole Gianni – scrivono i carabinieri - non appare casuale, avuto riguardo al fatto, che il predetto, come emerge dalle conversazioni intercettate, in concomitanza con le elezioni amministrative siciliane del giugno 2013, aveva sollecitato l’assunzione di più soggetti presso l’albergo “Monasteri Resort” del gruppo Bulgarella. Sollecitazioni subito accolte dal Bulgarella che ha telefonato personalmente ai soggetti segnalati, invitandoli a presentarsi alla direzione dell’albergo per procedere all’assunzione, facendo riferimento espresso o implicito (“amici”) all’onorevole Gianni".
Dal direttore di Panorama riceviamo e pubblichiamo. Gentile Direttore, poche righe che ti chiedo cortesemente di pubblicare al più presto in merito all'articolo presente da questo pomeriggio sul sito di Repubblica con richiamo nella homepage dal titolo "Bulgarella: nella stampa amici e nemici. Favori al direttore di Panorama, proteste contro la Gabanelli. Gli sviluppi dell'inchiesta che coinvolge il vicepresidente Unicredit, Palenzona" a firma Francesco Viviano. Il sito di Repubblica scrive di "scambi di favori" tra me e Andrea Bulgarella rifacendosi apoditticamente a quanto affermato dalla Procura di Firenze nel decreto di perquisizione nei confronti degli indagati - tra i quali, sottolineo, io non figuro - e senza che il giornalista autore dell'articolo abbia avvertito la necessità di chiedere la mia versione. Ti scrivo dopo aver inviato un esposto-denuncia al ministro della Giustizia, al Procuratore generale della Cassazione (titolari dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati) e al vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura affinché intervengano tempestivamente dal momento che, per la parte che mi riguarda, il decreto della procura di Firenze contiene notizie documentalmente false, ricostruzioni arbitrarie e valutazioni errate e fuorvianti. Giorgio Mulè, direttore di Panorama.
L'antimafia dei professionisti e il contesto sputtanato. L'indagine su presunti contatti dell'imprenditore Bulgarella con Messina Denaro, strumento per aggredire lui e il direttore di Panorama. E La Repubblica..., scrive Giorgio Mulè su "Panorama". Nei giorni scorsi vi sarà capitato di ascoltare dai telegiornali la notizia di una serie di perquisizioni ordinate dalla Procura di Firenze nell’ambito di un’inchiesta che ruota intorno a un imprenditore di origini trapanesi,Andrea Bulgarella, e che coinvolge anche il vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. I giornali hanno dedicato ampio spazio e rilievo alla vicenda. L’ipotesi di partenza è che Bulgarella abbia investito "ingenti capitali da lui accumulati grazie ai vantaggi ottenuti dai rapporti con l’associazione mafiosa trapanese facente capo al latitante Matteo Messina Denaro" per acquisire, ristrutturare e gestire alberghi in Toscana. Bulgarella è un imprenditore mai finito in carcere che da quasi un quarto di secolo lavora prevalentemente in Toscana. Secondo l’accusa avrebbe ottenuto "indebitamente svariati finanziamenti, agevolazioni e benefici vari, resi possibili in palese violazione della normativa bancaria con operazioni anomale e non trasparenti". Questa è l’accusa che ha fatto così titolare i giornali: Palenzona indagato: “Favori a un costruttore vicino a Cosa Nostra” (La Repubblica 9 ottobre) o "Unicredit, i favori dei vertici all’uomo di Messina Denaro" (Il Fatto quotidiano, 9 ottobre). Perché vi annoio con tutto questo? Perché questa vicenda racchiude in sé il peggio del peggio della malagiustizia e del malogiornalismo. Seguitemi con un po’ di pazienza. Bulgarella, ripetiamo incensurato, non è destinatario con tutti gli altri indagati di alcun provvedimento firmato da un giudice terzo: la perquisizione è un atto di parte, dell’accusa e cioè della Procura. Nessun giudice ha valutato, fino a questo momento, quanto sottoscritto dagli inquirenti. Eppure Bulgarella passa sui giornali oramai simili a ufficio fotocopia delle Procure come una persona già condannata in via definitiva e finisce per essere definito "l’uomo di Messina Denaro". La lettura delle 40 pagine firmate dal procuratore Giuseppe Creazzo è illuminante. Vi aspetterete di trovare un’attività di indagine certosina, fior di approfondimenti contabili. Nulla di tutto ciò. C’è molto di peggio, paradossalmente. Perché la Procura fa risalire al 1991, cioè 24 anni fa, l’odore della presunta mafiosità di Bulgarella citando una nota dei servizi segreti dell’epoca (il Sisde) dove si legge: "Si è appreso in via fiduciaria, da fonte di non valutabile attendibilità, che tale avvocato (ne omissiamo il nome, ndr) avrebbe contatti con tale Andrea Bulgarella appartenente con l’intera famiglia ad una cosca mafiosa del trapanese, per conto del quale tratterebbe l’acquisto di immobili di svariati miliardi… il Bulgarella è uno dei più noti e facoltosi imprenditori della provincia di Trapani ed ha esteso i propri interessi anche in Toscana". E la Procura, a distanza di 24 anni, annota che effettivamente Bulgarella ha sviluppato in Toscana "un’intensa attività nel settore alberghiero". Come ha appurato questo enorme segreto? "Da una sua (di Bulgarella, ndr) intervista pubblicata sul quotidiano Il Tirreno del 4 ottobre 2007". Vi prego, fermiamoci. Nel 1991 c’è una fonte del Sisde "di non valutabile attendibilità" che fa sapere come in Toscana ci sia un "barbaro" mafioso alle porte. Eppure non succede nulla. Per 24 anni la Procura di Firenze rimane in letargo, e Bulgarella nel frattempo avvia e chiude decine di cantieri. Non viene sfiorato da alcun sospetto. In Sicilia, dove Messina Denaro viene rivoltato come un calzino da tutte le Procure con sequestri di ogni bene anche lontanamente riconducibile al superboss, Bulgarella non viene coinvolto in alcuna inchiesta. Nel migliore dei casi la nostra struttura antimafia è un colabrodo, ma non è così. E allora c’è qualcosa a Firenze da capire più a fondo. Vediamo. I magistrati toscani insistono tantissimo nel loro provvedimento sulla parola "contesto". Con questo strumento linguistico e nell’intento di descrivere il "contesto" si finisce per sputtanare (o forse si tenta di "mascariare"?) persone estranee all’inchiesta. Compreso il sottoscritto, ovviamente non indagato ma sputtanato alla grande. Per la Procura sono "significativi in tale contesto" (tanto per cambiare) i commenti fatti da Bulgarella "mentre conversa con il direttore di Panorama". Vediamo quali: "Un sms di solidarietà" inviatomi nel maggio 2013 a seguito di una condanna in primo grado per una causa intentata dall’ex procuratore di Palermo "al quale poco dopo Mulè risponde con tono cordiale e spiritoso". E un sms di "complimenti" inviatomi il 12 giugno 2013 dopo l’apertura della procedura "per incompatibilità ambientale avviata dal Csm nei confronti del procuratore di Palermo a causa della mancata cattura di Messina Denaro" in cui Bulgarella mi scrive: "Sei il Messi dei giornalisti, anche a Palermo avevi visto lungo". Annota la Procura: "Poco dopo è Mulè a telefonare a Bulgarella ed entrambi esprimono soddisfazione e felicità per le disavventure di Messineo". Ora: se Bulgarella è "l’uomo di Messina Denaro" è certamente l’uomo più cretino al mondo che il boss poteva scegliersi: perché mai, infatti, Bulgarella – che secondo i segugi fiorentini è la proiezione economica del capomafia - dovrebbe esultare per quel provvedimento che rischia di punire e allontanare un magistrato che non avrebbe permesso la cattura del "suo" Messina Denaro, consentendogli di rimanere latitante? In quell’sms, casomai, c’è la prova dell’antimafiosità di Bulgarella e lo schifo (di cui sono testimone diretto) che prova per la mafia. Ma soprattutto: che cosa c’entra la storia degli sms con questa inchiesta che ruota intorno a finanziamenti bancari alle sue imprese? Che cosa dimostra? Perché inserire il direttore di Panorama nel "contesto"? Penalmente è tutto irrilevante, ma esternamente ha l’effetto di sputtanare un giornalista di una testata scomoda e non allineata. La Procura di Firenze descrive inoltre un presunto "scambio di favori" tra me e Bulgarella, mai avvenuto, di cui potete leggere i dettagli nell’articolo che segue. Si può ricondurre tutto a un semplice incidente? Per me dentro quelle 40 pagine c’è un inutile rischio di sputtanamento sul quale ho chiamato a intervenire con la massima celerità il ministro della Giustizia, il procuratore generale della Cassazione e il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura ai quali ho inviato il 9 ottobre un esposto-denuncia. Il decreto della Procura di Firenze rende ancora una volta solare la barbarie che consente (si spera in questo caso non impunemente) di sputtanare soggetti estranei alle indagini. Ma evidenzia ancora una volta l’enorme problema dell’affidabilità dell’Antimafia. È uno strumento delicatissimo in cui sono evidenti alcune falle di professionalità e che altrove (vedi lo scandalo di Palermo, con l’affidamento familistico dei beni confiscati alla mafia) evidenziano una gigantesca questione. Leonardo Sciascia denunciò nel 1988 i "professionisti dell’antimafia": oggi siamo al capovolgimento di quell’espressione. Nel nuovo secolo si è fatta strada e impera "l’antimafia dei professionisti", quella che facendosi spesso scudo dei martiri lorda e usa la sua funzione per interessi che con la lotta ai boss e ai picciotti di Cosa nostra non ha nulla a che vedere: si costruiscono carriere, si conquista visibilità, si consumano vendette. Bene, io continuerò a denunciare questa antimafia dei professionisti. Perché, detto senza ipocrisia, mi fa schifo.
QUEI COPIATORI DI REP CHE NON SANNO COPIARE. Una delle primissime cose che ci insegnavano alla scuola elementare era il "copiato". Alcuni giornalisti italiani che hanno deciso di non accendere il cervello nella stesura di un articolo, non facendosi sfiorare dal sacro fuoco del dubbio, di mestiere fanno questo: copiano atti giudiziari. Ma sono così sciatti da non riuscire a far bene questa operazione... elementare. Andiamo con ordine. Nel decreto di perquisizione della Procura di Firenze nei confronti di dieci persone per presunti reati finanziari c’è un passaggio che riguarda il direttore di Panorama, non indagato né mai ascoltato come testimone. Si tratta di una circostanza talmente irrilevante che c’entra con l’inchiesta come un broccolo a colazione da inzuppare nel latte. "Le conversazioni intercettate" si legge "evidenziano anche uno scambio di favori tra il giornalista, direttore del settimanale Panorama, e Andrea Bulgarella". Poi si afferma: "Nel corso di successive telefonate Mulè chiede a Bulgarella di ospitare una coppia di suoi amici in uno degli alberghi di Trapani e di prenotare per lui una stanza presso l’albergo “Monasteri” di Siracusa dal 21 al 27 di luglio. Bulgarella subito si mette a disposizione del Mulè, ospitando gratuitamente gli amici dello stesso e prenotando per lui nell’albergo “Monasteri Resort” di Floridia per una settimana di luglio (da successive telefonate risulta che Mulè ha soggiornato per sei giorni presso l’albergo pagando, dietro insistenze, la somma di 360 euro ricevendo una fattura pari a 720 euro). In data 8 giugno Mulè lo ringrazia e gli comunica che nel prossimo numero di Panorama un’intera pagina della rivista sarà dedicata all’hotel Monasteri e gli chiede se preferisce che nell’articolo si faccia espresso riferimento anche al gruppo Bulgarella, ricevendo risposta affermativa". Orbene: quanto all’ospitalità gratuita di miei amici mi limitai a chiedere un consiglio a Bulgarella per una famiglia che doveva recarsi in vacanza in Sicilia. Quanto al resto: ho soggiornato presso l’albergo "Monasteri Resort" di Floridia (Siracusa) dal 21 al 27 luglio 2013. È unfalso storico che pagai 360 euro a fronte di una fattura di 720 euro. Pagai infatti per intero l’importo del soggiorno: 360 euro con carta di credito mentre saldai ulteriori 360 euro in contanti e quindi per un totale di 720 euro come da fattura emessa dall’albergo. E d’altronde: che senso avrebbe avuto pagare 360 euro e rilasciarmi una fattura di 720 euro? Sarebbe bastato ascoltarmi per evitare la topica piuttosto che dare la fesseria in pasto alla stampa sciatta e ciclostilata. L’articolo di Panorama relativo ai "Monasteri Resort" viene pubblicato il 12 giugno 2013 e avviene unicamente sulla base di una valutazione giornalistica rispetto a una struttura di eccellenza (come testimoniato da numerosi altri articoli pubblicati da Il Sole 24 Ore, Corriere della Sera, La Nazione, La Sicilia, il Giornale di Sicilia, Dove). Il mio soggiorno avviene dopo oltre un mese dalla pubblicazione su Panorama e la mia insistente pretesa di pagare il conto taglia in radice qualsiasi malevola e strumentale ipotesi di uno "scambio di favori". Andiamo ai copiatori-asini di Repubblica. Che in realtà, quando vogliono, sanno essere molto bravi. Prendete l’articolo del 6 ottobre in cui si dà notizia del rinvio a giudizio di Carlo De Benedetti per la morte da amianto di 13 lavoratori della Olivetti: a Repubblica sono stati così camerieri verso l’editore da omettere nell’articolo proprio il reato contestato, cioè l’omicidio colposo. Leggiamo adesso Alessandra Ziniti su Repubblica che all’ombra di un titolo sobrio ("Hotel a cinque stelle e favori/I business all’ombra dei boss") scrive: "È sempre ai Monasteri che Bulgarella ospita per una settimana a luglio dell’anno scorso (è il 2013, comunque, ndr) il direttore di Panorama Giorgio Mulè". Mi scuso preliminarmente per l’italiano che segue: "Dove per pagare un conto minimo di 360 euro ricevendo però una fattura dell’importo doppio, 720 euro. Mulè ringrazia e restituisce il favore promettendo di dedicare un’intera pagina del successivo numero di Panorama al Monasteri resort citando il gruppo Bulgarella". Che cosa si capisce, a parte la lotta titanica della signora Ziniti con la sintassi? Che vi è un "conto minimo" da pagare: falso. Che l’articolo di Panorama sui Monasteri esce dopo il soggiorno nell’hotel: falso. Anche Francesco Viviano, sempre su Repubblica, eccelle nell’arte della manipolazione e della falsità. Lui fa andare i miei amici al Monasteri resort (falso), poi fa soggiornare me e colloca dopo il mio soggiorno la pubblicazione dell’articolo su Panorama. Alla luce di tanto sacro fuoco su questo inesistente "scambio di favori" si impone un’operazione di autocoscienza. Alcuni giornalisti e collaboratori di Repubblica vengono invitati in resort di lusso o alberghi a cinque stelle in Italia e all’estero, viaggiano per il mondo in prima classe o business, partecipano a eventi fashion con spese totalmente a carico delle aziende. Sono cioè ospiti. Poi scrivono sul loro giornale articoli e recensioni anche entusiastiche sulla struttura o l’evento. Vista l’indignazione fuori luogo rivelino adesso, gli stessi giornalisti di Repubblica, i cento e cento "scambi di favore" che - loro sì - hanno accumulato in questi anni. Poi, magari, chiedano scusa.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
Antonio Giangrande: “stavolta io sto con Roberto Saviano”. Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.
Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?
Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.
Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.
E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?
Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.
A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.
E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.
La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.
Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.
Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.
Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto.
"ZeroZeroZero" originalità. Saviano accusato di plagio. Il Daily Beast elenca passi da articoli mai citati e interviste inventate. Conclusione: "Un libro disonesto". La replica: "Sono solo coincidenze", scrive Matteo Sacchi Venerdì 25/09/2015 su ”Il Giornale”. Non c'è pace per Roberto Saviano. A giugno i giudici italiani, corte di Cassazione, hanno messo nero su bianco che nel suo libro più famoso, Gomorra (Mondadori), 10 milioni di copie vendute solo in Italia, c'erano dei passi plagiati da articoli di giornali locali del gruppo editoriale Libra. Pochi ma c'erano. La corte ha in quel caso ridotto ai minimi termini la responsabilità economica di Saviano, e del suo editore, per il plagio ma lo ha determinato in maniera definitiva. Come spiega la sentenza, già nei precedenti gradi di giudizio c'era stato «un analitico ed approfondito esame dei brani riportati nel romanzo Gomorra arrivando alla conclusione che riguardo a tre dei sette brani riportati vi è stata una illecita appropriazione plagiaria degli stessi in quanto in questi casi il romanzo riportava quasi integralmente gli articoli in questione». Sui media italiani non è che ci sia stata grande eco per la notizia, anzi. Invece negli Usa, dove la recensione dei libri è spesso molto analitica e pignola, è un giornale on line, e non un tribunale, a «bacchettare» Saviano. Ieri il Daily Beast , uno dei siti web più visitati al Mondo, in un articolo a firma Michael Moynihan titolava così: «Il problema col plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano». L'articolo, dopo aver citato la sentenza italiana e l'indifferenza con cui Saviano se l'è lasciata alle spalle, è invece dedicato al secondo libro dell'autore, ZeroZeroZero (Feltrinelli), dedicato al narcotraffico sudamericano (negli Usa il volume è uscito a inizio estate). La recensione non è per niente buona. La stroncatura letteraria prende poche righe: « ZeroZeroZero è un pasticcio di libro, una serie di storie in cerca di una narrativa coerente, dove a eventi globalmente insignificanti è assegnato un grande significato storico, e tutti gli altri fatti sono sempre gonfiati e sovraccaricati nella scrittura». Più interessante che il libro venga considerato «incredibilmente disonesto». Nell'articolo viene elencata una serie piuttosto lunga di «copia e incolla» che non farebbero proprio onore a quella che dovrebbe essere letteratura d'inchiesta. A essere onesti qualche dubbio sul livello dell'«inchiesta» era venuto anche in Italia. Ne avevamo scritto in queste pagine parlando di echi da Wikipedia e il professor Federico Varese sulla Stampa (nell'inserto Tuttolibri ) aveva segnalato un passo che sembrava ripreso pari pari dall'enciclopedia on line. Questi riscontri, sommersi dal coro sperticato di elogi che di solito accompagna ogni atto di Saviano, sono passati in cavalleria. Ma il Daily Beast, sfruttando le fonti in loco, ha localizzato molte altre «anomalie». Passi relativi alla banda di narcotrafficanti Los Zetas attribuiti «alle fonti privilegiate di Saviano» verrebbero dritti dritti da Wikipedia. Poi ci sarebbero, e questo farebbe il paio con il precedente di Gomorra , le appropriazioni senza segnalazione di articoli scritti da giornalisti meno famosi, soprattutto di testate Usa. Ora che ZeroZeroZero è stato tradotto in inglese, le somiglianze balzano all'occhio. Giusto per fare un esempio, la storia tragica di Christian Poveda, un regista franco-spagnolo ucciso in Salvador, sarebbe ripresa in blocco ma senza citazione alcuna da un reportage del 2009 del Los Angeles Times della corrispondente Deborah Bonello. Il paragone lascia basiti. Decine di righe in cui al massimo cambia l'ordine delle parole o c'è qualche guizzo di colore a cercare di fare la differenza. Michael Moynihan ha provato a chiederne conto a Saviano che ha parlato di coincidenze e del fatto che lui e la Bonello hanno lavorato sulle stesse fonti. La Bonello ha spiegato che la fonte del suo articolo era un'intervista al regista morto (difficile avere accesso alla stessa fonte senza una seduta spiritica). Moynihan, insospettito, ha trovato decine di altre similitudini. Un passo che secondo lui verrebbe pari pari dal giornale salvadoregno Il Faro (senza citazione alcuna dell'autore). Altri passi da reportage di Robert I. Friedman (che non viene citato ma solo ringraziato per la sua «visione»). In tutti i casi Saviano ha negato le somiglianze, a quanto scrive Moynihan. O al massimo ha abbozzato spiegando di nuovo che le fonti erano le stesse. Seguono altri passi che hanno delle somiglianze con articoli del St. Petersburg Times . Poi ci sarebbe la «clonazione» più significativa. ZeroZeroZero finisce con il racconto dell'omicidio del giornalista messicano Bladimir Antuna García per mano di una gang legata al narcotrafficante El Chapo. Un racconto che pare cannibalizzato da un rapporto del 2009 del Committee to Protect Journalists (il giornale americano lo allega in pdf come prova). Citazioni della fonte? Zero. Per carità c'è differenza tra le somiglianze scovate da un giornalista e l'accertamento fatto da un tribunale. Ma i pezzi messi a confronto sono davvero tanti. E, per di più, a scatenare l'irritazione negli Usa è il fatto che Saviano è famoso per i suoi pistolotti, in cui spiega che il vero giornalista deve andare sul posto e non può fare le inchieste seduto al computer e usando Google... Quello che ha fatto saltare definitivamente la mosca al naso di Moynihan sono le interviste a personaggi che Saviano garantisce come «assolutamente reali». Come il paramilitare Ángel Miguel, membro dei cattivissimi Kaibiles del Guatemala, che Saviano avrebbe contattato in Italia. Moynihan confronta il racconto di Miguel con un reportage del 2005 pubblicato su Notimex dal giornalista messicano José Luis Castillejos. Altre strane somiglianze. Come mai si chiede? Ce lo chiediamo anche noi. Nelle risposte che Saviano gli manda via mail e Moynihan pubblica è difficile raccapezzarsi. Sembra di capire che Saviano si conceda un po' di “fiction” e che, secondo lui, sia ovvio che il lettore lo sappia. Ma lo sa davvero? E tutti i saccheggiati del loro pericoloso lavoro di inchiesta? Dovrebbero dire grazie di essere stati nobilitati, ma anonimamente, da un bel romanzo civile? Negli Usa è una cosa incomprensibile. Non sanno che qui in Italia si può essere riconosciuti maestri del copia e incolla come Umberto Galimberti e cavarsela con solo un richiamo formale della propria università. Oppure farsi pizzicare come Corrado Augias a copiare dal web e veder finire tutto in gloria. E c'è da scommettere che anche questa volta al di qua dell'Oceano, non se ne parlerà tanto. Anzi forse se ne parlerà zero, zero, zero. Perché in italia agli iscritti al club dei «ripubblica» si scusa tutto. PS. I riscontri diretti sul testo si possono fare solo tra gli articoli originali in inglese e la versione del libro in inglese. Per questi rimandiamo alla corposa documentazione reperibile sul sito del The Daily Beast .
Roberto Saviano: "Vi spiego il mio metodo tra giornalismo e non fiction". Lo scrittore su "La Repubblica" replica alle accuse americane: "Il mezzo è la cronaca, il fine è la letteratura". Rimbalza dagli Stati Uniti una polemica che ruota intorno allo scrittore. Un articolo pubblicato dal sito di informazione The Daily Beast, firmato da Michael Moynihan, è una lunga dissertazione su ZeroZeroZero, il libro sul narcotraffico globale da poco uscito negli Usa. L'articolo attacca il metodo di lavoro dell'autore di Gomorra. Saviano è accusato di non citare le sue fonti e di prendere in prestito singole frasi o passaggi da opere altrui. Da qui il titolo: " Il problema plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano". Una presa di posizione, questa del Daily Beast, che ha subito suscitato un acceso dibattito sui social network.
Accade sempre così, prima con " Gomorra" e ora accade con " ZeroZeroZero": quando un libro ha molto successo, quando supera il muro dell'indifferenza, quando le storie che veicola iniziano a creare dibattito, è quello il momento giusto per fermare il racconto. Per bloccarlo. E come sempre il miglior metodo è gettare discredito sul suo autore. Come se fosse possibile smontare davvero un libro di oltre 400 pagine con un articolo di qualche migliaio di battute. Ma forse questo è lo scopo di una recensione a ZeroZeroZero uscita sul Daily Beast , che non si è accontentata di essere una stroncatura (è normale, no?, che un libro ne riceva), ma che vorrebbe essere altro. Che cosa, esattamente, lo lascia intendere l'autore, che si sofferma forse un po' troppo sulla mia figura, sul fatto di essere ormai percepito come un personaggio politico e non solo come uno scrittore. Non è evidente, allora, che i miei libri, tutti, finiscano per scontare questa paternità troppo ingombrante? Così, quando non si può dire che ciò che racconto è falso, si dice che l'ho ripreso altrove. Ma il mio lavoro è esattamente questo: raccontare ciò che è accaduto, nel mio stile, nella mia interpretazione. Mi accusano di aver ripreso parole altrui: come se si potesse copiare la descrizione di un documentario. Se la protagonista è donna, è madre, ha 19 anni, si chiama " Little One" e ha un numero tatuato in faccia, non so quanti modi ci possano essere per raccontarlo. Di più. Per rendere i brani simili, il mio critico taglia il testo che avrei preso a riferimento, come fa per esempio nel caso di un passaggio del Los Angeles Times . Scrive il giornale americano, secondo il Daily Beast : "... there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there...". E questo sarebbe il brano che io avrei ripreso in ZeroZeroZero : "... about 15,000 members in El Salvador, 14,000 in Guatemala, 35,000 in Honduras, 5,000 in Mexico. The highest concentration is in the United States, with 70,000 members". E certo che i due passaggi si somigliano. E sapete perché? Perché per fare il suo gioco il Daily Beast ha omesso dall'articolo del Los Angeles Times un passaggio significativo. "Speaking at the Mexico City premiere of La Vida Loca last month, Poveda said officials estimate there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there, he said". La frase completa spiega insomma che quei numeri li ha dati Poveda stesso alla premiere messicana del film nel 2009. Ed è difficile dare questa informazione in maniera diversa, soprattutto se è Poveda stesso ad averne parlato. Io cerco sempre di essere il più rigoroso possibile sui dati, riportandoli come sono forniti. E il caso di Christian Poveda è esemplare dal momento che a lui e al suo omicidio ho dedicato un intero capitolo di ZeroZeroZero : quindi l'ho citato, eccome se l'ho fatto! Del resto è sempre un azzardo utilizzare i puntini sospensivi indicando omissioni: in questo caso, per esempio, si stravolge sia quanto riportato in ZeroZeroZero sia quanto scritto sul Los Angeles Times, cambiando la posizione di dati e parole. Costruendo artatamente una somiglianza che non c'era, o che poteva essere ricondotta al pressbook diffuso quando il documentario di Poveda uscì. Ma poi sarebbe davvero plagio riferire la trama di un documentario? Cioè, se io scrivo la descrizione del Padrino sto plagiando la quarta di copertina? Ridicolo. Conosco moltissimi giornalisti, tra cui i maggiori giornalisti sudamericani, che incontro periodicamente e con cui scambio ogni tipo di informazione: loro mi mandano i loro scritti e io mando a loro i miei perché condividere informazioni, e soprattutto analisi, è la cosa che tutti noi consideriamo più preziosa. Sì, analisi: perché le informazioni sono di dominio pubblico. Attenzione a questo passaggio: le informazioni sono di dominio pubblico e non appartengono a nessun giornale perché sono fatti. Le analisi appartengono a chi le elabora e quelle vanno citate, sempre. Ma naturalmente, anche stavolta, sul Daily Beast , tutto prende le mosse dalla causa per plagio avvenuta in Italia: causa anche interessante da raccontare, visto che oltre a me, a processo, è finito un genere letterario, un genere che non è giornalismo, non è saggio e non è invenzione, ma qualcosa di diverso. Secondo me qualcosa di più - e i numeri di Gomorra lo hanno dimostrato. Nella sentenza di primo grado della causa in cui due quotidiani locali campani mi accusavano di aver ripreso articoli, il giudice afferma che ciò che può essere oggetto di plagio sono opere che hanno carattere di " originalità e creatività", ergo la cronaca non ha né l'uno né l'altro requisito, essendo niente altro che " fatti". C'è solo un modo per dire come è avvenuto un arresto e come un imputato era vestito in tribunale per l'udienza di convalida dell'arresto. C'è solo un modo per descrivere un documentario. E spessissimo la fonte comune per notizie che riguardano arresti o indagini sono generalmente le conferenze stampa delle forze dell'ordine. Immaginiamo i vari quotidiani farsi causa per aver utilizzato parole uguali per descrivere uno stesso avvenimento? Proprio sulla base di questo, il giudice di primo grado ha rigettato tutte le accuse. E non è stato neppure difficile smontarle: ai miei legali è bastato produrre in tribunale le decine di articoli identici a quelli di chi mi faceva causa, che descrivevano gli stessi avvenimenti. Anzi. Durante la riproduzione degli articoli da portare in udienza, ci siamo accorti che i quotidiani che mi avevano citato per plagio avevano pubblicato a mia insaputa (non ero ancora noto al tempo) alcuni miei articoli per intero: senza citare né autore né fonte. Non fatti simili né qualche parola uguale: ma due interi articoli. Per questo sono stati condannati: l'unica parte in cui le sentenze dei tre gradi di processo coincidono. Sì, nella sentenza di secondo grado, per esempio, vengono accolte tre su dieci delle loro richieste: corrispondenti a meno di 2 pagine su 331, lo 0,6% del libro! Ma proprio su queste vale la pena soffermarsi ancora un attimo. Sono stato condannato per aver scritto "su un giornale locale" invece che "sul Corriere di Caserta ". E per aver riportato per intero un articolo virgolettato. Sapete quale? Quello che declamava le arti amatorie del boss Nunzio De Falco, mandante dell'assassinio di Don Peppe Diana. Il titolo dell'articolo era: "Nunzio De Falco, re degli sciupafemmine". Questo tecnicamente non sarebbe neppure plagio, e nemmeno appropriazione indebita, dal momento che non avevo nessuna voglia di attribuirmi la paternità di quell'articolo. L'autore, del resto, era sconosciuto. E sapete perché. Perché si trattava dell'esaltazione di un boss di camorra. Ed era proprio questo ciò che io volevo mostrare: quanto quei quotidiani peccassero di apologia verso i capi che avevano ucciso Don Peppe - quanto certa stampa locale fosse compiacente. Se li avessi propriamente citati, invece che dire "su un giornale locale", mi avrebbero fatto causa per diffamazione! E gli altri due articoli? Uno riguarda la struttura del clan, l'altro il percorso fatto dalle auto dei carabinieri dopo la cattura del boss Paolo Di Lauro: ed entrambi veicolavano informazioni diffuse direttamente dalle forze dell'ordine. Allora vivevo a Napoli, assistevo alle conferenze stampa di carabinieri e polizia, e avevo come fonti gli organi investigativi: come tutti. Del resto chiunque vivesse a Napoli in quegli anni, e facesse il mio lavoro, trascorreva più tempo a parlare con gli inquirenti che sulle scrivanie. Era tempo di guerra di camorra (c'era almeno un morto al giorno) e tutti volevamo capire che cosa stava succedendo, come il nostro si stava trasformando in un vero e proprio territorio in guerra. Per inciso: la sentenza di terzo grado ha sancito definitivamente il carattere autonomo e originale di Gomorra , come aveva stabilito la sentenza di primo grado, rimandando al Tribunale circa la quantificazione del danno. Ma andrebbe ricordato che questo processo ha un antefatto. Importante. La citazione in giudizio da parte della società che pubblica Cronache di Napoli e Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta ) non nasce in seguito alla pubblicazione di Gomorra (2006), ma solo due anni dopo: quando cioè ospite del Festivaletteratura di Mantova (settembre 2008) criticai duramente quelle testate locali che considero contigue alle organizzazioni criminali, che fungono da loro " uffici stampa" e che sono organo di propagazione dei messaggi tra clan. A Mantova mostro ritagli di giornale e la platea resta attonita. Il giorno successivo, di Cronache di Napoli e Corriere di Caserta ne parlavano tutti i maggiori quotidiani italiani. Continuo a lavorare su questo per lo Speciale Che Tempo Che Fa del 25 marzo 2009 (19% dello share della serata e 4 milioni e mezzo di telespettatori, è la trasmissione televisiva più vista quella sera). Mostro anche la prima pagina del Corriere di Caserta con il titolo a caratteri cubitali: "Don Peppe Diana era un camorrista". Ecco, dopo averne parlato in televisione sullo stesso argomento scrivo un libro per Einaudi. Tra la presenza televisiva e il libro arriva dunque la citazione in giudizio per plagio da parte delle testate locali. Anche qui, occhio: non per diffamazione ma per plagio. E non nel 2006, anno in cui Gomorra viene pubblicato, non nel 2007, ma dopo. Dopo che di loro parlo in televisione. Aggiungo due notizie sulla società che mi ha fatto causa. Maurizio Clemente, ex editore occulto delle due testate, è stato condannato a sette anni di carcere per estorsione a mezzo stampa: si faceva pagare per non diffondere informazioni su imprenditori e politici. E un processo con sentenza dello scorso febbraio ha dimostrato come un giornalista, Enzo Palmesano, che scriveva su un quotidiano del gruppo, sia stato licenziato su ordine del sanguinario boss di camorra Vincenzo Lubrano, che ha partecipato all'omicidio del fratello del giudice Imposimato. Ecco chi mi ha fatto causa. Ecco a chi i giudici di secondo grado hanno dato parzialmente ragione. Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili, eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario? Il metodo è la cronaca, il fine è la letteratura. Il lettore legge un romanzo in cui tutto ciò che incontra è accaduto. Si chiama non-fiction novel: ed è, credo, l'unico modo davvero efficace per portare all'attenzione di un pubblico più vasto, e in genere poco interessato, questioni difficili da comprendere. Perché in un libro che non è un saggio, ma appunto un romanzo non-fiction, non si devono riportare tutti coloro che ne hanno scritto: soprattutto quando le fonti sono aperte, come nel caso citato di un documento dell'Fbi, quindi fonti comuni, o come i documenti governativi sulle organizzazioni criminali in Guatemala, nel caso dei kaibiles - tutti esempi su cui si è esercitato il mio critico americano. Se, per ipotesi, descrivessi il crollo delle Torri gemelle, come faccio a citare tutti coloro che ne hanno fatto in quel giorno la cronaca? Allo stesso modo, siccome descriverò il crollo delle Torri gemelle, utilizzerò parole simili perché le fonti sono identiche e soprattutto perché la fonte comune è la realtà: l'attacco terroristico è avvenuto, è una notizia, e non ci sono molti modi per raccontare una notizia. Le interpretazioni, quelle sì, possono essere infinite, e a quelle va attribuita paternità: sempre. I fatti accaduti, con buona pace dei miei detrattori, non appartengono a nessuno. O meglio appartengono a chi li racconta e poi a chi li legge. Ma nell'articolo americano su ZeroZeroZero c'è di più. Non ci si limita a dire che avrei riportato agenzie giornalistiche non citandole, ma che ho inventato personaggi - nonostante io abbia detto direttamente al mio critico, interpellato via email, che nessun personaggio è inventato. Lui insiste: "Sono troppo perfetti per essere veri". Ma è esattamente quello che ripeto da anni: la realtà è molto più incredibile della finzione. E quando ho deciso che forma dare a ZeroZeroZero , con tutto il materiale che avevo raccolto, non avevo dubbi: non potevo inventare. Quello che avevo, doveva essere raccontato così com'era. L'ho fatto, con il mio libro, in Italia e nel mondo: dove ZeroZeroZero - che ora compare negli Usa - è uscito ormai da due anni. Insomma: prima mi si accusa di riportare notizie che esistono, ma prese da altri. Poi di aver inventato, perché ciò che scrivo è troppo perfetto. E a voi tutto questo non sembra l'ennesimo, furbo (ma poi nemmeno tanto) modo per delegittimarmi? Quando nell'articolo vengo definito "una specie di celebrità globale", "una rockstar letteraria", "il Rushdie di Roma", ho capito che ancora una volta ho fatto centro: il livore arriva quando c'è visibilità, quando il dibattito diventa centrale e catalizza l'attenzione. Ma mi dispiace per i miei critici, anche per quelli americani. Fiero dell'odio e della diffamazione, degli attacchi che ricevo quotidianamente, difenderò sempre il mio stile letterario: sia che lo usi per scrivere libri o articoli, sia che lo usi in teatro o per una serie tv. Così come l'omertà di alcuni sindaci non fermerà le riprese di Gomorra 2 , così il cachinno contro di me non fermerà la mia letteratura. Rassegnatevi: continuerò a indagare il reale, con il mio stile. Sarà di questo che avrà avuto paura anche la famiglia di Pasquale Locatelli, il broker di coca ora agli arresti. Anche di lui parlo in ZeroZeroZero e quando, nel 2013, il libro è uscito in Italia, anche lui ne ha chiesto il ritiro immediato. La richiesta è stata respinta.
Roberto Saviano su “L’Espresso del 2 ottobre 2015: Se quelli sono giornalisti. Il sindacato e l’Ordine hanno ignorato gli intrecci tra editoria e malavita. Ora invece si muovono per mettermi all’indice. E mi danno dell’«abusivo». Il giornale locale che aveva insinuato rapporti tra don Diana e il clan dei casalesi («Don Peppe Diana era un camorrista»), dedicò un articolo al fascino di Nunzio De Falco, boss mandante dell’omicidio don Diana. È il “Corriere di Caserta”, prima pagina del 17 gennaio 2005: «Boss playboy, De Falco re degli sciupafemmine». E poi: «Casal di Principe (Ce). Non sono belli ma piacciono perché sono boss; è così. Se si dovesse fare una classifica tra i boss playboy della provincia a detenere il primato sono due pluripregiudicati di Casal di Principe non certamente belli come poteva esserlo quello che invece è sempre stato il più affascinante di tutti cioè don Antonio Bardellino. Si tratta di Francesco Piacenti alias Nasone e Nunzio De Falco alias ’o Lupo. Secondo quello che si racconta ha avuto 5 mogli e il secondo 7. Naturalmente ci riferiamo non a rapporti matrimoniali veri e propri ma anche a rapporti duraturi da cui hanno avuto figli. Nunzio De Falco infatti, sembra che avrebbe oltre dodici figli avuti da diverse donne. Ma particolare interessante è un altro: le donne in questione non sono tutte italiane. Una spagnola un’altra inglese un’altra è portoghese. Ogni luogo dove si rifugiavano anche in periodo di latitanza mettevano su famiglia. Come marinai? Quasi [...] Non a caso nei loro processi sono state chieste le testimonianze anche di alcune loro donne tutte belle e molto eleganti». Per aver riprodotto questo articolo con l’indicazione “un giornale locale”, data e titolo, la Corte di Appello di Napoli mi ha condannato per plagio. L’articolo non era firmato; anche se lo fosse stato non avrei indicato il nome del giornalista perché non intendevo metterlo alla gogna, ma mostrare come lavora certa stampa locale che parla del mandante dell’omicidio don Diana come un “boss playboy” che ha avuto 7 donne, non tutte italiane ma «una spagnola un’altra inglese un’altra è portoghese» e «tutte belle e molto eleganti». La Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto fosse plagio, eppure non mi sarei mai sognato di fare mie parole che mi fanno ribrezzo. Il 25 settembre 2015 l’Ordine dei giornalisti della Campania, il Sindacato unitario dei giornalisti della Campania e i consiglieri nazionali campani della Fnsi hanno diramato questo comunicato stampa: «Roberto Saviano, scrittore non-giornalista (non iscritto all’Ordine), continua ad attaccare l’informazione in Campania pur avendo ripetutamente saccheggiato i giornali locali, come dimostrato da una sentenza che ha imposto al suo ex editore di citare “Cronache di Napoli”, fonte delle “notizie” utilizzate per il libro “Gomorra”. Saviano, in sostanza, attacca quella stessa informazione da cui prende a piene mani le notizie. A questo va aggiunto l’ultimo caso di presunto plagio relativo al libro “ZeroZeroZero” dello scrittore non-giornalista, denunciato dalla stampa statunitense. Lo scrittore non-giornalista ribatte descrivendo il suo lavoro come un metodo tra giornalismo e non fiction. “Il mezzo è la cronaca - dice - il fine è la letteratura”. Ma allora il suo è un esercizio abusivo della professione? Saviano eviti generalizzazioni e impari ad avere rispetto dei giornalisti che fanno il proprio dovere, soprattutto quelli della Campania, molti dei quali lavorano nei territori di frontiera a caccia di vere notizie per pochi euro rischiando anche la propria incolumità senza alcuna protezione». Li conosco, e verso di loro nutro profondo rispetto. Se i giudici avessero condannato uno scrittore meno noto di me, probabilmente chi ha diramato questo comunicato sarebbe insorto urlando alla censura. E probabilmente avrebbero stigmatizzato chi ha scritto quell’abominevole articolo e la testata che lo ha diffuso (“Corriere di Caserta” che insieme a “Cronache di Napoli” fa parte del Gruppo Libra. Il “Corriere di Caserta” ha licenziato il giornalista Enzo Palmesano su ordine del boss Vincenzo Lubrano. I giornalisti campani dov’erano quando questo accadeva? Palmesano in un’intervista dice: «L’ordine dei giornalisti non si è costituito parte civile con me e quando hanno letto la sentenza in tribunale ero da solo. Il sindacato ugualmente assente»). Ma poi che definizione triste «un esercizio abusivo della professione». Solo io ricordo chi è stato il grande abusivo del giornalismo campano e come è stato trattato da molti suoi colleghi quando la camorra lo ha ammazzato? Sono fiero di essere un “non-giornalista” se i giornalisti, cari signori, siete voi.
Così il Nobel della realtà rivoluziona la letteratura. Con il riconoscimento alla Aleksievic cadono i pregiudizi sulla non fiction, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Il Nobel a Svetlana Aleksievic non è solo un riconoscimento a una intellettuale che ha subito la pressione del regime di Lukashenko e che combatte Putin. Il Nobel a Svetlana Aleksievic è una rivoluzione culturale: dopo decenni, viene premiata la narrativa non fiction. Nel mondo anglofono, o meglio, in quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante, questo Nobel è una specie di terremoto. Lo dimostra bene un articolo di Philip Gourevitch pubblicato sul New Yorker il 9 ottobre 2014 e riproposto in questi giorni dall'autore sul suo profilo Twitter. Sul New Yorker Gourevitch raccontava chi è e cosa scrive Svetlana Aleksievic, e spiegava quanto rivoluzionario sarebbe stato se il Nobel per la letteratura si fosse finalmente aperto a quella visione del mondo, a quel racconto della realtà che apparentemente sfugge a ogni catalogazione. Quasi una profezia. In molti non ci credevano e pensavano che il Nobel avrebbe continuato a seguire il canone classico premiando la letteratura che o è fiction, altrimenti non è. La questione è di tipo epistemologico e, per argomentare la sua tesi, Gourevitch cita Gay Talese che in un'intervista a The Paris Review disse: "Gli scrittori di non fiction sono cittadini di seconda classe, l'Ellis Island della letteratura. Semplicemente non riusciamo a entrare. E sì, questo mi fa incazzare". Ma le parole di Telese cristallizzano la direzione verso cui il mercato letterario tende. Spesso il problema per uno scrittore è costruire un libro che sul mercato possa indossare un'etichetta, che possa stare esattamente in quello scaffale: quanta miopia nella necessità di catalogare la scrittura. "Gli editori e i librai - scrive Gourevitch - sono complici, insieme ad altri custodi del canone, della privazione filistea alla grande scrittura documentaristica, riservando l'etichetta "letteratura", su copertine e su scaffali, solo alle opere di fiction". Librai ed editori partecipano tutti al grande fraintendimento chiamando "letteratura" solo ciò che è pura invenzione e attribuendo alla narrativa che racconta la realtà un ruolo secondario. Personalmente - e sono di parte - credo che valga il contrario e non intendo piegarmi ai dettami del mondo anglosassone che, nella sua quasi totalità, impone la legge dell'ottusa divisione tra fiction e non fiction. La letteratura e la lettura, così intese, vengono accompagnate da una serie di domande preventive che vivisezionano la scrittura. Cos'è esattamente Svetlana Aleksievic, una giornalista o una scrittrice? È più giornalista o più scrittrice? Che pensano di lei gli altri giornalisti? E gli altri scrittori? È rigorosa nel racconto o si prende delle licenze? Queste domande sono fuorvianti, perché non tengono presente il fine. E il fine è creare un affresco letterario. Ecco, la non fiction può essere raccontata in questo modo: è un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia, ma ha come fine il racconto della verità. Lo scrittore di narrativa non fiction si appresta a lavorare su una verità documentabile ma la affronta con la libertà della poesia. Non crea la cronaca, la usa. Aleksievic racconta prendendo brani ascoltati in stazione; dopo un'intervista esprime la nausea che le ha generato. Non ha paura che le lettere dal fronte che seleziona, che le sue interviste, siano percepite come talmente perfette da sembrare invenzione. Sa che la realtà supera di gran lunga l'immaginazione e accetta di farsene megafono, amplificatore. La sua grandezza sta proprio nel coraggio letterario, non farsi irreggimentare dalla prassi di lavoro che impongono i giornali. Scegliere la letteratura non fiction, del resto, è una scelta di stile, è la scelta di un percorso. Santa Evita di Tomá s Eloy Martí nez è il libro che racconta meglio di qualunque altro la storia di Evita Perón, ma non racconta ciò che è incontestabilmente considerato vero. Non è una biografia. Raccoglie fatti, molti, su cui esistono più versioni e sceglie quelle ritenute più veritiere o più funzionali alla narrazione. Potrebbe essere smentito Martínez, e avrebbe come unica possibilità di difesa la credibilità del suo lavoro, cioè della ricerca antropologica. C'è chi chiede all'arte di non essere più arte. Chi pretende che sia più vera della verità. Più realista della realtà. Come se fosse un gigantesco, e alla fine inutile, pantografo. Questo Nobel va nella direzione opposta, perché non premia solo il coraggio di una dissidente, ma anche e soprattutto il coraggio di una scrittrice che ha scelto un metodo, che con il suo stile letterario ha minacciato il potere. La verità che ci racconta Svetlana Aleksievic è universale anche se non si può misurare. Ragionando per assurdo, che senso avrebbe avuto allegare a Ragazzi di zinco un dvd con tutte le interviste fatte, nomi e cognomi esatti, per dimostrare che quelle conversazioni erano avvenute proprio come le leggiamo? Ovviamente non avrebbe avuto nessun senso perché al lettore interessa un'altra verità: raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole. Farli diventare creazione, non cronaca. Gli scrittori di narrativa non fiction sono stati fino a oggi relegati in un limbo di non affidabilità. Svetlana Aleksievic (che era addirittura chiamata spia, perché creduta in Bielorussia una agente della Cia) era liquidata dai colleghi con le solite litanie "tutti ci siamo occupati di Afghanistan", "tutti abbiamo scritto su Cernobyl", "non scrive niente che non si sappia già". Certo, esistono decine, centinaia di reportage: ma Aleksievic non ha solo raccontato l'Afghanistan o Cernobyl, lei ha creato un Afghanistan e una Cernobyl a più dimensioni, agli antipodi rispetto a quelle che i telegiornali avevano tracciato o che i reportage ci hanno restituito. Ha raccontato quello che stava dentro, sopra e accanto ai fatti, non i fatti, quelli li ha lasciati ai cronisti, a chi ricostruisce la cronaca. Ha raccontato se stessa e il mondo attraverso quelle vite e quelle morti. Ha raccontato quello che non era visibile ma c'era: le sue sensazioni, i suoi stimoli e le sue congetture anche in mancanza di prove certe. Questo la cronaca non può farlo, ma è dovere della letteratura. Aggiungere realtà al romanzo, sottrarre freddezza alla cronaca, sono l'unica strada che esiste per portare argomenti "sensibili" all'attenzione del lettore. Truman Capote scrisse: "Ho questa idea di fare un grande e imponente lavoro; dovrebbe essere esattamente come un romanzo, con un'unica differenza: ogni sua parola dovrebbe essere vera, dall'inizio alla fine". Per Capote oggi sarebbe stato ancora più difficile scrivere e difendere A sangue freddo. Lo hanno massacrato quando è uscito e oggi avrebbero fatto di peggio, perché il peccato capitale di manipolare (che non vuol dire falsificare) la realtà viene visto come un'invasione di campo da parte di chi fa cronaca. Tom Wolfe, teorico del New Journalism, affermava che non basta riportare le parole dei tuoi protagonisti (veri, non di invenzione), ma bisogna costruire il contesto in cui agiscono e parlano. E qui entra in campo la letteratura. Ma forse c'è una ragione politica per cui la letteratura non fiction è considerata una specie di paria, ed è questa: relegare il racconto del mondo al solo lavoro dei cronisti o della misurabilità della notizia, significa spezzettarlo, isolarlo, in qualche modo debilitarlo. Affrontare invece quello stesso racconto con il metodo narrativo, significa creare un affresco comprensibile, fermare il consumo di notizie e iniziare la digestione dei meccanismi; significa ricomporre il mosaico e parlare a chi quella notizia non la leggerebbe mai, non potrebbe comprenderla se non in un quadro più generale, non la sentirebbe propria. Provate a leggere le pagine di Aleksievic sul tramonto dell'ideologia comunista, sui suicidi di chi ci credeva, e capirete come quelle parole siano salite sulla locomotiva della letteratura e abbiano centrato il punto. Aleksievic si prende la responsabilità di intervenire sulla realtà e non si mette al riparo da essa. E allora non capisco come sia possibile che in Italia, quando si discute sui grandi scrittori viventi, non si parli innanzitutto di Corrado Stajano, di Un eroe borghese e Africo. Letteratura è Guerre politiche, la prova non fiction di Goffredo Parise superiore a moltissimi altri suoi libri di fiction. Letteratura è Banditi a Orgosolo di Franco Cagnetta, velocemente catalogato come studio antropologico. Letteratura è Un popolo di formiche di Tommaso Fiore che ogni ventenne (del Sud ma anche del Nord) dovrebbe leggere, letteratura è l'inchiesta sulla morte di Francesca Spada in Mistero napoletano di Ermanno Rea, è Il provinciale di Giorgio Bocca. Sto citando libri spesso mai nemmeno pronunciati quando si discute di letteratura italiana eppure ne sono l'aria migliore degli ultimi decenni. Letteratura è il recente Al di la del mare, il racconto con nessun altra prova che i suoi occhi, di Wolfgang Bauer tra i profughi siriani. Come si possono non considerare letteratura Dispacci di Michael Herr o i libri di Kapuscinsky, sistematicamente accusato, in vita e dopo la morte, di "aver inventato", lui che veniva considerato un reporter e quindi doveva dimostrare le sue verità. Letteratura è il più bel libro mai scritto sulla fame nel mondo, La fame di Caparros. Tutti gli scrittori che ho citato, prima di questo Nobel, hanno convissuto con lo spettro della perenne diffidenza e tutte le loro teorie sulla non fiction novel e sul New Journalism erano percepite come giustificazioni ex post o stravaganze artistiche. La cosa è accaduta persino con il padre di tutti gli scrittori non fiction Rodolfo Walsh che raccontò nel 1957 con strumento letterario nel suo Operazione Massacro un episodio sconosciuto e violentissimo della repressione militare argentina. La sua denuncia esplose nel mondo proprio per lo stile con cui decise di affrontare il tema. Anche con il cinema è andata così; i registi Vittorio De Seta e Francesco Rosi sono sempre stati silenziosamente accusati di "manipolare" la verità. Amati quando relegati nelle retrospettive culturali, ma temuti e fermati quando i loro lavori intervenivano nel dibattito politico. Il caso Mattei oggi sarebbe immobilizzato dalle querele e dall'accusa di infedeltà, eppure è forse il capolavoro che più di ogni altro racconta quello che l'Italia poteva essere nel dopoguerra, e non fu mai. Questa volta il Nobel è stato coraggioso nel premiare una persona che viene definita saggista, che viene definita giornalista, che viene definita reporter, pur essendo sempre stata una scrittrice. Spero si avveri la profezia di Gourevitch, che un anno fa sul New Yorker aveva scritto: "Non appena sarà abbattuta la barriera non fiction del Nobel, il fatto che sia esistita sembrerà assurdo. "Letteratura" è solo un termine di invenzione per indicare la scrittura".
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
GLI EDITTI BULGARI, TRA UNA LECCATA DI CULO E L’ALTRA.
Rai, consigliere scrisse a Berlusconi: “8 programmi anti-governo, interveniamo”. Ecco la lettera inviata nel 2010 da Antonio Verro, cda Rai, all'allora premier (e proprietario di Mediaset), in cui "segnala" trasmissioni contro il governo. "Nonostante i nostri vari tentativi", per la messa in onda "non c'è più niente da fare". "Mettiamo paletti sulla composizione del pubblico, strettoie organizzative e scelta di ospiti". Poi l'invito a nominare "il prima possibile" Susanna Petruni direttore di Rai2, scrive "Il Fatto Quotidiano". Le tredici righe di questa lettera sono il compendio finale del ventennio berlusconiano, il timbro ufficiale della rappresentazione pubblica dello spirito di Arcore. Di come la Rai abbia scelto di vivere felicemente (ammesso che negli anni precedenti avesse praticato uno stile diverso) sotto la suola del padrone. È il 25 agosto 2010 e Antonio Verro, consigliere di amministrazione, scrive al premier una lettera (che l’interessato smentisce in un’intervista al Fatto Quotidiano) a cui allega due fogli di schede sintetiche riferibili a otto programmi di informazione. Sono le “trasmissioni che più mi preoccupano. Temo infatti che siano fortemente connotate da teoremi pregiudizialmente antigovernativi”. Qui il principio filosofico che definisce il giornalismo come esercizio quotidiano collaborativo, stabilmente al potere o nelle sue immediate adiacenze e dunque a esso sottomesso. Ogni forma di autonomia denota non una limpida scelta professionale, il rispetto della insindacabilità della notizia nella sua nuda e anche cruda illustrazione, ma l’esposizione di un teorema, cioè di un pregiudizio. La verità viene tradotta come una falsità, la realtà come simulazione e – nel pieno dell’effetto ottico – l’apparenza deve acquisire il titolo di realtà. “Purtroppo – notifica il dispiaciuto messo romano – nonostante i nostri vari tentativi, penso non ci sia più niente da fare”. Purtroppo Michele Santoro la sta avendo vinta, e con lui gli altri conduttori di “trasmissioni antigovernative”. “Tali programmi – aggiunge – sono inseriti nel palinsesto che il Direttore Generale ha già presentato, ma su cui il consiglio non può fare decisiva interdizione”. La resa che appare nell’elencazione dei delitti oramai impunibili nasconde, però, un colpo di reni. Perché alcuni rimedi sono ancora possibili. Qui il passaggio insieme tragico e comico della induzione al fraintendimento, allo spappolamento del talk show. “Unico rimedio ipotizzabile sarebbe quello di mettere paletti relativi a composizione del pubblico, strettoie organizzative e scelta di ospiti politici (e non) delle suindicate trasmissioni, tramite i Direttori di rete”. Dunque è previsto, come estrema ratio, l’alloggiamento sugli spalti di Annozero, di Ballarò, di Che tempo che fa e delle altre cinque trasmissioni antigovernative, di falangi berlusconiane, eserciti della buoncostume che – incrociando gli sguardi di ospiti politici consenzienti – dovrebbero sterilizzare la controinformazione e bruciare la bocca dei conduttori renitenti magari con una risata, oppure stordirli con fischi apocalittici e definitivi. Per erigere questo teatro “è di fondamentale importanza procedere il prima possibile alla nomina di Susanna Petruni a direttore di Raidue già dal primo consiglio di amministrazione disponibile, cioè quello del 15 settembre prossimo, e verificare che il Direttore Generale si determini a un puntuale controllo sul Direttore di Raitre”. Nel “grosso abbraccio” che segna il saluto di Antonio Verro – ieri come oggi consigliere di amministrazione – all’allora premier Berlusconi (proprietario di Mediaset) c’è una porta spalancata su quello che è stato e che forse potrebbe ripetersi. Agosto 2010, mancano poche settimane al varo della nuova stagione televisiva. Berlusconi è un presidente inseguito dai resoconti orgiastici nella dimora di Arcore e soprattutto dalla figura inquietante di Ruby, personaggio ancora incredibilmente attuale. Il direttore generale Mauro Masi non è riuscito a spegnere il dissenso nel servizio pubblico. E Verro prova a illustrare l’ennesimo piano d’azione, dopo che la lontana Procura di Trani (marzo 2010) aveva scoperchiato il gioco di sponda tra l’azienda, l’ex Cavaliere e l’Autorità di garanzia Agcom per bloccare Santoro. A distanza di nove anni dall’intervento che spedì a casa Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e lo stesso Santoro, Masi non se l’è sentita di mettere in pratica un secondo editto bulgaro, ancora più ampio, e cancellare l’intero palinsesto di Rai3. Il gruppo degli otto, evocato da Verro, si completa così: Parla con me di Serena Dandini, Che tempo che fa di Fabio Fazio, In mezz’ora di Lucia Annunziata, Report di Milena Gabanelli, Ballarò di Giovanni Floris, Lineanotte del Tg3 e Glob di Enrico Bertolino. Verro sollecita la promozione al vertice di Rai2 (il canale che ospita Annozero) di Susanna Petruni, giornalista al Tg1 di Augusto Minzolini, chiamata “farfallina” per via del gioiello regalatole da Berlusconi che spesso esibisce in conduzione. Verro vuole cacciare Massimo Liofredi, nominato in quota centrodestra, ma che difende Annozero perché generatore di pubblicità e ascolti preziosi per Rai2 e, di conseguenza, per la sua carriera: la media del programma, infatti, supera il 20 per cento di share. Verro rivela a Berlusconi l’unico “rimedio”: l’ostruzionismo. E spiega in cosa sarà tradotto l’atteggiamento più aggressivo che adotterà l’azienda: “Strettoie organizzative”. Liofredi viene commissariato, la scaletta di Annozero sarà approvata sempre da Masi che potrà sfrondare la lista dei presenti, lamentare presunte tegole legali, rallentare le pratiche burocratiche per i contratti. Annozero subirà ciascuna di queste pressioni. E anche Parla con me resterà sospeso con l’accordo congelato con il produttore Fandango sino a poche ore dal ritorno in onda. Per l’ultimo anno. Il giorno dell’esordio, il 27 settembre 2010, in studio ci sarà un cavallo di Viale Mazzini con uno scaramantico cornetto appeso al collo. Glob di Bertolino sarà chiuso. Gabanelli & C. resisteranno a fatica. Ma riprendiamo il prontuario d’attacco. Il secondo punto: “Ospiti politici”. Il consigliere Rai vuole esercitare il controllo militare e fa mandare a Masi una circolare per impedire aParla con me di invitare personaggi politici o intervistare chiunque possa parlare male del governo di Berlusconi. In maniera sistematica, Palazzo Chigi cercherà di non mandare esponenti dell’esecutivo ad Annozero pur di far cadere in fallo Santoro e consentire a Masi di inviare i soliti rilievi sulla parzialità delle presenze all’Agcom. Le trappole sono disseminate ovunque. A Rai3 il fastidio è Paolo Ruffini, il direttore già cacciato da Masi senza motivo (unico contrario Nino Rizzo Nervo) e reintegrato dal giudice. Siccome Masi non può espellere per la seconda volta Ruffini, Verro suggerisce “un puntuale controllo”. Ruffini rassegnerà le dimissioni undici mesi dopo. La stagione 2010/2011 sarà un calvario per Santoro e per Rai3. Non vanno dimenticati momenti di commedia dell’assurdo, come latelefonata di Masi ad Annozero per “dissociare” l’azienda dalla sua trasmissione di punta. L’incursione di Masi è del 27 gennaio 2011. Luigi Bisignani, il noto faccendiere, ispiratore di opere ai danni di Santoro, commenterà: “Una figura di merda”. La settimana precedente, il ministro Paolo Romani segnala la puntata sul caso Ruby all’attivissima Agcom. Questi episodi sono i pretesti per fare ricorso in Appello contro il reintegro di Santoro vittima dell’editto bulgaro. La Corte d’Appello di Roma il 7 aprile rigetta la richiesta di Viale Mazzini che, indomita, trascina la contesa in Cassazione. Santoro è convinto di poter scavallare la stagione 2011/12 in attesa della Suprema Corte. Masi, che ha informazioni più dettagliate, gli riferisce che entro giugno sarebbe arrivato il verdetto. A Masi, pensa Santoro, manca il mio scalpo. E il giornalista fa pervenire un messaggio a Lorenza Lei, allora vicedirettore generale: lascio io, se lascia Masi. Lei deve soltanto convincere Berlusconi. Riesce subito nell’intento e, magicamente, si ritrova direttore generale. Tutto torna. di Antonello Caporale e Carlo Tecce da Il Fatto Quotidiano del 19 febbraio 2015.
Enzo Biagi. Vi raccontiamo la vera storia dell’editto bulgaro. Il giornalista ha sempre detto di non essere stato cacciato dalla tv di Stato, ma la politica e una parte dell’informazione l’hanno strumentalizzato: non si sono fermati neanche di fronte alla sua morte, scrive Filippo Facci su “Il Giornale”. Enzo Biagi non fu mai allontanato né cacciato dalla Rai, come lui stesso ha sempre ammesso. Tantomeno fu allontanato a seguito di un oscuro editto bulgaro. La parziale e volontaria dipartita di Biagi non è coincisa con nessun regime né alcuna censura, come lui ha pure ammesso in diverse interviste anche reperibili in rete. La vicenda parte nel 2001, quando nella televisione pubblica c’era un anziano collaboratore di 82 anni, Biagi, che conduceva una trasmissione che si chiamava Il Fatto e che aveva almeno due problemi: uno di palinsesto e uno politico. Il primo è questo: il programma di Biagi non andava certo male per essere un prodotto giornalistico, pur extralight, ma andava in onda nella fondamentale fascia pre-serale e perdeva parecchi punti rispetto a Canale5, che vantava e vanta l’imbattibile Striscia la notizia. In un periodo in cui peraltro la Rai veniva accusata di fiancheggiare Mediaset, c’era il problema di non perdere vagonate di incassi pubblicitari durante il programma di Biagi, dunque di ricollocarlo per inventarsi qualcos’altro al suo posto. Ovviamente non era impresa da poco, anche perché Biagi era un’istituzione, un signore in Rai da 41 anni con un contratto del valore di due miliardi di lire: in sei minuti guadagnava quello che in due ore guadagnava Bruno Vespa e questo al lordo di un ufficio privato e di una redazione. Non è che si potesse spostarlo con un tratto di penna, sicché ci lavorarono per un po’: sinché il direttore di Raiuno Fabrizio del Noce e il direttore generale Agostino Saccà proposero e trovarono infine un accordo con Biagi (lo trovarono, ripetiamo) che prevedeva questo: un programma biennale di dieci speciali in prima serata e altre venti puntate storiche in seconda serata; il tutto con l’aggiunta di un altro miliardo ai due che Biagi già percepiva annualmente. Non pareva male, e infatti Enzo Biagi indisse una conferenza stampa l’11 aprile 2002 (occhio alle date) e annunciò che gli andava benissimo, pur senza privarsi di qualche sarcasmo tipico suo: «Non ho problemi di orario, posso fare un programma anche a mezzanotte, magari mettendo una piccola nota di pornografia. Non c’è problema, sono un signore che fa questo mestiere da tanti anni». Non fosse chiaro, Biagi l’11 aprile 2002 ha già deciso di non fare più Il Fatto se non sino alla scadenza contrattuale del 31 maggio. Il particolare non da poco è questo: in quella data non c’è ancora stato nessun cosiddetto editto bulgaro. Non-c’è-stato. Quello che c’era da tempo, ed eccoci al secondo problema, era una questione politica. Enzo Biagi, in un periodo di elezioni, parteggiava apertamente per Romano Prodi, avversario di Silvio Berlusconi, o più spesso avversava Silvio Berlusconi e basta. Biagi non ha mai negato neanche questo. È rimasto celebre il caso del 10 maggio 2001: Biagi, a ridosso del voto, si era portato in trasmissione Roberto Benigni e lo show era stato a senso unico: «Non voglio parlare di politica, sono qui per parlare di Berlusconi. Il contratto di Berlusconi ormai è un cult, la cassetta lì l’ho registrata, l’ho messa tra Totò e Peppino e Walter Chiari e Sarchiapone». E se un anziano aveva invitato un celebre comico, due mesi prima un comico aveva invitato un giornalista: Daniele Luttazzi aveva chiamato Marco Travaglio a Satyricon (Marzo 2001) e quest’ultimo aveva parlato di rapporti tra Berlusconi e mafia e stragi, tutte vicende archiviate o infondate, sinché Luttazzi aveva congedato Travaglio in questo modo: «In questo paese di merda tu sei uno che ha coraggio». Anni dopo, a Travaglio mancherà tuttavia il coraggio di scusarsi, visto che non una delle accuse amplificate in quella trasmissione (teoricamente comica) è rimasta in piedi. In ultimo il caso de Il Raggio verde di Michele Santoro, trasmissione che al di là degli strali del centrodestra era stata giudicata squilibrata nei confronti di Forza Italia dall’Authority delle Telecomunicazioni (invenzione del centrosinistra), ma ora non perdiamoci. Il punto è che ciò nonostante, come stra-detto, l’11 aprile 2002 Biagi aveva preso decisioni autonome di concerto con l’azienda. Il celebre editto di Sofia fu il 18 aprile successivo, quando Silvio Berlusconi a domanda rispose che «Santoro, Biagi e Luttazzi hanno fatto un uso della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, criminoso; credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga». Berlusconi, anni dopo, si dichiarerà pentito dell’espressione «criminoso» perlomeno riferita a Biagi, che avrà anche modo di elogiare ricambiato: resta che dal famoso editto parte la leggenda di un’epurazione quantomeno singolare per modalità. Cioè: Silvio Berlusconi, che ha vinto le elezioni e aveva dunque cambiato il consiglio di amministrazione Rai (come aveva fatto l’Ulivo e come lo farà Prodi, perché è la regola), si mette a fare epurazioni scegliendo di rispondere a una domanda di un giornalista formulata in Bulgaria. Peraltro da principio non cambiò nulla. Enzo Biagi proseguì il suo programma sino alla prevista chiusura del 31 maggio 2002: fu solamente dopo che decise di non accettare (più) una proposta che pure aveva accettato informalmente. Difatti, ricevuta la bozza del contratto, improvvisamente la rimandò indietro: «Non sono un uomo per tutte le stagioni». Ormai il caso Biagi/Santoro più l’imbucato Luttazzi era esploso e Biagi, volente o nolente, per la sinistra era divenuto un santino da parabrezza. A Biagi, comunque, fu fatta un’altra offerta: il direttore di Rai Tre Paolo Ruffini gli propose di rifare Il Fatto sulla sua rete, e questo su preciso mandato del Consiglio di amministrazione Rai. Perché disse di no? Probabilmente perché la collocazione di palinsesto, prevista dalle 18,53 sino alle 19, ossia all’inizio del Tg3, a Biagi non andava bene: questo scrissero i giornali. Economicamente parlando, poi, l’offerta fu giudicata da Biagi «differente da quella relativa a Il Fatto». Come è noto, Biagi anni dopo cambierà idea su Rai Tre e vi condurrà Rt - Rotocalco televisivo. Ma al tempo, tornando agli albori del 2003, l’unica trattativa che Biagi accettò con gioia fu quella per la transazione economica che lo vide separarsi dalla Rai, operazione, parole sue, «effettuata con il pieno consenso dell’interessato e con di lui piena soddisfazione». Biagi ottenne una buonuscita di un milione e mezzo di euro e il 3 gennaio 2003 rilasciò questa dichiarazione all’Ansa: «Non sono stato buttato fuori, al contrario ho raggiunto di mia iniziativa un accordo pienamente soddisfacente che gratifica sotto tutti i profili, morali e materiali, i miei 41 anni dedicati alla Rai». Ma il polverone continuerà imperterrito. La strumentalizzazione di Biagi gli impedirà di rendere armonico il proprio fisiologico accomiatarsi, faticherà a restituirgli quell’argentea serenità che nei suoi ultimi giorni, per fortuna, pare aver ritrovato. In Rai ci penserà il grande semplificatore, Adriano Celentano, a esordire con RockPolitik spiegando che «tutto è cominciato il 18 aprile 2002», appunto l’editto di Sofia. È il giorno in cui Michele Santoro si materializza come dall’oltretomba: viva la fratellanza, viva la libertà, viva la tredicesima. Ma non è ancora il giorno, orribile, schifoso, in cui l’Unità sia riuscita a scrivere: «Gli attacchi al lavoro di Biagi hanno coinciso con la morte della moglie e della figlia. Togliendogli il lavoro hanno infierito sul suo dolore e alla fine lo hanno stroncato». È successo ieri. Orribile. Schifoso.
Il Pd e gli attacchi a Rai3, Grillo accusa: «Loro come Goebbels». I dem: «Linciaggio inaccettabile». Polemiche dopo le critiche di Anzaldi, membro Pd della Commissione di Vigilanza, scrive “Il Corriere della Sera”. «Parole gravi», «bulimia lottizzatrice», «parole lesive della libertà d’informazione», «caccia al giornalista ostile»: non si risparmiano i commenti al veleno dopo le dichiarazioni di Michele Anzaldi, deputato Pd che in un articolo del Corriere ha affermato che «c’è un problema con Rai3 e con il Tg3», «un problema grande, ufficiale», per cui «il Pd viene regolarmente maltrattato e l’attività del governo criticata come nemmeno ai tempi di Berlusconi». Un’esternazione che non è piaciuta né alla Federazione nazionale della stampa né a diversi rappresentanti dell’opposizione. A partire dal leader dei Cinque Stelle, Beppe Grillo, che ha paragonato Michele Anzaldi a Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich. «Le regole di Goebbels Anzaldi per la Tv pubblica sono chiare- scrive sul suo blog- vietato criticare il governo; vietato intervistare portavoce del M5S; il Pd ha sempre ragione; chi sgarra paga (Vianello è avvisato per la seconda volta). Sieg Heil, Pd». «Ancora nel 2015 l’informazione non asservita dà fastidio. Abbiamo contestato i bavagli ieri, con governi di colore diverso, non smettiamo di farlo oggi», prendono le distanze i segretari della Fnsi, Raffaele Lorusso, e dell’Usigrai, Vittorio di Trapani. «La bulimia lottizzatrice priva di pudore del Pd su Rai3 e sul Tg3 è di una gravità inaudita. Le parole del segretario della commissione di Vigilanza Rai oggi sulla stampa puzzano di intimidazione», scrivono i parlamentari 5stelle in Vigilanza Rai. «Il succo del discorso è semplice e chiaro: nessuno si permetta di criticare il governo o il Pd. Sono parole che consideriamo lesive della libertà di informazione», afferma il coordinatore nazionale di Sinistra Ecologia Libertà, Nicola Fratoianni, anche lui membro della commissione parlamentare di Vigilanza Rai. «Le parole dell’onorevole Anzaldi, segretario della commissioni di Vigilanza, riportate dal Corriere della Sera, sono inaccettabili e ricordano nei toni `editti bulgari´ di berlusconiana memoria», insiste il cdr del Tg3. «C’è da augurarsi che i vertici del Pd prendano le distanze dalle sconcertanti dichiarazioni di Michele Anzaldi riportate dal `Corriere della sera´ di oggi», dice Alfredo D’Attorre, deputato del Pd. Ma dai piani alti dei democratici per ora non arrivano segnali di fumo. «Non mi riconosco nella maniera più assoluta nelle parole e nel tono delle dichiarazioni del collega Anzaldi sulla gestione del TG3 e di RAI 3», precisa - solitario - il senatore della minoranza Pd, Federico Fornaro, della Commissione di Vigilanza Rai. Ma i più difendono l’Anzaldi pensiero, contestando le accuse del M5S, «ingiuste perché in Anzaldi non c’è alcun intento lottizzatorio ma solo la preoccupazione di garantire la qualità e l’indipendenza del servizio pubblico. Una preoccupazione che Anzaldi dimostra con coerenza». E anche Lorenza Bonaccorsi, esponente della segreteria Pd, specifica: «Paragonare Michele Anzaldi a Goebbels è inaccettabile, un’azione misera, l’ennesima, da parte di una forza politica abituata a denigrare, infamare e che reagisce con violenza contro gli avversari politici». Anche Marco Di Maio (Pd), ritiene «inaccettabile» l’accusa di Grillo, «tanto più - aggiunge - se questo attacco arriva da un leader politico che dall’alto del suo blog, ha impedito per due anni agli esponenti del suo movimento di partecipare a dibattiti televisivi arrivando all’espulsione per chi infrangeva questa regola aurea».
Grillo e company: da quale pulpito vien la predica?
Se ne accorge pure Beppe Grillo Il Tg3 è di parte. Il comico contesta il telegiornale della Berlinguer, colpevole di avere dato informazioni sbagliate sulla raccolta fondi del M5S. La sentenza è lapidaria: RaiTre deve chiudere, scrive Luisa De Montis su “Il Giornale”. C'è da stupirsi che Beppe Grillo non se ne sia accorto prima. Il comico genovese è giunto oggi a una conclusione che non ci consegna nessuna verità finora ignota. Il Tg3 è di parte. È questa la grande scoperta del guru del Movimento 5 Stelle. Il comico genovese attacca il telegiornale di Bianca Berlinguer. Il motivo dell'ira grillina è semplice: nell'edizione delle 19 di ieri sera è andato in onda un servizio accusato di avere fornito informazioni sbagliate sulla campagna di raccolta fondi in corso in seno al M5S. "Il tg del Pdmenoelle", accusa Grillo, dimentica "che il M5S non ha mai avuto contributi elettorali, a differenza del pdmenoelle che ha incassato centinaia di milioni di euro grazie alle tasse degli italiani e contro la volontà espressa in un referendum. I fondi richiesti sono volontari e non obbligatori. Rai 3 deve chiudere".
E in Rai scatta anche l'editto bulgaro dei renziani. Due parlamentari Pd chiedono di intervenire contro "Virus". La colpa? Aver ospitato Bisignani, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Alla faccia dello slogan renziano «fuori i partiti dalla Rai». I renziani in Commissione di Vigilanza vorrebbero decidere persino gli ospiti dei talk show, quelli col curriculum adeguato (a parere loro) e il profilo giusto (a parere loro). E per chi sgarra, si invoca l'intervento punitivo dei vertici della tv pubblica. Dopo aver chiesto spiegazioni alla Rai per aver invitato a Ballarò Massimo Giletti, considerato dai renziani non sufficientemente titolato per discutere di immigrazione clandestina (la Parietti invece sì?), nei confronti di Virus, il programma di Nicola Porro su Raidue, è partito un vero editto bulgaro, anzi fiorentino. La colpa è di aver ospitato Luigi Bisignani, giornalista e lobbista autore insieme a Paolo Madron di un libro che racconta i retroscena della rete di potere renziana (I potenti al tempo di Renzi, Chiarelettere). A tuonare sono le due parlamentari Pd renzianissime, la senatrice fiorentina Laura Cantini e la deputata Lorenza Bonaccorsi, entrambe componenti della Vigilanza: «Chiederemo la convocazione del direttore di Raidue, Angelo Teodoli, per chiarire i motivi che stanno dietro all'enorme spazio dato a Virus al signor Luigi Bisignani, presentato come giornalista e scrittore dalla trasmissione sebbene sia stato radiato dall'Ordine dei Giornalisti nel 2000 per la condanna Enimont sui finanziamenti illeciti alla politica. Al signor Bisignani è stato permesso di promuovere il suo libro, nell'ambito di una discussione su temi economici, la delicata questione dei migranti e la tragica uccisione di Giovanni Lo Porto, sui quali si fatica a capire quali competenze abbia». L'intervento indignato delle due renziane arriva come se fosse la prima apparizione di Bisignani in Rai, ma non lo è affatto. Nel giro di poche settimane, prima di parlare (per una decina di minuti in tutto) a Virus, l'«uomo che sussurra ai potenti» era stato già nell'ordine: a Ballarò, da Agorà, da Marzullo, a Linea notte e in radio a Un giorno da pecora. Tutti programmi Rai. Perché allora proprio adesso la rivolta delle due fedelissime del premier? Bisignani, in una lettera a Dagospia, lancia qualche sospetto. «La cosa non mi meraviglia affatto visto che nel libro ci soffermiamo sulla macchina di potere del premier e sulle gesta della famiglia Bonaccorsi ben impiantata nei vari cerchi che ormai circondano Matteo Renzi. La verità è che alla sinistra, trasmissioni libere come Virus non piacciono proprio tanto che in consiglio di amministrazione Benedetta Tobagi non fa che contestarla. Certamente il Pd preferisce di più i talk show come Ballarò che ha ospitato una mia intervista la settimana scorsa. Sarebbe bello chiedere perché hanno tagliato alcune parti politicamente significative». La piddina Bonaccorsi in effetti è la sorella di Filippo Bonaccorsi, già dirigente del settore trasporti della Provincia di Firenze quando a guidarla era Renzi, poi presidente della partecipata comunale Ataf quando sindaco era Renzi, poi assessore alla mobilità con l'attuale sindaco (renziano, of course) Dario Nardella, fino alla chiamata a Palazzo Chigi, dove Renzi gli ha affidato il fondamentale dossier dell'edilizia scolastica (piano da un miliardo di euro). Nel libro di Bisignani-Madron si racconta dei rapporti tra l'Ataf di Bonaccorsi e le Ferrovie dell'allora ad Moretti (poi nominato dal governo Renzi a Finmeccanica). Spigolature che non farà piacere leggere al Bonaccorsi di Palazzo Chigi, né alla Bonaccorsi della Vigilanza Rai. Che ora, insieme alla senatrice Cantini, chiede provvedimenti per Virus. Per cambiare verso. Alle scalette dei talk show.
Travaglio in teatro «L’Italia? Siamo un Paese di lecchini». Il giornalista venerdì al Massimo di Pescara: «Si può solo a ridere di quel che si sente in tivù», scrive Giuliano Di Tanna su “Il Centro”. «Fra le mie cartelline di ritagli ne ho una dedicata esclusivamente alle leccate di culo ai potenti. E’ la più alta: mi arriva all’anca». Chi volesse sapere perché il nuovo spettacolo teatrale di Marco Travaglio si intitola “Slurp” è servito. Alle contrapposizioni fra destra e sinistra, secondo il giornalista torinese direttore del Fatto Quotidiano, è succeduta ormai una melassa indistinta, sui giornali e altrove, in cui tutti leccano tutti e nessuno viene criticato. Questo Belpaese delle leccate incrociate Travaglio lo racconterà, venerdì sera dal palco del teatro Massimo di Pescara (si legga il box qui accanto). Lo spettacolo ha debuttato un paio di settimane fa al Festival del giornalismo di Perugia. «Ma», spiega lui, «quella è stata una sorta di prova generale. La vera prima sarà quella di Pescara».
Come nasce l’idea di questo “Slurp”?
«Dal mio vizio di collezionare ritagli di giornali. Insieme a quelle normali, ho una cartellina in cui raccolgo tutte le leccate di culo».
Fatte da chi?
«Fatte soprattutto da giornalisti, ma anche da intellettuali, artisti, scrittori, imprenditori, politici. Ci sono quelli che leccano il culo di altri; quelli che se lo leccano a vicenda, con le recensioni incrociate, per esempio; e quelli che si autoleccano, con qualche contorsionismo, autocelebrandosi».
E’ un fenomeno recente?
«No. Ma da quando ci sono queste larghe intese, dichiarate o meno, non c’è più nemmeno quel ping-pong fra destra e sinistra, fra chi governa e chi è all’opposizione. Da quando Napolitano ha imposto che dobbiamo stare tutti insieme non c’è più neanche un simulacro di giornalismo pluralista e indipendente. Ho deciso di fare questo spettacolo perché penso che l’unico modo per limitare il vizio di piaggeria del giornalismo italiano stia nel fatto che la gente cominci a ridere di brutto di tutto quello che sente e vede in televisione».
E’ importante ridere del potere?
«Be’, sì. Prendiamo quello che è successo la settimana scorsa a Milano. Se invece di quelle teste di cazzo dei black bloc a fare quel casino, ci fosse stato qualcuno ad accogliere a colpi di pernacchie Renzi e i suoi incensatori, questi avrebbero fatto molto più male al potere».
A parte lei che lo fa da tempo, ci sono altri giornalisti, come Scanzi e Severgnini, che girano l’Italia con spettacoli teatrali: come spiega questa moda?
«Sono recital in cui i giornalisti raccontano delle storie; con la differenza che, in teatro, si ha la possibilità di dialogare con persone in carne e ossa. A me piace girare e incontrare la gente perché così capisci quali sono le cose che interessano ancora e quelle che, ormai, hanno stufato».
Cosa ha stufato la gente?
«Intanto ha stufato il tono predicatorio. Hanno stufato quelli con il ditino sempre alzato. Bisogna usare un linguaggio meno indignato. L’indignazione c’è sempre, ma è molto più efficace se riesci a trasformarla in sarcasmo. Il linguaggio del comico è quello che penetra di più perché non “appalla”, non angustia le persone».
C’è anche dell’autocritica in questa considerazione?
«Non lo so. Di me hanno sempre detto che riesco a dire cose anche tremende con il sorriso sulle labbra. Ho sempre pensato che il potere lo si colpisce di più con le risate che con l’invettiva. I cattivi, chiamiamoli così, non devono guardarsi tanto dai professoroni con il ditino alzato, quanto da chi li prende in giro».
Se fosse vivo, Montanelli, un suo maestro, farebbe mai uno spettacolo come il suo?
«Montanelli non ha mai avuto paura di contaminarsi con altri generi: ha scritto pièce teatrali, sceneggiature, ha fatto anche comparsate in tv. Non ha mai avuto paura di prendersi in giro. Io mi limito a farmi accompagnare sul palco da una brava attrice che legge questa collezione di leccate di culo. E’ impressionante quello che i giornalisti, in questi anni, sono riusciti a fare: con Berlusconi, con quell’anima morta di Monti, e perfino con D’Alema che un settimanale femminile arrivò a definire un sex symbol. L’unico che non si è riconvertito è il povero Emilio Fede che ha sempre leccato lo stesso culo. Il leccatore moderno, invece, nel dubbio, lecca tutti. Pulitzer diceva: a lungo andare, una stampa serva crea un pubblico indecente. E’ vero».
Tramontato Berlusconi, è Renzi il nuovo “cattivone” della satira?
«Si sta gonfiando come la rana della fiaba. Se qualcuno lo pungesse, si sgonfierebbe e tornerebbe quello che era fino a due anni fa: uno che voleva rottamare e cambiare le cose».
C’è qualche giornalista italiano non leccante da prendere a modello?
«Per la carta stampata, Gian Antonio Stella del Corriere della sera. Per la televisione Milena Gabanelli e Riccardo Iacona».
Servi di redazione. Cos’è successo all’informazione in Italia secondo Marco Travaglio. L’informazione al servizio della democrazia come cane da guardia del potere? La libertà di stampa come ‘bene comune’ da difendere? Siamo giornalisti o servi di scena? Il direttore del Fatto Quotidiano risponde a MicroMega, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Slurp” (Chiarelettere), sulla "zerbinocrazia italiota". Intervista a Marco Travaglio di Rossella Guadagnini su “Micro Mega” del 17 maggio 2015. “Chi ci ha ingannati tradendo il dovere di informarci ha le stesse colpe di chi ci ha sgovernati promettendo di salvarci. E se né gli uni né gli altri hanno mai pagato un centesimo per le proprie responsabilità, è perché leccatori e leccati sono indissolubilmente legati. Simul stabunt, simul cadent”. Marco Travaglio dedica il suo nuovo libro, “Slurp” (edito da Chiarelettere e presentato in anteprima il 17 maggio al Salone del Libro di Torino) a chi usa la lingua “per parlare, per denunciare, per urlare, per fare pernacchie”.
“Se la stampa non esistesse - diceva Balzac - bisognerebbe non inventarla; ma ormai c’è e noi ne viviamo”. Il direttore del Fatto Quotidiano è d’accordo con questa visione?
«La stampa è la nostra vita: è importantissima. Questo libro l’ho scritto per cercare di far vergognare quelli che usano la stampa per leccare il potere anziché per raccontarlo e criticarlo. È un atto d’amore nei confronti dell’informazione. Non è un gesto di odio o di sfiducia, il tentativo di risvegliare sia quelli che la stampa la fanno, sia quelli che la utilizzano. E’ anche colpa del pubblico, dei lettori e dei telespettatori, se abbiamo giornali e tv così asserviti. Se la gente imparasse a ribellarsi e a pretendere il servizio che la stampa dà in tutte le democrazie, probabilmente riuscirebbe anche a ottenerlo».
Cosa è successo all’informazione in Italia?
«Io rendo noto il referto. I risultati sono imbarazzanti. Non lo scopro io che abbiamo la stampa più servile d’Europa. Vi sono grandi giornali internazionali che, negli anni passati, hanno parlato riguardo all’informazione italiana di piaggerie peggiori di quelle della Russia di Stalin, del Minculpop, della stampa nordcoreana di regime. Abbiamo dato tutto il peggio di noi stessi in questi anni e questa è una delle spiegazioni per cui siamo stati governati dai peggiori governi possibili. Perché la stampa li ha sempre presentati come i migliori possibili. Chi ha incensato i governi Berlusconi ha poi incensato ugualmente i governi di Monti, Letta e Renzi».
Questo è un libro sul servilismo dei pennivendoli e, inevitabilmente, sulla libertà di informazione e i suoi limiti. Come dovrebbe essere un rapporto sano tra potere (politico, economico) e giornalismo?
«Non credo di essere abilitato a dare delle lezioni. Quello che so è che non è questo il modo di fare giornalismo. Basta leggere un quotidiano straniero per rendersi subito conto che o sbagliano tutti i giornali stranieri o sbagliano i nostri grandi giornali. Non si è mai visto all’estero che al momento della scadenza del mandato presidenziale, ci si comincia a inginocchiare davanti al Capo dello Stato e chiedere: “La prego rimanga, non se ne vada, si faccia rieleggere”. Da noi è successo proprio così: dopo il settennato d’obbligo hanno cominciato a turibolare, a inginocchiarsi, a baciargli la pantofola perché non ci lasciasse. Non è questo il compito della stampa. Che dovrebbe piuttosto compiere un’analisi critica di ciò che fa il Presidente, di ciò che fanno tutti i presidenti, come si è sempre fatto in Italia. Gli stessi giornali che hanno chiesto l’impeachment per Leone e Cossiga hanno poi trasformato Napolitano in una specie di divinità. Repubblica, che aveva svolto un ruolo critico rispetto ai capi di Stato precedenti, con Ciampi e soprattutto con Napolitano ha cambiato atteggiamento».
Sono mutati i tempi o gli uomini?
«Né gli uni, né gli altri. Il potere è sempre stato il potere e, come dice la parola stessa, è potente. Basta non farsi intimorire, tenere dritta la schiena e alta la testa. E fare le dovute critiche. Non perdere mai la coscienza della propria funzione. I giornali sono diventati i propagandisti dei governi, della Presidenza della Repubblica, di Confindustria, delle banche, anche quelli che non hanno le banche nella loro proprietà. Anche quelli che non hanno i partiti in qualche modo coinvolti nel proprio destino. Oggi è considerato assolutamente normale che se il presidente del Consiglio annuncia una cosa, il giornalista - il giorno dopo- riprende quell’annuncio senza minimamente andare a vedere se è vero o no. E’ qualcosa che in passato non succedeva nemmeno in Italia, che pure non ha mai avuto una grande tradizione di libertà d’informazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta, ad esempio, i giornali erano tutti governativi tranne l’Unità, in quanto giornale di partito: non è che lo facesse per spirito di libertà, era semplicemente spirito di parte».
La libertà di stampa si può annoverare tra i beni comuni e come tale essere difesa?
«Assolutamente sì, c’è anche un articolo della Costituzione (il 21 ndr.) che la tutela. Anche se poi di quella libertà che noi abbiamo molto spesso non ne approfittiamo, non ce la prendiamo, pure se siamo tutelati. Non credo succeda niente a nessuno se critica Napolitano: non è che arrivano i corazzieri e gli sparano. E’ quindi un’autocensura, un servilismo autoindotto. Poi, certo, fa piacere al potente essere incensato, ma non è che ti può fare qualcosa se non lo incensi».
Dunque è una servitù volontaria?
«Sì, ad esempio, da parte di direttori che condizionano i loro redattori».
La verticalizzazione all'interno delle redazioni, la commistione sempre più forte tra potere dell'editore e potere del direttore, le pressioni esterne (politiche ed economiche), l'avanzamento del web rispetto alla carta stampata, la crisi con riflessi pesantissimi sull'impiego di professionisti e giovani, sono tutte realtà che hanno influito sensibilmente sulla sempre minore indipendenza della stampa.
«Il punto centrale, tuttavia, è la situazione politica. Una grande responsabilità è da attribuirsi alle cosiddette larghe intese. Un’era cominciata ufficialmente nel 2011, con la caduta del governo Berlusconi, ma già ampiamente sperimentata negli anni della Bicamerale. Non a caso l’unico che non ha mai voluto sentir parlare di larghe intese, Prodi, è stato sabotato da Napolitano -come racconta Padoa Schioppa nei suoi diari- ed è stato spazzato via dal suo stesso partito due volte su due. Per il resto, gli altri le larghe intese le hanno sempre praticate, da D’Alema a Veltroni, anche se non erano ufficializzate. Questo clima ha fatto sì che non ci fosse neanche più quella parodia di pluralismo che c’era prima; quando, cioè, i giornali di sinistra attaccavano i governi di centro e centrodestra, mentre quelli di centro e centrodestra attaccavano i governi di sinistra nella Seconda Repubblica, dato che nella Prima non c’è mai stata alternanza al potere. Quando poi si sono ufficializzate le larghe intese -e praticamente oggi siamo in piene larghe intese, anche se non ce lo dicono- non è che la stampa di destra svolga un ruolo di opposizione o di controllo nei confronti di un governo formalmente di centrosinistra. Semmai fanno le loro vendette perché Berlusconi non è stato informato che eleggevano Mattarella. Il governo Renzi, quando è nato, aveva incensatori sul Giornale, su Panorama, sul Foglio e li ha ancora, tanto quanto sulla stampa borghese cosiddetta indipendente».
La categoria dei giornalisti non esce bene da queste pagine: ammaccata di suo, assalita dalla politica, sotto scacco dei poteri forti. In molti hanno tentato - e tentano continuamente (si vedano intercettazioni e bavagli vari) - di togliere ossigeno all'informazione e ridurne l'efficacia. I giornalisti hanno reagito tutti inchinandosi?
«No, però io non faccio un discorso di categoria. In questo libro ci sono fior di lecchini, ma hanno un nome e un cognome. Ce ne sono tanti che non ci sono perché non c’era… spazio (550 pagine, ndr)! Ma tanti altri non ci sono perché non hanno mai leccato nessuno e sono sparsi in tutti i giornali. Ci sono tanti colleghi che, in questi anni, non si sono piegati, hanno fatto il loro onesto lavoro, senza dedicare al potere quegli esempi di cortigianeria che ho messo nel libro. Onore a loro».
Travaglio è giornalista d'inchiesta e fa informazione secondo i canali tradizionali (editoriali, presenze in talk show e programmi di informazione radiotelevisiva) ma anche no. Come mai la scelta di trarre dai libri degli spettacoli teatrali?
«E’ la prima volta che presento contemporaneamente libro e spettacolo. Di solito prima veniva lo spettacolo poi il libro, come è successo per la “Trattativa Stato-mafia”. Stavolta è diverso perché mi sono reso conto che questa roba qua fa talmente ridere che bisogna raccontarla al pubblico. L’antologia di queste leccate è uno spettacolo tale che non può restare solo sulla carta, dev’essere letta da un’attrice e raccontata da me. (Le prossime tappe dello show, intitolato come il libro, “Slurp”, sono il 22 maggio a Rezzano, Brescia, il 23 a Padova e il 24 a Udine, con l’attrice Giorgia Salari ndr.)»
Se guardiamo al passato gli auspici sono favorevoli.
«Spero che sia il volume sia lo show aiutino la gente a riscoprire cosa è un giornale, a cosa serve un giornalista. Quindi a pretendere che i giornali ritornino a fare quello che devono fare. Mi auguro che giornalisti ed editori si rendano conto che la crisi dell’editoria non è solo che la gente non legge o non voglia leggere sulla carta. Il problema è che non vuole più leggere certe cose sulla carta».
Informazione e satira oggi, ancor di più rispetto al passato, si incrociano e si sovrappongono. Anche il tuo libro, malgrado la mole, è divertente, a tratti perfino esilarante. Esiste il rischio di spettacolarizzare l'informazione?
«Il mio recital è come un lungo articolo sul palco: non è che mi metto a ballare. Ed è molto più efficace in quanto ne parlo direttamente con coloro che stanno lì, vicino, e possono interagire. E’ anche un’esperienza interessante per me, per sapere che sintonia c’è coi lettori, quali sono le cose che interessano. Per cercare di fare un giornale che non sia autoreferenziale, interessante solo per noi giornalisti, ma un quotidiano che sia davvero quello che i lettori si aspettano, anche nella scelta dei temi e dei toni. Non bisogna mai perdere il contatto con le persone».
Nel Post Scriptum finale del libro, che ha i toni dell’invettiva, inviti i lettori dei giornali e i telespettatori di tg e talk show a ribellarsi. Ritieni che un pubblico non specialistico, che magari s’informa di preferenza sul web, si interessi ai problemi della stampa?
«Spesso i temi della libertà di informazione sono considerati una questione interna alla nostra categoria. Le persone non si rendono conto che, invece, è in gioco la qualità delle democrazia e quindi della loro vita, non solo della nostra. A noi ci pagano lo stesso, sia che facciamo i leccaculo, sia che facciamo i giornalisti. Ma chi ne subisce le conseguenze sono lettori e telespettatori».
Quindi è un problema che riguarda tutti?
«Le vere vittime della non-libertà di stampa sono i cittadini».
Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, l’altro giorno ha detto che lui i giornali non li legge: a casa sua ci incartano le uova e il pesce. Cosa rispondi come direttore di giornale?
«Con certe pagine di giornali a incartare il pesce si rischia pure di sporcarlo. Su certi aspetti ha ragione, tuttavia dovrebbe fare dei distinguo. Ho l’impressione che si riferisse ai giornali che lo criticano. Se questo è davvero il suo pensiero, non si differenzia per nulla da certi vecchi politici che considerano libera la stampa amica e da cestinare quella critica. In questo caso dovrebbe pensarci bene: fatta così è una dichiarazione molto pericolosa».
Tra gufi, professoroni, pigri, perdenti e ultimamente anche masochisti, come Renzi ha definito i critici e gli oppositori alla sua politica, in quale categoria ti collocheresti?
«Nessuna. Se vuole, può appiopparmele tutte. Anche lui ha una concezione autoritaria della democrazia. Gli piaceva molto la libertà d’informazione quando criticava quelli che criticava lui. Gli piaceva il Fatto Quotidiano quando criticava le inadeguatezze della classe dirigente che lui voleva rottamare. Sperava che lo facessimo perché eravamo renziani. In realtà lo facevamo perché eravamo giornalisti ed essendo rimasti tali ora critichiamo lui quando sbaglia. E gli piace molto meno, dimostrando di essere come tutti gli altri: né nuovo, né innovatore, né rottamatore».
DAGONOTA: I RISCHI DEL METODO “SLURP”. Il difetto (o il limite) in genere dei “cataloghi” dati alle stampe è di doverli aggiornare tutte le mattine. Un po’ come le collezioni Panini dei calciatori che cambiano squadra e maglia a ogni stagione. Se poi la raccolta riguarda i giornalisti lecca-lecca dei nostri giornaloni dei Poteri marciti, l’impresa di rinfrescarlo all’ora di colazione – come vedremo -, appare a dir poco ardua. E’ il caso dell’ultimo ponderoso volume dato alle stampe dal dinamico e meticoloso Marco Travaglio, “Slurp” (Edizioni Chiarelettere), che reca un sottotitolo da far invidia a quelli proposti al cinema dalla regista Lina Wertmuller: “Lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinato”. Dato per scontato che gran parte delle “penne alla bava” negherà di aver letto per il librone vergato dal direttore de “il Fatto” magari per legittima difesa, c’è anche chi, Giampiero Mughini, che sfogliandolo si è trovato citato, inopinatamente, a pagina trentaquattro. Per il nostro Giampiero si è trattato di un vero e proprio colpo basso. Una mascalzonata. E’ davvero difficile dargli torto, senza nulla togliere a lavoro certosino e meritevole di Marco Travaglio. Stupefatto e incazzato, Mughini ha spedito una mail a Dagospia per raccontare il suo “indecente slurp” o “leccata di culo” finito a casaccio nel libro nero della stampa: aver scritto su “Panorama” nel 1994 che lui, noto tifoso juventino, avrebbe tifato per il Milan irripetibile di Sacchi e Berlusconi nella corsa finale alla Coppa dei Campioni. Uno “slurp” che lo scrittore-giornalista non rinnega neppure ora. Tanto è bastato, però, a giudizio (insindacabile?) dell’enciclopedico Diderot della virgola accigliata (Travaglio), per mettere all’indice un collega che nella sua vita professionale ha scritto migliaia di articoli, superando brillantemente – a quanto pare -, l’esame “saliva” dei suoi esaminatori-censori. Insomma, si è trattato del solito pelo nell’uovo (altrui) e, nel frattempo, si chiudevano entrambi gli occhi sull’uovo di Colombo (Furio) depositato, anche lui innocentemente, lunedì 15 giugno proprio nella redazione de “il Fatto”. L’ex responsabile della Fiat negli Usa, nonché amico sia dell’Avvocato che dell’autrice, ha recensito con il pennino “intinto nella saliva” e non con il nostro - stando al metro di giudizio usato da Travaglio per Mughini e altri -, il bel volume di memorie giovanili di Marella Agnelli, “La signora Gocà” (Adelphi). Nella ristampa di “Slurp” troveremo il nome dell’eccellente collaboratore de “il Fatto” tra i “bavosi” a mezzo stampa? Noi ci auguriamo di no.
Leccate, leccate: qualcosa resterà, scrive M. Dantes su “Viterbo Post”. La lezione di Travaglio di fronte ad una platea di "innocenti": è l'Italia. Ennio Flaiano diceva: “Che a furia di leccare qualcosa sulla lingua resta sempre”. Quanti di noi hanno visto all’opera questi specialisti dalla bavetta facile che, per fare carriera per adulazione o servilismo, hanno usato le ghiandole salivari? Tutti vero? I lecchini sono una razza sempre in espansione, presenti in tutti i campi. Pronti a leccare il potente di turno, dal capo ufficio all’onorevole assessore, dal direttore di giornale al ricco presidente del pallone, chiunque sia utile, insomma, ad un avanzamento di carriera, una facile prebenda o semplicemente per gravitare in un inutile e a volte grottesco, cerchio magico. Il leccaculismo è un arte sopraffina, sottende una notevole capacità di capire quando è il momento di esercitare la leccata. E soprattutto, non essere schizzinosi davanti ai flaccidi fondoschiena. L’altra sera, in una gremitissima piazza San Lorenzo, Marco Travaglio ha presentato il suo libro “Slurp”, dizionario delle lingue italiane, storia di lecchini, cortigiani e penne alla bava al servizio dei potenti che ci hanno rovinati. Il direttore del Fatto Quotidiano, aiutato dalla bravissima e affermata attrice Giorgia Solari, ha raccontato alla sua maniera il mondo dei lecchini. Dai leccaculo di Napoleone Bonaparte, fino a quelli di casa nostra. Il vostro Dantes seduto in prima fila, ascoltava questa carrellata di giornalisti, politici o semplici parvenu, con malcelato sbigottimento. Non riuscivo a capire cosa ci fosse da ridere, visto che le vittime degli ipocriti lecchini, siamo noi. Tanto più che in piazza ho visto numerosi esponenti di questa poco nobile razza. Che alla fine si sono fatti autografare il libro, senza aver prima esercitato una bella leccata al Travaglio nazionale. Era tutto un ..” la vedo in televisione sa, da vicino è meglio, la penso proprio come lei ecc. ecc”. Molti vedendomi, si giustificano pronti: “Dantes è solo curiosità la mia, io non volevo venire ma sai mia moglie e altre penose scuse che non vi dico. Due ore di applausi e risate sulle macerie etiche e morali del nostro stravagante bel paese. Comunque bravo Travaglio, spigoloso e tagliente, come sempre. Mentre trotterellavo verso piazza del Comune, mi imbatto in Paolo Mieli. Prestigioso notista politico, ex direttore del Corsera e tanto altro ancora. Che annusava l’aria viterbese con evidente soddisfazione. Poco più avanti c’è Oscar Farinetti quello di Eataly, apparecchiato come si deve, mangiava beato nell’esercizio delle sue funzioni. Tanti ospiti in scena anche stasera, potenza di questo Caffeina festival, che sa miscelare culture e saperi. Finiamo dando un bel calcinculo ai lecchini, ruffiani e cortigiani. Ciao caffeinomani a domani… Il vostro M. Dantes.
Ma i comunisti sempre tali rimangono. Ed a Rai 3 tali sono, chi non è come loro, è contro di loro.
De Luca attacca Rai 3: «Fa camorrismo giornalistico». "Rai 3 è la più grande fabbrica di depressione", che compie "atti di camorrismo giornalistico, attacchi personali, atti di imbecillità, ma non ingenua", aveva detto De Luca, alla festa nazionale di Scelta civica a Salerno, dopo aver ricordato di essere stato condannato in primo grado. A proposito di Rai3 De Luca ha parlato di "lobby radical chic del Paese". L’attacco del presidente della Regione Campania. Vianello: «Passato il limite». La nota della Rai: «Valuteremo estremi azione legale a tutela rispettabilità Rai3», scrive Cesare Zapperi su “Il Corriere della Sera”. «Atti di camorrismo giornalistico» messi a segno da una «lobby radical chic». Un attacco frontale, come suo costume senza sfumature, quello sferrato contro Rai 3 ieri dal presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Durante il suo intervento alla Festa nazionale di Scelta civica a Salerno, l’ex sindaco si è lanciato contro l’intero terzo canale della tv di Stato (anche se pare che ce l’avesse in particolare con le trasmissioni Report e Presadiretta), definito «la più grande fabbrica di depressione». «Sapete - ha detto De Luca parlando della sua vicenda giudiziaria - che io sono stato condannato in primo grado. Lo dico perché tanti giornali, tante televisioni, in particolare i miei amici della terza rete Rai, dicono puttanate incredibili». «Questa volta si è passato il limite» l’immediata la replica del direttore Andrea Vianello. «Definire “camorrismo giornalistico” il lavoro di una rete del servizio pubblico e dei grandi professionisti che ne fanno parte è assolutamente inaccettabile». In difesa del responsabile di Rai 3, protagonista pochi giorni fa di un’audizione in Commissione di vigilanza Rai con accenti critici da parte di alcuni esponenti del Pd per i contenuti di una delle trasmissioni attaccate da De Luca, si schiera Vinicio Peluffo, capogruppo dem nella medesima Commissione: «De Luca si scusi e si attenga al proprio ruolo istituzionale anziché infangare il lavoro di un’intera rete del servizio pubblico». Il governatore campano nella sua sfuriata non aveva spiegato nel dettaglio cosa c’era dietro parole così pesanti. In una successiva dichiarazione ha cercato di chiarire: «Si viola la Costituzione definendo qualcuno condannato in assenza di una sentenza definitiva o considerando un criminale chi apre un cantiere. Oppure da un’intervista di 30 minuti si estrapolano solo 30 secondi strumentalmente». «Non ho padrini - ha concluso De Luca - né padroni e non accetto l’idea che ci sia una categoria o un lavoro che non possa esser criticato a prescindere». Arriva anche una replica ufficiale della Rai, che scrive in una nota: «L’attacco del governatore della Regione Campania, Vincenzo De Luca a Rai3 è offensivo e ingiustificato». La televisione pubblica «valuterà con i suoi legali gli estremi di un’eventuale azione a tutela della rispettabilità di Rai3».
Il cortocircuito tra il Pd e Rai3: «Basta, forse non sanno chi ha vinto». Anzaldi: «Meglio Porta a Porta». Berlinguer: «La linea pro governo non è scontata». Per la guida della rete salgono le quotazioni di Andrea Salerno, che piace al premier, scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera”. L’idea è questa: fare un piccolo viaggio dentro Rai3. C’è roba da raccontare. La settimana scorsa è stata abbastanza memorabile. Prima hanno convocato il direttore di rete Andrea Vianello in commissione di Vigilanza e lì l’hanno torchiato, interrogato, chiedendogli come e perché a Ballarò si fossero permessi di intervistare due esponenti grillini (Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista) in due puntate di seguito. Poi, quattro giorni dopo, il presidente della Campania Vincenzo De Luca (Pd) denuncia «atti di camorrismo giornalistico» messi a segno da «quella lobby radical chic». Una cosa da fare subito: telefonare a un vecchio collega del Tg3 che sa sempre un mucchio di retroscena, veleni, verità.
«Siamo sotto tiro, amico mio...».
Mai accaduto prima.
«A mia memoria, mai così. Nemmeno con il Cavaliere. Il silenzio del Pd davanti alle volgari accuse di De Luca è terribile. Finora ha detto mezza frase di solidarietà solo il capogruppo dem in commissione, Vinicio Peluffo... Al Nazareno e a Palazzo Chigi ci detestano».
Quindi tu credi che...
«No, aspetta. Sto in redazione, a Saxa Rubra, e non posso parlare. Vediamoci stasera da Settembrini, ti dico tutto davanti a un gin-tonic».
D’accordo: con questa «fonte» parleremo dopo; andiamo avanti: spedire e-mail ed sms a parlamentari e deputati del Pd. Messaggio: sto lavorando a un pezzo su Rai3 e ai rapporti con il partito: avete qualcosa da dire?
L’sms più interessante è di un senatore: «Io non le ho detto niente. Non voglio comparire. Ma sappia che a Rai3, tra un po’, entreremo con il lanciafiamme». E Michele Anzaldi, uno che di solito nome e cognome ce lo mette, che dice? (Anzaldi è un deputato di stretto rito renziano e membro della commissione di Vigilanza, un siciliano fintamente spigoloso, in realtà furbissimo e a lungo temuto portavoce di Francesco Rutelli tra Campidoglio e campagne elettorali).
Sembra che voi del Pd abbiate un problema con Rai3, che è sempre stata la vostra rete di riferimento: è così?
«C’è un problema con Rai3 e con il Tg3, sì. Ed è un problema grande, ufficiale. Purtroppo non hanno seguito il percorso del Partito democratico: non si sono accorti che è stato eletto un nuovo segretario, Matteo Renzi, il quale poi è diventato anche premier. Niente, non se ne sono proprio accorti! E così il Pd viene regolarmente maltrattato e l’attività del governo criticata come nemmeno ai tempi di Berlusconi».
Sta dicendo cose gravi, onorevole.
«Sto dicendo la verità. Del resto, guardi: è Vianello che ha qualche difficoltà a percepire la realtà dei fatti, ascolti e trasmissioni fallimentari comprese, non noi. Quando abbiamo chiamato in commissione il direttore di Rai1 Giancarlo Leone dopo la vicenda dei Casamonica, quello s’è presentato pacato, dispiaciuto, collaborativo... Mentre Vianello arriva e...».
E cosa?
«Tutto bene, tutto okay... Si fa così, vi spiego io... un’arroganza... Tutto bene? Ballarò sforna a raffica editoriali contro il governo, intervista in pompa magna un grillino a settimana e va tutto bene? Lo sa che i nostri ministri non vogliono più andarci a Rai3?».
Lei, onorevole, rappresenta un partito: può un partito parlare così di una rete pubblica?
«Io mi aspetto che Rai3 faccia servizio pubblico: e, per ora, non lo fa. Si sono chiesti a Rai3 perché Renzi è andato due volte da Nicola Porro a “Virus” su Rai2? Perché, se dobbiamo spiegare una legge, preferiamo che i nostri parlamentari vadano da Bruno Vespa? Comunque, guardi: adesso l’importante è che Vianello non faccia altri errori...».
I toni sono questi. Forse l’idea iniziale del viaggio dentro Rai3 - tra corridoi e umori - non tiene più: qui siamo già alla scena finale. Il Pd, con i toni severi di un editore esigente, spiana un’intera rete.
Bianca Berlinguer, tu dirigi il Tg3: cosa dici?
«Dico che il Tg3 e Rai3 hanno sempre avuto un pubblico assai sensibile e critico, attento ai movimenti sociali, tendenzialmente contestatore, non necessariamente solo di sinistra. Quando però il centrosinistra è al governo, e questo non riguarda naturalmente solo l’esecutivo attuale, può realizzarsi un corto circuito: il pubblico rimane in gran parte contestatore, mentre il governo si aspetta un atteggiamento pregiudizialmente favorevole, che invece non è un presupposto, né un dato scontato».
Il corto circuito. La metafora elegante di Bianca Berlinguer. La voce di Andrea Vianello pacata, ferma.
«Punto primo: io penso che una rete che fa servizio pubblico non debba avere come riferimento un partito, ma i cittadini. Punto secondo: davanti alla commissione di Vigilanza non sono stato arrogante, proprio no. Piuttosto, con rispetto, e anche con stupore per essere stato convocato lì, ho chiesto di poter essere giudicati nell’arco di una stagione, e non dopo due puntate...».
Vi accusano di avere intervistato due grillini in due puntate di Ballarò.
«La presenza di Di Maio, vice-presidente della Camera, era ineccepibile. Ma poiché ha scatenato anche qualche curiosità sulle nuove possibili leadership all’interno del M5s, allora gli autori di Ballarò hanno ritenuto di intervistare anche Di Battista, un altro giovane emergente. C’è un qualche errore giornalistico?».
L’ostilità del Pd nei vostri confronti è evidente. Dopo le pesanti parole di De Luca, solo rare dichiarazioni di sdegno.
«Io non sto qui ad aspettare d’essere difeso da un partito. Sono io che difendo l’autonomia e l’equilibrio della rete che dirigo, il lavoro di chi ci lavora e trovo grave e inaccettabile che Rai3 possa essere paragonata a un’organizzazione criminale, come ha fatto De Luca».
Non fanno sconti, Vianello: puntualmente, sui giornali, tirano fuori la storia che vi siete fatti sfuggire Floris...
«Allora: Giovanni aveva ricevuto un’offerta molto ma molto vantaggiosa da un’altra azienda... Io sarei stato felicissimo di tenerlo, figuriamoci, uno talmente bravo... invece sono stato costretto trovare un’alternativa e ho portato Massimo Giannini, una delle firme del giornalismo su carta e...».
In commissione le hanno chiesto quanto guadagna Giannini...
«Ma io, come ho spiegato, non posso dirlo: e non perché chissà quanto guadagni, ma perché sono tenuto a una forma di riservatezza aziendale... Detto questo, però, no, vorrei aggiungere: vero che un po’ di pubblico ha seguito Floris, ma è anche vero che nei confronti diretti l’anno scorso su 42 serate, Floris è stato negli ascolti sopra di noi soltanto due volte e quest’anno una volta su tre».
Poi ci sarebbe il problema degli ascolti e delle trasmissioni che non sono andate bene.
«Oh, beh: è anche dovere di chi dirige una rete sperimentare e trovare nuove strade. Specie se hai una base di trasmissioni di grande successo come Report, Presa Diretta, Ulisse, Chi l’ha visto?, Ballarò e Che tempo che fa».
La buona notizia per Vianello -ascoltata poi da Settembrini, davanti a due gin-tonic - è che Renzi adora «Che tempo che fa» di Fabio Fazio. La cattiva: gli piacerebbe davvero un sacco mettere Andrea Salerno, autore e dirigente Rai, al suo posto.
Che il Tg3 sia brutto, il suo stile sorpassato, il suo tempismo sulle notizie spesso fuori-sincro è un dato ormai acclarato, scrive Giovanni Torelli su “L’Intraprendente". E che Rai Tre risenta ancora della lottizzazione anni ’70, ossia della spartizione tra TeleNusco (Rai Uno, filo-Dc), TeleCraxi (Rai Due, filo-socialista) e Telekabul (Rai Tre, filo-comunista), è un altro fatto di evidenza, come dimostra anche la continuità (onomastica) tra l’allora leader del Pci e l’attuale direttore del Tg. Ma che il Pd debba intervenire pesantemente sulla linea editoriale della rete, criticarla perché poco filo-renziana e anzi minacciare di cambiarne i vertici se non si adeguerà al Pensiero Unico prono a Matteo, suona come una forma odiosissima di dirigismo, che confina con i metodi di un altro ben più minaccioso Partito Comunista, d’oltrecortina.
«BALLARÒ» E TELEKABUL ROCCHEFORTI ANTI-MATTEO, scrive Paolo Bracalini per "il Giornale". Sotto osservazione renziana, da mesi, c'è Telekabul, la rete in quota Pd ancora guidata (struttura, tg, conduzioni) da professionisti più legati alla stagione Bersani-Letta che non a quella Renzi. La visione del Tg3 spesso provoca contorcimenti nel cerchio magico del premier, che tiene la pratica Rai ancora in un cassetto, impegnato con dossier più urgenti (riforma del Senato, Def, Jobs Act ...). I pretoriani di Renzi in materia Rai sono i due deputati Michele Anzaldi, membro della Vigilanza Rai, e Lorenza Bonaccorsi, componente della commissione Telecomunicazioni. Saranno partite da lì le telefonate di fuoco, dirette a Viale Mazzini, di cui scrive Dagospia? «"Ieri è stato passato il segno, è una vergogna" sbraitava in Transatlantico un piddino della commissione di Vigilanza Rai, tenendo in mano i fogli della trascrizione della puntata di Ballarò », racconta il sito di D'Agostino. Il problema sarebbe il trattamento, giudicato troppo critico dai vertici del Nazareno, riservato da Floris alla riforma renziana del Senato, demolita in apertura di programma (che, per la verità, esordiva con un'intervista proprio a Renzi) da Elisabetta Rubini, avvocato e componente di «Libertà e giustizia», l'associazione di intellettuali anti Renzi. «Renzi è un demagogo o uno che fa? Voi siete demagogia o persone che fanno?» chiede il conduttore all'ospite Nunzia De Girolamo, di Ncd, alleati di governo. Domanda che lascia trasparire i dubbi di Floris sull'agenda renziana, poi chiariti da lui stesso: 'Io... al di là del fatto se sia giusto o no togliere il Senato, che dal mio punto di vista non è se non altro dannoso... ma se questo discorso lo avesse fatto Ponzio Pilato quando chiedeva " Barabba o Gesù"? Dice: "Beh, il popolo vuole Barabba...". Si può sbagliare anche se lo vuole il popolo?». Bacchettate al segretario Pd che partono proprio dalla rete Rai in appalto al Pd, un problema su cui prima o poi Renzi metterà le mani. Già ma quando? I tempi della «renzizzazione» di Viale Mazzini sono scanditi da due scadenze. La prima riguarda il destino di Luigi Gubitosi, direttore generale di epoca montiana, poi entrato in ottimi rapporti con Letta, e adesso rientrato nel totonomine per le controllate del Tesoro (si parla di Enel e Poste). Se Gubitosi nelle prossime settimane traslocherà, allora il governo avrà carta bianca per scegliere un nuovo dg di osservanza renziana. Che però sarà ancora un direttore dimezzato, perché per le nomine editoriali dovrà passare dal Cda, composto da cinque consiglieri di area centrodestra e due di area centrosinistra- Pd ma non certo renziana. E qui si arriva alla seconda scadenza, l'aprile 2015, quando i vertici - presidente, dg e Cda - cesseranno il loro mandato. A quel punto Renzi potrà ridisegnarsi una Rai a sua immagine e somiglianza, e dunque i bookmaker di Viale Mazzini scommettono che per un annetto le poltrone ( e le conduzioni) non si muoveranno molto, per quanto poco amate dai renziani. Prima, però, Renzi potrebbe svelare la sua idea sulla nuova Rai, accennata soltanto in alcune interviste. Si tratterebbe di riformare la legge Gasparri e di cambiare la governance della tv pubblica, sul modello della Bbc inglese. Non più un Cda nominato dalla Commissione parlamentare di Vigilanza ma un Comitato esecutivo composto da manager. Non più un direttore generale ma un amministratore delegato, e una separazione societaria tra servizio pubblico (da finanziare col canone) e servizio commerciale (da pagare con gli spot). Questo farebbe della nuova Rai un soggetto non più dipendente dal Tesoro, cosa che permetterebbe di aggirare anche un problemino: trovare un manager che la guidi senza incorrere nei tetti di stipendio (massimo 311mila euro) imposti dalle nuove regole per le società del Tesoro. Uno stipendio troppo magro per molti top manager sul mercato.
La redazione rossa stravede per il governo greco, che sta mandando in vacca i risparmi degli italiani. E spunta pure l’operatore tv che placca l’ex ministro al semaforo: “Sono orgoglioso di te, hai fatto un ottimo lavoro”. Il renziano Anzaldi: “Questo sarebbe equilibrio da servizio pubblico? Berlinguer in Vigilanza”, scrive “Liberoquotidiano.it”. Musichetta evocativa, stile Mai dire gol quando la Serie A salutava "pipponi" come Igor Shalimov. Peccato però che le dolci note del pianoforte, in questo caso, non abbiano alcun intento ironico. O meglio, le dolci note non vorrebbero far ridere. Eppure, se vedete questo servizio del Tg3, vi sarà difficile, quasi impossibile, non sghignazzare (e neppure a denti stretti). Si tratta del servizio con cui il Tg di telekabul rosso-diretto dalla zarina Bianca Berlinguer saluta il "compagno Yanis", alias Varoufakis, l'ormai ex ministro-centauro delle Finanze greche, che nel day-after della vittoria del "no" al referendum ha rassegnato le dimissioni. Un passo indietro che per i Berlinguer's boys ha il sapore dell'addio, della mezza tragedia insomma. Tutta Europa, o quasi, ha bollato il povero Yanis come un mezzo cialtrone. Ma oggi, almeno per il rossissimo Tg3, è l'eroe assoluto. La musichetta evocativa, si diceva. Ma non solo. Perché sopra alla musichetta in stile-Shalimov c'è anche un testo. E che testo. Tanto miele che - forse - neppure il Tg di Pyongyang per Kim Jong un. Sentite l'incipit: "Se n'è andato per aiutare, per aiutare Tsipras a trovare un accordo. Se n'è andato orgogliosamente, come fanno i protagonisti dei film che si sacrificano per far vivere gli altri felici e contenti". C'è tutto, in questa frase: c'è la costruzione del mito, c'è l'esaltazione dello spirito di sacrificio, c'è l'elogio dell'altruismo. Tanto miele che sembra abbiano scambiato Yanis per Che Guevara. Ma siamo solo agli inizi. La velina rossa s'arricchisce col balzano elogio del cognome, Varoufakis, "più da contadino o artigiano che da armatore". E se lo dice il Tg3 ci sarà pur da crederci. "Lo sguardo malandrino con effetto micidiale sulle donne": è pure sexy, l'eroe greco, e il dettaglio non sfugge. "E' un intellettuale puro", ci spiega la voce incantata, che poi snocciola lauree, master, titoli riconoscimenti e chi più ne ha più ne metta. Il buon Varoufakis ha pure poteri divini, spiega il Tg3: infatti "alcuni titoli delle sue pubblicazioni risultano profetici". Ma è nel dettaglio che il servizio spiazza anche l'uditorio più affezionato all'ormai fu ministro. Udite udite: "Uomo senza cravatta, indossa tranquillamente la camicia fuori dai pantaloni". E tutti, anche i rossi più rossi, si chiedono che cosa mai possa significare indossare "tranquillamente la camicia fuori dai pantaloni". E' finita? Niente affatto. Si deve celebrare pure il centauro, colui che "gira in moto, bella moto, inforcata bene, come sanno quelli che amano le moto". Già, che come inforca la moto lui non la inforca nessuno. E' "uno che non se la tira, tosto ma competente". Arrivederci, Yanis, piange il Tg3. Eppure, compagno Yanis, forse un giorno ci incontreremo di nuovo: "Lo rivedremo presto, probabilmente in America, magari sotto il Grand Canyon, sicuramente in moto, su una lingua d'asfalto". Il servizio è finito. Soltanto a questo punto si ha il tempo per asciugarsi la lacrimuccia. Dopo le grasse risate, confessatelo, anche a voi una lacrimuccia sarà pur scesa.
Bianca Berlinguer davanti alla commissione ai vigilanza Rai, scrive "Il Giornale". È la richiesta del deputato Pd Michele Anzaldi che denuncia: «La pessima copertura della crisi greca da parte della Rai, in occasione di un evento come il referendum che ha creato anche forte preoccupazione nei cittadini italiani, culmina con un grave scivolone del Tg3 nell`edizione delle19: un servizio riferisce i commenti entusiastici e tifosi dell`operatore tv all`indirizzo del dimissionario ministro Varoufakis. È questo l`equilibrio del servizio pubblico?». Poi la stoccata alla Berlinguer: «Chiederò all`ufficio di presidenza della commissione di valutare se non sia opportuno convocare il direttore del Tg3 per chiedere spiegazioni su un episodio che dovrebbe essere valutato anche dall’Ordine dei giornalisti». "Andrà tutto bene. Non preoccupatevi". E' l'incoraggiamento ai greci dell'ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis dopo le dimissioni presentate questa mattina. In sella alla sua moto insieme alla moglie per le strade di Atene, Varoufakis è stato fermato ad un semaforo da una troupe del Tg3 e un cronista dell'ANSA. "Sono di destra ma ieri ho votato per il no. Sono orgoglioso di te", si lascia sfuggire l'operatore greco. Varoufakis mette la propria mano sul petto come a dire: "Ed io di voi". "Hai fatto un ottimo lavoro. Non avresti dovuto dimetterti", insiste il cameraman in greco. L'ex ministro replica mostrando il pollice alto: "Andrà tutto bene, non preoccupatevi". Poi scatta il semaforo e lui scappa via nel traffico ateniese con la sua motocicletta.
Telekabul è ancora telekabul? Prima o poi, si dovrà considerare la possibilità di smontare le vestigia di una tripartizione delle reti che risale agli anni '70, scrive Stefano Balassone su “Europa Quotidiano”. “Telekabul” fu il nomignolo affibbiato negli anni ’80 al Tg3 diretto da Sandro Curzi che se la giocava tra soviettismo e populismo. Del resto a quei tempi anche il Tg1, in chiave filo democristiana, e il Tg2, ferro di lancia del craxismo, pur diretti da fior di professionisti, non lesinavano furori ideologici. Il militantismo di sinistra del Tg3 riuscì tuttavia a incorniciarsi nella programmazione della terza rete che non era affatto ideologica, ma rifuggiva dal “né carne né pesce” e collezionava protagonisti e format tutti, a modo loro, “estremi” (rispetto al prudenzialismo imperante) da Il Processo del Lunedì di Aldo Biscardi, alla Samarcanda di Santoro, alla Linea Rovente di Ferrara e poi Chi l’ha visto,Telefono Giallo, le varie versioni di Chiambretti, Milano-Italia, Quelli che il calcio, UltimoMinuto, Blob,Cartolina e via ricordando. Su queste basi il canale trovò il “suo” pubblico e si compì un autentico matrimonio fra il terzo pulsante del telecomando e un segmento importante della audience generalista. Oggi, ma non da oggi, quel matrimonio sembra sciolto e la terza rete è una “rete come le altre”. Le cose che fa possono piacere oppure no, ma non godono di una specifica aura editoriale conferita proprio dallo stare in quel palinsesto. Per esempio, Gazebo, una delle migliori evoluzioni del talk show che mixa dall’inizio alla fine ironia e ipercompetenza politica, è davvero assai gustoso e sta crescendo di pubblico, ma se fosse trasmesso altrove non risulterebbe affatto distonico o fuori contesto. Anche perché oggi nessuna Rete generalista esprime una “identità” che vada appena al di là della mera lista di programmi che mette in fila giorno dopo giorno. Ma la terza rete sembra soffrirne più di altri, con un processo di erosione del pubblico che nell’ultimo anno ha subito una marcata accelerazione. A partire dal Tg3, che non è fatto oggi né peggio né meglio di ieri, e che però registra nei primi mesi di quest’anno, rispetto all’anno passato, la perdita di un quarto del pubblico: se prima viaggiava attorno al 14 per cento oggi si attesta sul 10 per cento. E la flessione è assai più elevata, quasi uno spettatore ogni due, proprio nelle fasce di età dai 35 ai 55 anni, che corrispondono a coloro che, negli anni fra l’80 e il ’90, quando erano il pubblico giovane, decretarono il successo di “telekabul” insieme al resto che gli faceva compagnia. Da qui una domanda su tutte: ha ancora senso tenere separata Raitre da Raiuno (che da parte sua non brilla certo per salute e identità), o non sarebbe meglio che la Rai le fondesse in un unico palinsesto che, come Bbc1, intrecci le finestre territoriali con una programmazione ad elevato tasso di intrattenimento? Del resto, prima o poi, si dovrà pur considerare la possibilità di smontare le vestigia di una tripartizione delle reti (anche Raidue, per non tralasciare nulla, è una rete che da anni cerca invano un senso anziché un semplice spazio) che risale agli anni ’70, che ne ha vissute di tutti i colori e che non sembra avere la forza di trasmettersi ai posteri?
La7 diventa Telekabul: non c’è un volto di destra, scrive "Il Giornale". È il nuovo gioco di società, il risiko estivo della televisione, il game enigmistico dei volti noti di La7, la tv della gente che piace. Aguzzate la vista: vince chi trova un giornalista o un conduttore di centrodestra. O almeno non left oriented. Chi lo stana urli «celo». Perché a noi «manca». Con l’innesto di Giovanni Floris, le sfumature sinistre della rete di proprietà di Urbano Cairo si son fatte assai meno sfumate. Niente di tragico, niente di apocalittico. È un gioco e giova ripeterlo. Tra un aperitivo e un tuffo dove l’acqua è più blu possiamo sfogliare l’album della nuova Raitre. Perché, va detto a mente fredda: con il suo palinsesto tutto talk show e approfondimenti, La7 è la nuova Terza rete, la nuova Telekabul, una sua versione più light, più illuminata, moderna e tecnocratica. Altro che «la Cnn italiana», come qualche guru della comunicazione l’ha definita. È anche una questione di scenografie e di luci degli studi televisivi: più cupi e rancorosi quelli di Raitre, più freddi e inondati quelli di La7. Una nuova identità televisiva. A ben guardare, costruita tutta con acquisti dalla concorrenza Rai e Mediaset e sparuti prodotti del vivaio interno. Ma dicevamo delle figurine dei conduttori. Si prende un anchorman o un anchorwoman e si fa una breve didascalia. Oppure si traccia una crocetta su una delle opzioni. Sinistra tradizionale, sinistra radical chic, sinistra movimentista, sinistra post-grillina, sinistra illuminata o furba. Dall’altra parte, centrodestra moderato, centrodestra liberale, centrodestra teocon, centrodestra assatanato. Questione di sfumature. Cominciamo dai volti storici. Enrico Mentana, il regista della rinascita: sinistra illuminata, clan Della Valle-Montezemolo. Daria Bignardi: sinistra da salotto, superiorità morale inscritta nel dna. Lilli Gruber: sinistra illuminata, ex pasionaria, bernabeiana (nel senso di Franco Bernabè) convertita al club Bilderberg. Maurizio Crozza: sinistra post-grillina, parola d’ordine: la casta deve morire. Proseguiamo con gli innesti più recenti, le new entry e quelli non ancora entrati nel Pantheon. Michele Santoro: sinistra movimentista, guru post-grillino. Corrado Formigli: sinistra tradizionale, tendenza fiorentina (anche nel tifo). Giulia Innocenzi: sinistra light, cocca di Matteo Renzi, ospite al suo debutto da conduttrice. Gianluigi Paragone: ex leghista convertito al grillismo, disallineato (non a caso gli hanno affibbiato la domenica sera). Giovanni Floris: sinistra storica, ex simbolo del servizio pubblico ora titolare di una buona fetta di palinsesto della nuova Raitre. E le caselle del centrodestra? Deserte. Hai voglia a comprar figurine. Viene il sospetto che non le stampino nemmeno quelle dei moderati. Oppure che le lascino fuori dalle bustine. In epoca Telecom, c’erano una volta Nicola Porro e Filippo Facci. Forse appena delle foglie di fico liberali in una foresta composta in prevalenza di querce, ulivi e altra flora progressista come si diceva allora. Adesso che l’editore è un ex dipendente Fininvest, patron del Torino, in polemica con la maggioranza degli azionisti Rcs, editore di riviste molto pop, uno lontanissimo dai salotti e dalle terrazze de sinistra; ora che l’editore è lui gli scrupoli di salvare le apparenze creando qualche pur minimo contrappeso sono scomparsi. E per quanto la vista si aguzzi…
Rai, il format di Palazzo Chigi che assomiglia a TeleKabul, scrive Stefano Folli su "La Repubblica" il 30 settembre 2015. Le strategie politiche non si riflettono solo nelle grandi scelte, tipo la riforma del Senato e il conseguente referendum finale, concepito già oggi come momento di consacrazione del leader e del suo partito. Anche gli episodi minori sono significativi e talvolta assai rivelatori. È il caso del duro attacco mosso sul "Corriere della Sera" da un parlamentare del Pd, Anzaldi, alla terza rete della Rai e al Tg3. L'accusa è di non essersi accorti che a Palazzo Chigi tutto è cambiato e che Renzi è diverso dai suoi predecessori figli della tradizione comunista o post-comunista. Un tempo si diceva TeleKabul, oggi il tono non è meno aspro. La differenza è che una volta il maggiore partito della sinistra difendeva TeleKabul, mentre oggi l'offensiva viene da ambienti vicini al presidente del Consiglio che è anche segretario del Pd. Al punto che un altro parlamentare, questa volta anonimo, parla della necessità di usare "il lanciafiamme" per abbattere le resistenze di quei conservatori di Saxa Rubra. Qualcuno aggiunge che i programmi della terza rete spesso sono brutti e non si puó abolire il diritto di critica, nemmeno se viene esercitato dai parlamentari. Il che è un argomento sbagliato alla radice. E non si può ignorare che poche ore prima il governatore della Campania, De Luca, si era lanciato in un'arringa verso le stesse trasmissioni con un linguaggio ben più violento di Anzaldi, senza suscitare particolare indignazione. Giorni fa, come è noto, lo stesso presidente del Consiglio non aveva lesinato giudizi pesanti su certi "talk show" a suo dire troppo spostati a sinistra e come tali in perdita di ascolti. Peccato che non sia compito suo o dei sui collaboratori valutare i programmi televisivi e nemmeno reclamare una linea più o meno ottimista, più o meno comprensiva verso il governo. La verità è che la relazione fra stampa e potere è come sempre lo snodo cruciale per capire un passaggio politico. In questo caso la progressiva trasformazione del Pd nel partito di un leader risoluto e poco propenso alle mezze misure. Sia che si tratti di riforme costituzionali sia che il tema coinvolga l'informazione del servizio pubblico. Sul quale peraltro governo e maggioranza si sono garantiti un sicuro controllo istituzionale, senza che sia indispensabile ricorrere alle invettive peroniste. Il faro resta l'opinione pubblica, che Renzi è certo di conoscere e interpretare come nessun altro. E l'opinione pubblica, si ritiene a Palazzo Chigi, è favorevole ai metodi sbrigativi quando c'è da smantellare vecchie trincee e consolidate rendite di posizione. Perché è evidente che Renzi giudica la minoranza del Pd e tutto quello che ne deriva, compreso — a torto o a ragione — il mondo del Tg3, un residuo del passato senza veri legami con la società italiana di oggi. Per cui la frase rivolta ai sindacati dopo lo sciopero degli impiegati del Colosseo («la musica è cambiata») resta emblematica di un modo di rivolgersi al Paese. Le mediazioni, semmai, riguardano altri terreni: la politica economica, le pensioni, le tasse. Ma nel fondo il messaggio è esplicito: il Pd così com'è non serve più; e non servono nemmeno le sue storiche propaggini nell'informazione di Stato. Ne deriva che la prospettiva può essere solo plebiscitaria: la vittoria personale del leader coincide con il trionfo del "partito della nazione". Che è tale proprio perché rispecchia fino in fondo il leader. I poli sono destinati a «disaggregarsi per poi riaggregarsi in forme nuove», dice il nuovo alleato Verdini, riecheggiando in modo inconsapevole una celebre frase di Moro. Ma Verdini pensa alla disgregazione di Forza Italia da ricomporre nel partito egemone di Renzi. E la sinistra? Nella concezione renziana o si converte o è, appunto, residuale. Tuttavia non è spinta verso la scissione, a meno che per scissione non si intenda la fuoriuscita alla spicciolata, inoffensiva, dei Fassina e dei Civati. Sullo sfondo la Rai è come sempre lo specchio privilegiato di una certa concezione del potere. Oggi la si vuole funzionale a un cambio di stagione politica, quasi come accadde ai tempi di Berlusconi. Quando invece Renzi prometteva di essere alternativo, nel merito e nel metodo, al suo predecessore.
IL TACCUINO DI UN GIORNALISTA LOTTIZZATO. Per capire la lottizzazione leggete RAI 643111, scrive Tommaso Del Grillo su “Avanti On Line”. Pacato, simpatico, sorridente, deciso. Alberto La Volpe, 82 anni, una lunga vita di giornalista sulle spalle, socialista convinto, dal 1987 al 1993 direttore del Tg2, guarda il pubblico e dice: “I giornali non si fanno senza le redazioni. Quella del Tg2 era multicolore e burrascosa, ma sapeva splendidamente rispondere ad ogni prova. La qualità dei giornalisti era alta”. Si leva un applauso. Già l’esordio è strano, controcorrente. Parla di redazioni e di giornalisti in un mondo nel quale gli editori e i direttori, grazie anche alla crisi dell’informazione, sarebbero ben lieti di confezionare giornali senza giornalisti, il paradosso è audace, ma calzante. La parola d’ordine al vertice delle testate è risparmiare ulteriormente ed evitare di discutere con quei giornalisti ancora legati all’amore per il proprio lavoro svolto in piena autonomia e libertà. La valanga di giornalisti disoccupati, precari, con contratti a termine, sottopagati aumenta i poteri di ricatto di editori e direttori. Mentre parla, La Volpe dà un’occhiata alla copertina rossa del suo nuovo libro posto sul tavolo al quale è seduto. Il titolo è sibillino: “Rai 643111. Il taccuino di un giornalista lottizzato”. L’autore svela: “Non è un numero di un centralino telefonico, ma una cifra irriverente usata da Bettino Craxi per capire la lottizzazione”. In sintesi: ai vertici della Rai nella Prima Repubblica 6 persone erano della Dc, 4 del Pci, 3 del Psi e uno, rispettivamente, di socialdemocratici, repubblicani e liberali. C’era poi la “zebratura”, un termine mutuato dal cavallino africano a strisce bianco-nere: nel Tg1 democristiano, nel Tg2 socialista, nel Tg3 comunista lavoravano “ad incastro” giornalisti di altre ispirazioni politiche. Un disastro? Un danno? Un bene? I pareri sono diversi. Alla presentazione di “Rai 643111” partecipano Luigi Gubitosi, direttore generale della Rai, il professor Mario Morcellini e Paolo Franchi, commentatore politico del “Corriere della Sera”. La sala delle conferenze della libreria Feltrinelli nella galleria Alberto Sordi a Roma è piena di un pubblico appassionato e attento. Franchi ricorda quando finì nella metà degli anni Settanta il monopolio democristiano sulla Rai con la nascita del Tg2: “Fu un fatto incredibile. C’era il congresso Dc che discuteva del compromesso storico con il Pci. Il Tg2 dava tutte le notizie comprese le quasi risse e il Tg1 alla fine abbandonò le prudenze e partì la concorrenza. Io lavoravo a ‘Rinascita’, il settimanale teorico del Pci. Tutti fummo sorpresi e io, in quasi assoluta minoranza, giudicai un vantaggio e non un danno per la Dc mettere in chiaro i suoi fortissimi contrasti interni. Mostrò di essere un partito democratico”. Il pomo della discordia è la lottizzazione. Gubitosi, arrivato in Rai con il governo tecnico di Mario Monti, picchia duro contro la lottizzazione: “E’ un male da eliminare. I giornalisti rispondono non all’azienda, ma a un partito. Servono giornalisti bravi e preparati in grado di affrontare la concorrenza del mercato televisivo”. Ettore Bernabei per oltre 10 anni direttore generale potentissimo del “latifondo” democristiano Rai di rito fanfaniano si alza dalla platea, prende il microfono e va a parlare dal tavolo degli oratori: “I partiti mettevano in Rai gli uomini migliori, era nel loro interesse. E ha funzionato. La Rai oggi come nella Prima Repubblica regge bene alla sfida del mercato”. Informazione, spettacoli, film, ballerine: fu una miscela vincente. Le gambe delle gemelle Kessler, gli sceneggiati tv, le inchieste giornalistiche fecero la fortuna del servizio pubblico. Ancora oggi, nonostante tutto, la Rai “tiene botta”: mantiene circa il 40% degli ascolti televisivi. Il servizio pubblico radiotelevisivo, ora allargatosi al web e ai canali digitali tematici, riesce a rispondere, pur con tutti i suoi difetti, alla concorrenza di Mediaset, di Sky e di La7. L’azienda radiotelevisiva pubblica continua a vincere la sfida del telecomando con i concorrenti privati. La Politica con la P maiuscola dirigeva i partiti e produceva progetti e riforme di alto livello della società. “Da oggi ciascuno è più libero” titolò l’“Avanti!” alla nascita del primo governo di centrosinistra con Aldo Moro presidente del Consiglio e Pietro Nenni vicepresidente. Nella Prima Repubblica i partiti storici di grande radicamento popolare, grazie anche alla Rai, riuscirono nell’impresa di sviluppare e democratizzare l’Italia sul fronte economico e culturale. Nella Seconda Repubblica con i partiti leaderistici, in qualche caso padronali, molte cose sono cambiate. C’è stato un degrado, che però vale per tutta la società italiana e non solo per la Rai. Alle volte più che i partiti o i poteri forti rischiano di contare di più le lobby e le cordate. Basta vedere cosa succede nelle tv private e nei giornali, anche quelli più prestigiosi, della carta stampata. La libertà d’informazione è sempre più in pericolo. I quotidiani in 8 anni hanno perso oltre la metà delle copie vendute. Picchia duro la Grande Recessione, ma anche l’abbassamento della qualità dell’informazione, con giornali sempre più uguali ed omologati. Il braccio di ferro tra i vari proprietari del ‘Corriere della Sera’ per cambiare direttore è durato mesi. I tanti diversi azionisti del Corsera hanno importanti interessi da difendere nei più diversi settori manifatturieri e finanziari italiani. Chi tocca i giornali rischia. La Volpe ricorda “i vergognosi attacchi subiti da ‘Repubblica’ e dal ‘Messaggero’ per i servizi giornalistici che facemmo sugli interessi dei loro editori”. Rivendica: “Sono orgoglioso di essere del partito Rai. Abbiamo sempre lavorato con grande autonomia e libertà. Alle volte abbiamo dato un po’ troppo Craxi, ma non so se poi gli ha giovato”. Conclude con una battuta: “Leggete il libro. Chiamate il 643111. Vi divertirete!”.
La politica è riuscita a lottizzare anche i social media?
1- Politica, social media e giornalisti, un mix esplosivo, soprattutto in Italia. Partiamo da un episodio recente. Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una storia che non ho ben capito, ma che ha cominciato a farmi riflettere. C’è stato un duro attacco del fatto quotidiano contro un ragazzo, Giacomo Biraghi, che non conosco personalmente. Era un evento di inizio giugno, inizialmente non ero nemmeno tra gli invitati su Facebook ma era un evento aperto e, visto che alcuni miei amici partecipavano, mi sono registrato sul sito. Avevo capito, leggendo la descrizione dell’evento, che Giacomo aveva inventato un “movimento” per l’Expo, semplicemente lanciando due anni fa un hashtag “expottimisti”, e che l’Expo lo aveva premiato finanziando questa festa aperitivo nel padiglione di SlowFood. Era compreso l’ingresso gratis all’Expo di Milano e un aperitivo, con degustazione omaggio da Slow Food. Ho visto che alcuni amici erano già iscritti e ho partecipato anche io. Poi, qualche giorno dopo, ho scoperto leggendo un articolo del Fatto Quotidiano, segnalato su Twitter da Giacomo stesso, che lui è stato assunto da Expo per fare il PR per Expo. Ha uno stipendio sostanzioso di 4.000 euro al mese netti e, secondo il Fatto Quotidiano, lo avrebbe ottenuto perché aveva già lavorato per politici del centro destra. Oltre a questo lavoro per Expo, ha avuto anche un contratto con la Camera di Commercio di Milano, credo sempre relativo all’Expo, per altri 160.000 euro lordi per due anni e mezzo di lavoro. Secondo Giacomo, e secondo molti altri che lo conoscono, tutto questo è del tutto normale e non c’è nulla di strano, i lavori che ha fatto per la politica sono frutto della sua professionalità. Può essere benissimo così, a me, da quello che ha scritto e da quello che scrivono su di lui le persone che lo conoscono, sembra sia un ragazzo simpatico, capace e preparato. Confesso però che in generale, in casi del genere, qualche pregiudizio ce l’ho sempre. Quantomeno la statistica mi dice che qualcuno non la racconta giusta. Il dibattito che sarebbe potuto scaturire dal confronto con il giornalista, parlando ovviamente principalmente di Expo e non di Giacomo, sarebbe stato molto interessante. Purtroppo il Fatto Quotidiano non ha voluto accettare l’invito pressante per fare un dibattito pubblico, invito proveniente da Giacomo e molti altri. Si sono rifiutati di discutere, comunicandolo con un tweet del giornalista che ha firmato l’articolo, Gianni Barbacetto. Rifiutavano l’incontro chiarificatore, perché Giacomo non è un giornalista, non è un rappresentate di Expo da loro riconosciuto e non volevano dargli ulteriore visibilità. Può darsi che la risposta è stata forte anche per le molte richieste di chiarificazione ricevute, forse troppe. Peccato, è stata una occasione persa per Gianni, per Giacomo e per noi, ma non voglio riprendere la polemica. Comunque siano andate le cose, un singolo caso non può essere generalizzato. Cerchiamo invece di capire quale è la situazione in generale in Italia.
2 – Per accedere a buone opportunità economiche nel mondo digitale in Italia, bisogna avere un appoggio politico? Il successo nel mondo digitale ovviamente si può avere senza aiuti politici, ma anche il successo può essere creato artificialmente dalla politica. I giornali e le televisioni sono in mano alla politica e mi sembra sostengano solo persone e iniziative di chi è “amico” della loro parte politica di riferimento. Molti giornalisti, una delle corporazioni italiane ormai in crisi, sembra disprezzino e temono a priori chi non è giornalista. Sembrano pretendere solo per loro, non solo la possibilità di scrivere sui giornali, ma anche il successo nei Social Media. Di sicuro il Fatto Quotidiano, uno dei giornali che amo leggere, e la maggioranza dei giornalisti, non possono essere sospettati di aiutare volontariamente la politica a “lottizzare” e addomesticare il web. Però l’atteggiamento ostile di alcuni o tanti giornalisti, verso i social media e verso chi, senza essere giornalista, ha successo nei media digitali, aiuta la politica nel cercare di imbrigliare il mondo digitale libero. Se non sei un giornalista, molto spesso, non si degnano nemmeno di risponderti, come se solo i giornalisti siano degni di considerazione sul web e solo loro posseggano la verità e la capacità di scrivere. La cosa che sembrerebbe temano di più, è dare visibilità a chi non è giornalista, mai dare visibilità al nemico? Questo è solo un sintomo minore del malessere che pervade questa categoria professionale. Il rischio maggiore è che gli editori e l’ordine dei giornalisti, per semplici motivi economici, cerchino di far introdurre leggi che riducono la libertà sul web. Dimenticandosi della tutela della libertà di informazione. In questo contesto italiano poco meritocratico e con un controllo diffuso della politica sui mezzi di comunicazione, sulle università, nella santità, sulle associazioni professionali, ecc., avere un appoggio dalla politica può essere la chiave di svolta per alcuni anche nel mondo digitale. Ragioniamo su un esempio reale di più alto livello, i “Digital Champions”. Ci sono molti esempi di “Digital Champions” di sinistra che sono sponsorizzati dal gruppo Repubblica l’Espresso e dai vari politici locali e nazionali del PD. Su questi il Fatto Quotidiano ha mai avuto da ridire? Forse perché molti sono quantomeno giornalisti? Il discorso comunque vale più o meno per tutti i partiti con sfumature diverse. Vediamo un esempio di alto livello, a Novembre 2014, l’Huffington Post titolava: Nominati i primi 100 digital champions italiani: “Avremo un evangelista digitale per ogni Comune. Saranno 8 mila entro il 2015”. YouDem riporta la precedente dichiarazione di Riccardo Luna ad un evento con Matteo Renzi. Riccardo Luna è il Digital Champion dell’Italia in Europa, lui è sicuramente bravo e preparato ma la mia impressione è che sia totalmente irraggiungibile se non fai parte del “giro”. Certo, se vuoi andare ad applaudire o a fare il tifo sei sempre il benvenuto. Dubito che si arrivi così in lato se non hai anche forti agganci politici, ma potrebbe essere un mio pregiudizio. I Digital Champion nazionali sono, secondo me, una delle tante incomprensibili iniziative della UE. Da quanto ho capito questa iniziativa è stata mostruosamente ingigantita in Italia, fino a forse avere nominato 8000 Digital Champion? Il piano ufficiale è di nominarne uno per ogni comune italiano. Questi campioni digitali avrebbero dovuto, o dovranno, fare gli evangelisti digitali in Italia. Ma che vuole dire fare l’evangelista digitale? Purtroppo dal sito privato dei Digital Champion italiani creato da Riccardo Luna, non ho capito né la necessità né i criteri di selezione di questi 8000 campioni, e poi, chi sono e che fine hanno fatto gli 8000 campioni digitali? Vi do un aggiornamento, a Settembre 2015 sono arrivati a circa 1500 Digital Champions. Dubito che arriveranno entro il 2015 agli 8.000 Digital Champions promessi, ma anche se ci arrivassero, e se i criteri di selezione fossero meritocratici, e non amicali, clientelari o partitocratici, continuo a non capire qual è la l’utilità dei Digital Champions per gli altri? Quello che invece mi sembra chiaro è che i criteri di selezione non sono trasparenti, mi ricordano le liste che il segretario di partito fa alle elezioni. Nessun giornale si fa domande su queste cose? Meglio prendersela con i pesci piccoli, soprattutto se non sono giornalisti? Tra di loro, i nuovi “potenti digitali”, sembra che non perdano mai un’occasione per complimentarsi e sostenersi pubblicamente. Primi sintomi di corporativismo o solo attitudini e fini comuni? Qualcuno ha interesse ad approfondire come la politica sta cercando di “domare” i Social Media? Questo in apparenza sembrerebbe uno dei tanti esempi di come la politica, aiutata dai mezzi di comunicazione tradizionali in suo possesso, cerchi di selezionare e controllare il mondo dei social media e delle comunità online. Qualche campione digitale vorrebbe raccontare la sua esperienza? O spiegarci meglio il senso di questa iniziativa? Comunque, anche questo è solo un esempio superficiale, il primo che mi è venuto in mente, bisognerebbe fare un discorso ancora più ampio e approfondito. Il dubbio è che se non sei legato a qualche movimento politico, vecchio o nuovo, sei fuori da giornali, iniziative, sovvenzioni e opportunità importanti. Mi sembra stiano tentando di replicare il modello fallimentare dell’Università italiana, dove i vari baroni decidono le sorti dei ricercatori e se vuoi avere successo devi prima piegarti umilmente per anni alle esigenze dei baroni e poi della politica. Non per niente molti dei “favoriti” nelle varie corti digitali o sono giornalisti o provengono dal mondo universitario Italiano. C’è qualcuno del settore che ha il coraggio di parlare di questo argomento e dire la sua esperienza o la sua opinione? Sarebbe bello fare un dibattito e un approfondimento per capire se la politica sia riuscita a lottizzato anche i social media e fino a che punto. Si potrebbe fare anche solo online, ci vorrebbero giornalisti, politici e persone del settore oneste e trasparenti. Grazie Enrico Filippucci.
UNO, NESSUNO E GIORNALISTI, scrive Filippo facci su "Il Giornale". Pino Maniaci, direttore di Telejato a Partinico (Palermo) è stato rinviato a giudizio per esercizio abusivo della professione giornalistica: non aveva il tesserino del caso, cioè. La sua tv «antimafia» è formalmente a posto e ha un direttore responsabile che si chiama Riccardo Orioles, ma fa niente. Non sto a valutare come Pino Maniaci faccia il giornalista, ma so che sicuramente lo fa. Però non lo è. Quanti invece lo sono, ma non lo fanno? Quanti fanno magari dignitosamente un altro mestiere? Quanti fanno intrattenimento? O cosiddetto infotainment? Quanti reggono solo un microfono? Quanti mezzibusti leggono solo testi altrui? Quanti incollano solo agenzie di stampa? O fanno gli autori? O compilano didascalie in riviste che sono dépliant pubblicitari? Quanti danno spazio solo a chi è anche inserzionista? Quanti segnalano solo chi gli ha regalato le scarpe, il profumo, la borsa, la giacca, il cellulare, la vacanza o l'auto scontata? Perché Striscia fa arrestare Wanna Marchi ma non è un programma giornalistico? Perché non lo è Le Iene? Perché altri contenitori invece sì? Perché non si cita quasi mai Dagospia anche se fornisce notizie con giorni di anticipo? Perché si dedicano paginate alle nomine dei giornalisti lottizzati e solo poche righe ai peones che si fanno il mazzo in zone di frontiera? Possibile, soprattutto, che il nuovo contratto giornalistico non dica una parola sui buoni pasto?
MAFIA ED ANTIMAFIA. GIORNALISTI PAVIDI E PARTIGIANI: NON SENTONO, NON VEDONO, NON PARLANO. TELEJATO E PINO MANIACI: ORGOGLIOSI SI ESSERE DIVERSI.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Beni confiscati, la denuncia di TeleJato: imprese sane "spremute" e distrutte, scrive Giulio Ambrosetti su “La Voce di New York” La sezione di Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo ha gestito beni per circa 40 miliardi di Euro. Nel 'tritacarne' anche imprenditori che avrebbero dovuto essere lasciati in pace perché ritenuti estranei alla mafia. Invece le loro imprese sono finite lo stesso nelle ‘fauci’ degli amministratori giudiziari, "parassiti, pagati con i proventi della stessa azienda". Storie incredibili denunciate in un dossier, due anni fa, da TeleJato, la tv di Pino Maniaci. Quanti posti di lavoro sono andati perduti? Il caso del giudice Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione per le Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, viene commentato da Salvo Vitale, collaboratore di TeleJato, la tv diretta da Pino Maniaci che due anni fa, in tempi non sospetti, aveva espresso molte riserve sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. In un approfondimento, dal titolo: “Il triangolo no… non l’avevo considerato” (frase tratta da una celebre canzone di Renato Zero), si leggono alcune considerazioni che vale la pena di scorrere. Anche per farsi un’idea di quello che succedeva in un settore nevralgico della vita pubblica siciliana. “Qualcuno - dice Salvo Vitale - potrebbe pensare che abbiamo fatto salti in aria di gioia quando abbiamo saputo che la signora Saguto, presidente dell’ufficio Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, è sotto indagine, da parte della Procura di Caltanissetta, per concussione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. E invece no. Ogni volta che un rappresentante della Giustizia, e pertanto che amministra la giustizia in nome dello Stato, finisce sotto indagine da parte dei suoi stessi colleghi, non possiamo che preoccuparci ed esprimere il nostro disagio su come si amministra la Giustizia in Italia. E’ qualcosa che colpisce tutti e di cui non si può gioire, ma rattristarsi. E questa indagine dimostra proprio le due facce della Giustizia italiana: quella di una Procura, quella di Caltanissetta, competente per le indagini che riguardano l’operato dei magistrati di Palermo, che, in questo caso, scavalcando tutti i nostri dubbi e sospetti di reciproche protezioni tra magistrati che hanno lavorato fianco a fianco, ha ‘osato’ posare l’occhio sull’operato di un settore della Procura di Palermo; e quella di un magistrato di questa Procura che invece ha operato in assoluta libertà nell’uso di uno smisurato potere datole dalla normativa che regola le misure di prevenzione”. “Già Caselli (Giancarlo Caselli, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo negli anni ’90 del secolo passato ndr) - prosegue Vitale - aveva definito la Saguto una delle donne più potenti di Palermo e la sua potenza le deriva nell’avere costruito un patrimonio che supera i 40 miliardi di euro (parliamo solo della provincia di Palermo e di quella di Trapani, spesso ad essa connessa). In pratica, buona parte del capitalismo siciliano è finita sotto sequestro, sotto il controllo dell’ufficio di prevenzione, con accuse spesso fondate su deduzioni, sospetti, dichiarazioni spesso pilotate di pentiti, scavalcando in parecchi casi anche la collaborazione offerta dagli stessi imprenditori che hanno fatto una scelta di legalità e si sono invece visti sequestrare tutto, senza alcuna possibilità di potere ricominciare un qualsiasi lavoro”. A questo punto arriva un’accusa pesante: “Si potrebbe pensare che alla fine la Giustizia arriva - osserva ancora Vitale - come ogni tanto succede, ma moltissimi casi di sequestro sono stati ritenuti infondati da sentenze e dalla normale procedura penale e, nonostante ciò, l’ufficio Misure di prevenzione ha invece continuato ad emettere decreti di confisca nei confronti degli imprenditori assolti”. “Abbiamo denunciato la gestione e i metodi disinvolti, per usare un eufemismo, della ‘signora’ di Palermo da quasi due anni - afferma ancora il giornalista di TeleJato -. Abbiamo ricostruito pezzi del suo “cerchio magico” fatto da magistrati e avvocati che abbiamo chiamato “quotini”, cioè in quota al re degli amministratori giudiziari palermitani, Cappellano Seminara (avvocato Gaetano Calleppano Seminara ndr), il quale oggi si ritrova anche lui indagato assieme al marito della Saguto, l’ing. Caramma, suo collaboratore. Si tratta di nomi ormai noti, Dara, Turchio, Benanti, Santangelo, Miserendino, Virga, Ribolla, Modica de Moach, di avvocati che dovrebbero tutelare gli interessi dei clienti e che invece cercano accordi e intese con i magistrati per dare il contentino al cliente, ma anche per non mettersi contro le decisioni dell’apparato giudiziario nel quale essi convivono. E così l’imprenditoria siciliana non ha scelta: o schierarsi con l’apparente scelta di legalità della Confindustria ed entrare ‘in quota’, o correre giornalmente il rischio di finire sotto sequestro per una parentela, una presenza, una commissione fatta nel corso degli anni con qualche mafioso, cosa che in Sicilia capita spesso”. “Nel caso del triangolo Saguto-Caramma-Seminara - dice sempre Vitale - abbiamo da tempo denunciato gli intrecci tra il figlio della Saguto, Elio Crazy, che lavora presso l’hotel Brunaccini, nell’albergo di Cappellano Seminara, di cui è consulente suo padre, l’ing. Caramma. Con abile mossa l’avvocato Cappellano è riuscito a mettere le mani su una parte del settore alberghiero palermitano, quello del Gruppo Ponte, con la scusa della presenza del mafioso Sbeglia, tra i presunti lavoratori dell’albergo. Adesso la situazione dell’albergo è pietosa, ci sono state denunce di clienti che si sono trovati in stanze con le vasche da bagno sporche e con fuoriuscita di acqua verdastra dai rubinetti, ma il solito Cappellano ha invitato il cliente a soprassedere. La longa manus di Cappellano, sempre con la firma della Saguto, si è estesa a novanta incarichi ad esso assegnati, di cui siamo in grado di fornire l’elenco, e dove si incontrano enormi patrimoni interamente assorbiti dal nulla o rivenduti ad amici o finiti in partite di giro dove ci sono strani passaggi di mezzi, beni, merci e quant’altro da un’azienda a un’altra, il tutto svenduto per quattro soldi”. Il giornalista di TeleJato cita pure il caso dell’Immobiliare Strasburgo, società del mafioso Enzo Piazza, “per la cui amministrazione, secondo l’ex Prefetto Caruso, Cappellano avrebbe incassato 7 milioni di euro e altri 100 mila euro come compenso del suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione”. La lista di storie incredibili continua: “Altra pagina che lascia sgomenti e per la quale Cappellano è indagato - prosegue Vitale - è quella della discarica di Glina, che il nostro insaziabile rappresentante dello Stato avrebbe cercato di controllare interamente, mandando un lustrascarpe a comprarne una quota per 300 mila euro. Si potrebbe andare avanti, ma parliamo di cose che abbiamo denunciato da tempo e che speriamo possano emergere adesso se il giudice Paci di Caltanissetta avrà la possibilità di procedere serenamente, senza interferenze, pressioni, o peggio che mai, minacce”. A questo punto arriva un’altra accusa pesante: “Non è certo un’indagine su un magistrato potente che risolverà il problema dei beni confiscati e soprattutto sulla anomalia tutta italiana dei poteri dati a un ufficio di prevenzione che, nel 90 per cento dei casi, invece di prevenire, affossa e chiede all’imputato l’onere della prova, compito che invece spetterebbe al magistrato. E questo onere è costantemente rinviato in attesa di una giustizia che non arriva, che distrugge le aziende e le lascia nelle mani di parassiti, pagati con i proventi dell’azienda stessa”. “Tra i tanti commenti che abbiamo letto su Il fatto quotidiano - dice sempre Vitale - ne riportiamo uno che scrive: ‘Spero che Caltanissetta stia indagando anche sugli altri amministratori, come il giovane avvocato trentenne che l’anno scorso si è visto assegnare, sempre dalla Saguto, la gestione di un patrimonio da 600 milioni (aggiungiamo, quello dei fratelli Rappa), non si sa grazie a quali incredibili capacità. Si può soltanto dire che prima di questa assegnazione lo stesso avvocato gestiva 4 negozi di scarpe, sempre per il Tribunale di Palermo (presumiamo che si riferisca a Bagagli). Si sa che il padre, giudice presso il Tribunale di Palermo, al momento della nomina era membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). In quel periodo imperversava la polemica con il Prefetto Caruso per le parcelle d’oro accordate agli amministratori dalla Saguto. Negli stessi giorni il CSM archiviava il procedimento disciplinare, sempre nei confronti della Saguto. Lo stesso giudice, padre del trentenne amministratore - dice sempre Vitale - non è stato rieletto al CSM e ora fa il giudice di Corte d’Appello a Palermo. In ultimo l’amministratore trentenne ha acquistato da poco una villa a Mondello. La nota è firmata Bastian Contrario. Nulla di nuovo rispetto a quanto abbiamo già detto, ma che giova ripetere”. “E, a proposito di ville - dice sempre il giornalista di TeleJato - pare che, secondo il nostro commentatore, un’altra villa a Mondello sia stata acquistata da Cappellano Seminara per un milione e duecentomila euro gentilmente anticipati da una banca. Le garanzie per tale anticipazione sono le parcelle già emesse per l’attività di amministratore giudiziario del patrimonio a lui assegnato dalla Saguto, che, ricordo, essere superiore ai 600 milioni (si riferisce, pare, all’Immobiliare Strasburgo) e, visto che non erano sufficienti, ha messo a garanzia anche quelle che emetterà sempre per la sua attività di amministratore giudiziario”. “Ci fermiamo perché sull’argomento abbiamo già scritto un dossier di oltre cento pagine, che nessuno si è detto disponibile a pubblicare. Ora che è scoppiata la bomba, forse qualcuno si accorgerà che non abbiamo fatto, come ci hanno accusato di fare, il gioco dei mafiosi, ma quello di una giustizia che protegga gli interessi di tutti i cittadini, che sia uguale per tutti, che metta a posto le disfunzioni senza distruggere l’economia e i posti di lavoro, in una drammatica situazione di povertà in cui stiamo vivendo”. Il dossier, ora, dovrebbe essere entrato a far parte dell'inchiesta in corso. E quindi, in questa fase, non dovrebbe essere reso noto. Quindi le considerazioni finali: “Un’ultima cosa: la signora Saguto ha detto che vuole essere ascoltata, e ci mancherebbe altro, che chiarirà tutto, e ci auguriamo che lo faccia bene e senza truccare le carte. Già ha detto che l’incarico a suo marito è stato dato quando non era all’ufficio di prevenzione. E dov’era? Adesso il procedimento andrà nelle mani del Presidente del Tribunale, dott. Vitale, il quale deciderà sulle misure da adottare e, con ogni probabilità invierà tutto al CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), quello che ha già archiviato il primo procedimento sulla Saguto. Perché, in un Paese normale, come abbiamo letto in un altro messaggio, questa gente sarebbe già agli arresti per il rischio di inquinamento delle prove e la possibilità di reiterare il reato. In Italia siamo più buoni, diamo una possibilità a tutti e, considerato che abbiamo 7 mila km di costa con infiniti granelli di sabbia, la possibilità che tutto sia ricoperto, mare o sabbia non importa, appartiene al nostro modo di essere italiani”. Restano un paio di domande: quanti posti di lavoro sono andati perduti in Sicilia? Quante famiglie siciliane, oggi, sono in mezzo alla strada a causa di questa strana gestione dei beni societari? Chi ha combinato tutto questo danno economico e sociale pagherà?
La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.
L’avevamo scritto a marzo 2015, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il“Caso Saguto, tutti sapevano ma avevano paura”. Parla Pino Maniaci, direttore di Telejato, il giornalista che ha scoperchiato lo scandalo della gestione dei beni confiscati alla mafia in Sicilia, scrive Alessio Di Florio su “Pop Off”. Pino Maniaci è il direttore di Telejato, coraggiosa emittente televisiva siciliana impegnata da tantissimi anni in denunce e inchieste contro mafie e malaffare. In queste settimane è “esploso” il caso della gestione dei beni confiscati finiti nel mirino della Procura di Caltanissetta che accusa Silvana Saguto (ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, dimessasi dopo l’esplodere del caso) di aver costruito un vero e proprio sistema di pochi amministratori giudiziari “amici”.
Pino, tu già negli anni scorsi hai denunciato quanto stava accadendo. Puoi farci un brevissimo riassunto della vicenda?
«Praticamente si è scoperta una parentopoli che definisco di ladri, un “verminaio” con un uso e consumo personale dei beni sequestrati. Pochi noti venivano nominati amministratori e li portavano al fallimento, così non dovevano rendicontare neanche i loro emolumenti e presentare i bilanci alla Camera di Commercio. L’ho definita l’allegra gestione della mafia dell’antimafia».
L’inchiesta di Telejato come iniziò? Da dove hai cominciato a scoprire quel che succedeva?
«Tutto è iniziato circa 5 anni fa. 20 operai in un bene sequestrato (cave) stavano per essere licenziati con la scusa della mancanza di lavoro. Quella sera chiamai Salvatore Benanti, che ne era l’amministratore Giudiziario per chiedere spiegazioni, lui rispose “lei mi sta disturbando perché sto cenando”, al che gli feci notare che c’erano dei lavoratori che rischiavano di non poter più cenare per quanto stava accadendo. Alla fine, disse di essere disponibile il giorno dopo ma non venne e trovai la strada sbarrata da un carabiniere. Alla mia frase “ma questo bene non è sequestrato? Quindi è anche mio” minacciò di chiamare il giudice del tribunale e risposi “se vuole li chiamo io”. Quando capì che non mollavo mi fece entrare offrendomi un caffè che rifiutai dicendo “non voglio un caffè, voglio Benanti”. Uscito da lì mi recai in tribunale dove la Saguto non mi volle ricevere. Andai dal presidente tribunale Guarnotta, da cui dipende direttamente la Saguto. Chiesi a Guarnotta come mai i nomi erano sempre gli stessi, la risposta fu che c’era un albo (con più di 4.000 nomi) e che i prescelti o sono bravi o “gli piacciono i piccioli”. Al che risposi che la risposta era sicuramente la seconda perché sapevo di molti fallimenti e quindi bravi non erano. Ero appena rientrato a Telejato che Guarnotta mi richiamò dandomi il numero di cellulare della Saguto. La chiamo e mi rispose che poteva ricevermi subito e ci vedemmo alle 17.30 (anche se a quell’ora il tribunale era chiuso). Mi disse di mandarmi via email le domande che volevo porgli. La sensazione che ho avuto fu che io volevo sapere come funziona la gestione e le nomine e lei invece voleva capire cosa avessi scoperto. Scrivo e mando 10 domande, tra cui su Cappellano Seminara, il “re degli amministratori” con 96 incarichi, e la voce che il marito della Saguto lavorasse proprio con Cappellano Seminara. Mi rispose dopo un mese con tre righe che non era suo compito rispondere. Da lì cominciai ad occuparmi della vicenda su cui arrivai a trasmettere quasi ogni giorno un servizio».
Come mai ci sono voluti anni per arrivare a questo punto? Come è possibile che una televisione sia “arrivata” anni e anni prima?
«Più andavo avanti e più vedevo che tutti sapevano ma avevano il “sacro terrore” della Saguto che in un’intervista dichiarò “l’antimafia sono io”. Nei giorni scorsi in una cava di Trabia (in provincia di Palermo) un ex dipendente ha ucciso due ex colleghi. La cava è stata sequestrata nel 2007 e l’amministratore nominato dal giudice è Cappellano Seminara, che ha dichiarato in queste ore che l’inchiesta di Caltanissetta ha scatenato risentimento e voglia di ritorsione contro gli amministratori. Il coadiutore (per ogni impresa vengono nominati 3 coadiutori che collaborano con l’amministratore) del bene è il figlio del cancelliere del tribunale misure prevenzione. Riassumendo sulle nomine si crea una vasta rete di interessi convergenti».
La notizia ha conquistato ampio spazio in quotidiani e televisioni nazionali ma quasi nessuno ha citato Telejato. Secondo te come mai? Disattenzione, superficialità, censura o altro?
«Quando iniziai chiesi aiuto alle grandi trasmissioni televisive, che mi lasciarono solo. Adesso siamo forse al “rimorso di coscienza”».
Hanno destato recentemente scalpore le parole di Nicola Gratteri su associazioni antimafia e sui finanziamenti che alcune ricevono. In recenti interviste hai dichiarato di essere abbastanza d’accordo con quelle parole. Perché?
«L’antimafia non deve diventare un business, anzi dovrebbe essere nel cuore di tutti, altrimenti si rischia di diventare come i mafiosi. Io sostengo l’antimafia sociale dal basso non quella che riceve finanziamenti a iosa. Telejato non si fa pagare da nessuno».
Hai iniziato l’avventura a Telejato nel 1999, acquistandola da Rifondazione Comunista. Come mai una tv locale con un singolo ha avuto questa crescita?
«Telejato aveva 60 milioni di lire di debito con il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni che io saldai evitandone così la chiusura. Telejato fa giornalismo normale (denunce, inchieste su politica, mafia, malaffare etc.) in un Paese dove il giornalismo spesso non è normale. Noi da subito “fuori dagli schemi” facemmo nomi e cognomi, irridendo e definendo anche “pezzi di merda” mafiosi e collusi».
Si potrebbe replicare l’esperienza di Telejato anche in altre regioni? Potrebbe essere ipotizzabile una rete di tante Telejato sparse su tutto il territorio nazionale?
«Purtroppo la legge non permette altre concessioni. Col passaggio al digitale abbiamo aperto Telejunior, aperto a ragazzi e ragazze di tutta italia a cui garantiamo anche vitto e alloggio. Tantissimi in questi anni sono passati di qui, facendo vero giornalismo, andando per le strade consumando le suole delle scarpe e con la schiena dritta, e al ritorno hanno aperto blog, web tv ed altro. Tra tutti quelli che sono passati di qui vorrei ricordare Salvo Ognibene, Nicola Capizzi e Ivano Asaro».
Se qualcuno, conoscendo la tua storia volesse seguire l’esempio di Pino Maniaci e Telejato tu cosa gli consiglieresti?
«Tanti, troppi, in tutta Italia, stanno personalizzando su di me, e non deve essere così, anche perché invito i ragazzi ad aprire siti, blog e a parlare di mafie, rimanendo sempre se stessi perché sognano e serve un’Italia più normale e legale. E nei giovani ho tanta fiducia. Per parlare di mafia, per fare inchiesta non è necessario avere il tesserino da giornalista perché siamo tutti cittadini e l’articolo 21 della costituzione afferma che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”. Io sono stato assolto dall’accusa di “esercizio abusivo della professione di giornalista” grazie a quanto stabilito da quest’articolo».
Beni confiscati, Pino Maniaci: “Noi piccola tv che avevamo previsto lo scandalo 3 anni fa”. Intervista a Pino Maniaci, il direttore della piccola e combattiva Telejato che da anni aveva già puntato la luce sullo scandalo dei beni confiscati che a Palermo ha messo sotto accusa la presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale Silvana Saguto. "Da quasi 3 anni abbiamo fatto i nomi e i cognomi ma tutti avevano paura dei poteri forti". "Oggi l'antimafia ha scoperto l'odore dei soldi e il giornalismo servile ha fatto il resto".
Giornalismo serio, scrive Salvatore Petrotto. Ecco cosa significa fare giornalismo sul serio…Speriamo che la lezione che segue, impartita all’Italia intera, a loro carissime spese, mettendo quotidianamente a repentaglio la loro vita e quella dei loro familiari, ci riferiamo a Pino Maniaci, Salvo Vitale ed a tutto lo staff di Telejato, possa servire anche ai ‘mezzi busti’ delle TV e degli organi di informazione regionali, per così dire ‘istituzionali’, con RAI TRE Regione in testa. Cosa vuol dire essere istituzionali? Tirare a campare, facendo tiare le quoia alla Sicilia, fare finta di niente, come è avvenuto nell’immediato passato riguardo alle vicende legate all’illegale e disastrosa gestione dei beni confiscati alla mafia? La stessa operazione-bavaglio è stata messa in atto anche tacendo, ad esempio, su un’altrettanta illegale gestione dei rifiuti che ha provocato buchi per 2 miliardi di euro nei bilanci dei comuni siciliani, tutti quanti trascinati verso il fallimento, un vero e proprio disastro ambientale e le tariffe sui rifiuti che sono il triplo della media nazionale. E RAI TRE regionale si è mai occupata seriamente di affrontare i temi relativi all’illegale gestione di rifiuti ed acqua in Sicilia? Neanche per sogno! O se l’ha fatto, quando non ne ha potuto fare a meno, si è dedicata all’argomento in maniera del tutto fugace, una sorta di tira e svigna diremmo in Sicilia, ovvero un colpettino e via e poi tanto silenzio. E dire, che proprio la RAI dovrebbe garantire il cosiddetto servizio pubblico. Ma nel nostro caso credo che si può benissimo parlare piuttosto di silenzio pubblico! E sapete da chi è diretta la nostra prestigiosa testata regionale? Da un signore al quale, il sottoscritto, nella qualità di sindaco del paese di Leonardo Sciascia, nel 2000, gli conferì la cittadinanza onoraria, in quanto di fatto originario di Racalmuto, ossia Vincenzo Morgante. Ma il Morgante, forse per un inspiegabile e mal celato rispetto nei miei confronti, di tutto questo e di tanto altro ancora che riguarda anche la scellerata gestione dell’acqua in Sicilia, non ha mai parlato nei suoi TG ed ha forse impedito ai suoi colleghi, o per meglio dire a quelli che lui considera suoi sottoposti, di parlarne. Gli avrò inviato, nella sua casella di posta elettronica personale ed in quella di qualche suo collega, anch’egli originario di Agrigento, Alfredo Conti, almeno un migliaio i e-mail relative alla gestione di rifiuti ed acqua in Sicilia; tutte quante correlate da una fitta documentazione e vi giuro che, e chi mi conosce sa quanto sono assillante, sul numero delle email inviate a RAI TRE REGIONE, non esagero. Mi verrebbe da dirgli, stavolta, abbandonando il gergo racalmutese che il direttore della testata giornalistica, e non solo, di RAI TRE REGIONE, Vincenzo Morgante, ben conosce, e facendo a meno della lingua italiana ed aggrappandomi disperatamente ad un idioma più colorito e forse più immediato, ossia quello napoletano: ué paisà sttai accuortu!. Non sono mica un megalomane od uno stalker dell’informazione! Ho semplicemente cercato di comunicare alla RAI il contenuto di tutte quante le mie denunce, in materia di gestione di rifiuti ed acqua; peraltro inoltrate alla Procura della Repubblica di Agrigento, a quella di Palermo, a quella di Caltanissetta, a Raffaele Cantone, nella sua qualità di presidente della’Autorità Nazionale Anticorruzione e che ho segnalato a tutte quante le altre autorità nazionali di controllo, non ultima la Commissione Bicamerale che sta indagato sull’illegale gestione del ciclo dei rifiuti in tutt’Italia. Mi sono persino recato, il 20 maggio scorso, personalmente a Roma a mie spese, per partecipare ad un’audizione davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, nella qualità di ex sindaco di Racalmuto, il paese dove il direttore di RAI TRE Morgante ha trascorso gran parte delle sue estati quando era un giovane virgulto del giornalismo nostrano. Ma le mie prorompenti prese di posizione, riguardo alla illegale gestione di rifiuti ed acqua in Sicilia, le mie reiterate denunce pubbliche e nelle sedi giudiziarie al Morgante ed al suo staff non interessano affatto. A RAI TRE REGIONE è sfuggito, miracolosamente, tutto questo mio attivismo in tutte le sedi, amministrative e giudiziarie. Nessun giornalista RAI si è accorto dei miei numerosissimi servizi, riguardo sempre all’illegale gestione dei rifiuti e dell’acqua in Sicilia, pubblicati in un centinaio di testate giornalistiche online; nessuno di loro si è mai accorto delle mie interviste televisive e radiofoniche, non ultime quelle su radio radicale o su Radio Amore di San Cataldo. Nessuno ha sentito niente, nessuno ha visto niente! E dire che ancora mi ostino ad inviare nelle caselle di posta elettronica dei giornalisti di TAI TRE REGIONE, Morgante e Conti queste mie ulteriori sollecitazioni che, spero, non risultino offensive. Ma è la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, lo giuro! Se vi è di conforto, in Sicilia, non siete i soli, voi di RAI TRE REGIONE, a soffrire di strabismo, per così dire giornalistico; anzi, siete in buona compagnia! Basterebbe a questo punto citare soltanto il Giornale di Sicilia, altro fulgido esempio di informazione libera! E qui mi fermo per non urtare la suscettibilità di quanti, obtorto collo, lavorano al servizio di queste prestigiose testate giornalistiche. Credo che in fondo che per capire ciò che sta accadendo al sottoscritto basta evocare, come ha fatto Salvo Vitale di Telejato ciò che voi combinate con la sabbia dei nostri litorali; il fondato sospetto che abbiamo, io, Salvo ed anche Pino Maniaci è che quando c’è da insabbiare delle scottanti notizie che riguardavano ieri dei beni confiscati alla mafia ed oggi l’illegale gestione di rifiuti ed acqua in Sicilia, alcuni di voi, ben piazzati dai potentati di turno, nei posti chiave, nelle testate giornalistiche chiave, siete disposti anche a recarvi a piedi nudi nel deserto del Sahara, pur di coprire tutto quanto di sabbia; e tutto perché si possa continuare a dire, in maniera vittimistica (scusate se questa volta sono costretto a parlarvi in siciliano, ma non trovo di meglio che il nostro dialetto): cu ti lu fa ffari, munnu ha statu e munnu è, calati iuncu ca passa la china. Del giornalismo degli ignavi, di coloro in quali come direbbe il sommo Poeta, Dante la cui …cieca vita è tanto bassa e che non hanno speranza di morte non ne possiamo più, non sappiamo che farcene. I Siciliani, secondo la vostra, per così dire, impostazione giornalistica, dobbiamo solo lamentarci tra di noi in modo tale da onorare il nostro, o per meglio dire il vostro contesto di riferimento ossia l’hic sunt leones, dove la sabbia della più irrazionale tradizione copre subito l’orma di ogni ardimento? Adesso godetevi la lezione di Pino Maniaci …
Nei corridoi del Tribunale di Palermo qualcuno dice che "è un cosa grossa, questa volta salta qualcuno" e in effetti basta dare un'occhiata agli indagati per capire la portata dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia (partita dalla Procura di Caltanissetta) che coinvolge la presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto insieme al marito e all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei "pezzi grossi" tra gli amministratori giudiziari in Italia, scrive Giulio Cavalli su "Fan Page". I reati contestati sono corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio e anche gli uffici all'interno del tribunale palermitani sono stati passati al setaccio dagli uomini della Guardia di Finanza. In breve, secondo le accuse, i tre avrebbero fatto parte di un sistema criminale che avrebbe avvantaggiato economicamente gli amministratori giudiziari "svuotando" le imprese confiscate alla mafia usate come salvadanaio personale. Siamo ben lontani dallo spirito della legge che Pio La Torre pensò come arma contro le cosche, prima di esserne vittima. Ma soprattutto ancora una volta, per l'ennesima volta, l'antimafia istituzionale subisce l'ennesimo colpo ad una credibilità che sembra sempre più difficile ricostruire. Pino Maniaci, direttore della piccola televisione comunitaria "Telejato", già da due anni aveva raccolto i numeri di una vera e propria "oligarchia nella gestione dell'antimafia" durante i suoi servizi giornalistici, aggiungendoci anche una denuncia, proprio a Caltanissetta. Niente di nuovo per chi, con pochi mezzi (e in una quotidianità fatta di minacce mafiose, auto esplose e cani impiccati) a Partinico ha imparato a guardare il potere negli occhi, senza paura. Per questo è d'obbligo ricostruire la vicenda con lui:
Pino Maniaci, quindi adesso tutti si stupiscono?
«Sono più di due anni che noi continuiamo a denunciare quella che è il malaffare sulla gestione dei beni confiscati, o meglio: la corruzione, come sta venendo fuori, nel Tribunale di Palermo. Io più volte l'ho definito "un verminaio", è il triangolo delle Bermude (Saguto, marito e Cappellano Seminara)…»
Eppure quando l'ex direttore dell'Agenzia dei Beni Confiscati, il prefetto Caruso, aveva parlato di "troppi interessi in mano a pochi" non era stato preso molto sul serio…
«Caruso aveva parlato con carte alla mano. E dalle carte si evince chiaramente che questi amministratori, scelti sempre tra una ristretta rosa di una decina di nomi, non hanno fatto altro che arricchirsi, succhiare le risorse di queste aziende strappate alla mafia. E, cosa ancora più grave, da amministratori giudiziari si infilavano nei Consigli di Amministrazione finendo per essere controllori e controllati. Immagina che su un bene gestito da Cappellano Seminara la sua "parcella" presentata allo Stato era stata di 7 milioni di euro. Tieni conto che ne gestiva 94 e viene facile immaginare quanto fosse il suo guadagno».
Avete provato a fare un calcolo a spanne?
«Per difetto, tra i 30 e i 40 milioni di euro all'anno…»
Ma che sensazione ti lascia il fatto che ci hai messo quasi tre anni per farti ascoltare?
«Io sono stato a Caltanissetta circa un anno fa e ho denunciato facendo nomi e cognomi come siamo abituati a fare qui a Telejato. Portando ovviamente le carte. Oggi leggo da Il Giornale di Sicilia che dopo la mia denuncia le indagini sono cominciate subito, tant'è che alla fine anche il mio telefono è stato messo sotto controllo».
Quindi è l'informazione che arriva prima della magistratura…
«Certo. Fatta bene l'informazione incide, corregge e diventa determinante per un territorio. Solo che in Italia abbiamo un giornalismo spesso di lecchini (a destra e a sinistra) che non fanno il proprio dovere».
Eppure tu nella sede di Telejato pur con tutte le difficoltà, continui a "crescere" giornalisti che arrivano da tutta Italia…
«Sai qual è la soddisfazione più grande? Michela Mancini, ad esempio, è nata con noi e adesso lavora in Rai oppure penso a Gaetano Pecoraro che da Telejato è finito a Le Iene e tantissimi altri ragazzi che con la schiena dritta sono finiti in altre testate giornalistiche. Certo hanno il problema dello scontro con gli editori politicizzati…»
Quindi davvero l'informazione funziona solo perché libera?
«L'informazione libera, in Italia: ti ricordo che siamo al 74esimo posto dopo il Burkina Faso, quindi… Oggi per fortuna ci sono tanti blogger, giornalisti che attraverso internet riescono ad esprimere liberamente le proprie idee e le proprie opinioni».
Eppure Telejato continua a costare tantissimo sia a te e alla tua famiglia. Dopo anni di minacce, querele, non pensi che il prezzo da pagare sia troppo alto?
«Purtroppo Il "Paese Italia" non è un Paese normale e quando tu fai semplicemente il tuo dovere (che dovrebbe essere di ogni giornalista onesto) denunciando il malaffare e lavorando per liberare la tua terra dal cancro mafioso facendo nomi e cognomi di questi pezzi di merda alla fine rimani comunque solo e diventi o bersaglio o punto di riferimento. Se tutti facessero il proprio dovere certo le mafie non potrebbero fare saltare centinaia di auto o impiccare migliaia di cani».
Tu sei sempre stato critico con l'antimafia più istituzionale…
«Soprattutto con loro! Certo!»
E come mai poi qualcuno, come nel tuo caso, si ritrova fuori dal "salotto buono" dell'antimafia?
Vedi, la mafia ha scoperto l'antimafia, partiamo da questo. E ti aggiungo anche qualcosa di più grave: l'antimafia ha scoperto l'odore dei soldi. L'antimafia ha scoperto gli affari. Lasciando perdere la politica (che il politico più pulito che conosco ha la rogna): tanti sono diventati "senatori antimafia" o "presidenti antimafia" costruendoci sopra una carriera. E proprio ora viene a galla quanti contenitori vuoti ci siano nel mondo dell'antimafia».
Quindi?
«Quindi nell'antimafia c'è bisogno di farsi un bell'esame di coscienza e di fare pulizia. L'antimafia a pagamento diventa ovviamente mestiere. Esse contro la mafia è nel cuore del cittadino onesto e non si possono chiedere contributi per fare antimafia…»
Andiamo nel concreto…
«Subito! Io ormai sono un "buttana" dell'antimafia: giro l'Italia, vado nelle scuole e non ho mai chiesto una lira se non il biglietto del viaggio, mangiare un panino e dormire in un sottoscala. Questo è attivismo antimafia. Il resto è un'altra cosa».
Quindi sei d'accordo con Gratteri (magistrato calabrese da anni impegnato nella ‘ndrangheta nda) che dice che nei movimenti antimafia non ci devono essere soldi?
«Di più: io sono d'accordo con Gratteri anche quando dice "chiudiamo la DIA", visto che in Sicilia è diventata un "dependance" delle misure di prevenzione, non hanno più iniziative ed eseguono solo gli ordini dei tribunali. Sono d'accordo anche con Cantone (presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione) che dice che la legge sui beni sequestrati va immediatamente modificata perché non può consentire l'arricchimento di quattro ladri che portano alla rovina un'azienda e buttano in mezzo alla strada migliaia di persone per poi farla fallire appena finiscono i soldi».
Dici che il giornalismo arriva prima della magistratura…
«Ma in questo caso dentro il Tribunale di Palermo molti sapevano prima che lo dicessi io. Solo che avevano paura dei poteri forti e la Dottoressa Saguto è considerata un "potere forte". Qualcuno addirittura parla di massoneria, per darti un'idea. E a questo punto ovviamente il messaggio che passa è "di chi ci possiamo fidare? Di nessuno". Tieni conto che a Palermo si gestisce il 40% dei bene sequestrati e confiscati in tutta Italia. Dai 30 ai 40 miliardi di euro, come una manovra finanziaria nazionale. Soldi che non ritornano alla collettività ma stanno dentro un "cerchio magico" costruito intorno alla Saguto. E dico questo da anni sapendo che se le mie parole fossero false sarebbe vilipendio a pezzi dello Stato, roba da arresto. E invece non mi ha arrestato nessuno».
Sei stato chiaro. Sì.
«E non solo: con l'accusa di abuso di ufficio, corruzione e tutto il resto in capo alla Silvana Saguto in qualsiasi altro caso il CSM avrebbe immediatamente sospeso dall'incarico il funzionario e non sarebbe stato scandaloso se sequestrassero i beni a lei e al marito. Del resto è lo stesso metodo che lei ha adottato quando è intervenuta sui beni mafiosi. Lei e la sua banda. E non capisco perché non ci dovrebbe essere il rischio di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove, e quindi le manette».
E poi il giochetto solito sarà dirti che se sei contro l'antimafia stai facendo un favore alla mafia…
«Noi siamo per la legalità e per il rispetto della legge. Un bene confiscato è "cosa nostra" quindi appartiene a me, a te alla collettività. Se viene dilapidato e poi consegnato al Tribunale fallimentare, non è un furto?»
E quindi di chi dovremmo fidarci?
«Ci sono magistrati e giudici in prima linea che fanno il proprio dovere e rischiano la pelle: il Tribunale di Palermo non è da buttare. Ma le mele marce vanno segnalate a voce alta. Con forza».
Ma tu riesci ad essere ottimista? Cosa ti spinge tutte le mattine ad impugnare microfono e telecamera?
«Ti porto un esempio pratico: la nostra televisione copra una cinquantina di comuni. Erano venticinque ma con il digitale terrestre siamo arrivati a cinquanta. Siamo sbarcati su Palermo, Bagheria, Termini Imerese… noi pensiamo che una buona informazione possa cambiare un territorio: a Partinico era impensabile che nascesse un'associazione antiracket e invece con Telejato è nata "Liberjato" che comprende professionisti di ogni tipo disposti a denunciare. Le cose cambiano. Lentamente ma cambiano. E noi abbiamo enormi difficoltà economiche per stare in piedi. Stringiamo i denti, mangiamo panini perché il territorio cambia. I cittadini sono la mia migliore scorta e i miei migliori informatori».
Intervista di Corto Circuito a Pino Maniaci, coraggioso giornalista siciliano. Pino Maniaci è direttore della piccola emittente televisiva siciliana Telejato, da più di dieci anni in prima linea nella lotta contro la mafia. Telejato con sede a Partinico, in provincia di Palermo, ha un “bacino d’utenza” caratterizzato storicamente dalla forte presenza mafiosa: Corleone, Cinisi, Montelepre, Alcamo, Partinico, Castellammare del Golfo, San Giuseppe Jato. Pino Maniaci ha ricevuto molteplici minacce e subito diversi attentati mafiosi, tra i più gravi c’è l’incendio dell’auto e il pestaggio ad opera del figlio di un boss mafioso. Telejato e Pino Maniaci sono considerati, a livello internazionale, un baluardo della lotta contro le mafie e della libera informazione. Abbiamo contattato telefonicamente Pino per un’intervista.
Che cos’è Telejato?
«Telejato è definita la più piccola emittente d’Italia, anche se non credo sia così, la definiamo così in modo paradossale per dire che dalla più piccola emittente d’Italia, sotto la direzione di Pino Maniaci dal 1999, si fanno nomi e cognomi dei mafiosi presenti nel nostro territorio, un po’ come l’ufficio anagrafe. Abbiamo anche un nostro motto -molto bello- che dovrebbe diventare il motto di tutti siciliani onesti “loro si sentono uomini d’onore e per noi disonorarli è una questione d’onore”, questo è il vessillo che si è dato Telejato nel tempo per combattere questo cancro della nostra società -della Sicilia- chiamato mafia. Telejato la rilevai nel 1999 perché stava per chiudere e da lì iniziò un’avventura che sinceramente non pensavo mi portasse a tanto, nel senso di minacce, intimidazioni e quant’altro. Abbiamo comunque deciso di andare avanti “senza se e senza ma” e di combattere questo fenomeno».
Chi è che ce l’ha con lei Pino Maniaci? Ricordiamo che ha ricevuto più di 250 querele, come mai?
«Siete un po’ arretrati: siamo a 304 (ride, ndr), le querele arrivano in continuazione. La maggior azionista delle querele è la signora Bertolino, proprietaria dell’omonima distilleria, la più grande distilleria d’Europa all’interno del centro abitato. La distilleria inquina, lei ci querela. La signora è figlia di Giuseppe Bertolino, l’autista Al Capone, e cognata di Angelo Fino, il Ministro dei lavori pubblici di Totò Riina: un bel personaggio. Poi ovviamente anche politici e non ultimo, ti do una chicca, adesso abbiamo cambiato mentalità qui in Sicilia dalle nostre parti: la mafia non spara più, querela. Infatti siamo stati querelati da un boss mafioso perché abbiamo detto che ha preso legnate dalla moglie, gli abbiamo dato anche la disponibilità dei nostri studi per poter eventualmente replicare e dirci che non è vero. (ride, ndr)»
A proposito di malavitosi: le è mai capitato d’incontrare di persona qualcuno di cui aveva parlato nel suo telegiornale?
«Scendendo dalla televisione c’è la macchina dei carabinieri, noi viviamo sotto tutela, ma anche con i carabinieri dietro mi è capitato di andare al bar e lì incontrare il mafioso di cui avevo parlato prima, continuare a deriderlo e a sfotterlo. Noi appunto facciamo questo: li denigriamo».
Questa è forse la cosa peggiore per un mafioso?
«Per loro essere derisi, essere additati è terribile. Quindi noi conteniamo a sfotterli […] per far capire anche ai nostri telespettatori che questi non sono uomini d’onore, ma sono dei PDM: non è un partito, significa “pezzi di merda”».
Molto chiaro direi. […] Secondo lei l’omertà è un problema culturale? Come si fa a sconfiggere?
«Con il tempo. L’omertà -hai detto benissimo- è un problema culturale radicato da 150 anni o forse più, quindi non è che in un anno o in dieci anni distruggi quello che ormai è una cultura: ci vorrà del tempo, noi di tempo ne abbiamo. Un nostro motto siciliano è “dammi tempo che ti faccio il buco”».
Lei recentemente ha ricevuto una lettera minatoria con scritto “non parlare di cose che non ti appartengono”. Di cosa si sta occupando e di cosa sta parlando ultimamente Pino maniaci e Telejato?
«Beni confiscati alla mafia che ritornano nella possibilità e nella gestione dei mafiosi, un punto molto delicato. Siamo molto attenti al messaggio che i beni confiscati alla mafia lanciano alla collettività, passare il messaggio che questi attraverso prestanome o attraverso varie agenzie possano ritornarne in possesso è dirompente, quindi noi stiamo attenti che questo non succeda. Abbiamo ad esempio denunciato un cementificio ritornato nella possibilità della famiglia mafiosa a cui era stato sequestrato, abbiamo quindi toccato degli interessi. La mafia s’incazza quando gli tocchi le tasche. Dirgli che fanno schifo, che sono pezzi di merda, ecc. loro lo sanno e già ci hanno fatto il callo, ma toccare quelli che sono i loro interessi economici diventa per loro dirompente e lì si rischia la pelle».
Lei comunque ha l’appoggio di migliaia di persone, come fa invece un cittadino qualsiasi al sud a riuscire a dire no e a ribellarsi alla mafia? Soprattutto per la paura, la paura di ritorsioni verso i propri familiari.
«Ti dico una cosa bellissima: ci sono le istituzioni. Le istituzioni ci sono e noi ancora ci crediamo. Addirittura molte lettere -anche anonime- con denunce bene circostanziate arrivano a Telejato, come dire che Telejato è un’istituzione più seria delle istituzioni: noi ci facciamo carico di essere da tramite e di denunciare anche al posto di chi ha paura. Il messaggio che noi mandiamo è certamente quello di incoraggiare i nostri concittadini a denunciare mettendoci la faccia, ma visto che per il momento hanno paura siamo noi a prendere il fuoco con le mani, cioè a fare le loro veci».
Complimenti e continuate così! Grazie mille per la disponibilità. E’ stato un grandissimo piacere.
Intervista a Pino Maniaci a cura di Beniamino Piscopo bennyy89@hotmail.it Raccontare, per alcuni vuol dire resistere, per altri qualcosa di più, significa esistere. È il caso di tanti giornalisti sottopagati e con le pezze al culo che hanno fatto del loro mestiere una sorta di missione. Uno di questi è Riccardo Orioles, una volta mi ha detto che il giornalista non è un lavoro da fighette, un mestiere di elite. Non ha il prestigio del professore o di uno scrittore, tantomeno quello del giudice o di un qualsiasi intellettuale. Il vero giornalista è come il fabbro, l’idraulico, il metalmeccanico. È un operaio specializzato, un artigiano della parola. Raccontare, al di la della ricerca estetica della prosa, perche scrivere per un vero giornalista, è meno importante che informare. Raccontare, senza narcisismi, perché i veri giornalisti non hanno nemmeno i pezzi firmati, hanno un contratto a termine e di solito restano per sempre dei precari. Raccontare per resistere, raccontare per esistere. È quello che da anni fa Pino Maniaci e la sua Telejato, una piccola tv locale privata, una delle tante. Una delle poche a farlo in terra di mafia, a Partinico, dove la vera cronaca equivale a un atto di guerra. Significa andare in redazione con la scorta e avere i carabinieri che ti aspettano sotto casa. Significa paura, per se stessi e i propri cari, paura che diventa rabbia, rabbia che si fa coraggio e ti da la forza ogni giorno di andare avanti. Raccontare per resistere, raccontare per esistere. Perché esistere equivale a essere protetti dalla propria notorietà. Se arrivi alla gente sei qualcuno. Il tuo pubblico diventa allora la tua scorta e il tuo nome, la tua garanzia. Con i tagli da 37 milioni, effettuati dal governo Berlusconi alle tv locali private, Telejato chiuderà e Pino Maniaci smetterà di esistere. Eppure lui ne parla senza toni da vittima o arie da sconfitto, con la voce metallica consumata dalle sigarette e quel fatalismo zeppo di sarcasmo, tipico dei meridionali. Ne parla soprattutto a testa alta, fiero, col sorriso sornione, convinto ad andare avanti, che tanto uno in gamba come lui, una soluzione sa sempre di riuscire a trovarla.
D: Una piccola televisione locale che raggiunge appena venticinque comuni è diventata una sorta di miracolo. Com’è successo?
R: Per culo. Nel 99 Telejato stava per chiudere a causa del mancato pagamento di numerose tasse arretrate col ministero delle telecomunicazioni. Mi fu chiesto di rilevarla, così mi misi d’accordo con il ministero che mi dilazionò il debito. Pagando il doppio, di fatto riuscii a pagare anche gli arretrati. Poi è successa una cosa strana, non si capisce come, ma facendo il nostro dovere noi siamo diventati un qualcosa di eccezionale, con un’audience spropositato per una tv locale. Sono arrivati persino giornalisti dagli Stati Uniti per saperne di più, e in Francia hanno deciso di fare un film su Telejato. Il caso strano però non sono io, che faccio solo il mio lavoro ma gli altri che non lo fanno.
D: Si aspettava quando rilevò Telejato, tutto quello che poi le ha comportato?
R: No, tutto è successo con l’evolversi della faccenda. In sostanza, con la tv abbiamo iniziato a scendere sul territorio, territorio che offriva parecchi spunti di riflessione devo dire. Così abbiamo iniziato a denunciare, a fare nomi e cognomi e da li…
D: La sua TV mi ricorda a tratti la radio Aut di Peppino Impastato, nel senso che esorcizza il timore del male con lo sberleffo, la presa in giro. Come a dire, se si può ridere della mafia allora non fa cosi paura.
R: Una risata li seppellirà, tanto per dire una fesseria. I mafiosi hanno costruito un immagine di Cosa Nostra, fondata sull’onorabilità, il rispetto e tutte quelle minchiate. Denigrare quell’immagine è il nostro modo di togliere loro la corazza. Far vedere alla gente la merda che c’è dietro l’armatura. Anche se il paragone con radio Aut, secondo me è inesatto. La radio di Peppino era fortemente politicizzata, noi cerchiamo di fare la nostra parte senza farci mettere il cappello in testa dai partiti.
D: La rete è il mezzo di comunicazione delle nuove generazioni, vi permetterebbe di arrivare a un bacino di persone molto più vasto. Come mai non ha ancora deciso di sfruttarla?
R: Noi in rete ci siamo già con un nostro sito. A parte questo, secondo me in Sicilia, o comunque in quella parte di Sicilia che fa riferimento a noi, la rete non è ancore diffusa quanto si crede. Abbiamo ascoltatori che vanno dalla casalinga all’anziano di settant’anni, gene che con il computer non ha dimestichezza. Spostare completamente Telejato in rete li penalizzerebbe, e questo non lo accetto.
D: Un decreto legge del precedente governo, ha tagliato 37 milioni alle tv locali. C’è il rischio che una risorsa preziosa dell’impegno civile come Telejato, possa chiudere i battenti. Come pensate di sopravvivere?
R: Stiamo facendo di tutto per far ritirare il decreto. E se questo tutto non basta, allora una legge iniqua va violata. Noi continueremo ad andare in onda violando la legge. A quel punto possono fermarmi o sparandomi o sbattendomi in galera.
D: Qual è stata la soddisfazione più grande che le ha dato il suo impegno a Telejato?
R: Di soddisfazioni ne ho avute tante: avere mediamente 130mila telespettatori, avere condotto battaglie importanti e soprattutto averle portate a termine; ad esempio far chiudere le attività mafiose come la distilleria Bartolino, la signora titolare dell’attività, mi ha ringraziato con più di 200 querele. Soprattutto la vittoria che rivendico con più orgoglio è una vittoria culturale. L’aver convinto i commercianti di venticinque comuni a non pagare il pizzo ne è un esempio tangibile.
D: E da giornalista, la notizia che ha dato, di cui lei va più fiero?
R: Anche qui c’è ne sono parecchie. Ricordo la notizia del pentimento di Giusy Vitale, un boss in gonnella: siamo stati noi i primi a darla. Ma la notizia più bella è stata l’arresto di Binnù Provenzano. Anche in quel caso fummo noi, i primi ad arrivare sul posto.
D: Allora saprà dirmi come mai Provenzano sorrideva mentre veniva arrestato.
R: Sicuramente perché mentre veniva portato via, ascoltava la mia diretta sul posto nella quale dicevo “Provenzano si nutriva di cicoria per problemi alla prostata e di altri prodotti prelibati delle campagne corleonesi. In galera purtroppo non potrà godere di simili prelibatezze.” Evidentemente zio Binnù sapeva che mi sbagliavo, quello in galera con i soldi dello Stato mangia meglio di prima.
D: Che cos’è oggi la mafia?
R: Oggi la mafia in Sicilia si chiama Dell’Utri, se c’hai le palle di scriverlo bene, altrimenti come non detto.
D: La cupola, la lupara, il giuramento con il sangue erano elementi folkloristici di una Cosa Nostra che ormai si è definitivamente imborghesita? Oppure anche la mafia in giacca e cravatta di oggi tende a conservare simili rituali?
R: Può sembrare buffo ma ancora lo fanno. Alle soglie del 2012, la mafia dei colletti bianchi pratica la “punciuta” proprio come una volta, dai banchieri fino agli onorevoli.
D: Una volta la mafia imponeva la sua volontà attraverso la paura, facendo percepire la sua presenza sul territorio. Oggi preferisce svolgere le sue attività in maniera sommersa, come a voler dare l’impressione di non esistere. Quel’è più pericolosa, l’omertà o l’indifferenza?
R: Mettiamola così, dopo l’arresto di Totò Riina, Provenzano ha inaugurato la strategia della “sommersione”, una strategia tra l’altro lungimirante. Eppure le direttive del capo non sono state rispettati da tutti. Da noi, a Partinico, ancora si spara, 8 morti in poco tempo. Riguardo l’indifferenza, personalmente la reputo peggiore dell’omertà. In quest’ultimo caso certi comportamenti sono dettati dalla paura, un sentimento legittimo. Gli indifferenti invece non hanno scuse. Ma la Sicilia si è svegliata, ci sono tantissime realtà, associazioni civili che raccolgono sempre un più ampio seguito e non solo tra i giovani. Giù da noi abbiamo le mafie ma abbiamo creato gli anticorpi. Il nord ha le mafie ma non ha gli anticorpi.
D: Una domanda sul rapporto tra cinema e mafia. Alcuni film e fiction di successo, dal Padrino alla serie di Romanzo criminale, hanno riscosso grandissimi riscontri sia di pubblico che di critica. Eppure il rischio di apologia del male, è sempre dietro l’angolo. Sarebbe forse il caso di evitare film del genere? Anche a costo di imporre un limite alla libertà artistica e di espressione?
R: Ho grande rispetto per questi cosiddetti capolavori del cinema. Ma qui non siamo in America, nelle nostre realtà il rischio di emulazione è forte. È molto triste andare in una scuola media a Palermo e vedere ragazzini che recitano a memoria le battute del Capo dei capi. Vedendo scene simili, è forte la tentazione di dire con tutto il rispetto, a Coppola e soci, di andare a cagare loro e la bellezza artistica.
D: Ha paura?
R: Minchia se ho paura. Però di solito a questa domanda rispondo che a Telejato abbiamo tre stanze, la più grande è il bagno. Quindi quando abbiamo paura, almeno c’è un posto dove andare a cagare. Scherzi a parte, nel tempo ho ricevuto minacce e attentati anche gravi, che mi hanno imposto la scorta, però ho imparato a convivere con la paura e a convertirla in energia positiva. È normale averne, ma bisogna pur dare un esempio. Quando dicono che voi giovani siete il futuro vi dicono una minchiata. Voi non siete il futuro, siete il presente.
PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.
Mafia e informazione, ecco la relazione: “Non solo minacce, così i giornali sono contigui alla criminalità organizzata”. Dai licenziamenti in tronco agli attentati in chiaro scuro, dagli endorsement editoriali targati Camorra ai reporter rimproverati in redazione da boss di Cosa nostra, dagli editori indagati per concorso esterno agli amici dei padrini: ecco il documento esclusivo della commissione Antimafia sulle testate contigue e compiacenti a mafia, 'ndrangheta e camorra, scrive Giuseppe Pipitone il 5 agosto 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Sangue e inchiostro, notizie censurate e rimproveri che in redazione arrivano dalla viva voce di Cosa nostra, licenziamenti in tronco e attentati in chiaro scuro, endorsement editoriali targati Camorra e giornalisti pagati per non lavorare, basta che mettano il cappuccio alla penna. Non ci sono solo le minacce contro i giornalisti, non ci sono solo i tentativi di mettere a repentaglio l’incolumità dei reporter pur di bloccare l’uscita di una notizia, di un’inchiesta, di uno scoop. C’è, infatti, un’altra faccia dell’informazione nostrana ancora a grandi tratti sconosciuta, un aspetto finora mai raccontato sui giornali, perché è proprio dentro le redazioni che va in onda: un fenomeno rimasto per troppo tempo nell’ombra e che da sempre influisce direttamente sulla 73esima posizione occupata dall’Italia nella classifica della libertà di stampa. L’hanno battezzata “informazione contigua, compiacente o persino collusa con le mafie”, ed è l’oggetto della relazione approvata pochi minuti fa dalla commissione parlamentare antimafia. Decine di audizioni per ascoltare a palazzo San Macuto giornalisti, direttori di testata e magistrati, centinaia di pagine di verbali giudiziari, articoli di quotidiani, pezzi di storia nera dell’informazione italiana raccontati dai protagonisti superstiti per arrivare a dire che “esiste un reticolo di interessi criminali che ha trovato in alcuni mezzi d’informazione e in alcuni editori un punto di saldatura e di reciproca tutela”. È questo l’oggetto sul quale lavorano da più di dodici mesi un pugno di parlamentari dell’Antimafia guidati da Claudio Fava, vicepresidente di palazzo San Macuto, figlio di Giuseppe, giornalista ucciso da Cosa nostra nel 1984. Ottanta pagine di relazione finale, che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare in anteprima, per ripercorrere i due macro insiemi che pesano come un macigno sull’informazione italiana: da una parte le decine di cronisti minacciati ogni anno nei modi più diversi (dalle querele temerarie, agli avvertimenti, alle lesioni personali), dall’altra i giornali collusi con le associazioni criminali. “In entrambi i casi – scrive Fava nella sua relazione finale – a patirne le conseguenze è la libertà dell’informazione: chi intimidisce un giornale o corrompe un giornalista procura un immediato e rilevante danno sociale all’intera comunità civile”. Se l’Italia è il Paese con il più alto numero di reporter minacciati e sotto scorta del mondo occidentale, ha probabilmente battuto ogni record per quanto riguarda gli episodi di opacità che legano i giornali alla criminalità organizzata. Il gruppo parlamentare guidato da Fava ha messo nero su bianco un elenco di casi, in cui non occorre che mafia, ‘ndrangheta e camorra si attivino per minacciare i cronisti scomodi: è direttamente l’editore o il direttore a mettere loro il bavaglio.
Il caso Castaldo: pagato per non scrivere. È la terra che ha versato il contributo di sangue maggiore alla libertà d’informazione, con otto cronisti su nove assassinati perché facevano il loro lavoro. Ma dopo gli assassini di Mauro De Mauro e Mario Francese, dopo le minacce a Lirio Abbate, in Sicilia è calata la pax: non si spara più. Al massimo per far tacere un cronista lo si paga per non lavorare. È quello che è successo a Franco Castaldo: il quotidiano La Sicilia di Mario Ciancio gli paga regolarmente lo stipendio, dopo decine di cause, ma lui non lavora, e Ciancio gli impedisce di entrare nella redazione di Agrigento, dove risiede. Il motivo? Nel 1995 Castaldo ha raccontato le accuse di contiguità alla mafia mosse dalla magistratura a Filippo Salamone, l’imprenditore poi condannato definitivamente a sei anni e mezzo di carcere. “In seguito a un incontro tra Ciancio e il Salamone, ricevetti una letterina di tre righe: intendendo avvalerci della sua alta professionalità, la trasferiamo a Catania al settore cronache. Trasferito a Catania mi hanno messo in uno sgabuzzino. Ricordo che non avevo una scrivania né un telefono, mi sedevo nel posto del collega che quel giorno era di corta”, racconta lui davanti alla commissione antimafia. “Dopo effetto del mio primo articolo Salamone ha querelato e citato per danni me e il mio editore, ma prima ancora di arrivare al processo scoprii che Salamone aveva rinunciato ad ogni attività risarcitoria e ritirato le querele nei confronti di Ciancio”. Risultato? “Dal 1996 ad oggi sono diciotto anni che percepisco lo stipendio e ogni due anni un risarcimento del danno ma non ho più messo piede in redazione ad Agrigento”. Dopo aver perso una serie di cause Ciancio si è arreso: paga Castaldo basta che non scriva un rigo sul suo quotidiano.
Il caso Telecolor: una redazione epurata. E se Castaldo è pagato per non lavorare, licenziati in tronco (salvo cause vinte davanti al giudice del lavoro) sono stati invece i dipendenti della televisione catanese Telecolor. La loro colpa? “Eravamo un gruppo di giornalisti che non dovevano dire grazie a nessuno e quindi lavoravamo in maniera assolutamente autonoma”, spiega a palazzo San Macuto uno degli epurati, Domenico Valter Rizzo, raccontando anche le tappe della “normalizzazione” dell’emittente. “Ciancio crea un’agenzia, che si chiama Asi, diretta dalla figlia Angela: convoca i rappresentanti sindacali della redazione, il comitato di redazione e il direttore e dice in maniera molto chiara che l’agenzia avrebbe dovuto occuparsi totalmente dell’informazione, sarebbe stata una sorta di redazione parallela che avrebbe seguito i casi più sensibili, mentre noi ci saremmo occupati della parte residuale. La risposta è stata categorica: non se ne parla. Quindi vengono eseguiti i primi due licenziamenti: il direttore Nino Milazzo si è rifiutato e si è dimesso per protesta. A quel punto Ciancio convoca una redattrice, Michela Giuffrida (oggi europarlamentare del Pd ndr) che doveva essere anche lei licenziata, e la nomina direttore. Noi non votiamo la fiducia nei confronti di questa persona e sono scattati i licenziamenti per gli altri colleghi che rimanevano”. L’agenzia di stampa Asi chiuderà i battenti poco dopo.
Il caso Ciancio: deus dell’informazione sotto inchiesta per mafia. Il patron de la Sicilia Ciancio, con partecipazioni azionarie nel Giornale di Sicilia e nella Gazzetta del Mezzogiorno, già presidente Fieg e vicepresidente di Ansa, è attualmente indagato dalla procura di Catania per concorso esterno a Cosa nostra: recentemente gli inquirenti hanno rintracciato 52 milioni di euro nelle sue disponibilità depositati su conti svizzeri, 12 di questi sono stati sequestrati. Nella sua relazione Fava si occupa del caso Ciancio in maniera molto approfondita: dall’arrivo in redazione di Pippo Ercolano per rimproverare il giornalista Concetto Mannisi, reo di averlo definito un boss mafioso, con l’editore del giornale a fare gli onori di casa, alla lettera del boss Vincenzo Santapaola, recluso in regime di 41 bis, pubblicata integrale senza tagli o commenti, fino al necrologio del commissario Beppe Montana, assassinato da Cosa nostra, che invece viene respinto. Il motivo? “Il testo parlava di un delitto di mafia dagli alti mandanti”, spiegherà il giornale. “Anni dopo – dice la commissione – La Sicilia non mostrerà gli stessi scrupoli quando – il 30 luglio 2012, il giorno dopo la morte del capomafia Giuseppe Ercolano (lo stesso ricevuto da Ciancio nel suo ufficio in occasione della reprimenda verso il suo cronista) – il giornale pubblicherà ben tre necrologi di amici e parenti che ricordano l’Ercolano”.
Il caso del Giornale di Sicilia. Ma non c’è solo il caso Ciancio in Sicilia. “L’editore del Giornale di Sicilia era amico di Michele Greco, che in quel momento era il capo di Cosa nostra palermitana, e alcuni giornalisti erano amici di mafiosi. Stefano Bontate e Mimmo Teresi frequentavano spesso la redazione”, è uno dei passaggi della deposizione davanti la commissione di Lirio Abbate, ex collaboratore del principale quotidiano palermitano, poi giornalista dell’Ansa e oggi inviato dell’Espresso, oggetto di pesanti minacce di morte. “Come si vedrà – continua Abbate – e come si è visto da alcune indagini, a loro questi giornalisti rivelavano notizie e retroscena su alcuni fatti, in modo da tenere aggiornata e informata Cosa nostra. La mentalità mafiosa di mettere mano all’informazione fino a pochi anni fa, almeno fino a quando sono rimasto a lavorare a Palermo, non è cambiata”. Sono gli anni ’80, Palermo è scossa dalla guerra di mafia, dagli assassini di Carlo Alberto Dalla Chiesa e altre decine di servitori dello Stato, e Federico Ardizzone, patron del Giornale di Sicilia, decide di “normalizzare” il quotidiano. “Viene consegnata la lettera di licenziamento al direttore Fausto De Luca, mentre è in ospedale per fare la chemioterapia per un cancro ai polmoni. Lo licenziano in ospedale. Cambia di nuovo il consiglio di amministrazione, Ardizzone dice: “Abbiamo scherzato. Prima di dire mafioso a uno, voglio la foto”, racconta Francesco La Licata, firma storica de La Stampa, ex cronista de L’Ora e del Giornale di Sicilia, dove viene considerato cronista ingestibile, a causa di un problema: è l’unico che porta notizie al giornale. “Mi ricordo che se parlavi di un imputato mafioso te lo trovavi in redazione. Cassina veniva di persona, Lima pure… Le carte del maxi processo furono mandate per fax alle esattorie di Palermo. Nasce così la filosofia del presunto e l’interprete per eccellenza è stato Pepi, che è ancora lì”. Il riferimento è per Giovanni Pepi, il direttore più longevo d’Italia, in sella da 33 anni. “Lo vidi in occasione del matrimonio della figlia di Lipari, Pino Lipari, che lo salutò affettuosamente e mi disse che era un amico”, metterà a verbale il pentito Angelo Siino. “La Lipari – si giustificherà Pepi – era una collaboratrice del giornale, ed era la figlia. Per questa ragione mi trovavo a quel matrimonio. Mi presentò suo padre e lo salutai”. “In occasione di un altro mio colloquio con il Lipari questi mi disse che il Pepi avrebbe dovuto fare un’intervista al latitante Riina, concordata con il Lipari. Poi, però, non se ne fece nulla per l’opposizione di Antonio Ardizzone, che si preoccupava dei possibili riflessi negativi sul giornale” è un’altra delle accuse lanciata da Siino, molto simile a quella di un altro pentito, Vincenzo Sinacori. “Riina parlando di un suo possibile arresto aveva fatto riferimento alla necessità di proseguire con la linea dura che, qualora arrestato, egli avrebbe potuto rilasciare un’intervista solo al Pepi che riteneva l’unico giornalista serio”. Identica la reazione alle due contestazioni da parte di Pepi davanti la commissione antimafia. “Ne vengo a conoscenza solo adesso”. Il direttore del Giornale di Sicilia ha poi ricordato che il suo giornale ha appoggiato il movimento Addio Pizzo, ed ha intervistato l’imprenditore Libero Grassi, poi assassinato per essersi opposto al racket delle estorsioni. “Per completezza – annota la relazione – bisogna anche dar conto che, sotto il periodo della condirezione di Pepi, il Giornale di Sicilia ha dato spazio alle notizie su Cosa Nostra, in tempi più remoti pubblicando le inchieste di Mario Francese su argomenti che altri giornali non toccavano o, come già riferito dallo stesso Pepi, pubblicando i resoconti integrali del maxiprocesso che hanno fatto conoscere gli orrori di Cosa Nostra attraverso il racconto dei mafiosi divenuti collaboratori di giustizia”.
In Campania la pubblicità ai giornali la fa la Camorra. Dalla Sicilia si passa alla Campania, dove i rapporti tra giornali e associazioni criminali sono, secondo l’Antimafia, più evidenti. Nella terra che ha dato i natali a Giancarlo Siani e a Roberto Saviano capita anche che i boss della Camorra facciano endorsement pubblici in favore di un giornale. “In un caso, la Gazzetta di Caserta pubblicò la lettera che gli era stata spedita da Francesco Schiavone, all’epoca capo del clan dei Casalesi, che si congratulava con il direttore per quanto fosse bello quel giornale, lettera pubblicata in prima pagina, con l’indicazione che quel giornale gli piaceva più dell’altro, cioè del Corriere di Caserta, e che quindi avrebbe detto a tutti i suoi amici di cambiare giornale. In effetti, la Dda accertò che da un giorno all’altro ci fu un passaggio di 2.000 copie da una testata all’altra”, ha spiegato la senatrice del Pd Rosaria Capacchione, giornalista del quotidiano Il Mattino, finita sotto scorta.
Giornalisti minacciati in Calabria. Sansonetti: “Mica facevo il poliziotto”. “Il pentito Moio diceva: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra. E il giorno dopo mi ritrovo l’articolo con il virgolettato: la ‘ndrangheta a Reggio vota a destra perché è la parte politica che governa, altrimenti voterebbe a sinistra”, è uno dei passaggi messi a verbale a san Macuto da Lucio Musolino, ex giornalista di Calabria Ora, oggi collaboratore de ilfattoquotidiano.it. Musolino è stato destinatario di pesanti minacce da parte della ‘ndrangheta proprio negli stessi giorni in cui il suo ex giornale cambia direttore: dopo Paolo Policchieni arriva Piero Sansonetti. È con Sansonetti che si propone a Musolino il trasferimento da Reggio Calabria a Lamezia Terme, ed è sempre sotto la sua direzione che Musolino viene licenziato.”Ma la preoccupazione per le sorti personali, la salute fisica, l’incolumità di Musolino, è stata mai presente?” chiede la commissione Antimafia a Sansonetti. Che risponde: “Sono andato a fare il direttore lì, non il poliziotto”. La gestione di Sansonetti del quotidiano Calabria Ora è finita sotto la lente della commissione soprattutto per un altro motivo: le posizioni della testata sui collaboratori di giustizia. “Maria Concetta Cacciola apparteneva a una famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno, ci parla di una serie di omicidi e viene messa sotto protezione. Succede però che i familiari riescono a rimettersi in contatto con lei, la costringono a tornare a Rosarno, la costringono a registrare una ritrattazione delle dichiarazioni che aveva reso a noi e poi la trovano morta per aver ingerito acido muriatico, che purtroppo è anche un gesto evocativo, cioè una fine che viene riservata ai collaboratori di giustizia, a chi parla troppo”, racconta all’antimafia Giovanni Musarò, sostituto procuratore a Roma, ex pm a Reggio Calabria. “Qualche giorno dopo – continua il pm – partì una campagna stampa molto pesante su un quotidiano, L’Ora della Calabria. Erano degli articoli in esclusiva fatti per giorni e il titolo era: Cronaca di un suicidio annunciato. Veniva attaccata pesantemente la Dda di Reggio Calabria, il modo in cui era stata gestita”. Una situazione simile si verifica con il pentimento, poi ritrattato di Giuseppina Pesce, dell’omonima famiglia di ‘ndrangheta: L’Ora della Calabria da ampio risalto alla sua ritrattazione e attacca i pm pubblicando la lettera della pentita. Solo che in questo caso, Pesce fa di nuovamente marcia indietro, torna a collaborare e racconta agli inquirenti quello che era successo. “La lettera – spiega il pm Musarò – con la sua ritrattazione sarebbe stata data a Sansonetti perché l’avvocato diceva che era l’unico disposto a pubblicargliela e a sposare la loro causa”. Come si giustifica Sansonetti a San Macuto davanti a queste accuse? Con una semplice opinione: “Penso che spesso i pentiti siano indotti a parlare e che non sempre siano credibili”. Più o meno la stessa sensazione che viene fuori dopo aver letto il resoconto fatto dall’Antimafia sugli ultimi trent’anni di stampa italiana.
Sono più di duemila i giornalisti finiti nel mirino della mafia. L’Antimafia svela il dramma dei cronisti di frontiera. Sono giovani, senza contratto. Vittime di intimidazioni - anche al Nord - undici sono già morti, scrive Marco Sarti su “L’Inkiesta”. «Sono spesso corrispondenti, vivono in piccoli centri nei quali rappresentano l’unica voce informativa. Le ostilità solo all’ordine del giorno: gli sguardi maligni, le mezze parole, gli incontri per strada. Il termine “infame”, quello con il quale vengono apostrofati questi giornalisti, dice chiaramente della schizofrenia ambientale cui sono costretti: abitano quel territorio, ne sono parte integrante per cultura e abitudini, eppure sono considerati, per il lavoro che fanno, un corpo estraneo, qualcosa da espellere, un cancro». Ascoltato dalla commissione Antimafia, il giornalista Roberto Rossi ha descritto così la condizione di tanti cronisti calabresi. È un argomento che conosce bene, con la collega Roberta Mani ha pubblicato un libro su questa realtà. Si intitola Avamposto, nella Calabria dei giornalisti infami. Racconta l’isolamento che tanti colleghi sono costretti a vivere insieme alle loro famiglie, colpevoli solo del mestiere che hanno scelto. Sono professionisti di frontiera, spesso giovanissimi. In molti casi lavorano per pochi euro ad articolo, senza tutele contrattuali né legali. Ma la Calabria non c’entra. Quello dei giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata è un fenomeno diffuso in tutta Italia. Anche nell’insospettabile Nord. Adesso, per la prima volta, la commissione parlamentare Antimafia solleva l’attenzione su queste vicende. Al termine di un’indagine durata oltre un anno – con 34 audizioni e numerosi atti giudiziari raccolti - è stata approvata all’unanimità una lunga relazione. Il risultato è a tratti sorprendente. Negli ultimi otto anni sono stati denunciati oltre duemila atti di ostilità nei confronti di giornalisti italiani. Storie di violenza e intimidazione in costante crescita. Solo nel 2014, i cronisti vittime di minacce sono stati almeno cinquecento. Ormai si registrano tre casi ogni due giorni. Episodi gravi, che quasi sempre restano impuniti. Senza considerare gli oltre trenta giornalisti già sottoposti a misure di tutela dal Viminale. Sono professionisti di frontiera, spesso giovanissimi. In molti casi lavorano per pochi euro ad articolo, senza tutele contrattuali né legali. I risultati dell’indagine sono preoccupanti. In un Paese che ha già assistito all’assassinio di undici cronisti, si continua a sottovalutare il problema dell’influenza mafiosa sull’informazione. Chi si aspetta di leggere solo storie di giornalisti siciliani e calabresi rischia di rimanere deluso. In Italia non ci sono zone immuni dalla criminalità organizzata, né dai suoi tentativi di condizionare la libera informazione. Lo dicono i dati: lo scorso anno solo in Valle d’Aosta e Molise non si sono registrate intimidazioni nei confronti della stampa. L’area più pericolosa è il Lazio. Dall’inizio del 2015 qui sono stati denunciati 26 episodi di violenza. Seguono la Campania e la Lombardia. Due tra i casi più recenti riguardano proprio il Nord Italia. L’attentato sventato al giornalista Giovanni Tizian, che aveva raccontato le infiltrazioni mafiose nell’economia emiliana, ad esempio. E le minacce, ripetute, nei confronti della giovane giornalista Ester Castano in Lombardia. Salvo qualche eccezione, nella relazione non ci sono nomi di giornalisti famosi (era stato chiesto l’intervento di Roberto Saviano, che non ha dato la sua disponibilità ad essere ascoltato). Il fenomeno riguarda quasi sempre anonimi cronisti di provincia. «Sono professionisti poco conosciuti - spiega il vicepresidente della commissione Fava – Schivi, generosi, determinati. Raramente li incontreremo sulle ribalte mediatiche, ma leggeremo o ascolteremo spesso i loro racconti sul sistema di potere mafioso e i suoi innominabili amici». Professionisti giovani, spesso sotto i trent’anni. E quasi sempre impegnati in prima linea, nelle periferie d’Italia. Davanti alla commissione Enrico Bellavia, giornalista di Repubblica, ha raccontato bene la realtà siciliana. «Io ho avuto la grande fortuna di lavorare in una grande città, Palermo, il che consente comunque un certo anonimato nel privato. Cosa diversa è per chi lavora in un piccolo centro. In un posto piccolo il boss lo incontri al bar. Lui sa quanti cannoli comprerai per andare a pranzo dalla suocera, dove vanno a scuola i tuoi figli, che percorso fanno, chi frequentano….». In un Paese che ha già assistito all’assassinio di undici cronisti, si continua a sottovalutare il problema dell’influenza mafiosa sull’informazione. Proiettili inviati per posta, telefonate minatorie, vere e proprie aggressioni fisiche. Alle violenze tradizionali si è recentemente aggiunta un’altra forma di pressione. «Un uso spregiudicato e intimidatorio di alcuni strumenti del diritto». Sono le querele temerarie, azioni civili per danni. Interventi legali che non hanno tanto l’obiettivo di far valere i propri diritti, quanto di mettere a tacere i cronisti più scomodi, per spaventarli e indurli ad autocensurarsi. Esemplare il caso di Milena Gabanelli, volto noto della Rai e responsabile del programma di inchieste Report. «Al momento ho sessanta cause aperte» ha raccontato in commissione. «Buona parte senza presupposti». La sua è una vicenda paradossale. Negli anni la trasmissione ha ricevuto richieste di risarcimento per una cifra complessiva superiore ai 250 milioni di euro. «Ma ne abbiamo persa solo una in appello, per 30mila euro». L’effetto è evidentemente più perverso quando a ricevere la richiesta danni è un giornalista di un piccolo giornale locale. O, peggio, un freelance senza tutele legali. La commissione ha incontrato Pino Maniaci, direttore della siciliana Telejato. A suo dire la testata ha il primato delle querele ricevute: più di trecento. «Le abbiamo vinte tutte (…) molte archiviate (…) ne abbiamo ancora una in sospeso. Io non me ne occupo più, perché ho delegato un avvocato che segue le 314 querele». A volte basta un avvocato per censurare una notizia. «In Italia si può mettere a tacere un giornale e un giornalista senza ricorrere alla violenza» dice l’ultimo rapporto elaborato da “Ossigeno per l’informazione”, acquisito dalla commissione Antimafia. «Si possono usare strumenti legali potenti ed efficaci come le querele per diffamazione, come le citazioni per danni che – anche quando vengono attivate senza fondato motivo – riescono a determinare forti condizionamenti. Veri e propri abusi del diritto, consentiti da leggi anacronistiche e punitive nei confronti dell’informazione giornalistica e di chi la produce e la diffonde». Le prime vittime sono i giornalisti contrattualmente più deboli. Freelance e blogger che lavorano in prima linea. Spesso per pochi euro ad articolo, «con editori raramente disponibili ad andare oltre una solidarietà di penna e di facciata». Nel settore rappresentano una realtà tutt’altro che secondaria. Stando ai dati dell’Antimafia su 60mila operatori dell’informazione, solo 15.891 sono i giornalisti con contratto di lavoro stabile. «A ciò va aggiunta una complessiva e crescente contrazione delle retribuzioni dei giornalisti non coperti da contratto» si legge nella relazione. Professionisti pagati tre o quattro euro ad articolo, compensi riconosciuti a mesi di distanza. Come nel caso di Ester Castano, che con i suoi articoli ha contribuito allo scioglimento per mafia del comune di Sedriano, il primo in Lombardia. Vittima di gravi intimidazioni e costretta a «lavorare fino a tutta la primavera del 2015 in un fast food, non riuscendo a mantenersi con il ricavato delle proprie collaborazioni». Anche per questo la relazione dell’Antimafia propone di intervenire sul contratto nazionale. «Siamo l’unico Paese in cui la figura del freelance è considerata marginale – racconta Fava – anche dal punto di vista economico e delle tutele. Una figura che è di fatto l’ossatura dell’intero sistema informativo italiano». In Italia non ci sono zone immuni dal fenomeno delle intimidazioni mafiose ai giornalisti. Stando alle denunce l’area più pericolosa è il Lazio. Seguono Campania e Lombardia. A fronte di tanti cronisti coraggiosi, altri si adeguano alle minacce. Il lavoro della commissione si occupa anche di loro. «L’informazione contigua, compiacente, persino collusa con le mafie». Professionisti che censurano e si autocensurano, nascondono le notizie. E, di conseguenza, colleghi costretti a subire una seconda forma di violenza. Più subdola delle intimidazioni. «Molte testimonianze raccolte – si legge nella relazione – raccontano di un clima difficile in alcune redazioni, di giornalisti isolati, allontanati o persino licenziati anche quando queste decisioni li ponevano oggettivamente in una condizione di maggior rischio». Di questo argomento ha parlato il cronista di Repubblica Carlo Bonini, ascoltato dalla commissione: «Quasi sempre la minaccia produce un effetto perverso, perché il collega minacciato, intorno al quale immediatamente si stringe una qualche forma di solidarietà, passati un mese, due mesi o tre mesi, diventa un problema per la sua redazione e per gli altri colleghi. Normalmente, quindi, diventa due volte vittima. È vittima prima di chi lo minaccia, e poi di un clima di sostanziale fastidio, indifferenza o addirittura isolamento nel suo stesso contesto di lavoro». Nonostante tutto, la relazione si conclude con un dato positivo. Un segnale di speranza «che non era scontato all’inizio di questa indagine». Il testo riconosce «la determinazione con cui una nuova generazione di giornalisti ritiene che la funzione etica del loro mestiere non possa essere svilita da condizioni di lavoro a volte umilianti. E che ha scelto di non piegare la schiena pur sapendo che quella scelta li espone ai morsi del pericolo e della precarietà». Claudio Fava insiste molto su questo tema. «Degli undici giornalisti uccisi da mafie e terrorismo in Italia, questa silenziosa e tenace comunità di giovani cronisti è l’eredità più autentica. Certamente la più preziosa».
Contro di me una macchina del fango che si chiama antimafia, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Contiguo alla mafia. Una commissione parlamentare ha solennemente deciso così: il giornale che ho diretto per più di tre anni in Calabria, e che si chiamava “Calabria Ora”, era “contiguo alla mafia”. Contiguo, dice il dizionario, significa vicino, molto vicino, quasi “appiccicato”. Due cose contigue sono così vicine che si toccano. Il numero 1, per esempio – in matematica – è contiguo al numero 2. Se il mio giornale era “appiccicato” alla mafia evidentemente anch’io, che lo dirigevo, ero appiccicato alla mafia. E, ragionevolmente, lo erano anche altri giornalisti che lavoravano sotto la mia direzione. Su che basi mi si rivolge questa accusa sconvolgente? Su nessuna base. L’accusa si concretizza applicando il seguente sillogismo: Le Procure combattono la mafia; “Calabria Ora” (e il suo direttore in particolare) criticava le Procure; dunque “Calabria Ora” (e in particolare il suo direttore) era contigua alla mafia. Si capisce, di conseguenza, che “Calabria Ora” e il suo direttore criticavano le Procure per conto della mafia, o per favorire la mafia, o addirittura su mandato della mafia. Naturalmente ho chiesto al mio avvocato di procedere contro i calunniatori. In particolare contro l’edizione on line del “Fatto Quotidiano” che ha dato grande risalto a queste calunnie condendole con proprie considerazioni. Mi sarà più difficile procedere contro la commissione antimafia perché è un organismo parlamentare e tutti i suoi componenti sono coperti dall’immunità parlamentare completa (il famoso articolo 68 della Costituzione prevede che le opinioni espresse nel corso dell’attività parlamentare siano insindacabili e impunibili: un parlamentare può dire quel che vuole anche di un privato cittadino, può dire che è un assassino, mentendo – più o meno quel che ha fatto con me – senza che questo cittadino possa denunciare per calunnia). Decideranno i giudici se ho ragione o torto e cioè se è possibile o no criticare le Procure anche senza necessariamente essere affiliati alla ‘ndrangheta o giù di lì. Io però vorrei raccontarvi ben bene quali sono le tre ragioni per le quali il mio giornale è stato giudicato contiguo alla mafia, sulla base di informazioni, molto approssimative – alcune del tutto errate, ma questo è un dettaglio persino di scarsa importanza – fornite all’antimafia dai suoi consulenti che, quasi tutti, sono o giornalisti o magistrati che hanno sempre dichiarato la loro ostilità verso “Calabria Ora” ( e ora la dichiarano verso il “Garantista”). La prima si chiama questione Cacciola. La seconda si chiama questione Pesce. La terza si chiama affare-Musolino. Poi ci sono moltissime altre questioni che davvero riguardano il problema del rapporto tra giornali e lotta alla mafia, delle quali la commissione non ha voluto nemmeno occuparsi (per esempio la guerra furiosa tra magistrati all’interno della Procura di Reggio, o intorno alla Procura, che forse è ancora in corso e della quale la commissione antimafia si è infischiata, probabilmente anche perché è all’oscuro di tutto).
Capitolo Cacciola. Il motivo dello scontro tra “Calabria Ora” e la Procura, al quale accenna, se ho capito bene, uno dei magistrati interrogati dalla Commissione, è il seguente: alla signora Cacciola (testimone antimafia che poi ritrattò e poi tornò ad accusare) , dopo la ritrattazione fu levata la “protezione” che le era stata garantita dallo Stato. Successivamente fu trovata morta perché aveva bevuto acido muriatico (forse suicida, forse assassinata, forse costretta al suicidio). Noi siamo stati l’unico giornale che ha chiesto con insistenza perché le fu tolta la protezione. Nessuno ci ha risposto, e la Commissione antimafia che, trovatasi di fronte a questo problema avrebbe fatto bene ad indagare sul tema, visto che la Procura non aveva indagato, se ne è fregata. Non indagare su un suicidio sospetto o, meglio, su un possibile omicidio di ‘ndrangheta non è una bella cosa, no? E se un giornale denuncia, fa una azione antindrangheta, credo. Poi ci si accusa per avere dato conto della famosa cassetta inviata dalla Cacciola ai giornali nella quale ritrattava le sue accuse alla propria famiglia. Mi auguro che il sindacato dei giornalisti, come ha fatto altre volte, intervenga per spiegare che se si entra in possesso di una cassetta con grande interesse per l’informazione, come è successo in questo caso, i giornali sono obbligati a informare e a pubblicare. Anche se la pubblicazione danneggia o comunque non piace a una Procura.
Caso Pesce. Analogo, ma per fortuna meno tragico. La signora Pesce si pente e accusa la sua famiglia. Poi scrive una lettera nella quale accusa invece la Procura di averla costretta a pentirsi, mentre era in prigione, portandola in un carcere nel quale le era impossibile vedere i suoi figli. Noi entriamo in possesso di questa lettera e del verbale di interrogatorio nel quale la signora dice: “riavvicinatemi ai bambini e dirò tutto quello che volete”. Pubblichiamo l’una e l’altro (e pubblichiamo anche la risposta della Pm che replica correttamente: “lei non deve dirci quel che vogliamo, deve dirci la verità”). Successivamente la signora ritratta la ritrattazione e torna a collaborare. Ma questo non vuol dire che la lettera fosse falsa o che fosse falso il verbale (tipo caso-Crocetta). La lettera e il verbale erano autentici. Di cosa ci si accusa? Di avere ricevuto lettera e verbale dall’avvocato della signora (che è uno dei più famosi penalisti italiani). Non ho capito che male c’è: ricevere materiale da un magistrato è consentito, riceverlo da un avvocato no? Cioè, l’avvocato è considerato più o meno un complice? Roba da Cile di Pinochet…(Comunque nella ricostruzione dell’antimafia c’è anche una imprecisione, dovuta alla scarsa attendibilità degli informatori della commissione. Io, personalmente, non ho mai incontrato l’avvocato né ho mai avuto contatti con lui. Non che ci sarebbe stato niente di male se l’avessi fatto: preciso questo dettaglio solo per dire che gli informatori sono un po’ approssimativi e poco informati).
Capitolo Musolino. Lucio Musolino, quando io sono arrivato a “Calabria Ora” nell’estate del 2010, è un giornalista del quotidiano. Si occupa di giudiziaria a Reggio Calabria. E’ un bravo giornalista di giudiziaria, credo, nel senso che possiede molte informazioni che vengono dalla Procura, anche se all’epoca dei fatti – mi pare di aver capito – non ha rapporti idilliaci con la Procura di Reggio, cioè non è molto simpatico al Procuratore. Anche perché Musolino conduce una campagna battente contro il governatore Scopelliti, accusandolo delle peggiori malefatte, ma soprattutto (cosa che scrive spessissimo) di aver partecipato non ricordo più bene se a un battesimo o a un pranzo dove c’era un mafioso. Musolino non ha buoni rapporti con il resto della redazione di Reggio. Anzi, pessimi. Nella prima proposta di riorganizzazione del giornale, nella quale si prevedono vari spostamenti (resi necessari dal fatto che prima che io arrivassi si erano dimessi dieci redattori del giornale) propongo a Musolino di trasferirsi da Reggio, sia per via dei cattivi rapporti che aveva con la redazione di Reggio, sia perché avevamo deciso di rafforzare le redazioni di Catanzaro e Lamezia (cosa che poi non facemmo). Lui mi risponde con durezza, dicendomi che non intendeva lasciare Reggio e accusandomi di dire le stesse cose che dice la ‘ndrangheta. Mi incazzai come un ape, naturalmente, e gli chiusi il telefono in faccia, ma siccome sono una persona pacifica e che non ama i conflitti, e siccome ero appena arrivato in Calabria e non ero in grado di capire tutto, decisi immediatamente di rinunciare al trasferimento, e comunicai questa decisione sia all’editore, che fu contrariato, sia al comitato di redazione. Quando presentai il piano di riorganizzazione, il trasferimento di Musolino non c’era. Non c’è mai stato il suo trasferimento. Qualche giorno dopo Musolino dichiarò all’Ansa che sarebbe stato trasferito, per motivi politici, provocando una polemica politica accesa, e poi andò in Tv a dichiararsi perseguitato dal giornale. L’editore andò su tutte le furie e licenziò Musolino perché aveva danneggiato con le sue dichiarazioni l’immagine e gli interessi dell’azienda. Io mi rifiutai di firmare il licenziamento. E siccome il contratto dei giornalisti prevede che i licenziamenti li faccia il direttore, quel licenziamento fu annullato dal tribunale. Io però non lasciai sotto silenzio le accuse di Musolino e lo querelai. Un paio d’anni fa, attraverso un amico comune, Musolino mi chiese, gentilmente, di ritirare la querela (e insistette molto perché io la ritirassi dicendomi che gli procurava un sacco di guai) , cosa che io – che ormai non avevo più niente contro di lui – feci di buon grado. Andammo insieme dai carabinieri di Reggio, lui, io e l’amico comune, e procedemmo al ritiro. (Quando Musolino era ancora al giornale, un giorno andai a intervistare Scopelliti, e lo feci di fronte a molti testimoni. Nel corso dell’intervista Scopelliti attaccò Musolino dicendo che scriveva balle. Io mi infuriai, gli dissi che Musolino era un ottimo giornalista e che il Presidente della Regione non doveva attaccare i giornalisti. Lui accettò il rimprovero. E il giorno dopo riferii dello scontro sul giornale). Posso finire qui, il racconto, ma voglio aggiungere una cosa, visto che si è insinuato che il motivo del mio scontro con Musolino era una mia amicizia con Scopelliti. Vi racconto come si è conclusa la mia esperienza a “Calabria Ora”. Sono stato licenziato perché mi ero rifiutato di esautorare un redattore di Reggio Calabria che non piaceva a Scopelliti. Vi dico anche il nome del redattore: Consolato Minniti, capo della redazione di Reggio. Scopelliti allora chiese al mio editore di mandare via me visto che io non rimuovevo Minniti, e lui lo fece (anche se portò come motivo ufficiale del mio licenziamento il mio rifiuto a licenziare una quarantina di giornalisti per ridurre il deficit del giornale). Non mi stupii né mi indignai. Ho sempre saputo del peso che hanno i politici nei giornali, e anche in passato mi era capitato di essere allontanato da un incarico di direzione, in altri giornali, su richiesta di leader politici. E infatti, nonostante l’ingiustizia subita ho mantenuto buoni rapporti umani sia con Scopelliti (che ho difeso quando è stato cacciato dai giudici dalla Presidenza della Regione) sia con il mio editore. Ora mi chiedo se nel Parlamento italiano debba esistere una commissione che non ha mai disturbato la mafia, non ha mai neppure in modo impercettibile contribuito alla lotta alla mafia, è composta in gran parte da parlamentari che ignorano il fenomeno mafioso e non se ne sono mai occupati, e che ha il solo scopo di gettare fango dove i famosi professionisti dell’antimafia (amatissimi, per altro, dalla mafia) chiedono che sia gettato.
I documenti del ministero dell’Interno che riportano il tentativo da parte del suo direttore di ostacolare le indagini; il «confino» al quale fu destinato quando i vertici del suo giornale lo spostarono inspiegabilmente dalla cronaca allo sport; i diari della figlia che denunciano l’indifferenza della direzione del quotidiano comunista “L’Ora” dopo la sua scomparsa; il ruolo oscuro, a margine del rapimento, di personaggi vicini al Pci e di avvocati di apparato. Tante ombre, sospetti, tradimenti. Sull’omicidio di mafia di Mauro De Mauro, cronista de «L’Ora» di Palermo, «icona» della sinistra antimafia militante, vittima il 16 settembre 1970 di «lupara bianca», si addensano oggi nuovi e ingombranti sospetti. Proprio sul comportamento di colleghi, proprietari ed entourage di quel giornale «democratico e antifascista», come lo definiva il suo direttore, Vittorio Nisticò, si sviluppa il bel libro «Mauro De Mauro, la verità scomoda» (Aliberti editore) scritto con coraggio da Francesco Viviano, inviato di Repubblica. Scavando nelle carte e nelle vecchie raccolte del giornale, Viviano si è imbattuto in una notizia destinata a fare rumore e riaprire le indagini: all’atto del sequestro, poco prima di essere ammazzato, De Mauro fu portato a casa di una persona che conosceva bene. E che molto probabilmente gli chiese conto di cose che solo il cronista conosceva. Chi interrogò De Mauro prima di ucciderlo? Chi fece da «talpa» per il sequestro? Dopo aver esplorato i possibili moventi del rapimento(a cominciare dal golpe Borghese attraverso un documento inedito rinvenuto da Viviano nel quale De Mauro parlava appunto di «colpo di stato») Viviano si sofferma a lungo sul giornale de «l’Ora» e sulle accuse a «Mister X», il potente avvocato siciliano Vito Guarrasi, fondamentale amico dei comunisti siciliani ed ex consigliere d’amministrazione del quotidiano, che il giudice Rocco Chinnici aveva definito «la testa pensante della mafia in Sicilia». L'inviato di «Repubblica» spulcia ogni indizio, ogni testimonianza che possa dare concretezza a quelle che sono molto più che semplici teorie. «In quei giorni - scrive Viviano - pur sapendo che De Mauro stava lavorando a uno scoop sensazionale, il direttore lo aveva spostato allo sport». Sospetto sempre respinto da Nisticò, che in un articolo vergato tre anni dopo la scomparsa del suo cronista, prima spiega come quella scelta avesse alla base il semplice tentativo di rilanciare la cronaca sportiva, poi però getta ombre sullo stesso De Mauro, sottolineando i suoi rapporti con alcuni democristiani «personaggi-chiave di quel sistema clientelare impastato di mafia e politica (...)». Nello stesso articolo Nisticò si lamenta del fatto che mai nessuno gli ha chiesto nulla sulla personalità di De Mauro. Da qui i dubbi di Viviano: perché mai il direttore e i colleghi del cronista ucciso si sono lamentati solo dopo anni? Perché, se avevano in mano qualcosa di utile, non si sono mai recati dagli inquirenti? L’autore del libro racconta anche di come il coinvolgimento di Guarrasi nell’«affaire» De Mauro, anche se non giudiziario, porti al deterioramento dei rapporti tra il direttore dell’«Ora» e la famiglia del cronista sparito nel nulla il 16 settembre 1970. Accade il giorno in cui Tullio De Mauro, il linguista fratello di Mauro, riceve una telefonata da un amico che lo mette in guardia proprio su Guarrasi. I De Mauro raccontano tutto ai due poliziotti che stavano seguendo il caso, Boris Giuliano e Bruno Contrada. Nisticò pare non prenderla bene: «Ancora oggi per me restano indefinibili i reali motivi che indussero i De Mauro ad affidarsi pienamente ed esclusivamente alla polizia». Inquietanti le pagine del diario della figlia di De Mauro pubblicati nel libro: «A partire dal terzo giorno del sequestro (...) il giornale aveva cominciato a tenere un contegno tra il prudente e (a parer mio) l’indifferente. Nessuno dell'“Ora”, sebbene casa nostra brulicasse di inviati e corrispondenti, era più venuto da noi; e gli articoli su un fatto tanto clamoroso e che toccava direttamente il giornale di mio padre erano affidati alle giovani leve del quotidiano (...)». Sulla scena compare poi improvvisamente anche un «inquietante personaggio», come lo definisce Viviano. Si tratta di un commercialista palermitano amico di Guarrasi, che quando ancora nessuno sa del rapimento di De Mauro, telefona a casa sua tentando di indirizzare le indagini su una pista che non avrebbe portato a nulla. Il commercialista finì agli arresti, poi venne rimesso in libertà: gli indizi a suo carico caddero.
A PROPOSITO DI QUERELE PRETESTUOSE E DI LITE TEMERARIA.
Querele, liti e cause quando la smania di denunciare gli altri è stalking giudiziario, scrive “La Repubblica”. Querele fra fratelli per accaparrarsi eredità inesistenti. Liti temerarie nate per scoraggiare i creditori, e cause condominiali per ottenere rimborsi da 1,60 euro. Tutte azioni legali promosse con un unico scopo: dare fastidio, arrecare un danno. È lo stalking giudiziario, vizio del sistema giuridico che nasce soprattutto in ambito civile e sempre più spesso finisce nelle aule penali. Un mostro che negli ultimi anni è cresciuto a dismisura. E ha contribuito a rallentare la macchina della giustizia, facendo crescere fino alla cifra record di 387 milioni di euro il debito dello Stato nei confronti dei cittadini che attendono rimborsi in quanto "vittime" di processi di durata irragionevole. L'ultimo caso si è avuto a Pavia, con il rinvio a giudizio per stalking di un uomo che il prossimo febbraio andrà a processo per avere vessato l'ex moglie con continue denunce prive di fondamento. «All'amministrazione della giustizia, il proliferare di cause inutili e nocive costa milioni di euro l'anno — dice Giuseppe Buffone, giudice della nona sezione civile del Tribunale di Milano, che a Varese firmò la prima sentenza per "comportamento giudiziario stalkizzante" — le azioni legali promosse senza ragioni sono circa il 20 per cento del totale e rallentano tutte le altre». Buffone fa un paragone: «Lo stalker giudiziario è come un uomo sano che ogni mattina si presenta al pronto soccorso, rubando il posto in fila a chi sta davvero male». La sentenza di Varese fu fatta nel 2009. Da allora, diversi giudici penali hanno riconoscono come stalking il ricorso ripetuto, inutile e nocivo agli strumenti legali. Pronunce in questo senso si sono avute a Caserta e Parma. Nel caso di Pavia, l'imputato è accusato di «alterare le abitudini di vita» dell'ex moglie «a mezzo delle continue convocazioni alle autorità di polizia per denunce infondate». L'avvocato milanese Paola Farinoni, legale della donna, spiega: «Continuando a denunciare la moglie, anche per ritardi di pochi minuti nella consegna del figlio, l'uomo ha usato la querela come strumento per perseguitare la mia assistita». Un caso tutt'altro che isolato. Il presidente dell'associazione nazionale degli avvocati matrimonialisti, Gian Ettore Gassani, conferma: «Sempre più spesso dobbiamo contenere le richieste di clienti che vogliono attivare azioni legali inutili, per indebolire o danneggiare la controparte da un punto di vista economico ed emotivo. Il fenomeno sta assumendo dimensioni inquietanti». Proprio nell'ottica di ridurre il numero delle cause senza fondamento, il parlamento ha approvato una modifica dell'articolo 91 del codice di procedura civile (legge 162 del 2014), entrata in vigore lo scorso 11 novembre. La nuova norma riduce i casi in cui sia possibile compensare le spese fra le parti, accollando i costi delle cause inutili a chi le ha proposte. La necessità nasce dalla progressiva crescita del debito dello Stato nei confronti di chi deve essere rimborsato per avere subito processi troppo lunghi: nel 2006 era di 4 milioni di euro, nel 2013 si è arrivati a 387 milioni, di cui solo 50 già stanziati dal ministero della Giustizia. Buffone non ha dubbi: «I numeri parlano chiaro. Basterebbe limitare o scoraggiare le cause "senza diritti da tutelare", ad esempio quelle promosse in malafede, e i processi di durata irragionevole si avvierebbero praticamente sulla via dell'estinzione». L'ordinamento non prevede (come accade in Gran Bretagna) che il giudice possa decidere de plano , senza istruttoria, di non aprire un fascicolo in caso ritenga infondata un'azione legale. Così, in tutta Italia i magistrati cercano di scoraggiare gli stalker giudiziari e i "promotori seriali" di cause civili, usando gli strumenti a loro disposizione. Di fronte a cause promosse per pochi centesimi di euro e a liti infondate, i giudici della XIII sezione civile del tribunale di Milano — che fra le competenze ha le liti condominiali — sempre più spesso applicano l'articolo 96 del codice di procedura. «Se una parte ha agito o resistito in giudizio con palese malafede o colpa grave, può essere condannata a un risarcimento del danno a discrezione del giudice — spiega il presidente della sezione, Marco Manunta — è la più efficace arma che abbiamo per evitare che le liti inutili rallentino il lavoro sulle questioni serie».
Il giudice può imporre una penale a chi presenta querele civili pretestuose contro i giornalisti, scrive Alberto Spampinato su “articolo 21” (Consigliere della FNSI, direttore di Ossigeno per l'Informazione). Com’è possibile che non si applichi nessuna penale a chi pretestuosamente, strumentalmente, con falsi presupposti, presenta una querela per diffamazione o una citazione per danni contro un giornalista? Finora le cose sono andate così, nonostante molte proteste contro la prassi delle querele facili e il disinvolto e spesso immotivato impiego delle citazioni per danni presentate per bloccare notizie poco gradite. Ma ora le cose stanno cambiando, almeno per le citazioni presentate al Tribunale Civile: a Milano si fa strada l’idea di condannare chi presenta la citazione pretestuosa a versare al giornalista un risarcimento pari a un terzo della cifra richiesta nella citazione. La novità è emersa al convegno del 9 aprile 2015 scorso al Circolo della Stampa di Milano, sul tema ''Che fare se una querela blocca un'inchiesta?" promosso dall’Associazione Lombarda dei Giornalisti, dall’Associazione Culturale Balrog, con la collaborazione dell’osservatorio Ossigeno per l’Informazione e di Stampa Democratica. Al convegno, il giudice Roberto Bichi, presidente della prima sezione del Tribunale Civile di Milano, quella che si occupa di citazioni per danni, ha annunciato che è maturato in seno alla magistratura l'orientamento di sanzionare chi ha presentato una richiesta pretestuosa applicando una recente norma di carattere innovativo inserita nel 2009 del Codice di Procedura Civile. Essa consente al giudice di infliggere d'ufficio una sanzione pecuniaria a chi ha fatto la citazione ogni qual volta il giudizio accerti che le motivazioni addotte per chiedere i danni sono insussistenti, false o volutamente esagerate. Prima di spiegare di cosa tratta, ricordiamo come vanno le cose. Un giornalista scrive un articolo, pubblica un'inchiesta. Se qualcuno ritiene lesa la sua reputazione o colpiti in modo ingiusto i suoi interessi dal contenuto di quelle notizie, può querelare il giornalista per il reato di diffamazione a mezzo stampa, reato penale, e chiedergli i danni; o, senza neppure presentare la querela per diffamazione, può rivolgersi direttamente al Tribunale Civile e chiedere i danni al giornale e al giornalista, quantificando i danni nella richiesta o lasciando al giudice il compito di calcolarli. Tutti ricordiamo richieste di danni per importi altissimi, anche superiori al milione di euro, tali da mettere in ginocchio o da costringere alla chiusura un’azienda editoriale. Ad esempio, Il Messaggero ha recentemente motivato le difficoltà economiche per le quali ha mandato in pensione anticipata una cinquantina di giornalisti con una condanna a pagare 2,5 milioni di euro di risarcimento ai componenti dell’Orchestra Sinfonica Santa Cecilia. Per questa condanna, confermata in Appello, si attende il giudizio della Cassazione. Il caso non è isolato. Purtroppo, nel nostro paese, recentemente si è diffuso il malcostume di presentare in sede civile richieste di danni anche in modo immotivato e pretestuoso, ad esempio definendo notizie giornalistiche false quelle che invece sono vere, anche se il querelante è consapevole che il giornalista ha riferito circostanze vere, oppure contestando opinioni critiche come se la loro espressione non fosse connessa all’esercizio della cronaca . Si agisce così perché con la pura e semplice citazione per danni si può condizionare pesantemente un giornale. Si può bloccare a lungo la pubblicazione di una certa notizia e di altre collegate, si esercita un effetto intimidatorio sull'attività del giornale e del giornalista. Finora i più spregiudicati hanno potuto fare questo abuso della citazione civile senza subire alcuna conseguenza. Di solito, per fortuna, il giornalista esce assolto da questi processi, ma soltanto dopo due-tre anni, nel migliore dei casi. L’incubo cessa quando il giudice civile stabilisce che le ragioni addotte da chi ha chiesto i danni non sussistono. A quel punto lo stesso giudice condanna il querelante a pagare le spese di giudizio e chi s’è visto s'è visto. A chi ha intentato la lite temeraria finora i giudici non hanno mosso alcun addebito, non hanno dato alcun risarcimento al giornale, che – ricordiamolo - dal giorno della citazione e fino al giorno della sentenza, per cautelarsi, ha dovuto smettere di trattare quella notizia; né all'azienda editoriale, che ha dovuto accantonare per legge, e iscrivere fra le passività di bilancio, il 10% dell'indennizzo richiesto; né al giornalista che ha vissuto con l'incubo di pagare un danno che sa di non aver causato. Adesso, ha spiegato il giudice Bichi, c'è una norma che può cambiare questo stato di cose. La norma in questione è quella dell'art.96, secondo comma del Codice di Procedura Civile introdotta nel 2009. Essa stabilisce che, al momento di pronunciarsi su chi deve pagare le spese di giudizio, il giudice può condannare, anche d'ufficio, la parte soccombente a pagare alla controparte "una somma equitativamente determinata". Bichi ha sottolineato che si tratta di una innovazione importante, che ha suscitato discussioni, obiezioni, proteste e ricorsi. Ma ormai, ha aggiunto, la norma è pacificamente applicabile in base ad una sentenza emessa nel 2010 dalla Corte di Cassazione. Detta sentenza ha riconosciuto che la somma equitativamente determinata va al di là del concetto di risarcimento del danno subito (che in quanto tale dovrebbe essere comprovato, e ciò di solito è molto difficile per un giornale e per un giornalista nella situazione di cui stiamo parlando) e assume invece un carattere sanzionatorio, di "risarcimento sanzionatorio" nei confronti di chi ha abusato del diritto costituzionale di rivolgersi a un giudice per chiedere la riparazione di un torto presunto. Il pagamento della somma equitativa, ha detto il giudice, ha lo scopo “di evitare l'abuso del diritto processuale, si muove quindi anche a tutela della giurisdizione, vuole in qualche modo sanzionare chi ha provocato ingiustamente la sofferenza derivante dalla pendenza di un procedimento giudiziario". Il Tribunale Civile di Milano è orientato ad applicare questa norma. Ma in che misura? Il legislatore non ha stabilito in alcun modo la misura del risarcimento sanzionatorio. Ha lasciato al giudice la più assoluta discrezionalità. I giudici della prima sezione civile si sono posti perciò posti il problema di individuare i limiti di una giusta quantificazione. "Ci siamo riuniti e dopo un primo esame - ha detto il dottor Bichi - è prevalso l'orientamento di applicare il risarcimento sanzionatorio fino a una somma non superiore a un terzo del risarcimento che era stato chiesto ed è stato rigettato”. In parole più semplici, chi ha chiesto centomila euro di risarcimento, se il giudice accerta che lo ha fatto pretestuosamente, o immotivatamente, potrà vedersi condannato a versare fino a 33.000 euro al giornalista querelato. Si tratta, come si vede, di misure molto incisive. Le considerazioni del giudice Bichi sono di grande interesse e ci riserviamo perciò di pubblicare per intero la sua relazione al convegno. Intanto ci sembra opportuno ricordare che già al momento dell'introduzione dell'art.96 secondo comma l'avvocato Domenico D'Amati del Foro di Roma aveva acutamente segnalato le nuove opportunità offerte ai giornalisti. Ora le considerazioni dei giudici di Milano aprono effettivamente la strada a una tutela più attiva in sede giudiziaria del diritto di cronaca, a misure che potrebbero finalmente porre freno all'enorme, crescente ed allarmante ricorso alla querela facile, che a nostro avviso rappresenta ormai, oltre che un abuso della legislazione, una grave forma di censura delle notizie giornalistiche più incisive. Torneremo sull'argomento. Qui, in conclusione, voglio segnalare alcune considerazioni di grande interesse fatte dall'avvocato Raffaele Della Valle allo stesso convegno di Milano. Rispetto alle querele pretestuose, ha detto il legale, tutti dovrebbero fare fino in fondo la loro parte, anche gli avvocati . Ad esempio, ha aggiunto, quando un cliente chiede di presentare una querela che non sta in piedi, l'avvocato dovrebbe rifiutarsi di patrocinarla, non dovrebbe assumere l'incarico di rappresentare il cliente in quella causa immotivata. Se invece lo fa e il giudice rigetta la richiesta dichiarandola insussistente, l'Ordine professionale dovrebbe intervenire con una censura ed eventualmente una sanzione. Anche queste considerazioni meritano di essere approfondite.
IL COMMENTO DELL’AVV. ORESTE FLAMMINII MINUTO. «Ma per le querele penali il problema resta ed è una vergogna. Ritengo sia necessario fare chiarezza sulla questione delle querele temerarie. Va innanzi tutto ricordato che la parola “querele” viene da noi impropriamente usata per indicare sia le querele vere e proprie (che sono istanze punitive rivolte al giudice penale) che le citazioni civili (che sono atti di citazione tendenti ad accertare il comportamento illecito sotto il profilo civilistico). Entrambi questi atti (querele e citazioni) contengono la richiesta di risarcimento del danno. Quello che Spampinato ci ha segnalato riguarda solo le citazioni civili e l’articolo 96 (non – come affermato - del Codice di procedura penale, ma di quello di procedura civile), si applica solo alle cause civili di risarcimento danni. Le problematiche sollevate, quindi, dal giudice Bichi, non riguardano le querele. Nel settore penale (quello che concerne le querele) esiste una norma la quale stabilisce che le sentenze di non luogo a procedere (quelle pronunciate dal GIP all’udienza preliminare) perché il fatto non sussiste e quelle per non aver commesso il fatto possono contenere la condanna del querelante al risarcimento dei danni nei confronti dell’imputato che ne abbia fatto richiesta SE VI E’ COLPA GRAVE. (Art. 427 Cpp). Le stesse disposizioni valgono per la sentenza dibattimentale (Art. 542 Cpp). Nel settore penale, quindi, la maggior parte delle sentenze è fuori del campo di applicazione di condanna per lite temeraria del querelante, in quanto quasi nessuna si conclude con l’assoluzione del giornalista per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste (in questo caso scatta il reato di calunnia per il querelante ndr). Quasi tutte, quando assolvono, dichiarano l’esistenza del l’esercizio del diritto di critica o di cronaca e la formula assolutoria è perché il fatto non costituisce reato. La vera vergogna è dunque nei codici che prevedono la punizione per chi fa liti temerarie, ma in buona sostanza la temerarietà è esclusa se l’assoluzione sopraggiunge perché viene esercitato un diritto !!! E questa è la vergogna vera». Oreste Flamminii Minuto.
Dispositivo dell'art. 96 del Codice di Procedura Civile: Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza [disp. att. 152]. Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente. In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Un esempio lampante di lite temeraria. Di seguito un articolo riprodotto da tantissimi siti web di informazione, e riportato nel libro "Napoli. Quello che non si osa dire" a fini scientifici, didattici e culturali.
Se la figlia di un camorrista indosserà la toga da giudice. Lui, uomo di grandi e consolidati rapporti criminali, lei incensurata, ha vinto il concorso per entrare in polizia, pare sia brava ed è sinceramente animata da buone intenzioni. La sua potrebbe essere una ribellione al male vissuto e visto finora, riporta “cinquantamila.Corriere.it, citando pedissequamente un articolo pubblicato su “Il Giornale”, giovedì 11 giugno 2015, a firma di Simone Di Meo dal titolo "Figlia di un boss camorrista indosserà la toga da giudice. Nel Napoletano la malavita miete morti. Ma lei ha vinto il concorso in magistratura e combatterà le faide con la forza della legalità". "Lei è a un passo dall’ingresso in magistratura, il papà invece è un esponente di rango della camorra imprenditrice di Castellammare di Stabia, paesone della provincia sud di Napoli dove nel 2009 fu ammazzato un consigliere comunale del Pd. A uccidere Gino Tommasino davanti al figlio di dodici anni, quel giorno, fu un affiliato iscritto allo stesso partito che poche settimane prima dell’agguato aveva addirittura partecipato alle primarie per l’elezione del segretario cittadino dem. Il diritto e il rovescio della giustizia italiana si rintracciano anche in questi complicati racconti di vita. Storie che mettono a dura prova il precetto biblico sulle colpe dei padri che (non) devono ricadere sulla prole. La giovane potrebbe infatti ben presto trovarsi a frequentare le aule di tribunale con la toga sulle spalle se riuscirà a superare le selezioni successive, mentre l’altro si trova invischiato – come un insetto avvicinatosi troppo alla carta moschicida – in una storiaccia di estorsioni e rapporti con la delinquenza organizzata. E se alla giovane donna toccherà, in futuro, indagare sul genitore o sui suoi soci in affari che cosa succederà? Che cosa farà? La promessa pm è incensurata, bisogna specificare. Non c’è alcuna ombra nel suo curriculum. Anzi, pare che sia brava. E sinceramente animata da buone intenzioni considerato che tempo fa ha vinto pure il concorso per entrare in polizia. Il padre, al contrario, spunta in diversi verbali di collaboratori di giustizia dell’area stabiese, una delle zone a più alta densità mafiosa della regione dove il confine tra imprenditoria deviata, malaffare e politica è così sfumato da renderlo quasi impercettibile. In particolare, di lui parla il boss Salvatore Belviso, ex capo del gruppo di fuoco del clan D’Alessandro, condannato proprio per l’omicidio Tommasino. Il collaboratore – secondo quanto Il Giornale è riuscito ad accertare – riferisce di specifici episodi illeciti che vedono protagonista il papà della candidata e dei suoi rapporti d’affari con la mafia maranese, quella che negli anni Ottanta offriva protezione a Poggio Vallesana a Totò Riina e a Leoluca Bagarella. Pure altri due ex camorristi ne hanno riferito agli investigatori in relazione ai suoi investimenti immobiliari nella provincia sud del capoluogo. È un uomo di grandi e consolidati rapporti criminali, il padre della giovane donna. Abituato a tessere senza grande clamore relazioni d’affari e di amicizia. Ed è anche un abile manager, fortunato negli affari così come nella spericolata corsa sul ciglio del precipizio penale. In uno degli alberghi di proprietà dell’uomo, infatti, negli anni scorsi è stato arrestato dalle forze dell’ordine un latitante inseguito da un mandato di cattura per estorsione. Il bandito si era rifugiato nella struttura, che si trova nell’hinterland vesuviano, confidando – è l’ipotesi degli inquirenti – nella «protezione» offertagli dalla famiglia dell’imprenditore che solo la caparbietà di un gruppo di sbirri è riuscita a infrangere. Tempo addietro, un’altra società della galassia controllata dal genitore del futuro pm aveva assunto un camorrista. Il padrino, componente anche lui del gruppo di fuoco del clan D’Alessandro, aveva potuto godere così di permessi premio e di un trattamento detentivo meno gravoso rispetto a quello originario proprio perché, con quel contratto, poteva dimostrare di aver cambiato vita. Non era così, ma andava bene lo stesso. È probabile che lei, di tutto questo, non sappia nulla o nutra solo qualche sbiadito sospetto. E forse il suo desiderio di indossare una toga potrebbe essere una ribellione al male vissuto e visto finora. Sarebbe un modo shakespeariano di vendicarsi.”
E' un articolo anonimo e generico, quasi un racconto inventato. Eppure qualcuno si è riconosciuto in esso. "Quella figlia sono io e sono stata gravemente diffamata insieme a mio padre ed alla mia famiglia: pretendo i danni, la cancellazione dell'articolo da tutti i siti web e la rettifica in cui si afferma che la rimozione è avvenuta per totale estraneità delle persone citate". Così si intima in una formale diffida ed in una procedura di mediazione.
Talchè io rispondo.
"Con la presente risposta si comunica che si è adempiuto immediatamente alla diffida, salvo i tempi brevi fisiologici di sostituzione delle pagine. Azione riconducibile al server. Si è attuata la richiesta per mero spirito di opportunità, non essendoci alcuna utilità alla sua persistenza, con l’eliminazione totale del testo, nonostante si ritenesse la stessa diffida pretestuosa ed infondata, non essendoci alcun danno, né alcun danneggiato dall’articolo citato, andando, oltretutto, al di là della richiesta, che indicava, tra le altre cose, fonti sbagliate su cui intervenire. E’ ovvio che eliminato il testo contestato non si può inserire il testo di rettifica: sarebbe illogico senza appiglio. Si chiede o la rettifica, o la rimozione. Tuttavia, si rileva la scorrettezza degli artifizi per la richiesta del contatto di posta elettronica, indicando una responsabilità scaturente da una imprecisata intervista ad una radio, ignorando che Antonio Giangrande è abbastanza noto, così come noti e pubblici sono i suoi contatti, basta saper cercare, ed abbastanza propenso ad esaudire qualsiasi richiesta di rettifica o di rimozione, quando essa è fondata, non essendo l’autore dei pezzi citati. Articoli inclusi nei libri per mera disciplina di studio e di ricerca e non per attività giornalistica. Anzi per completezza si può dire che proprio il Giangrande dedica ampio spazio sui suoi libri a quei soggetti vittime della gogna mediatica. E se la dr.ssa, od i suoi cari, avesse qualcosa da lamentarsi, che nessuna richiesta legale potesse soddisfare, sarei ben lieto di dedicargli il mio tempo e lo spazio nei miei libri. Si fa presente, altresì, che con la presente si comunica, sì, l’adempimento ma non l’ammissione di qualsivoglia responsabilità, in quanto la pretesa esaudita è alquanto anomala. Nell’articolo non si fa riferimento ad alcun nome o a dati identificativi, né c’è volontà a farlo, ed è difficile che un lettore di Palermo o di Bolzano riconosca in quelle righe qualcuno di Napoli o del suo hinterland, né ha interesse a farlo. Se poi chi legge si riconosce…Comunque, in conclusione, fin quanto detto crea il presupposto ad una contro azione, se la presente diffida in futuro avesse un suo proseguo, come intimato in calce, indicando nella calunnia e nella diffamazione, in campo penale, e nella lite temeraria, in campo civile, una contro azione di tutela. E si badi, noi non abbiamo avvocati da pagare…
Ed ancora.
Il sottoscritto dr Antonio Giangrande
in data odierna, 13 agosto 2015, mi è stata recapitata una racc. A.R. in piego postale;
tale piego contiene una comunicazione di procedura di mediazione;
la comunicazione intima un incontro a far data dell’8 agosto 2015;
l’istanza di mediazione accusa precisi fatti a me riconducibili;
già in data 28 luglio 2015 c’è stato un chiarimento con la parte attrice in cui si evidenziava l’infondatezza della pretesa: l’articolo contestato era di terzi (giornalista di stampa nazionale) e non faceva menzione ad alcun nome o dato riconducibile ai ricorrenti, tali da essere chiaramente identificati e risultante danneggiata la loro reputazione. Inoltre i siti web indicati non sono a me riconducibili. E cosa più importante l’accusa di diffamazione è una invenzione degli esponenti, non essendoci alcuna condanna penale a riguardo. Ciononostante, a quanto sembra, il chiarimento è risultato infruttuoso, quantunque l’interlocuzione contenesse l’avvertimento che nel caso di proseguo si sarebbero adite tutte le vie a tutela del diritto.
Premesso tanto. Ritenuto che l’istanza attorea è infondata, pretestuosa, attivata presso foro incompetente e con violazione del diritto di difesa con fissazione dell’incontro antecedente alla sua conoscenza:
si ingiunge e si intima alle parti interessate di comunicare, anche per email, immediatamente, che la comunicazione de quo è frutto di un errore, in tal caso si soprassiede e ci si compensano le spese sostenute;
in caso contrario l’azione attore si riterrà come perdurante molestia e come costrizione ad adempiere ingiustamente. In tal caso ci si attiverà inevitabilmente presso le sedi più opportune contro lo studio legale, i suoi rappresentati e l’ente di mediazione.
Di certo in questa storia c’è che nessuno dei tantissimi siti web che riportano l’articolo originale o de relato ha provveduto alla rimozione del testo.
Chi spiegherà al pm Carbone di sinistra (espressione di Area: Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia) che le leggi si applicano e si rispettano, e non si contestano? Scrive “Il Corriere del Giorno” il 6 luglio 2015. “No comment e musi lunghi tra i magistrati tarantini all’indomani dell’ennesimo decreto del governo salva Ilva, l’ottavo, che dissequestra l’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto, azzerando il provvedimento cautelare era stato deciso dalla procura dopo l’incidente dell’8 giugno scorso in cui ha perso la vita l’operaio trentacinquenne, Alessandro Morricella, investito da una colata di ghisa fusa. Per il magistrato inquirente prima, e per il gip dopo, l’impianto non era sicuro pertanto doveva essere fermato per evitare altri incidenti mortali. Questa presunta pericolosità è ora scomparsa per decreto” secondo quanto racconta il Corriere del Mezzogiorno, cioè l’edizione barese del Corriere della Sera – “Ad esprimere il malessere che serpeggia tra i magistrati tarantini, ma non solo, è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, egli stesso pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Taranto.”. Il segretario dell’Associazione nazionale dei magistrati, dimenticando che le Leggi si rispettano ed applicano, contesta quanto deciso dal Governo ed avvallato dal Presidente della Repubblica sostenendo che “Il caso ILVA – dice – è la dimostrazione di come il legislatore tuteli l’interesse economico rispetto ad altri interessi come quelli sulla sicurezza dei lavoratori e della tutela ambientale». Il segretario dell’Anm– sempre secondo il Corriere del Mezzogiorno – mette in luce una pericolosa spaccatura tra i due poteri dello Stato. “Tutto questo – continua Carbone – crea una ulteriore contrapposizione tra potere giudiziario e potere legislativo sulla base di una evidente e più volte dimostrata priorità di quest’ultimo verso la tutela economiche rispetto ad altri diritti…. Ognuno –ha concluso Carbone – valuta le situazioni a modo suo. Certo è che scelte come questa sull’ ILVA, da parte della politica, non possono che lasciare perplessi e destare preoccupazione e non soltanto tra gli operatori della giustizia». Il dottor Carbone non spende nessuna parola però sulla circostanza che non risulta che la Procura e tantomeno il gip abbiano richiesto a dei periti (da nominare) una perizia tecnica sull’incidente mortale, nè tantomeno il magistrato si sofferma sulla circostanza che i soliti giornalisti “ventriloqui” di Palazzo Giustizia , abbiano censurato quanto circola in ambienti industriali interni (fornitori e dipendenti) allo stabilimento siderurgico dell’ ILVA, e cioè che il tragico incidente occorso all’operaio Alessandro Morricella sia stato provocato e determinato in realtà da comportamenti operativi di alcuni operai, molto lontani dalle note vigenti disposizioni aziendali in materia di sicurezza. Comportamenti analoghi a quelli che proprio nei giorni scorsi hanno portato alla condanna di alcuni operai dell’ILVA, responsabili di “scherzi” poco piacevoli ad un loro collega. Secondo nostre fonti confidenziali infatti, sembrerebbe che l’operaio deceduto non indossasse l’abbigliamento tecnico di sicurezza necessario sul posto di lavoro, di cui infatti nei primi rilievi di polizia giudiziaria dicono non ci sia alcuna traccia. Ma tutto questo nessuno lo dice e racconta. Come nessuno in Procura si meraviglia che il marito di un magistrato ricopra incarichi di gestione e rappresentanza societaria in aziende municipali e pubbliche. O di altro “professionista” tarantino legato ad un altro magistrato che vive, lavora e guadagna fior di quattrini (letteralmente) grazie alle CTU cioè le “perizie” affidategli dal Tribunale di Taranto, come questo quotidiano in un recente articolo ha già raccontato e denunciato. Di questi conflitti d’interesse, l'Associazione Nazionale dei Magistrati ed il suo segretario none parlano. Strano vero? Poi qualcuno si meraviglia che in un recente passato a Taranto siano stati arrestati un magistrato ed un giudice! Tutto ciò probabilmente spiega anche le ragioni per cui il dr.Cataldo Motta, Procuratore della Repubblica di Lecce, che regge anche il vertice della Direzione Distrettuale Antimafia che sovrintende per competenza sul territorio di Taranto, ha ottenuto dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura con parere favorevole del Ministro di Giustizia, la deroga a reggere il suo incarico sino al 2017. Mentre invece per il dr. Franco Sebastio, procuratore capo della repubblica di Taranto, la deroga non è arrivata. P.S. nel frattempo attendiamo ancora risposta ad una richiesta “pubblica” al dr. Sebastio di intervista da video filmare (invito che estendiamo anche al dr. Carbone). O forse le nostre domande scomode danno un pò di fastidio…?
AMBIENTE SVENDUTO E TARANTO INQUINATA: GIORNALISMO CORROTTO E STAMPA INFETTA.
Tutta la verità e le intercettazioni sui giornalisti a “libro paga” dell’ILVA. Scrive “Il Corriere di Taranto il 4 ottobre 2014. E nel frattempo da 2 anni l’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, sui giornalisti coinvolti nelle intercettazioni dorme sonni profondi. Sino a quando? Un folto pubblico di giornalisti, era presente nella biblioteca civica “Acclavio” a Taranto dove si è svolta due una conferenza sul tema: “La deontologia dei giornalisti nei massimari della giurisprudenza dell’Ordine”. Un’ occasione solo per raccogliere ulteriori crediti (in questo caso 5) per assolvere all’ obbligo formativo richiesto a tutti gli iscritti all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, o forse per alcuni la voglia di pulire la propria coscienza? Presenti fra i relatori il vice presidente del Consiglio di Disciplina Nazionale Elio Donno, il consigliere dell’Ordine pugliese Piero Ricci e il presidente del Consiglio di Disciplina pugliese Paolo Aquaro. La presenza del collega Aquaro, che sta seguendo insieme agli altri componenti del Consiglio di Disciplina un procedimento disciplinare sui comportamenti vergognosi di alcuni giornalisti tarantini coinvolti a pieno titolo, e per loro fortuna allo stato attuale senza responsabilità penale, nell’inchiesta “Ambiente Svenduto” avviata dalla Procura della Repubblica di Taranto e conclusasi con un recente richiesta di rinvia a giudizio per 49 imputati e 3 società, . Un’indagine interna, quella dell’Ordine dei Giornalisti della quale si attendono da oltre due anni gli esiti. Lo scorso 30 novembre del 2012, il Consiglio dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, si riunì in seduta straordinaria con all’ordine del giorno l’ esame della squallida vicenda che coinvolgeva dei giornalisti tarantini, emettendo uno scarno comunicato di poche righe per dire semplicemente quanto segue: “Il Consiglio ha deciso di procedere ad approfondimenti ascoltando in fase preliminare i giornalisti coinvolti che saranno convocati nei prossimi giorni, perché possano fornire la loro versione dei fatti”. Sono passati due anni da quel giorno ed un’imbarazzante silenzio è calato su questi approfondimenti. Pressochè impossibile, ricevere qualssi tipo di aggiornamento, notizia, neanche la più piccola indiscrezione sullo stato dell’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti pugliese. L’unica certezza è che vi sono state le audizioni di alcuni giornalisti che negli anni scorsi avevano fatto da scendiletto ai dirigenti dell’ILVA ed in particolare all’addetto alle pubbliche relazioni Girolamo Archinà, successivamente licenziato dai Riva. Di concreto, come immaginabile, nulla. Il silenzio più totale. Alcuni dei giornalisti coinvolti, paradossalmente ricoprano incarichi direttivi in giornali e telegiornali tarantini. Resta da capire con quale credibilità per loro e le varie testate. Durante la solita “lezioncina” sul corretto svolgimento della professione giornalistica, è arrivata la coraggiosa domanda che ha creato non poco imbarazzo ai giornalisti presenti: “scusate, a che punto è il procedimento disciplinare per i giornalisti intercettati nell’inchiesta Ambiente Svenduto?” A farla coraggiosamente, ma soprattutto giustamente è stato il collega Cataldo Zappulla, un coraggioso freelance, rivolgendosi a Paolo Aquaro. La risposta-reazione del giornalista che è presidente del Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, è stata però succinta, per non dire fredda: “E’ in corso”. Chiaramente, come prevedibile nessuno dei presenti si è minimamente soffermato sulla vicenda chiarendo il numero esatto dei giornalisti coinvolti. Il consigliere dell’ordine dei giornalisti Paolo Aquaro, avvicinato da una frrelance a fine conferenza, le ha detto che “non si può sbilanciare ed ha ammesso che l’inchiesta è resa meno spedita per la mancanza di documentazione. Insomma, mancherebbero gli atti della Procura, nonostante le richieste avanzat”. Sara vero? Noi ne dubitiamo fortemente in quanio, il Consiglio dell’ordine ha dei poteri di “persona giuridica di diritto pubblico (art. 1, ultimo comma, della legge n. 69/1963) ed ente pubblico non economico (art. 1, comma 2, del Dlgs 29/1993, oggi Dlgs n. 165/2001)” Non a caso infatti, l’Ordine dei Giornalisti è sottoposto alla vigilanza della Direzione Affari Civili del Ministero della Giustizia (art. 24 della legge 69/1963). “Sono assoggettati al controllo della Corte dei conti gli ordini e collegi professionali – nella qualità di enti pubblici non economici nazionali, di cui è menzione nell’art. 1 comma 2 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 – in quanto ricompresi tra gli enti di diritto pubblico, a loro volta assumibili tra le amministrazioni pubbliche di cui al comma 4 dell’art. 3 l. 14 gennaio 1994 n. 20” (C. Conti, Sez.contr. enti, 20/07/1995, n.43; – FONTE Riv. Corte Conti, 1995, fasc. 5, 48; ). Ne consegue che l’Ordine dei Giornalisti di Puglia, ha il diritto e dovere di acquisire gli atti in mano alla Procura della Repubblica di Taranto, invece di limitare la sua sinora sterile azione alla semplice lettura di articoli di giornali o di ascoltare altre informazioni raccolte in giro verbalmente quà e là. L’unico a dire qualcosa di più ma veramente ben poco, è stato il consigliere dell’Ordine, il collega Piero Ricci: «Non posso dirvi il numero esatto dei giornalisti coinvolti. La situazione è abbastanza delicata, ma secondo me il numero è ancora incompleto perché non abbiamo avuto ancora tutti i nomi e tutte le carte. Finché non li abbiamo non possiamo fornire un numero definitivo. Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento, perché ciò che abbiamo è insufficiente per aprire altri procedimenti disciplinari. Sono convinto che bisognerà aprirne altri. Questo, adesso, possiamo dire all’opinione pubblica. Speriamo di avere la necessaria collaborazione per delineare un quadro completo della situazione». E dopo due anni stiamo ancora al “Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento” ??? Come non dare ragione poi a Beppe Grillo ed a quanti propongono la chiusura dell’Ordine dei Giornalisti !?! Di fatto, Ricci ha avvalorato le voci di corridoio che circolano da tempo fra i giornalisti di Taranto. Infatti nelle carte e nel materiale della Procura non figurerebbero solo i nomi già pubblicati di alcuni giornalisti. La rete dei “pennivendoli” complici di Archinà e sul libro paga dell’ILVA in realtà è di fatto più estesa ed ancora attiva. Sarebbe il caso che il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia invece di organizzare corsi e conferenze inutili, che senza i crediti professionali, andrebbero deserti, si dessero fare e svolgessero il loro dovere istituzionale ed il loro compito professionale e morale. Le omissioni nell’applicazioni delle norme di legge, infatti, sono perseguibili penalmente. I “pennivendoli,”, i giornalisti “marchettari” vanno sanzionati ed in modo evidente ed esemplare. Lo impone il necessario rispetto nella Legge, ma sopratutto il dovuto massimo rispetto nei confronti dei dei lettori e telespettatori che hanno diritto a ricevere un’informazione corretta su quanto è accaduto ed accade intorno all’ ILVA. «Anche nel mese di ottobre 2010 – si legge nell’ordinanza del gip Patrizia Todisco – si registravano eventi di rilievo sul fronte dei rapporti tra Archinà e Assennato, il direttore generale di Arpa Puglia, e su quello dei rapporti che Archinà intratteneva con la carta stampata e che gli consentivano di manipolare letteralmente la maggior parte dell’informazione locale che, con sistematicità, risultava accondiscendente, alle indicazioni e ai suggerimenti di Archinà”. Nelle pagine del provvedimento del GIP si legge un rapporto diretto e colluso con i giornalisti di due testate giornalistiche di Taranto. Vengono riportati i nomi sia di Michele Mascellaro il direttore di Taranto Sera (quotidiano che ha cessato le pubblicazioni riapparendo successivamente ed ancor oggi in edicola sotto il nome di Taranto “Buona Sera” ), che del giornalista Pierangelo Putzolu che all’epoca dei fatti era caposervizio per la redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia attuale il direttore editoriale a Taranto “Buona Sera” . In particolare fu Putzolu, il 24 agosto del 2010, a consentire la pubblicazione, sul Quotidiano all’interno della rubrica “Punto di Vista”, un articolo dal titolo “L’allarme berillio e i fondi pubblici per la bonifica”, firmato da un fantomatico Angelo Battista, spacciato come “esperto ambientale”, ma che secondo quanto accertato e scritto dal gip Patrizia Todisco non esisterebbe, ed in realtà sarebbe stata scritta e firmata con un nome di fantasia da Girolamo Archinà. Di seguito vi proponiamo i passaggi più interessanti e significativi della “macchina del fango” giornalistico, messa in piedi dai Riva ed Archinà con il portafoglio sempre aperto.
Come volevano “bruciare” gli ambientalisti. Nico Russo, coordinatore di Taranto Futura, non piaceva all’ ILVA ed
Archinà. Era quindi necessario trovare un modo per bruciarlo. Archinà al telefono con l’avvocato Perli trova la soluzione ideale: segnalarlo a Michele Mascellaro. L’uomo, alla guida del quotidiano locale Taranto Sera (ora Taranto “Buona Sera”) è abituato a riportare le notizie con i “toni che vogliamo noi” diceva la “longa manu” della famiglia Riva.
Archinà (ILVA): “Avvocato se io per bruciare questo Russo, se io la facessi chiamare dal direttore di Taranto Sera, che è poi quello che trascina le notizie per il giorno dopo”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Eh”.
Archinà (ILVA): “Ritiene opportuno che gli spiega lei, magari senza interviste glielo spiega”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Si, ma io non farei interviste eh!”.
Archinà (ILVA): “Non interviste. No! No! Gli dà notizie…in modo che lo scrive lui”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Come si chiama questo?”.
Archinà (ILVA): “Michele Mascellaro. La faccio chiamare io”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ma è…c’è da fidarsi?”.
Archinà (ILVA): “E’ nostro! E’ nostro! E’ nostro! Si….”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mhhhh”.
Archinà (ILVA): “E’ nostro per intero!”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ok”.
Archinà (ILVA): “E’ quello…è quello che ha fatto scoppiare la questione Berillio!”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Ah…Ok. Va bene”.
Archinà (ILVA): “Le do il suo numero perchè così lui riporta la notizia, così con il tono che vogliamo noi.…”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Certo”.
Archinà (ILVA): “In modo che Russo domani se vuole tenere la conferenza stampa deve stare attento”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mhhh… va bene”.
Archinà (ILVA): “Va bene? quindi provvedo”.
Avv. Perli (legale ILVA) : “Mi…Mi…Mi interessa molto quell’accesso agli atti”.
Archinà (ILVA): “Si, si, si certo. Certo va bene.”
Avv. Perli (legale ILVA) : “Grazie arrivederci…ci sentiamo buongiorno….”
(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)
Le intercettazioni tra Mascellaro (direttore di Taranto Sera) e Girolamo Archinà (pubbliche relazioni ILVA) svelano i sistemi usati dalle aziende per gestire i rapporti con la stampa locale:
Archinà (ILVA): “comunque è andato… mò ti faccio una confidenza, non ti far trapelare niente quando lo vedi. E’ andato ieri in maniera improvvida e senza avermi avvisato, Cattaneo (ufficio stampa ILVA – n.d.r) da Walter Baldacconi (direttore responsabile STUDIO 100 – n.d.r). Vabbè ma voleva fare i soliti incontri giornalistici. Come li ha fatti con te e con gli altri, no? In maniera…alla milanese maniera"!
Mascellaro (Taranto Sera): "Si".
Archinà (ILVA): “E si Baldacconi l’ha portato da Cardamone…”
Mascellaro (Taranto Sera): “Ah…quanto gli hanno chiesto?”
Archinà (ILVA): “Appena è arrivato, dice “sa noi dall’ ENI abbiamo ricevuto una promessa di un milione di euro, poi Roma l’ha bloccata, per questo noi li stiamo attaccando”.
Mascellaro (Taranto Sera): "Ah".
Archinà (ILVA): “Ehhhh va buò. Dice che ne è tornato scandalizzato".
Mascellaro (Taranto Sera): "AhAhAhAhAhAh Ah AhAhAh (risata)".
Archinà (ILVA): “ Va buò !”
Mascellaro (Taranto Sera): "Ma non ti ha detto quanto gli hanno chiesto a lui?"
Archinà (ILVA): “No vabè ma mica lo fa così lui (Cardamone). So che sono tre o quattro volte che mi chiama oggi. e non gli rispondo a Cardamone."
Mascellaro (Taranto Sera): "Ah. ho capito".
Archinà (ILVA): “Va buò va! Ci sentiamo domani”.
Mascellaro (Taranto Sera): “Beato a chi gli è amico”.
Archinà (ILVA): “Ciao! Un abbraccio”.
Mascellaro (Taranto Sera) : “Ciao Girolamo ciao”.
Il 31 agosto dello stesso anno anche “Taranto Sera” pubblicava la seguente notizia: “Esclusiva: documento top secret dell’Arpa smentisce tutto. Un affare di milioni dietro la finta emergenza berillio”. In un dialogo intercettato Michele Mascellaro, all’epoca dei fatti direttore di Taranto Sera, e Girolamo Archinà si parlavano così al telefono:
Archinà (ILVA): "Mai hai visto? Tutti i giornali ti hanno seguito eh!"
Mascellaro (Taranto Sera): "Che mi tieni a fare a me?"
Archinà (ILVA): "Hai fatto uno scoop hai fatto…"
Mascellaro (Taranto Sera): "L’ho scritto anche: “Nostra esclusiva”".
Ma non è finita qui. In un altro passaggio dell’ordinanza, inoltre, si parlava l’emittente televisiva “Studio 100” di Taranto citata da un’annotazione della polizia giudiziaria “Si ritiene che il contratto pubblicitario rappresenti solo un escamotage per mascherare la dazione di denaro da parte dell’ILVA al gruppo di Cardamone per ottenere una linea editoriale favorevole”. Sempre scorrendo gli atti, secondo la polizia giudiziaria “dalle attività tecniche emerge che l’ILVA ha commissionato ad un’agenzia pubblicitaria degli spot (al costo di 120.000 euro) che verranno trasmessi dal network facente capo ai Cardamone. Appare chiaro che il pressing di Gaspare Cardamone abbia sortito gli effetti desiderati in quanto evidentemente ha ricevuto una sostanziosa commessa pubblicitaria da parte dell’ ILVA la quale, a sua volta, come ritorno potrà essere tranquilla che non riceverà attacchi mediatici ed anzi potrà sfruttare i predetti media a proprio favore anche mediante una campagna di comunicazione tesa a ridimensionarne la figura [in senso favorevole ad essa Ilva] agli occhi dell’opinione pubblica, al fine di non apparire sempre e solo come causa principale dell’inquinamento ma anche come uno stabilimento proteso all’incremento dello sviluppo eco-sostenibile dei propri impianti”.
(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)
Una conferenza telefonica tre, da una parte della cornetta c’è Girolamo Archinà, dall’altra lo scomparso Emilio Riva, patron dell’ILVA ed Alberto Cattaneo, dirigente della comunicazione in azienda. Oggetto della discussione gli spot su una televisione locale.
Emilio Riva (patron ILVA): “Archinà!”
Archinà (pubbliche relazioni ILVA): “Si dottore l’ho chiamata poco anzi, mi hanno detto che era impegnato”.
Emilio Riva (ILVA): “Sono qua con Cattaneo ” (responsabile comunicazione ILVA).
Archinà (ILVA): “Ti saluto”.
Cattaneo (ILVA): “Con questi cavolo di spot che vogliamo fare su Studio 100?”
Archinà (ILVA): “Siii”
Cattaneo (ILVA): “Ma ce li mandano in onda o no?”
Archinà (ILVA): “Ma allora io, me lo chiesi. Contrattualmente li devono mandare per forza in onda, io non vedo nessun problema di questo tipo. Era l’unica cosa quando me lo chiese il ragioniere, era di vedere un pò, se mandare gli spot, poi non aumentano gli appetiti degli altri esclusi, Questo era l’unico problema. Ma per Studio 100, non è un problema, lo devono mandare, punto e basta. Perchè è previsto dal contratto”.
Cattaneo (ILVA): “Girolamo. Ehi, quello che non ho colto da Cardamone è proprio questa volontà, però se tu ci assicuri noi siamo a posto. Siccome stiamo spendendo dei soldi per gli spot televisivi. Il nostro problema se spenderli o no, se questi non li mandano. Capisci?”
Archinà (ILVA): “Il problema, c’è un contratto firmato per questo, no, c’è un contratto, punto. Per me il contratto firmato va onorato da entrambe le parti”.
Cattaneo (ILVA): “Perfetto”.
Archinà (ILVA): “Punto. E’ un problema che non mi pongo, mi segui?”.
Cattaneo (ILVA): “Si. Sono felice di quello che mi stai dicendo”.
Archinà (ILVA): “Quando la settimana scorsa il ragioniere mi fece cenno di questo, io gli dissi, l’unico momento di riflessione deve essere un momento che, se attraverso questi spot, gli altri esclusi, Telerama, TBM, At6, cioè quelle televisioni escluse non…”
Cattaneo (ILVA): “Eh, ma qualcosa faremo anche con loro eh”.
Archinà (ILVA): “Ecco quindi ….”
Cattaneo (ILVA): “non mi preoccuperei di questo”.
Archinà (ILVA): “Infatti, solo di questo avevo detto. Punto e basta. Perchè gli altri, se vogliono i soldi, devono darci gli spazi, che invece di fare i redazionali, come mandiamo noi, cioè, quindi che cacchio vogliono?”
Cattaneo (ILVA): “Si ma il fatto è che siccome questi spot costano, poi dobbiamo mandarli in onda eh!”.
Archinà (ILVA): “Si, dottore lo so…”
Cattaneo (ILVA): “Costano 120.000 euro andiamo a spendere, perchè sono fatti bene, sono fatti con una logica …”
Archinà (ILVA): “No, no, dottore, il discorso che dico io, contrattualmente ci spettano degli spazi. Contrattualmente. Parlo di Studio100. Per cui su questo, se vogliamo, se vuole, io la prossima settimana oppure anche, perchè oggi e domani non ci sta lui che stà a Milano, a ritirare un premio, non so, gliene parlo, gli vado a parlare. Cosa…?”
Rumori di sottofondo (è la voce di Emilio Riva che parla)
Archinà (ILVA): “Si, esatto. Glielo vado a dire in maniera spiccicata”.
Cattaneo (ILVA): “Diciamoglielo, guardi caro signore, che noi stiamo andando, non stiamo facendo per finta . ILVA sta spendendo dei soldi per fare gli spot, non è uno scherzo!”
Archinà (ILVA): “Lunedì, vado e glielo dico in maniera spiccicata. Ripeto l’unico motivo di riflessione dottore che aveva fatto con suo padre era questo: attenzione siccome in quel budget erano escluse altre televisioni Telerama, TBM, e così non svegliamo gli appetiti di questi esclusi. Punto”..
Cattaneo (ILVA): “Va bene”.
Nell’ordinanza viene alla luce anche quanto non pochi sospettavano e denunciavano da tempo, rimanendo chissà perchè inascoltati…. «Il complesso delle attività tecniche svolte fa emergere uno spaccato nel quale si vede come l’ ILVA utilizzando lo strumento delle “sponsorizzazioni pubblicitarie”, veicoli in maniera più o meno “lecita” delle somme agli organi d’informazione, sia stampa che radio-televisivi, al fine di non essere continuamente avversata in conseguenza dei numerosi e costanti comunicati stampa e delle frequenti manifestazioni che le associazioni ambientaliste del territorio (Altamarea, Peacelink, etc) promuovono contro l’ ILVA considerata la principale fonte inquinante del territorio».
Ecco cari amici come andavano (e chissà se non continuano ancora) i rapporti giornalistici a Taranto della stampa corrotta e collusa con i poteri economici. Se persino il quotidiano LA REPUBBLICA ha messo online i file audio delle intercettazioni, cosa aspetta l’Ordine dei Giornalisti di Puglia a svegliarsi dal consueto silente torpore? Se poi qualcuno si rivolgesse alla Direzione Affari Civili del Ministero di giustizia ed alle Procure della repubblica di Bari e Taranto, allora qualche giornalista potrebbe iniziare a preoccuparsi anche penalmente. E’ proprio il caso di dire, Taranto inquinata, grazie anche a (certa) stampa infetta!
“Ambiente svenduto” & giornalismo corrotto, scrive Antonello De Gennaro il 2 dicembre 2014 su "Il Corriere del Giorno". "Solo chi non fa nulla non sbaglia mai. Sbaglia soltanto a nascere (1982)" Indro Montanelli intervistato da Enzo Biagi nel suo programma televisivo “Il Fatto”, poco prima della sua scomparsa, dipinse in maniera emblematica (alla sua maniera!) il rapporto tra un giornalista, il suo editore ed il pubblico, e disse: “Oggi non esiste più un solo giornalista che sappia dialogare con il suo editore, tutti hanno paura. Ma sono gli editori che dovrebbero temere i propri giornalisti: dovrebbero temerli perchè essi sono i primi difensori della trasparenza dei giornali e garanti della lealtà verso il pubblico”. In questa città sono nato oltre 50 anni fa ed ho avuto la fortuna di avere un padre come Franco de Gennaro, che insieme ai suoi soci e co-fondatori fondò il Corriere del Giorno, cioè il quotidiano, che oggi state leggendo nella sua edizione online. Ho avuto la fortuna di avere oltre a mio padre, dei grandi e veri “maestri” di giornalismo come Mario Gismondi, Oronzo Valentini, Giorgio Tosatti, Antonio Ghirelli ecc. Ho avuto la fortuna di riuscire a diventare giornalista professionista a soli 23 anni (e mio padre era già morto da 3 anni), record che ancora oggi mi risulta imbattuto. Perchè ve lo racconto? Non certo per ricevere facile consenso, l’ammirazione o applausi dai lettori che stanno leggendo quello che scrivo, nè tantomeno per atteggiarmi a “guru” del giornalismo. Ve lo racconto con grande umiltà, per sfatare delle leggende metropolitane messe in giro recentemente da giornalisti tarantini (e della provincia “complessata”) disoccupati, frustrati, incapaci, come le loro carriere confermano, per mettervi a conoscenza della verità e cioè che in 30 anni (fra un mese) di giornalismo professionistico, non ho mai ricevuto un qualsiasi tipo di richiamo deontologico dagli Ordini dei Giornalisti a cui sono stato iscritto (Bari, Milano, Roma). Qualcuno vi dirà: ma quello, de Gennaro è stato condannato per diffamazione (non giornalistica!) . Come ho già detto in passato, sono fiero di aver preso una condanna (“processo Svanity Fair“) peraltro coperta da indulto, e che in appello è stata dimezzata, anche perchè quelle diffamazioni (di oltre 10 anni fa) successivamente alla luce nelle inchieste “Vallettopoli” e “Berlusconi Ruby-gate” e “Berlusconi Ruby-gateBis”, sono diventate a posteriori delle “verità” raccontate dal sottoscritto in anticipo su tutti, da “solitario” e senza avere a disposizione i potenti mezzi informatici e di intercettazioni delle forze dell’ordine. Utilizzati dai pubblici ministeri Woodcock e Boccasini nello loro indagini. In queste settimane abbiamo pubblicate le intercettazioni che comprovavano le connivenze fra la delinquenza mafiosa tarantina ed alcuni esponenti della politica locale e del suo squallido sottobosco. Qualcuno ci ha accusato: “perchè non parlate anche dei giornalisti corrotti?” Premesso che già lo avevamo fatto, abbiamo deciso di pubblicare le intercettazioni “INTEGRALI” agli atti dell’ ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Taranto, su richiesta della Procura della repubblica, meglio nota come “inchiesta Ambiente Svenduto“. I giornalisti coinvolti Pierangelo Putzolu e Walter Baldacconi li conosco molto bene da anni, ad eccezione di Michele Mascellaro, anche se ora questi “signori della disinformazione” quando mi incontrano fanno finta di non vedermi. E fanno bene, perchè sono loro che devono abbassare il capo e guardare per terra dalla vergogna. Io sto facendo solo e soltanto il mio lavoro: informare il lettore. Senza “se” e senza “ma”, e soprattutto senza fare sconti a nessuno. Giornalisti compresi. Partiamo dalle intercettazioni che riguardano il quotidiano Taranto Sera, successivamente chiuso per mancanza di lettori… oberato dai debiti e rifondato sotto mentite spoglie, ribattezzato in (Taranto) Buona Sera con direttore lo stesso giornalista: Michele Mascellaro. “Ad ogni buon conto, la stampa, in quel caso il quotidiano “Taranto Sera”, diffondeva la notizia che si era di fronte ad “una finta emergenza berillio”, insinuando il dubbio che dietro tale emergenza, di fatto, si celassero ben altri interessi [v. articolo apparso sul quotidiano “Taranto Sera”del 31.08/01.09.2010, dal titolo: “Un affare di milioni dietro la fìnta emergenza berillio. NOSTRA ESCLUSIVA. Il documento top secret dell‘Arpa smentisce tutto”, allegato 57 all’informativa 21.09.2012, tratto dalla rassegna stampa interna dell’ILVA, decreto 356/10 R.I.T., prog. 2802]. All’indomani della pubblicazione di detto articolo di stampa, l’ARCHINÀ si intratteneva al telefono con il dott. MASCELLARO, direttore di “Taranto Sera”, e commentava con soddisfazione l’articolo che questi, su sua sollecitazione, aveva pubblicato; lo esortava, altresì, a continuare nella stessa direzione, con un nuovo articolo “pepato” in relazione alla conferenza stampa che il sindaco STEFÀNO aveva convocato a seguito della diffusione di dette notizie (conv. dell’01.09.2010, progr. 8013, ore 10.50, allegato 58 all’informativa 21.09.2012).
E gli articoli su “commissione di Archinà ai giornalisti al suo “servizio” non sono finiti……
Scrive ancora “Il Corriere del Giorno” il 5 dicembre 2014. Eccovi quindi il seguito delle intercettazioni agli atti dell’inchiesta giudiziaria “Ambiente Svenduto” che coinvolgono Pierangelo Putzolu ex responsabile della redazione tarantina del Quotidiano, ed attuale direttore editoriale del quotidiano (Taranto) “Buona Sera” edito da una cooperativa con sede a Grottaglie (TA), nato sulle ceneri di “Taranto Sera” la cui società editrice ha cessato la propria attività. Nelle intercettazioni, Putzolu dimostra di essere asservito agli interessi di Girolamo Archinà, all’epoca dei fatti responsabile delle relazioni esterne dell’ILVA (Gruppo RIVA) a Taranto. Come sempre tutto riportato testualmente ed integralmente. “Proseguono I pubblici ministeri nella richiesta di misura cautelare (pag 38 e segg.) Sulla scorta di quanto innanzi evidenziato non possono esservi dubbi sulla metodica utilizzata per raggiungere gli obiettivi perseguiti dall’ ILVA. E’ evidente che con il ruolo che rivestiva e con le mansioni che gli erano state demandate, ARCHINA‘ travalicava sovente, gli argini della liceità, come nel caso che si va a descrivere sempre finalizzato a screditare sia il direttore dell’ARPA Puglia ASSENNATO sia il sindaco di Taranto STEFANO visti come i principali nemici dell’ILVA. In tale opera ARCHINA‘ veniva poi valentemente supportato da due direttori di quotidiani locali, il dott. Pierangelo PUTZOLU, direttore della sede tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” (Gruppo CALTAGIRONE Editore – n.d.r.), ed il dott. Michele Mascellaro, direttore di “Taranto Sera“. ….omissis…… In tale disegno, ARCHINA‘ veniva supportato dai direttori dei quotidiani locali. Infatti con l’aiuto del dott. Pierangelo PUTZOLU, direttore dell’edizione tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” pubblicava in una nota nell’ambito della rubrica “Punto di Vista” del suddetto quotidiano a firma di un fantomatico BATTISTA Angelo, esperto ambientale, nella quale portata alla luce la questione, venivano sostanzialmente smentite ARPA Taranto ed ARPA Puglia. L’articolo di stampa in questione veniva intercettato nella rassegna stampa dell’ILVA, grazie al monitoraggio della posta elettronica di ARCHINA‘. Si riporta di seguito, la nota pubblicata il 24.08.2010 sulle pagine del “Nuovo Quotidiano di Puglia”, edizione di Taranto (allegato 50 all’informativa 21.09.2012).
LE BUFALE DI PEACELINK.
Le “bufale” di Peacelink sulla trasparenza, su cui molti giornalisti tarantini scivolano…scrive "Il Corriere del Giorno" l'8 dicembre 2014. Questa è veramente bella! L’Associazione PeaceLink ha reso noto oggi di essersi iscritta nel “pubblico” Registro Europeo per la Trasparenza istituito e gestito dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea per consentire “una interazione tra le istituzioni europee e le associazioni dei cittadini, le ONG, le imprese, le associazioni commerciali e di categoria, i sindacati, i centri di studi” . Per i soliti rappresentanti dell’associazione invece «È una forma di cittadinanza attiva europea che vogliamo espandere. Vogliamo, con la nostra iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza, promuovere la democrazia partecipativa transnazionale in modo da permettere alle istituzioni stesse di realizzare politiche adeguate che rispondano alle esigenze dei cittadini europei”. Peccato però che sull’ Associazione PeaceLink vi sia poca trasparenza. Anzi, nessuna! Infatti, visitando il loro sito nulla è dato sapere su sia ubicata realmente la propria sede sociale che nell’atto costitutivo risulta essere collocata presso l’abitazione di uno dei due soci fondatori (Giovanni Pugliese) e cioè in via Galuppi 15 a Statte (Taranto). Sul sito dell’associazione peraltro non compare nessun atto dell’assemblea dei soci che abbia modificato l’atto costitutivo dove uno dei soci fondatori (Alessandro Marescotti) che la qualifica ed il titolo di “insegnante di scuola media superiore”, risulta solo portavoce, mentre oggi lo stesso si auto-qualifica come “Presidente” come potete verificare di seguito con i vostri occhi. Anche consultando lo statuto dell’Associazione, si può verificare con i propri occhi come l’ambiente fosse un interesse molto limitato delle loro attività di “volontariato”. Ma il comunicato dell’Associazione in questione riserva delle altre sorprese. Recita (in tutti i sensi…) ” È un grande onore per Peacelink diventare un’associazione accreditata presso la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. – proseguono - Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020. Mentre in Italia vengono fatte leggi per rendere legale ciò che non è legale (incorrendo in infrazioni europee), e mentre si diffonde un preoccupante intreccio fra mafia e politica, confermato dalle indagini di Roma, riteniamo che l’Europa sia un riferimento di legalità imprescindibile per fermare questa riscrittura malata della legislazione nazionale. Taranto e la nostra nazione – conclude Peacelink - non possono e non devono sprofondare definitivamente nel malaffare e nella malapolitica. Vogliamo portare permanentemente il caso Taranto in Europa». Non sono pochi i giornalisti tarantini che sono caduti nella rete di Peacelink, Spaziano dalla redazione tarantina del quotidiano regionale (sempre più in crisi di vendite) La Gazzetta del Mezzogiorno, al quotidiano “Taranto Oggi” venduto più ai semafori che nelle edicole, passando per qualche collaboratore dell’edizione barese del quotidiano La Repubblica, che ha così scritto testualmente “Intanto l’associazione ambientalista Peacelink Taranto ha ricevuto una lettera dal presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, nella quale il presidente si dice “costantemente informato sulla evoluzione della situazione a Taranto”, rispondendo ad una missiva di Peacelink del 5 settembre scorso. Lo rendono noto Alessandro Marescotti, Antonia Battaglia e Luciano Manna per conto della stessa associazione”. Qualcuno può spiegare a questi giornalisti che ricevere una lettera formale di risposta ad una propria lettera/istanza/esposto. Non equivale a ricevere una lettera di Stato o impegnativa da parte dell’Europa? Resta da capire di quale “onore” trattasi, essendo l’iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza aperta praticamente a chiunque voglia. E quindi non si capisce bene di quale “onore” si stia parlando ?!? Che l’attività “ambientalista” sia di fatto qualcosa di anomalo per l’associazione lo si deduce da uno stesso articolo del 29 ottobre 2011 presente sul loro sito (appena tre anni fa) a firma di Marescotti. Ebbene in quell’articolo che riepilogava i loro 20 anni di attività, è singolare, ed impossibile non farci caso, non si parla mai di ambiente! Come se l’Associazione di volontariato Peacelink, (e quindi non di tutela dei cittadini e/o consumatori) non sapesse nulla dell’inquinamento dell’ ILVA che non è stato creato o causato certamente negli ultimi mesi. Un “interesse “ambientalista… dell’ultima ora, che quindi genera di conseguenza non pochi dubbi sul reale scopo della richiesta costituzione di parte civile presentata dall’associazione al Gip del Tribunale di Taranto nel processo “Ambiente Svenduto” attualmente in corso. Ironia della sorte, quell’articolo a firma Marescotti venne pubblicato nel 2011 proprio dal defunto quotidiano cartaceo “Corriere del Giorno di Puglia e Lucania” che come è ben noto a tutti i tarantini ed i nostri lettori, è miseramente fallito in liquidazione coatta con la cessazione definita delle sue pubblicazioni lo scorso 30 marzo 12014. Parliamo quindi del clone, cioè della brutta e mal riuscita copia dell’ “originale” Corriere del Giorno fondato nel 1947 , quello creato dai giornalisti Franco de Gennaro, Egidio Stagno, Franco Ferraiolo e Giovanni Acquaviva (accanto ai quali successivamente si affiancarono gli imprenditori Angelo Galantino eNicola Resta ), e di cui questo quotidiano online che state leggendo è il naturale “erede” e le legittima prosecuzione della missione di dotare la città di Taranto di una sua “voce” indipendente. Così come resta da capire come viva (o sopravviva) quest’ Associazione PeaceLink , chi siano i suoi finanziatori, in quanto di tutto ciò non vi è traccia, così come non vi è traccia di alcun bilancio pubblicato sul loro sito. Esiste solo una pagina, con cui l’Associazione chiede ai propri ignoti sostenitori di contribuire con un finanziamento. Ma anche in questo caso la “trasparenza” latita in quanto non vi è neanche un elenco pubblico dei sostenitori. Un comportamento questo, un pò in antitesi con il vero significato della parola “trasparenza”! I “volontari” di PeaceLink sono invece molto bravi ad usare i paroloni ad effetto tipo “Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020″, pubblicizzando la solita letterina di cortesia politica ricevuta da un esponente del Parlamento Europeo dopo appena 3 mesiin risposta alla loro solita “lettera”. Di quale “lavoro” parlino poi è ignoto saperlo. Probabilmente si riferiscono alla valanga di esposti, documentazioni, richieste che sono state inviate dappertutto da PeaceLink (soprattutto ai giornalisti “fiancheggiatori”) e che non hanno mai sortito alcun concreto effetto ambientalista. E’ anche inutile ricordare i vari tentativi dei rappresentanti di quest’ Associazione di entrare nelle istituzioni partecipando a varie campagne elettorali, che si sono sempre rivelate vane: infatti non hanno mai eletto nessun loro rappresentante. Alle ultime elezioni amministrative del 2012 per il Comune di Taranto, hanno presentato una lista denominata “ARIA PULITA PER TARANTO” che ha raccolto appena l’1,99% dei voti e Marescotti ricevuto appena 507 preferenze. Considerati i circa 200mila cittadini residenti e votanti a Taranto, un risultato alquanto eloquente e deludente. Ci sarà un perchè a tutto questo? Secondo noi, una volta tanto i tarantini non si sono fatti prendere in giro…! “Non potremo mai dire la verità senza non dover dare un dispiacere a qualcuno”. Questa cari lettori, amici e nemici, è la regola del “nostro” giornalismo. Che può anche non piacere a “qualcuno”, ma appunto costituisce solo e soltanto l’opinione di “qualcuno”, e chiunque esso sia questo “qualcuno”, la sostanza dei fatti non cambia di una sola virgola! P.S. Abbiamo trovato anche tracce giudiziarie di un noto esponente di Peacelink (sempre in prima fila accanto a Marescotti), che vanta alle spalle un’imbarazzante vicenda giudiziaria di sfratti reiterati, di case occupate abusivamente a Taranto e Roma. Ed ora costui parla di “legalità”….
LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.
Con procedimento n. 1833/13 il PM di Potenza d.ssa Daniela Pannone, chiedeva ed otteneva il rinvio a giudizio da parte della d.ssa Rosa Larocca per il processo tenuto dal dr Lucio Setola, ex PM.
Imputato: Antonio Giangrande, nato ad Avetrana (Ta) il 02.06.1963 ed ivi elettivamente domiciliato, ex art. 161 c.p.p., alla via Manzoni, 41.
Persona Offesa: Rita Romano, nata a Roma il 30.05.1967, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto.
A) Reato previsto e punito dall’art. 595 comma 3 codice penale (diffamazione) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089/05 r.g.n.r, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto – depositata in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – offendeva la reputazione della dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, scrivendo che il predetto magistrato “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e che “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.
B) Reato previsto e punito dall’art. 368 Codice penale (calunnia) perché, nella qualità di imputato nel procedimento n° 8486/08 RGNR e n° 5089 RGNR, nell’atto di avocazione delle indagini indirizzato al Procuratore Generale di Taranto - depositato in data 27/01/2011 presso la Sezione Distaccata di Manduria del Tribunale di Taranto – autorità che ha l’obbligo di riferirne, pur sapendola innocente, accusava la dott.ssa Rita Romano, magistrato in servizio presso il Tribunale di Taranto, del reato di abuso d’ufficio, di falso in atto pubblico. In particolare, accusava il predetto magistrato utilizzando le seguenti frasi: “abusando dell’ufficio adottava atti con intento persecutorio, lesivi degli interessi, dell’immagine e della sua persona, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove” e “nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha adottato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza; ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza”. In Manduria (TA) il 27/01/2011 – competenza dell’A.G. di Potenza ex art. 11 c.p.p.
Il procedimento penale su denuncia di Rita Romano. Denuncia per calunnia e diffamazione, questa è l’accusa che mi si oppone. Calunnia per aver presentato in data 27/01/2011 al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione, in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti, una richiesta motivata e circostanziata di avocazione delle indagini inviata al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Taranto, ma anche di Potenza. Avocazione delle indagini presentata il 18 aprile 2008 a Taranto e Potenza. Magistrato già precedentemente denunciato alle procure di Taranto e Potenza ben prima del 18 aprile 2008, sapendolo colpevole con prove a sostegno. Denunce presentate in data 22/03/2006 e rimaste lettera morta.
Diffamazione per aver presentato in data 27/01/2011 tale richiesta di avocazione delle indagini al Presidente del Tribunale di Taranto in allegato ed a sostegno dell’atto di ricusazione in procedimenti penali per il quale il magistrato denunciato era decidente sulle mie sorti. Diffamazione perché denunciavo la grave inimicizia causa di persecuzione. Diffamazione tardiva perché richiesta simile di ricusazione era stata presentata già il 29/09/2010. Le ricusazioni (erano tre per tre distinti procedimenti), poi, non sono state rese operative, in quanto il magistrato ricusato ha presentato la denuncia contro di me per giustificare la sua astensione. Cosa che rimarca ogni volta in tutti i procedimenti nei quali, investita come magistrato titolare, sia costretta a rinunciare: «Mi astengo dal procedimento a carico dell’imputato in quanto ho presentato denuncia penale contro lo stesso per calunnia e diffamazione.» Intanto per quei processi, sempre per diffamazione a mezzo stampa, con condanna scontata se fossi rimasto inerte, sono stato successivamente prosciolto dagli altri giudici subentranti.
La grave inimicizia, causa della ricusazione di cui si pretendeva l’impedimento dell’esercizio del diritto, era palesata dai precedenti giudizi di causa cui tale magistrato era competente ed io sempre soccombente, quando io esercitavo la professione forense, per le quali io ero imputato o difensore di parte. Dalla lettura delle sentenze si evince tale pregiudizio.
In effetti, la denuncia nei miei confronti, è un atto ritorsivo. Non tanto per la richiesta di ricusazione ed avocazione delle indagini ed atti allegati, ma per la mia attività di scrittore noto nel mondo che denuncia le malefatte dei magistrati a Taranto e pubblica quanto gli altri non osano dire. Vedi caso killer delle vecchiette, Sarah Scazzi, Ilva, ecc.
D'altronde la calunnia non sussiste, sapendo il magistrato colpevole ed evidenziandolo in più atti di denuncia, né sussiste la diffamazione, in quanto, ai sensi dell’art. 596 c.p., come pubblico Ufficiale la prova della verità del fatto determinato è ammessa nel processo penale.
Oltretutto i reati sono ampiamente prescritti e decaduti, ove vi fosse bisogno della querela.
Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.
DENUNCIA ALLA S.V.
Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,
domiciliata in viale Piceno a Manduria,
per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,
IN QUANTO
Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.
Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.
PREMESSO CHE:
Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006, la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.
Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.
Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.
Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.
Giangrande Antonio era difensore di Erroi Salvatore, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21. Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.
"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).
Nella palude mediatica si nascondono gli interessi corporativi di una Italia ancora mentalmente e istituzionalmente feudale..., scrive Gilberto Migliorini. Nell'informazione italiana si mescolano diversi livelli espressivi, dalla carta stampata ai blog passando attraverso la televisione e il cinema. Al di là della specificità dell’elemento tecnico e della modalità di comunicazione, permane l'imprinting mentale dell’italiano medio: un'icona distorta da stereotipi nei quali si dovrebbe riconoscere il suo vero volto. Quello che si vede nel fondo dell’occhio è un'immagine che si riflette su specchi deformanti, ed è da questi che a forza di insegnamenti mediatici l’opinione pubblica ha imparato a riconoscersi. Si tratta dell'idealtipo dell'abitante del Bel Paese descritto anche da tanta filmografia. Il format mediatico ha contribuito a mantenere e consolidare il cliché accentuandolo in tutte le sue forme, dando vita con l’effetto Pigmalione all'emblematico burattino collodiano; non solo metafora esistenziale dell’uomo in generale, ma anche icona antropologica di quel simbionte italico, un avatar alla ricerca di una identità psico-sociale. Alla base della pochezza culturale del paese c’è una scuola che ha fallito miseramente proprio dove avrebbe dovuto creare le premesse per formare un cittadino consapevole e in grado di comprendere la realtà in cui vive. Realtà è un concetto astratto, qualcosa che richiama immediatamente l’esigenza di problematizzare, andare oltre i luoghi comuni e le verità già bell'e confezionate. Realtà è quella che sfugge sempre, una entità indefinita, e per questo occorre svelarne i risvolti e i doppi fondi, avvicinarsi alla sua essenza invisibile. Realtà è quella che ci fa essere duttili, curiosi ed aperti, perché sfida le nostre certezze. Realtà è quella che cerchiamo di comprendere tra mille difficoltà e contraddizioni, ma senza l’arroganza di chi crede di conoscerla già per intero e senza mai esercitare l’arte del sospetto. La vera cultura è quella che si misura nella capacità di guardare il mondo con scetticismo disincantato, con la volontà di andare oltre le apparenze che ci attraggono nell'orbita delle false certezze, quelle del si dice, delle verità già confezionate e pronte all'uso. Una cultura dove i classici della nostra letteratura non siano solo cariatidi ingessate e mortifere, ma elemento attualizzante di riflessione, riscoperta delle nostre radici come propulsore di rinascita e di appartenenza consapevole al nostro passato e progettualità del nostro futuro. La scuola italiana nell'imprinting dei decreti delegati ha invece trasformato l’elemento educativo in un sistema convenzionale dove i media hanno fatto il loro ingresso surrettiziamente per interposta persona (le famiglie) con tutto il peso degli stereotipi. La democrazia è stata intesa come un mero opinare e come una sorta di arbitraria presa di posizione, un carnevale di maschere e un caleidoscopio di illusioni speculari. Un illustre semiologo ha argomentato che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”. Si tratta però di stabilire chi lo sono per davvero, a meno di considerare accademici, benpensanti e personaggi di rango (illuminati o cariatidi?) come i soli in grado di effettuare la cernita (dei cretini e non) dall'alto di qualche infallibile e indiscussa autorità. Nel blob degli opinionisti nessuno può dirsi escluso dalla selezione, nessuno può chiamarsene fuori. O forse qualche deus ex machina, noblesse oblige, possiede le stimmate della verità per via di qualche titolo accademico o laurea honoris causa? I media hanno saputo affinare tutti i loro strumenti di persuasione su un target (il popolo italiano) sempre più povero di strumenti culturali, sempre più in balia di imbonitori e suggeritori, sempre più integrato in un sistema di rinforzi (positivi e negativi) che lo hanno eletto a ignaro destinatario di un esperimento di controllo e persuasione. Il burattino alla ricerca della sua identità è stato immerso in un habitat dove la propaganda e la manipolazione hanno assunto i caratteri suadenti dell’intrattenimento, dell’informazione e della partecipazione. Il concetto di democrazia - replicato in tutte le salse e declinato con le figure retoriche dell’enfasi e dell’iperbole - è risuonato come un mantra nelle aule parlamentari, nelle piazze e nei comizi. La parola magica è echeggiata soprattutto in quel frame dei teleschermi dove il mondo là fuori è a portata di un dito con lo zapping e con la magia di un cambio di canale repentino. Democrazia come scelta libera di canale tra quelli offerti da qualche proprietà (pubblica e privata), compresa quella del teatrino di Mangiafuoco, con tutte le lusinghe di un gioco di ruolo (con ricchi premi e cotillon) dove l’utente partecipa e recita insieme alla compagnia degli attori, con Arlecchino e Pulcinella e l’immancabile Colombina. Gli slogan altisonanti, le seduzioni cromatiche, le allusioni erotiche e le retoriche del moralismo accattivante hanno circuito e assecondato la dabbenaggine e la superficialità di un italiano medio educato a pensare per slogan, a utilizzare i luoghi comuni, le ricette preconfezionate di una cultura usa e getta. Il target è stato trasformato in una cavia da laboratorio, illuso di essere il soggetto che sceglie e non l’ignaro oggetto di adescamento e manipolazione. Tanto più il sistema mediatico è riuscito a occultare le sue procedure di influenza ‘culturale’ con l’enfasi della retorica e della demagogia, tanto più la forza persuasiva ha intaccato i residui di razionalità dell'Homunculus italicus, quello degli spot. Il buon senso è stato annacquato in un chiacchiericcio insulso e banale, nell'incapacità di interpretare la realtà mediatica, di penetrarne i meccanismi sottostanti e gli algoritmi che presiedono al controllo e alla persuasione. Il burattino ha fatto da comparsa e da fumetto in un diagramma di flusso, una riga di istruzioni in un copione, convinto di essere protagonista sulla scena... non solo cavia e zimbello. La società italiana è diventata preda di automatismi mentali, talora in modo inconsapevole, influenzata da tutte quelle forze più o meno occulte sotto l’egida di un potere invisibile. Il gioco dei grandi numeri e delle medie statistiche (una profilazione di carte fidaty e fragranti biscottini) si è trasformato in una ingegneria politico-istituzionale per regalare all'utente un’immagine sempre più fedele, per conoscerne i gusti, le predilezioni, le idiosincrasie, i desideri e perfino i pensieri. Un programma per il futuro? Un disegno utopico? Un non-luogo più simile a una chimera, un progetto senza capo né coda, ma mosso dal desiderio di controllo e di potere. Il fine che nel Principe del segretario fiorentino (Machiavelli) aveva comunque la sua giustificazione in un sistema di governo ordinato, è diventato quello di un potere che ha in se stesso l’unica giustificazione. È un Bel Paese governato da gruppi che negoziano con le forze antagoniste per curare i propri interessi di parte. Il cinico mazziere utilizza in modo scaltro e senza remore morali tutti gli strumenti in suo possesso per manipolare e controllare un’opinione pubblica sotto tutela, un po’ con la bacchetta e un po’ con i mezzi suadenti dell’imbonitore. Il bastone e la carota in una commistione di minacce e di seduzioni amalgamate in forma di kermesse hanno educato l’italiano ad un opportunismo di sopravvivenza, un suddito sempre alla ricerca di escamotage in grado di far fronte alla protervia e all'arbitrio di governanti che promuovono gli interessi del loro clan. Il risultato è una società plasmata da slogan, controllata da un sistema mediatico in grado di indurre stili di consumo, comportamenti, modi di pensare e reazioni emotive. Un Paese dove gli opportunisti perseguono i loro interessi correggendo e modulando di volta in volta obiettivi e finalità in ragione di programmi occasionali in prospettive miopi e di corto respiro. Pensare che il Bel Paese abbia delle teste pensanti in grado di elaborare strategie a medio e lungo termine, sia pure orientate a degli interessi occulti, significa ritenere che la nave Italia abbia davvero un comandante, sia pure celato nell'ombra, in grado di sapere sempre esattamente dove l’imbarcazione sta andando. La realtà è invece quella di tanti piccoli ammiragli che con i loro piccoli cannocchiali scrutano gli oggetti meschini della brama di potere in una miopia negoziale fatta di compromessi e di opportunismi che hanno come meta quel galleggiare tra Scilla e Cariddi, mantenersi in sella nella prospettiva del comando. Un carpe diem coniugato nella forma dell’occasionalismo e del dirigismo a spizzico, sia pure in un quadro di alleanze internazionali e all'interno di un mercato globale. Un programma ben definito nel suo obiettivo, il potere, ed elementare nei suoi metodi, con le empiriche correzioni di rotta per non scafare…Il paradosso italiano è che nel paese cattolico per eccellenza l’etica è quella di un moralismo da galateo, un senso di giustizia che si appella a una precettistica, alla correttezza (spesso solo illusoria) dei procedimenti formalmente ineccepibili, vuoti e altisonanti, e alle belle intenzioni che nascondono interessi di bottega. Le caste hanno tradotto il loro meschino interesse nella forma di protocolli legislativi e normativi che ne assicurano protezione e sopravvivenza sotto forma di un labirinto di codici ricorsivi inespugnabili. Il povero Pinocchio finisce sempre per essere inseguito dai briganti e impiccato. Il provvidenziale soccorso al burattino indossa le vesti di una figura salvifica: lo squalo può assumere perfino le innocue e allettanti sembianze di una bella e accattivante fatina dai capelli turchini. Descrivere una macchina organizzativa composta di istituzioni e organismi sembra un’impresa da fisica sociale applicata alla sociometria e all'economia. I sistemi sociali ed economici sono più o meno stabili nel breve o nel lungo periodo. L’evoluzione è il tratto di tutti i sistemi reali. In qualche caso esistono perfino quelle scosse sismiche che vanno sotto il nome di rivoluzioni dove le società collassano e subiscono trasformazioni violente. L’immagine dell’equilibrista è evocativa per un sistema che da sempre possiede una capacità ‘creativa’ di sopravvivere modificandosi in ragione degli opportunismi. Il sistema Italia si regge su una stabilità assicurata dalla compartimentazione, una piramide stratificata dal vertice fino alla base. Non si tratta di una impossibilità delle persone di ascendere o discendere nella piramide sociale quanto di un sistema di chiusure che non a caso ricordano il nostro medioevo, una compartimentazione per gruppi sociali e soprattutto professionali, un sistema di garanzie e di protezioni alla base anche di quei sistemi mafiosi che in qualche modo traggono ispirazione e imitano, sia pure al di fuori della legalità, le idiosincrasie culturali delle nostre istituzioni. Per comprendere la logica del sistema Italia (e della sua mentalità) occorrerebbe, prima di effettuare una analisi di tali chiusure (con privilegi e immunità), fare un passo indietro e guardare al medioevo italiano che rappresenta la nostra matrice culturale. I modelli istituzionali - sia pure con la connessa innovazione tecnologica - mantengono un assetto immutabile al di là delle trasformazioni di facciata. Il potere è riuscito a camuffarsi con garanzie legislative e norme di tutela come meri specchietti per le allodole. L’evoluzione politica e istituzionale non ha inciso più di tanto sulla mentalità e il costume, ma soprattutto sull'organizzazione sociale. Il sistema Italia, nonostante le presunte innovazioni strutturali, rimane palesemente feudale. Il feudo che viene generalmente pensato come una entità territoriale ha gradualmente assunto una fisionomia più simile a un software evanescente che a un hardware fisico: le strutture del potere, in parte anche interiorizzate sotto forma di ideologie, hanno dissimulato variamente il loro carattere corporativo negli escamotage normativi che hanno mantenuto strutturalmente il paese in una condizione di immobilismo: i privilegi e le immunità hanno assunto una forma indeterminata e ubiqua, occultandosi dietro le formule propagandistiche e con un sistema mediatico esso stesso parte integrante delle egemonie sociali e delle strutture di potere. Il feudo da luogo fisico circoscritto, e da pertinenza ideologica dell’ortodossia di un gruppo politico, è diventato consorteria di interessi condivisi dei clan che spartiscono prebende e privilegi. I nuovi signori di banno hanno tradotto in senso metaforico il dominatus loci, mentre l’allodio (la piena proprietà) ha assunto il carattere sfumato della concessione in un giuramento di fedeltà con un diffuso sfruttamento del potere per interessi privati. Nella nuova realtà italica il feudo è costituito da un sistema di coperture che delimitano dei perimetri di potere, sistemi normativi che fungano da cinture di sicurezza e scambi di favore. Il diritto reale ha assunto il carattere di una rendita (di denaro e potere) in cambio non tanto di una specifica prestazione professionale (elemento accessorio) quanto di una fedeltà e consonanza che si esprime nell'omertà e nella complicità comunque legalizzate nei formalismi giuridici, nei codicilli e nelle norme ad personam. Le caste nel sistema Italia sono rappresentate da quei gruppi (anche istituzionali) che si mantengono rigorosamente chiusi in privilegi senza nessun rischio di essere smascherati come portatori di interessi di parte e al di fuori di una legalità che non sia solo di facciata. La possibilità di sfuggire a qualsiasi forma di controllo autenticamente democratico è data da un sistema normativo che nella indeterminatezza è sempre in grado di giustificare i suoi atti formali. La quadratura del cerchio è rappresentata da quelle formule ubique che possono essere lette variabilmente e derubricate a conferma che tutto è sempre fatto secondo scienza e coscienza. Le leggi rappresentano un flatus vocis dove l’interprete (quello istituzionalmente legittimato) può sempre fornire la decodifica di un nominalismo linguistico formalmente ineccepibile. I codici interpretativi hanno infatti la souplesse necessaria a tradurre i fatti conclamati sic et nona seconda della convenienza, delle circostanze e soprattutto degli interessi di riferimento. Il risultato è che le contraddizioni, le manchevolezze, le inadeguatezze e le incapacità dei vari strati della piramide sociale – di fatto impermeabili a un controllo e a una razionalizzazione che non sia soltanto di facciata – dal vertice e scendendo via via nel sistema delle istituzioni e delle connesse professioni - è sempre in grado di scaricare alla base tutte le sue incapacità e le sue magagne. Chi paga è sempre la palude degli utenti in un sistema di inefficienze e di abusi. Il sistema Italia, al di là delle belle formule di democrazia liberale e delle tirate ideali, rimane un paese feudale nella mentalità e nella qualità delle sue istituzioni che godono di quell'immunità derivata da un sistema largamente autoreferenziale e basato sulla discrezionalità mascherata dai formalismi giuridici e su forme di legalità di facciata. La divisione dei poteri nel sistema Italia costituisce non solo l’illusione di una società libera ed aperta, ma una sorta di divide et impera - sui generis - che trova autogiustificazione in un rapporto di reciproca legittimazione dei poteri nella loro completa autonomia e nella loro assoluta discrezionalità in quanto interpreti di norme tanto vaghe e indeterminate da poter sempre essere ascritte agli interessi di camarille e corporazioni. L’idea di una responsabilità che risulti indipendente dalla casta di appartenenza e dalle connesse protezioni e agevolazioni, è quanto di più alieno e inammissibile per un sistema dove l’individuo è sempre e soltanto in funzione degli interessi del suo clan (e del sistema di alleanze tra gruppi di potere) e non già della società nel suo complesso. Ognuno colga a piacere i riferimenti appropriati…
Giustizia, d’ora in avanti i processi facciamoli solo in tv, commenta Antonello Caporale su “Il Fatto Quotidiano”. Quanto costa un processo? Ma soprattutto quanto vale un omicidio? Uno a caso. Per Yara Gambirasio la Procura di Bergamo quanti soldi ha speso per raggiungere la sua verità? Mille, diecimila, centomila, un milione di euro? Di più? E cosi fa sempre? Si impegna fino allo spasimo per giungere a una giusta condanna, foss’anche l’ultimo derelitto a chiedere giustizia? E sempre a proposito di soldi: la famiglia accusata dell’efferato omicidio di Avetrana, per non parlare delle altre, a quali fondi occulti attinge per avvalersi di quella tribù di avvocati, criminologi, psichiatri, analisti tutti di eccellente e prezioso curriculum? Ma soprattutto: la severità dell’indagine, lo scrupolo col quale accusa e difesa avanzano indizi o li neutralizzano è amore per la verità o (anche) frutto dell’aspettativa del tempo di esposizione in televisione e dunque del fatturato che ne deriverà dalla notorietà acquisita? Voglio spiegarmi meglio: tutti questi bei processoni che producono faldoni zeppi di documenti e di consulenze, tonnellate di prove e controprove, sono il risultato di una sincera sete di giustizia o solo, e purtroppo, il magico saldo del bisogno ossessivo di tv? Perché, nel caso fosse vera la seconda ipotesi, varrebbe la pena saltare il tribunale e infilare l’imputato, i suoi accusatori e i suoi difensori, dopo averli fatti passare in sala trucco, direttamente in uno studio televisivo.
E' iniziato il 3 luglio 2015 il processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. E subito si è attivato il circo mediatico, con dispiegamento di telecamere ed analisi chiamati a interpretare la psico-somatica dell'imputato. Sarebbe invece il caso di spegnere le luci dei riflettori: per una difesa garantista di chi è accusato e per il rispetto della povera vittima, scrive Gianluca Veneziani su “L’Intraprendente”. Eccolo là, l’imputato, arrivare abbronzatissimo, in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, nel tribunale di Bergamo per l’inizio del processo a suo carico. Ed eccolo là, il circo mediatico che si riattizza, pronto a scrutare ogni minimo gesto dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, a cogliere ogni suo segno di cedimento, a interpretare il “suo muovere continuamente i piedi” – scrivono le agenzie – “come un sintomo di nervosismo”. Ed eccole lì, le troupe televisive, munite di arnesi in grado di riprendere senza comprendere, e i curiosi assembrarsi davanti all’ingresso del Palazzo di giustizia e addirittura accamparsi dal giorno prima pur di assistere all’Evento, immortalare l’Evento, essere spettatori e al contempo protagonisti di quell’Evento. A prescindere da quale sarà l’esito della vicenda giudiziaria, l’esordio non è stato affatto buono, perché ha dato il segnale che il processo a Massimo Bossetti possa trasformarsi nella versione aggiornata, 2.0, del caso Avetrana. Con una spettacolarizzazione mediatica fuori luogo (magari con qualche tablet e smartphone in più rispetto ad alcuni anni fa), con la stessa attenzione morbosa, quasi voyeuristica, su dettagli insignificanti, con l’elevazione preventiva dei protagonisti del fattaccio di cronaca a icone del Male o viceversa del Bene (spietati carnefici o, al contrario, vittime della giustizia, perché così vuole la semplificazione giornalistica), e quindi con la riduzione di quello che è stato un dramma familiare abnorme (la morte di una ragazza di tredici anni) a pretesto di un ennesimo fenomeno di costume e malcostume italico. Sarebbe bene piuttosto che il processo rientrasse nei ranghi e nei canoni che più gli sono propri, cioè quelli giudiziari. E sarebbe opportuno in primo luogo per Bossetti, la cui immagine rischia di essere cannibalizzata da tv e giornali e associata, in modo indelebile, a quella del “mostro”. In un sistema garantista la difesa dell’imputato e la sua reputazione come innocente fino a sentenza definitiva dovrebbero passare anche dalla tutela della sua privacy e dalla sua non eccessiva esposizione mediatica. Ci vorrebbe pudore anche nel (non) mostrare il volto del (presunto) colpevole, una sobrietà nel non utilizzare il suo corpo come cavia sulla quale psicologi d’accatto possano esercitare le loro fasulle velleità ermeneutiche (vedi il tic della gamba). Ma il ridimensionamento del processo a un ambito meno prossimo all’avanspettacolo sarebbe soprattutto una forma di rispetto nei confronti della piccola vittima e della sua memoria. Sarebbe doloroso vedere Yara costretta alla sorte mediatica di Sarah Scazzi, ridotta a oggetto di assurdi sondaggi e ricostruzioni post-mortem (“Ma a chi stava più antipatica, secondo voi, a zio Michè o alla cugina Sabrina? Votate!”), a pedina di un gioco macabro funzionale allo share nonché a destinataria simbolica di indecenti pellegrinaggi dell’orrore. Ricordare così il nome di una persona significa offenderne la memoria, visitare così la sua tomba significa profanare il luogo in cui riposa. Lasciamo dunque che la giustizia faccia il suo corso, senza processi preventivi e complementari fuori dall’aula e nei salotti tv, e lasciamo che i morti seppelliscano i morti, custodendo le spoglie della piccola Yara, affinché il suo nome non venga ulteriormente violato dal chiacchiericcio e dai “si dice”. Prendiamo esempio dai genitori della ragazzina di Brembate di Sopra, che hanno deciso di non figurare in aula, di non farsi attirare dalle luci dei riflettori, imprigionati nel ruolo di “vittime da compiangere” che impone loro il copione, ma hanno preferito stare in disparte, preservare in silenzio il loro dolore, senza renderlo osceno, volgare, inautentico, magari con un pianto studiato durante un talk show. E prendiamo le distanze dalle parole dello stesso Bossetti, che ha chiesto a gran voce che le telecamere fossero presenti in aula, affinché «tutti possano vedere, in quanto non ho niente da temere o da nascondere», volendo diventare forse il protagonista dell’ennesima saga mediatico-giudiziaria all’italiana, in onda sui migliori schermi. Il Male si compie al buio, in una periferia abbandonata, lontani da occhi indiscreti. Ma poi la celebrazione del rito che dovrebbe giudicarlo e, in caso, punirlo, la si vuole necessariamente a porte aperte, a favore di telecamera, alla presenza del pubblico in aula e degli spettatori a casa. C’è una contraddizione palese: il marcio si occulta ma il suo lavacro (che può essere gogna o catarsi, comunque espiazione) deve essere guardato da tutti, senza vergogna. Quasi che la visibilità del giudizio e della pena possa ridurre la potenza del Male, alleviare i nostri animi e assolverci per non essere stati presenti e non aver voluto vedere, quando c’era da assistere e da non voltare lo sguardo altrove.
L'Italia dei Media bugiardi, scrive Mariella Alberini su “Economia Italiana”. «Gentile Mariella, la censura e le bugie sono un'arma potentissima che permette ai Governi e al Potere in generale e persino alla Giustizia di camuffare la verità con l'opera funesta di tutti i Partiti Politici come prima operazione di conquista. Per accalappiare e mantenere una discreta capacità di sostenitori, ricorrendo all'acquisto dei mezzi di informazione e ai manganelli, per convincere l'opinione pubblica che la verità è soltanto quella che esce dalla loro bocca, e tutte le realtà altrui che provengono dal basso, dai cittadini malcapitati, vengono soffocate con la forza. C'era una volta l'Informazione onesta, i Giornali gestiti e sostenuti dalla Comunità per il bene della Comunità, oggi invece sono stati sostituiti da Bollettini di Guerra, Proclami Politici e Pubblicitari tutti fallimentari, finanziati dai Partiti e dal Governo con i soldi estorti ai cittadini. In periodo di elezioni i Politici si trasformano in canta storie e ne tiran fuori a dozzine più del diavolo per incantare i sostenitori: qualcuno offre pranzi, altri promettono soldi, lavoro, meno tasse o acquistano Parlamentari, Senatori, Giudici, Magistrati, Colonnelli delle varie Armi e, mi duole dirlo, ma ci sono persino uomini e donne di Chiesa che si vendono esattamente come fece Giuda due millenni fa, il quale aveva abbracciato la Fede in Cristo e poi l'ha venduta al miglior offerente. Preti politicizzati che appoggiano le loro ideologie extra pensiero, collegati al carro politico Comunista, Fascista, Liberale ecc., ma non ho mai visto un Prete pagare un Avvocato per difendere una ingiustizia o finanziare un progetto per sviluppare lavoro (caritas cristiana, caritatem tuam, anima mea, venter meus). Si arrampicano sui pulpiti per farsi sentire meglio e intavolano monologhi a volte senza senso, invocando brani di storia a misura della psicologia umana e trovano sempre qualcuno che li acclama, parenti o trascinatori ricompensati, e tutti gli altri gli vanno dietro a bocca aperta, battendo le mani. Se ricordiamo bene, sino a due anni fa nel Paese che non è più nostro, tutto andava a gonfie vele, tutto girava alla perfezione. Il Guru di allora, Giulio Tremonti, diceva: la crisi a noi non ci tocca, forse intendeva non tocca i Politici. Una crisi iniziata nel 1970 raggiungendo l'inflazione al 25% e non se ne erano accorti, mentre l'allora Prof. Romano Prodi, autore di tanti testi di Economia, Industria e Capitalismo, aveva apparentemente risolto los casinos italicos: con l'Euro, la Globalizzazione, la Privatizzazione di industrie Italiane deficitarie, ottenendo una montagna di Onorificenze Straniere, mentre la Politica Italiana da sempre deficitaria non ha saputo convertire, adattarsi al mondo che cambia; poi improvvisamente ci troviamo col sedere per terra e la colpa è giustificata da errori commessi da altri, forse intendono da altri Stati o figure Marziane Mafiose che comandano a casa nostra e ci hanno trascinato in una crisi mondiale. Tante, tantissime bugie...» Lettera firmata, ricevuta via e-mail. Caro lettore, sulla valanga di balle che i media cartacei, televisivi ecc. ci propinano ormai siamo tutti d'accordo. Per arrivare a sapere brandelli di verità economica, politica, sociale sulla povera Italia in agonia bisogna conoscere le lingue straniere e leggere la stampa estera. È un male antico, come ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, quando per ascoltare la verità sull'andamento degli eventi bellici ci si doveva sintonizzare su Radio Londra. Allora, almeno eravamo in guerra: ma anche oggi c'è una guerra in atto: quella della truffa gigantesca per difendere privilegi assolutamente immeritati e insensati. Non solo, nonostante la situazione di povertà e fallimento della nazione, i vertiginosi costi dei settori pubblici continuano vergognosamente ad aumentare come se fossimo in una florida situazione economica. Per i privilegiati, la "sciambola" degli anni Ottanta continua. Persino il neo ministro Kyenge si è messo a far lievitare i costi del suo Ministero. Per non parlare dei milioni di Enti inutili con cariche di Kasta inventate, ma naturalmente costosissime. Le normali aziende che spendono più di quanto incassano sono costrette a portare i libri in tribunale e chiedere il fallimento. Il 90% dei Comuni italiani è in bancarotta da anni, ma invocano sempre finanziamenti dallo Stato per continuare la loro politica dissennata. Abbiamo da tempo intrapreso la strada della dissipazione dei beni economici e soprattutto dei beni del pianeta che va verso una desertificazione procurata dall'incuria umana. L'Italia, il Paese più bello e confortevole del mondo, è alla mercé degli abusi condonati e delle cosche mafiose ormai arrivate al potere consolidato.
Un appello alla stampa responsabile. Perché non recensire ogni giorno i siti web virtuosi e segnalare quelli che spacciano bufale? Un servizio al pubblico sempre più necessario, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”. Mi sono molto divertito con la storia degli imbecilli del web. Per chi non l’ha seguita, è apparso on line e su alcuni giornali che nel corso di una cosiddetta “lectio magistralis” a Torino avrei detto che il web è pieno di imbecilli. È falso. La “lectio” era su tutt’altro argomento, ma questo ci dice come tra giornali e web le notizie circolino e si deformino. La faccenda degli imbecilli è venuta fuori in una conferenza stampa successiva nel corso della quale, rispondendo a non so più quale domanda, avevo fatto un’osservazione di puro buon senso. Ammettendo che su sette miliardi di abitanti del pianeta ci sia una dose inevitabile di imbecilli, moltissimi di costoro una volta comunicavano le loro farneticazioni agli intimi o agli amici del bar - e così le loro opinioni rimanevano limitate a una cerchia ristretta. Ora una consistente quantità di queste persone ha la possibilità di esprimere le proprie opinioni sui social networks. Pertanto queste opinioni raggiungono udienze altissime, e si confondono con tante altre espresse da persone ragionevoli. Si noti che nella mia nozione di imbecille non c’erano connotazioni razzistiche. Nessuno è imbecille di professione (tranne eccezioni) ma una persona che è un ottimo droghiere, un ottimo chirurgo, un ottimo impiegato di banca può, su argomenti su cui non è competente, o su cui non ha ragionato abbastanza, dire delle stupidaggini. Anche perché le reazioni sul web sono fatte a caldo, senza che si abbia avuto il tempo di riflettere. È giusto che la rete permetta di esprimersi anche a chi non dice cose sensate, però l’eccesso di sciocchezze intasa le linee. E alcune scomposte reazioni che ho poi visto in rete confermano la mia ragionevolissima tesi. Addirittura, qualcuno aveva riportato che secondo me in rete hanno la stessa evidenza le opinioni di uno sciocco e quelle di un premio Nobel, e subito si è diffusa viralmente una inutile discussione sul fatto che io avessi preso o no il premio Nobel. Senza che nessuno andasse a consultare Wikipedia. Questo per dire come si è inclini a parlare a vanvera. Un utente normale della rete dovrebbe essere in grado di distinguere idee sconnesse da idee ben articolate, ma non è sempre detto, e qui sorge il problema del filtraggio, che non riguarda solo le opinioni espresse nei vari blog o twitter, ma è questione drammaticamente urgente per tutti i siti web, dove (e vorrei vedere chi ora protesta negandolo) si possono trovare sia cose attendibili e utilissime, sia vaneggiamenti di ogni genere, denunce di complotti inesistenti, negazionismi, razzismi, o anche solo notizie culturalmente false, imprecise, abborracciate. Come filtrare? Ciascuno di noi è capace di filtrare quando consulta siti che riguardano temi di sua competenza, ma io per esempio proverei imbarazzo a stabilire se un sito sulla teoria delle stringhe mi dica cose corrette o meno. Nemmeno la scuola può educare al filtraggio perché anche gli insegnanti si trovano nelle mie stesse condizioni, e un professore di greco può trovarsi indifeso di fronte a un sito che parla di teoria delle catastrofi, o anche solo della guerra dei trent’anni. Rimane una sola soluzione. I giornali sono spesso succubi della rete, perché ne raccolgono notizie e talora leggende, dando quindi voce al loro maggiore concorrente - e facendolo sono sempre in ritardo su Internet. Dovrebbero invece dedicare almeno due pagine ogni giorno all’analisi di siti web (così come si fanno recensioni di libri o di film) indicando quelli virtuosi e segnalando quelli che veicolano bufale o imprecisioni. Sarebbe un immenso servizio reso al pubblico e forse anche un motivo per cui molti navigatori in rete, che hanno iniziato a snobbare i giornali, tornino a scorrerli ogni giorno. Naturalmente per affrontare questa impresa un giornale avrà bisogno di una squadra di analisti, molti dei quali da trovare al di fuori della redazione. È un’impresa certamente costosa, ma sarebbe culturalmente preziosa, e segnerebbe l’inizio di una nuova funzione della stampa.
“I social network danno parola a tutti, anche agli imbecilli. Ma non è detto che gli offrano ascolto”. Ecco, detta così, la provocazione di Umberto Eco avrebbe avuto tutto un altro senso, scrive Arturo di Corinto su “Che Futuro”. Ma lui, grande intellettuale, colto e raffinato provocatore, durante il conferimento a Torino di una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione, ha scelto una formula diversa per criticare i social media. La frase esatta, riportata dall’Ansa, suona così: «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli», una frase che ha subito e ovviamente scatenato una ridda di polemiche proprio sui social network. Intesa come una provocazione, l’uscita dello intellettuale piemontese andrebbe rivalutata positivamente. È probabile che concordi che il dialogo, il dibattito, il confronto anche aspro siano il “sale della democrazia” e, se questo avviene nei social network o al caffè letterario, non fa differenza. Tuttavia, poiché è arduo sostenere che Eco sia un antidemocratico, l’infelice formulazione della frase sembra denunciare l’estraneità del grande scrittore al mezzo digitale cui forse nel futuro vorrà dedicare un uguale tempo di riflessione a quello che ha dedicato a stampa e tv. Proviamo, allora, a ragionare sul ruolo e sulla funzione dei social e della rete. I social network e i social media hanno oggi il ruolo che i luoghi pubblici tutti insieme hanno avuto nella storia per lo sviluppo della democrazia, dalla basilica all’agorà, dalla piazza al bar fino ai conciliaboli filosofici. Però se i social network e i social media sono allo stesso tempo, bar, stadio, piazza, basilica, biblioteca e sala convegni è scontato che in essi i comportamenti siano quelli propri di questi luoghi. Ma i “social” sono anche la protesi, il prolungamento e la versione moderna di tutti gli altri mezzi di comunicazione divenuti digitali per la convergenza tecnica e dei contenuti in un processo noto come “rimediazione”, il processo dove un medium ne veicola un altro. Perciò mentre i social media sono diventati canale di distribuzione di vecchi e nuovi editori, e usati secondo la stessa logica per contribuire al dibattito pubblico e formare la pubblica opinione, ma anche per vendere news come merci, creare consenso e generare profitti, i social network sono la piazza dove questi effetti si consumano. E però questi ultimi mostrano una caratteristica finora inedita: nei social tutti possono rispondere, commentare, approfondire, verificare, comparare, criticare, chiedere una rettifica alle informazioni lette, viste, ascoltate. Tutte azioni finora impossibili da esercitare nei confronti dei media broadcast e mainstream. Insomma Internet non ha solo offerto la “piazza virtuale” agli imbecilli, ma ha offerto a tutti noi un luogo dove poter esercitare il sacrosanto diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, alla libertà d’opinione, di critica e di satira, ma anche alla libertà di associazione e cooperazione: su scala planetaria. Certo in Internet si danno fenomeni odiosi come l’hate speech, il cyberbullismo, lo stalking digitale ma per ognuno di essi ne esiste la versione analogica. Certo il web è in grado di propalare più velocemente gabole e bufale, ma questo accade con tutti i mezzi di comunicazione. Da sempre. Dice Eco che «la tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità». Anche questa affermazione del nostro pensatore è discutibile. Infatti per diffondere a livello planetario la bufala dei Protocolli dei Savi di Sionnon abbiamo avuto bisogno di Internet. Anche la credenza che la terra fosse piatta non ha avuto bisogno di Facebook, e per ascoltare in diretta l’invasione aliena di Orson Wells ci è bastata la cara vecchia radio. E l’uso propagandistico del cinema ai tempi del nazismo per affermare il culto della razza ariana è oggetto di studio da decenni.
Certo che la rete è piena di bufale e notizie inesatte! Pullula di teorie cospirative e di maleducati che danno solo fiato ai peggiori istinti pre-politici dell’umanità (in tal senso fanno storia, ad esempio, i tweet di molti politici), ma la rete ha avuto un effetto di democratizzazione delle conoscenze e del dibattito pubblico come solo si era avuto ai tempi dell’invenzione della stampa a caratteri mobili. La rivoluzione del fabbro-ferraio Johnannes Gutenberg che vide finanziata da un “venture capital” dell’epoca la sua “startup” per stampare meccanicamente la Bibbia, ha avuto come effetto quello di sottrarre il monopolio dell’interpretazione della parola di Dio agli officianti accreditati, cioè al clero, mettendolo in mano al popol bue che cominciò la rivoluzione mercantile con l’ascesa della borghesia e degli stati nazione riuniti sotto i vernacoli che via via prendevano il posto del latino, non più la lingua privilegiata per scrivere e leggere la Bibbia. Il nostro stimato intellettuale ha poi invitato i giornali «a filtrare con équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». Si rassicuri, lo si fa di già. I cablogrammi della diplomazia americana, le informazioni sulle storture della guerra in Iraq e Afghanistan diffuse da Wikileaks sono state pubblicate sui grandi giornali solo dopo un’attenta valutazione di team internazionali di giornalisti esperti. E comunque i giornali la maggior parte delle notizie le prende ahimè dalle agenzie professionali, motivo per cui si somigliano sempre di più e sono più facilmente oggetto di manipolazione. Molto condivisibile invece la sua tesi quando dice che «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». Questo approccio pedagogico cui le grandi testate quotidiane hanno rinunciato è territorio tuttavia di giornali, riviste e siti specializzati e sono l’oggetto dello scrutinio dei cacciatori di bufale come Massimo Mantellini, Pierluigi Tolardo, Macchianera e altri blogger. Tuttavia quello della credibilità delle notizie in rete è un non problema. È stato dimostrato scientificamente che l’Enciclopedia Britannica contiene un 30% di errori, poco più di quelli che si trovano su Wikipedia. Ma su Wikipedia chi se ne accorge li può correggere real time. Anche le notizie dei giornali non sono sempre credibili e le fonti talvolta sono inaffidabili. Ricordate l’informativa fasulla pubblicata da Vittorio Feltri su Dino Boffo? Oppure la polverina bianca sbandierata in conferenza stampa da Colin Powell per giustificare l’aggressione all’Iraq colpevole di nascondere “armi di distruzione di massa”? Umberto Eco vede un futuro per la carta stampata. «C’è un ritorno al cartaceo. Aziende degli Usa che hanno vissuto e trionfato su internet hanno comprato giornali. Questo mi dice che c’è un avvenire, il giornale non scomparirà almeno per gli anni che mi è consentito di vivere. A maggior ragione nell’era di internet in cui imperversa la sindrome del complotto e proliferano bufale». Sul futuro del “Quarto Potere” non ci sentiamo di dargli ragione. E non solo per l’avvento dei robot-giornalisti che scrivono e pubblicano già oggi notizie di sport e finanza. E neanche per i nuovi supporti digitali microfilmici su cui leggeremo le news. Quanto piuttosto per la moltiplicazione dei pubblici e quella sorta di oralità di ritorno per cui tutti diventano editori di sé stessi, capaci di rivolgersi a una audience da costruire e coccolare giorno per giorno. Vero è che la fine dei giornali di carta è stata a lungo preannunciata senza mai verificarsi. E che noi tutti abbiamo bisogno di giornalisti bravi che ci aiutino a indagare il mondo e a interpretarlo, ma è anche vero che i quotidiani vivono un momento congiunturale difficile e proprio per riparare ai danni di una crisi strutturale riducono i compensi, svuotano le redazioni, sbarcano su Internet e cercano disperatamente nuovi modelli di business. Oggi chiunque si informa attraverso Internet, non più monopolio di editori interessati (quelli “puri” come gli Ochs Sulzeberger del New York Times ce ne sono stati pochi), può trovare chi fa bene e onestamente il mestiere di filtrare le informazioni e confezionarle come notizie usando nuove tecniche di scrittura e di pubblicizzazione che hanno al centro il dialogo coi lettori. La grande sfida del civic journalism, il giornalismo partecipativo è proprio questa, trasformare ogni netizen in un giornalista per caso, capace di raccontare prima e meglio delle tradizionali redazioni quello che gli succede intorno mentre succede. I giornali mainstream l’hanno capito e si sono alleati al giornalismo fai da te, basta guardare i blog dei quotidiani, quasi tutti tenuti – gratis – da giornalisti non professionisti che si sono fatti le ossa proprio su Internet.
Le Bufale che girano intorno, scrive Gianni Pezzano su “Il Giornale web”. La foto sul social media era orrenda, due uomini con una statua della Madonna in braccio e i loro gesti non avevano niente in comune con nessuna religione, tanto meno con quella cristiana. Purtroppo la didascalia li indicava come fanatici musulmani che profanavano un simbolo della nostra religione. C’era solo un problema, la foto non proveniva da un paese musulmano, ma dal cattolicissimo Messico e gli uomini raffigurati indossavano divise con la Croce Russa sul braccio. Un’altra volta un utente sconosciuto ha rilasciato una bufala che non ha fatto altro che riscaldare gli animi inutilmente. Ormai queste bufale escono ogni giorno e nella fretta di leggere tutti gli avvisi di amici e di non voler guardare attentamente quel che viene trasmesso circolano bugie ed immagini che non dovrebbero far parte della vita quotidiana. I giornali e i notiziari sono cosi pieni di orrori nel nome di religioni, di fedi politiche, o di una patria contro un’altra che diventa facile accettare tali immagini come verità. Ed è proprio questo lo scopo che quelli che mettono le immagini in rete vogliono ottenere. Queste tattiche rendono ancora più difficile il compito degli amministratori delle pagine di Facebook, Twitter e tutti i social media. Dover capire quale immagine sia vera, falsa o manipolata e quale genuina diventa un lavoro da detective mediatici ed è facile sbagliare valutazione. Peggio ancora per gli amministratori è il seguito con scambi verbalmente violenti tra utenti che utilizzano le immagini per giustificare o condannare punti di vista diversi. Ed anche questo è lo scopo dei fabbricatori delle bufale. Nel rendere più difficile trovare il confine tra verità e falsità loro creano le condizioni di poter inquinare e falsificare percezioni e notizie. Nel trasmettere immagini manipolate, frasi di personaggi fuori contesto, oppure frasi mai dette da personaggi famosi, diventa sempre più facile poter manipolare gli utenti verso politiche e idee estreme. Però la colpa di tutto questo non si trova solo tra i maghi dalle tastiere, veloci, capaci di trasmettere immagine dopo immagine in cerca di chi ci crede e le condivide. L'origine di questo tipo di comportamento non è la nascita dei social media, ma comincia da ben prima. L’essere umano ha sempre cercato di falsificare le notizie e le informazioni in favore di un gruppo, o di un individuo. I nostri capi, prima ancora dell’invenzione della parola “politico”, già cercavano di indirizzare il parere della popolazione in determinate direzioni. Esiste un caso di oltre duemila anni fa che viene ancora studiato nei licei e nelle università del mondo, ma come esempio di letteratura antica e anche di testimonianza storica. Giulio Cesare non scrisse il De Bello Gallico per i posteri due millenni dopo la sua morte. L’opera fu scritta per preparare il terreno per una campagna politica basata sulle sue capacità militari, una capacità che condivideva con il suo maggiore avversario Pompeo Magno. Con una grande base di verità, ma presentato in maniera mirata, Cesare potè dirigere il parere della popolazione romana. L’utilizzo da parte di Cesare di quel che noi ora chiamiamo propaganda non finì con l’ultima battaglia contro i Galli, ma continuò con i suoi ricordi della guerra civile che ne seguì per spiegare, anzi giustificare, un comportamento che era certamente contro le leggi e le tradizioni della Roma Repubblicana. La forza di Cesare era di potersi esprimere in modo esemplare e di sapere utilizzare la lingua come arma con la stessa capacità con cui comandava le sue legioni. Negli oltre duemila anni da allora gli esempi e i mezzi si sono moltiplicati. Sappiamo tutti come i mecenati italiani non fossero generosi con gli artisti solo per amore dell’Arte, ma perché le opere che commissionavano avevano come scopo quello di esprimere le loro posizioni di potere e di trasmettere la loro immagine e la loro ricchezza a tutto il mondo. Con l’arrivo della radio prima e della televisione poi i politici hanno capito l’importanza di frasi brevi e mirate per trasmettere il loro messaggi al pubblico e non sempre il messaggio è quello che il politico intende. Il comportamento del politico sullo schermo ha la stessa importanza delle parole che pronuncia. Nel primo dibattito presidenziale della Storia negli Stati Uniti tra John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon il risultato fu deciso più dal sudore di Nixon, visto dal pubblico come segno di debolezza, quanto la retorica di Kennedy che i giornalisti pensarono inferiore a quella di Nixon. Dunque, le immagini sono importanti quanto le parole e in certe circostanze ancora di più. Per questo si vedono più spesso in televisione certi politici perché sono i più capaci ad agire in modo deciso e a saper sparare dichiarazioni non sempre in linea con i fatti, ma dette in modo così sicuro che il pubblico ci crede immediatamente. Infatti, con il passare degli anni gli spot dei politici in televisione sono diventati sempre più brevi con frasi che spesso sono espressioni che assomigliano di più frasi pubblicitarie che dichiarazioni politiche. Così ora ci troviamo con l’evoluzione più radicale e pericolosa che gira via internet. Tramite Twitter, Instagram e Facebook i politici e chi propaganda idee estreme sono in cerca del miglior modo di attirare l’attenzione del pubblico e abbiamo visto come molti di loro intenzionalmente giocano con le immagini e le parole per realizzare il loro colpo. In un mondo dove sembra che tutti abbiamo l’impressione di avere sempre meno tempo la soluzione non è facile e i fabbricatori di bufale sfruttano questa impressione. Vedere una frase falsa collegata a una foto di un personaggio amato, come Sandro Pertini, rende più credibile la frase e non tutti hanno tempo e voglia di controllare se veramente l’abbia detta o no. Girano ancora immagini e notizie di parecchio tempo fa e c’è gente che reagisce come se fosse successo solo quel giorno, mantenendo in vita immagini e notizie false. Non metto in discussione la reazione di quelli che condividono, gente che pensa di fare bene. Ma ciò non nega che ci siano persone che vogliono sfruttare la loro ingenuità per perpetuare e rendere credibili bugie e per deformare notizie. In una situazione politica tesa e difficile, sia interna che internazionale, la trasmissione intenzionale di notizie false e spesso diffamanti non fa niente per trovare soluzioni alle nostre difficoltà. Quando vediamo notizie mentre scambiamo due chiacchiere con gli amici non cadiamo nel tranello di questi fabbricatori di bugie. Prendiamo qualche secondo per controllare l’immagine, se necessario facciamo una ricerca per vedere se sia vera o no e poi decidiamo se sia veramente qualcosa da condividere e non qualcosa che in fondo fa male a noi tutti. Abbiamo abbastanza tristezza nel nostro mondo senza essere complici di chi vuole crearne ancora di più.
Il giornalismo, i cani da guardia e i cagnacci da letamaio, scrive Marco Pratellesi su “L’Espresso”. Sono tanti. A scorrerli così, messi in fila, uno dopo l’altro, fanno impressione. Sono i nostri errori. Piccole e grandi imprecisioni quotidiane di giornalisti. La fatica di metterli insieme, in una sorta di antologia degli “orrori”, se l’è sobbarcata Luca Sofri, direttore de “Il Post” e autore di Notizie che prima non lo erano, 250 pagine fitte di strafalcioni commessi da giornalisti, da noi quindi e, in parte, anche da lui (Rizzoli, 16 euro). La passione, quasi una paranoia dice Sofri, per gli errori ha un responsabile: Carlo Verdelli. Quando dirigeva la Gazzetta dello Sport gli affidò una rubrica: Notizie che non lo erano, appunto. Così, nel 2007, è cominciata la caccia di Sofri: bufale, errori, pseudo notizie e forzature quotidiane della stampa italiana. Un cacciatore spietato che, senza guardare in faccia nessuno, testate autorevoli e non, di carta e online, si è fatto probabilmente qualche nemico. Perché noi italiani siamo fatti così: se un collega o un lettore becca un errore, ti smentisce o corregge qualcosa che hai scritto mica lo ringrazi per averti aiutato a compiere un passo verso la “verità dei fatti”. Macché, finisce anzi che ti stia pure sulle scatole. Nelle redazioni italiane, scrive Sofri, «la verità non è una priorità, quello che conta è “la storia”, il racconto, il “gran pezzo”, divertente da leggere». Il tema è antico come il mondo, precede i giornali e sopravviverà loro: distinguere il falso dal vero. Un tempo si diceva: «L’ho letto sul giornale»; «L’ha detto la televisione». Ed era come dire: «E’ vero». Ovviamente non sempre notizia e realtà combaciavano. Solo che prima smentite, correzioni, segnalazioni di bufale finivano prevalentemente nel cestino invece che in pagina. Oggi, grazie alla rete, ai social media, ai blog è tutto più trasparente. Nascondere non serve, anzi è l’unico errore che i lettori non sono disposti a perdonare. Quello che veramente ti fa perdere credibilità ai loro occhi. Come sempre si può vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. C’è chi nella rete vede solo il proliferare di bufale e notizie false e chi invece ne esalta l’opportunità di denunciare pubblicamente gli errori di chi fa informazione. La questione non è tanto se le notizie false siano aumentate, quando la possibilità di renderle visibili a tutti, senza filtri né censure. “L’informazione probabilmente non è diventata meno accurata, è solo che prima non ce ne accorgevamo”, suggerisce l’autore. Storie apparentemente bellissime, ma false, si susseguono nella narrazione di Sofri: ci sono “gli albanesi che si sono fregati l’orologio di Bush”; “il complotto per uccidere Obama”; le dimissioni dell’addetto stampa del ministro Kyenge, scambiate per quelle del ministro; Mastella che in parlamento cita Neruda che però non è Neruda”; le morti di personaggi prematuramente annunciate, da Fidel Castro a Brad Pitt; le interviste inventate; “la house music che può causare impotenza”; “il cliente tipo delle prostitute, che ama internet e ha pochi interessi”; e chi più ne ha più ne metta. Una sequenza imbarazzante che non risparmia nessuno: da Repubblica al Corriere, dalla Stampa al Giornale, Libero, il Fatto, il Messaggero, il Tempo, Rai e Mediaset. Un posto ce lo siamo guadagnati anche noi dell’Espresso e, ovviamente, gli amici del Post. Le «dinamiche di lettura e condivisione online e via social network», scrive Sofri, hanno «esteso enormemente il potenziale dei contenuti che un tempo si dicevano “popolari” e oggi si dicono “virali”». E’ un dato di fatto che il mondo digitale abbia velocizzato tutto, comprese le notizie che oggi corrono assai di più di quanto non avvenisse 25-30 anni fa. E poiché le notizie in rete più sono fresche più hanno vitalità, grazie all’effetto di amplificazione dei motori di ricerca e dei social media, hanno scatenato la voracità dei giornalisti con la velocità che sempre più spesso fa premio sulla qualità. Così, scrive nella prefazione il giornalista e saggista Craig Silverman: “Le falsità arrivano molto più lontano della verità e i media giocano un ruolo importante nel permetterlo”. Il meccanismo era stato già descritto dal politologo americano Larry Sabato (Feeding Frenzy, The Free Press, New York 1991), che ha classificato i tre stadi “canini” che hanno caratterizzato il giornalismo statunitense nel secolo scorso:
Cagnolino da grembo: tipico degli anni 40-60, con i giornalisti che scodinzolano intorno al potere e impacchettano una informazione propagandistica del governo;
Cane da guardia: è la fase che raggiunge il culmine con il Watergate e le dimissioni del presidente Nixon; sono gli anni 60-70, in cui si impone un giornalismo investigativo, indipendente dai poteri, che tiene il fiato sul collo dei politici;
Cagnaccio da letamaio: è l’ultima fase in cui si fa strada un giornalismo aggressivo, pettegolo e scandalistico. I giornalisti che lo praticano, colti da una frenesia famelica che acceca la ragione, sono pronti a vendere come notizie anche le voci più incontrollate. Questa fase raggiunse il suo apice con lo scandalo Clinton-Lewinsky nel 1998. La velocità di internet e la curiosità morbosa suscitata dal sexgate costituirono una miscela esplosiva che spinse l’editorialista americano Jules Witcovern (Where We Went Wrong, Columbia Journalism Review, marzo-aprile 1989) a paragonare la voracità superficiale dei giornalisti alla “frenesia famelica dei piranha”.
Le conclusioni? Sofri ancora una volta interroga Craig Silverman: «Il principio alla base del giornalismo è che fornisce informazioni che aiutano le persone a vivere le loro vite e comprendere il mondo intorno a loro. Questo è impossibile da ottenere se promuoviamo e diffondiamo attivamente informazioni false».
Ed è bene tenere sempre a memoria anche il suggerimento di un altro grande giornalista e saggista, Matthew Ingram: «Il miglior consiglio per i giornalisti – o per chiunque altro, in effetti – quando si parla di notizie è: “Se sembra troppo bello per essere vero, probabilmente non è vero”».
Il caso Scarabeo, la libera informazione e il bavaglio, scrive “Primo Numero”. Che l’assessore Massimiliano Scarabeo fosse sotto inchiesta sulla base di accuse gravissime - l’aver frodato la regione di cui è stato consigliere e poi è diventato assessore -i mass media molisani (giornali e tv) lo sapevano da tempo. Il problema è che non lo sapevano i molisani che, tra le altre cose, pagano le tasse anche per finanziare quegli stessi organi di informazione che avrebbero il dovere (e sottolineiamo la parola dovere) di raccontare le cose che accadono, almeno le più importanti. Eppure non c’è un solo giornale, né una sola televisione, che abbia reso noto in questi mesi il fatto che un assessore della giunta Frattura fosse sotto inchiesta per il sospetto (assai documentato) di aver frodato la stessa regione di cui è rappresentante per favorire le proprie aziende di famiglia. Di bello (o di brutto) c’è il fatto che tutti questi organi di informazione erano perfettamente a conoscenza dell’inchiesta in corso, prova ne sia il fatto che il giorno in cui le Fiamme Gialle irruppero nella sede della Elcom per sequestrare documenti utili alle indagini, fuori dai cancelli della ditta, c’erano le telecamere di tutte le tv molisane a riprendere l’evento, oltre a una nutrita pattuglia di cronisti. Nonostante ciò nei giorni successivi solo i lettori di primonumero ebbero il privilegio di venire a conoscenza della perquisizione, dell’inchiesta in corso e del coinvolgimento di Scarabeo. Sul resto dei mass media neanche una riga, neppure un fugace servizio televisivo, niente di niente. Di brutto (o di bello) c’è il fatto che parte dei responsabili di questi giornali e tv reticenti (ma se fossimo in Sicilia Calabria dovremmo dire più opportunamente omertosi e conniventi) non perdono occasione di ergersi a paladini della informazione libera, coraggiosa e scomoda per il potere. Si pavoneggiano sui social network e in editoriali al sapore di caciocavallo dando bacchettate a destra e manca, impartendo lezioni di buon giornalismo e recitando pure il ruolo delle vittime a cui il potere vuole mettere il bavaglio. Certo il bavaglio ce l’hanno, ma se lo mettono da soli. (Morpheus)
MASS MEDIA BUGIARDI … E SE SONO LORO A DIRLO, scrive Sergio su "Mlnv". I Tg non vi dicono la verità, noi eseguiamo gli ordini. Le rivelazioni di una giornalista Rai! LA VERITA’ NON VI VERRA’ MAI DETTA… QUESTA E’ L’UNICA CERTEZZA!!! Che questo accadesse, diciamocela tutta: non avevamo dubbi. Ma che a dirlo e spiattellarlo ai 4 venti, fosse una giornalista Rai…Beh non lo avremmo mai pensato. La donna in questione è Elisa Ansaldo. Lei stessa ha reclamato e si è battuta per i diritti ad un’informazione giusta e veritiera! Cosa che in Rai non accadeva e non accade neppure adesso! Nelle 2006 e nel 2007 conduce la sezione giornalistica durante le due edizione di Unomattina. Poi nel Settembre 2008 passa alla conduzione del TG1 della notte. Il 25 maggio 2011, in polemica con il direttore Augusto Minzolini, annuncia il suo ritiro da conduttrice del TG1, contestando il fatto che esso violerebbe i più elementari doveri dell’informazione pubblica come equilibrio, correttezza, imparzialità e completezza dell’informazione seguendo di circa un anno la medesima decisione della collega di redazione e amica Maria Luisa Busi. La stessa Elisa Ansaldo aveva affermato: “Per motivi professionali e deontologici non ritengo più possibile mettere la faccia in un tg che fa una campagna di informazione contro”. Solo nel 2013 torna alla conduzione del TG1 conducendo: prima l’edizione delle 17, poi quella delle 13:30. E’ proprio nel periodo della sua pausa giornalistica Rai che la stessa giornalista ha manifestato pubblicamente il suo disappunto nei confronti di una testata giornalistica, quale il TG1. Privo di veridicità e fondamenti basati sulla lealtà alla notizia…Insomma, la giornalista Elisa Ansaldo non le ha mandate a dire a nessuno e non ha accettato il modus operandi della Rai, in quanto non conforme alle leggi ma soprattutto determinato a celare, nascondere e modificare la notizia. Ha reclamato il diritto all’informazione: un’informazione corretta, integrale e non censurata. In Rai si ha paura della notizia, e le cose accadono sempre dove noi non siamo…Nella case, nelle industrie, nelle carceri, nella aziende…Guarda caso noi siamo da un’altra parte” e continua polemizzando: “Chi si poteva immaginare che le gente comune si trovava a combattere con la disoccupazione, i licenziamenti e la cassa integrazione. Che esiste il problema del precariato nelle scuole. In vece no…Noi pensavamo che a voi questo non interessasse…Credevamo che voleste sentir parlare di Michele e Sabrina Misseri, Sarah scazzi, e Yara…Insomma di tutto lo spettacolo montato intorno a queste povere ragazze”. Ascoltate l’intero intervento della giornalista Elisa Ansaldi e capirete molte cose…Il video è caricato in fondo all’articolo! A nostro avviso, la situazione è grave. E i politici vogliono la nostra disinformazione perchè è comoda. Solo così possono continuare ad operare indisturbati. E’ proprio per questo che noi stessi non seguiamo più l’informazione che viene passata dalla tv. Che sia pubblica o privata, esse è un’informazione corrotta e manipolata. Non è un’informazione che nasce per informare ma è determinata a disinformare!
NESSUNO TOCCHI SAVIANO - BEHA: SULLA SENTENZA RELATIVA AL PLAGIO DI ALCUNE PARTI DI ''GOMORRA'', I GIORNALI HANNO RACCONTATO L’ESATTO CONTRARIO DELLA REALTA’ - IL CASO SAVIANO DIMOSTRA IN QUALE BUCO NERO SIA PRECIPITATO IL GIORNALISMO ITALIANO.
Beha: “La Cassazione ha respinto 6 dei 7 punti del ricorso di Saviano ma i giornali recitavano l’esatto contrario, registrando una netta vittoria dello scrittore - Saviano ci sta dicendo senza dircelo – lo farà ad hoc nel programma di Maria De Filippi? – che non ci si può fidare dell’informazione, che stravolge addirittura una sentenza della Cassazione... - Oliviero Beha per il “Fatto Quotidiano”. Come un redivivo Brecht di borgata (“Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi né di Saviani”) sia pur rovesciato, temo che dovremo ringraziare ancora una volta Roberto Saviano per la sua straordinaria utilità sociale, culturale e politica. Me lo suggerisce il caso di ieri, ovverosia l’effetto mediatico della sentenza della Cassazione sulla vicenda che ha visto lo scrittore ricorrere contro la sentenza d’appello che lo condannava per plagio nei confronti di Cronache napoletane e Cronache di Caserta. Plagio esemplificato a iosa in Gomorra, con brani copiati da articoli delle testate citate. La Cassazione ha respinto 6 dei 7 punti del ricorso di Saviano, confermando i gradi di giudizio che lo avevano ratificato come strenuo copista altrui. Perché dunque ringraziare un’icona contemporanea, macchiatasi nella sua opera più famosa (l’unica?) di una colpa tra il grave e il ridicolo? Perché ieri vanamente avresti cercato la sostanza della sentenza di Cassazione su Repubblica Napoli, il Corriere del Mezzogiorno alias Corriere della Sera, il leggendario e dominante Mattino. I titoli e i testi recitavano l’esatto contrario, registrando una netta vittoria di Saviano. Che in qualità appunto di icona e di calamita di business editorial-mediatico gode evidentemente di una riserva, di un’area protetta, di una zona franca che lo difenda da eventuali offuscamenti di immagine. Una specie di “Nessuno tocchi Saviano”, anche se nella drammaturgia biblica del caso lui sarebbe l’Abele di turno. Ma non è tanto di lui in qualità di supereroe contemporaneo che vorrei parlare, avendolo già fatto periodicamente in passato proprio qui. Non di lui il cui processo simbolico si è trasformato in una processione da Madonna Pellegrina, fino alle presenze tv ad Amici. Non di lui dalla inarrivabile fisiognomica a metà tra un cristo partenopeo e un camorrista omeopatico. Non di lui iscritto a forza dalla contraerea nemica di destra tra le file dei professionisti dell’anti-camorra. No, lui qui è prezioso come cartina di tornasole della qualità e dell’onestà dell’informazione, nel caso specifico come nella situazione più generale. Saviano non ci sta soltanto dicendo che non si può fare la nuda cronaca di ciò che gli succede, a meno che non siano fatti che contribuiscano a rassodargli il piedistallo su cui ormai si esercitano i piccioni, e che quindi il principio della verità cui avrebbe dedicato la sua vita viene contraddetto clamorosamente proprio in ciò che lo riguarda. Saviano si sta immolando per noi sulla croce della censura mirata e della realtà ribaltata perché i lettori capiscano in che buco nero sia precipitato il giornalismo nostrano, quello in fondo alle classifiche di Freedom House per intenderci. Saviano ci sta dicendo senza dircelo – lo farà ad hoc nel programma di Maria De Filippi? – che non ci si può fidare dell’informazione, che non dà le notizie correttamente e addirittura stravolge una sentenza della Cassazione. Se lo ha fatto stavolta, casualmente a suo favore, ci suggerisce il giovane favoloso anti-camorra, perché non pensare che lo possa fare abitualmente, alterando la nostra percezione della realtà? Tutta la corolla di santità laica che lo circonda da un lato appassisce per come viene preservato dalla cruda informazione, dall’altro risulta preziosa per delineare il “misfatto”: stavolta la cassa di risonanza suona sorda, ma siamo costretti a sentirla anche se i lord protettori del Che di casa nostra gli hanno steso mediaticamente intorno un cordone sanitario. Non sufficiente però: hai un bel ripulire sul web il tuo profilo social, c’è sempre qualcuno in più che viene a sapere e s’indigna. Di questo bisogna ringraziarlo. Il plagio diventa quasi un peccato veniale.
Perché i media prezzolati da economia e politica non parlano mai della Mafia Bianca, ossia da quel fenomeno di assoggettamento ed omertà perpetrato da quelle istituzioni che gestiscono il potere? "Sistema di potere" fondato sul consenso sociale che la "legittima" agli occhi della popolazione e dal controllo sociale che ne consegue. Il mercato elettorale allarga le reti di complicità e il governo, per cecità e interessi contingenti, pensa di sfruttare questa complessa e negativa realtà a proprio vantaggio. I mafiosi fondano il loro potere soprattutto sul consenso sociale delle popolazioni, sul sostegno (estorto o volontario) di operatori economici (ad esempio si consideri il mondo dell'imprenditoria), e sul substrato culturale, ancora familistico e feudale, generalmente piuttosto arretrato dal punto di vista socio-culturale. Un esempio dell'utilizzo del termine "mafioso" potrebbe essere utilizzato, ad esempio, per identificare un sindaco che concede appalti solo a personaggi a lui vicini, oppure rivolto ai membri di una commissione di esame di abilitazione o di un concorso pubblico o di un appalto pubblico, dove vincono i loro protetti. Mafiosi possono essere quei professionisti statali che elargiscono consulenze a nero. L’epiteto “mafioso” può essere rivolto ad un professore universitario che interceda per far vincere borse di studio a persone a lui legate (ancorché non valide e meritevoli), o la nomina da parte di un governo di dirigenti di alto livello, anche eventualmente capaci, ma "politicamente vicini" alla maggioranza di cui il governo stesso è espressione.
Esempi ci sono su Wikipedia. Bisturi - La mafia bianca è un film del 1973 diretto da Luigi Zampa, interpretato da Enrico Maria Salerno e Gabriele Ferzetti. Fu presentato in concorso al 26º Festival di Cannes. Il professor Daniele Vallotti, famoso e valente chirurgo, è il tipico "barone" universitario con smanie di potere, venale come pochi e quindi facilmente avvicinabile da qualsiasi azienda farmaceutica che intenda mettere sul mercato specialità medicinali di dubbia efficacia. È anche proprietario di una clinica privata dove seleziona i pazienti in base alle loro disponibilità economiche e, per meglio celare la sua avidità, si procaccia la fama di benefattore dedicando un giorno della settimana alle visite ed agli interventi gratuiti in un pubblico nosocomio, i cui pazienti sono tutte persone indigenti che poi lo osannano davanti ai microfoni dei media per le sue presunte doti umane. La sua équipe medica è soltanto una pletora di "yes men" incapaci, presuntuosi e servili. Il dottor Giordani, uomo alquanto trasandato e con il vizio degli alcolici ma fondamentalmente onesto, coscienzioso preparato, è l'unico in grado di esprimere il suo dissenso. Tuttavia la sua rettitudine non gli consente di avere vita facile in clinica: il suo carattere tutt'altro che remissivo e la sua franchezza nel dire chiaramente quel che pensa gli hanno alienato le simpatie dei suoi pari grado. Tuttavia, egli sa ben difendersi e non risparmia ad alcuno il suo sarcasmo che, a volte, risulta essere anche pungente. Inoltre la sua competenza e la sua concretezza gli sono valse la stima di Vallotti, che lo conosce bene essendo stato suo compagno di studi all’università. Malgrado la sua "onnipotenza", Vallotti non ha una vita privata felice: rimasto da tempo vedovo, vive nella sua lussuosa villa insieme all'anziana madre e al suo unico figlio, che lo adora e che vorrebbe che egli trascorresse un po' più di tempo con lui anziché dedicarsi totalmente al suo lavoro. Nemmeno i vecchi rapporti di amicizia e di studio trattengono Giordani dal farlo sentire nauseato dagli abusi e dalle illegalità che si susseguono ogni giorno nella clinica. Un giorno accade che Vallotti, impegnato nel far insabbiare un improvviso accertamento fiscale a suo carico, si allontana dalla sala operatoria tralasciando un difficilissimo e delicato intervento proprio nel momento cruciale, causando la morte del paziente e, indirettamente, anche quella della moglie che, disperata e distrutta dal dolore, si toglie la vita gettandosi da una finestra. Giordani si rintana in casa sentendosi moralmente corresponsabile dell’accaduto: proprio lui, infatti, aveva consigliato ai due di affidarsi alle cure di Vallotti perché, a suo giudizio, era l’unico a poter garantire concrete possibilità di guarigione; i due, impiegati dalle modeste risorse economiche, avevano messo su a suon di debiti la somma richiesta da Vallotti come onorario. Una giovane suora, che lavora in clinica in qualità di infermiera - e che nutre anche una particolare simpatia nei suoi confronti, da lui prontamente ricambiata - si presenta a casa di Giordani, cercando di scrollargli da dosso i vari scrupoli di coscienza che lo tormentano, lo convince a riprendere il lavoro e, non ultimo, a smettere di bere. Giordani ascolta le parole della suora e ritorna in corsia. A Vallotti cominciano a pervenire lettere e telefonate anonime nelle quali l'ignoto mittente lo mette di fronte alle sue "malefatte". Egli non riesce a comprendere di chi si possa trattare, e brancola letteralmente nel buio fra i suoi collaboratori sospettando che l'autore sia uno di essi. Nel frattempo, nell'ospedale pubblico dove Vallotti lavora occasionalmente, è ricoverato d'urgenza un bambino: ha un blocco renale, e necessiterebbe dell'ausilio di un rene artificiale per essere prontamente soccorso, ma muore perché l'apparecchiatura è stata da poco disattivata da Vallotti per favorire un suo collega che ne possiede uno uguale nella propria clinica privata. Non passa che qualche giorno, e Vallotti viene a conoscenza di essere stato denunciato alla magistratura, ma questa volta l'autore vi ha apposto la propria firma: si tratta di Giordani che, esasperato, ha deciso di uscire allo scoperto, dopo che era stato proprio lui l'autore delle telefonate e delle lettere, unicamente allo scopo di richiamare il suo illustre superiore ad una linea di condotta più consona al suo prestigio. Messo alle strette, Vallotti non esita a ricorrere ad un mezzo estremo per evitare guai: stringe un infame accordo con gli altri colleghi - anch'essi citati da Giordani nella denuncia - e ordisce un vero e proprio complotto contro di lui. Giordani viene chiamato d’urgenza in sala operatoria con il pretesto di essere l’unico al momento reperibile, e si trova di fronte a un intervento molto rischioso e complicato, con il paziente che versa già in condizioni critiche, ed è qui che scatta la trappola: proprio nella fase più difficile, uno dei presenti scambia furtivamente le lastre radiografiche di riferimento, e Giordani viene così messo in condizione di sbagliare l’operazione il cui esito, naturalmente, si traduce nella morte del paziente. Giordani a questo punto non ha scelta: essere denunciato per omicidio colposo le cui testimonianze contro di lui sono inoppugnabili, il che significherebbe l'ingloriosa fine della sua professione, oppure nascondere la testa nella sabbia come gli altri suoi colleghi e mettersi sotto la "protezione" dello stesso Vallotti. Egli deve quindi forzatamente cedere al ricatto: ritirerà la denuncia, ma allo stesso tempo ammonisce il suo superiore e vecchio compagno di studi che non avrà nemmeno il tempo di cantar vittoria. Non gli sono sfuggiti infatti i prodromi di una implacabile malattia che non lascerà scampo a Vallotti: la malattia di Parkinson. Per la prima volta in vita sua, il cinico Vallotti tocca con mano il dolore e lo sconforto: egli è del tutto impotente davanti alla sua patologia che finora aveva letteralmente ignorato, e dovrà necessariamente ritirarsi dalla sua attività. In altre parole, ciò sancisce la fine del suo indiscusso potere, che aveva fatto di lui un uomo invincibile al punto di disporre della sorte dei suoi pazienti e dei suoi sottoposti, e che aveva anche ribadito allo stesso Giordani al momento di ricattarlo. Ironia della sorte, egli è passato, come gli ricorda Giordani, “su quell’altra sponda, quella dei malati e delle vittime”, e dovrà a sua volta affidarsi alle cure di qualche altro illustre collega, magari senza alcuno scrupolo come lui (“...ora tocca a te scegliere a quale scettro inchinarti: ma di chi ti potrai fidare?”).
Eppure i media ci raccontano tutt'altra realtà.
"La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media" è il libro di Francesca Viscone. I meridionali sono tutti mafiosi? Che cosa significa essere "uomo d'onore"? E che cos'è "l'onore"? Si può parlare di "valori" mafiosi? I mafiosi credono in Dio? Che cos'è la musica della mafia? Perché alcuni tra i più prestigiosi giornali del mondo hanno dipinto i mafiosi come se fossero eroi ribelli e i calabresi come fossero tutti conniventi? Come mai i giornalisti stranieri sono riusciti ad intervistare i boss della 'ndrangheta? L'autrice cerca di rispondere a queste domande, senza mai dimenticare che non è possibile difendere o mettere in discussione il sistema nel quale si è nati e cresciuti senza conoscer neanche gli aspetti più inquietanti. Dopo lunghi decenni di silenzio, la mafia è diventata un tema di forte richiamo spettacolare. Ci si domanda spesso se tutto ciò sia un bene o un male. Siamo di fronte a un fenomeno bivalente in cui l'informazione si intreccia con la mitizzazione, il racconto delle vicende con l'enfatizzazione delle leggende. Questo libro intende servire da criterio orientativo per evitare, da un lato, di aderire senza filtri alla rappresentazione cinematografica e televisiva della mafia e, dall'altro, di rigettarla in blocco. Il testo, attento al linguaggio dei mafiosi quanto al linguaggio sui mafiosi, si muove non solo fra le pieghe di film e sceneggiati Tv, ma anche in canzoni, titoli di giornale, dichiarazioni di uomini politici, spot pubblicitari. Un'analisi originale e necessaria nel complesso universo dei media in cui romanzi e serie Tv si ispirano alle vite dei mafiosi i quali, a loro volta, si ispirano alle narrazioni incentrate sulle loro storie. Il mondo delle immagini e la cronaca finiscono così per condizionarsi a vicenda, in un circolo di causaeffetto che va conosciuto, studiato e analizzato.
I meridionali sono tutti mafiosi? Che cosa significa essere "uomo d'onore"? E che cos'è "l'onore"? Si può parlare di "valori" mafiosi? I mafiosi credono in Dio? Che cos'è la musica della mafia? Perché alcuni tra i più prestigiosi giornali del mondo hanno dipinto i mafiosi come se fossero eroi ribelli e i calabresi come fossero tutti conniventi? Come mai i giornalisti stranieri sono riusciti ad intervistare i boss della 'ndrangheta? L'autrice cerca di rispondere a queste domande, scrive Filippo Di Blasi su “Archivio Stampa”, senza mai dimenticare che non è possibile difendere o mettere in discussione il sistema nel quale si è nati e cresciuti senza conoscerne anche gli aspetti più inquietanti. Una riflessione coraggiosa, che nasce da un fatto apparentemente banale. L'uscita in Germania di due cd di canti di malavita diventa occasione per la stampa internazionale di raccontare cosa siano la mafia e i meridionali, la Calabria e i calabresi, cosa sia il Sud, attraverso «un'epopea del senso comune che nutre e rinforza i diffusi pregiudizi a carattere razzista nei confronti dei meridionali», come afferma Renate Siebert. Complici e vittime, nello stesso tempo, si rivelano a loro volta gli stessi nativi. Questo libro, scrive Vito Teti, è «un viaggio nel cuore della notte, nelle ombre delle nostre appartenenze, nel corso del quale si scorgono improvvisamente i lumicini che permettono di rimettersi in cammino, di ritrovare una strada, come nelle fiabe». Nel maggio 2006 esce in Germania un cd dal titolo “ Il Canto di malavita”, sottotitolato “La musica della mafia”, contenente canzoni raccolte dalle bancarelle dei mercatini e delle feste di paese della Calabria. Il cofanetto è arricchito da un libretto con i testi in dialetto calabrese e relativa traduzione in tedesco e inglese e da foto di tatuaggi e carcerati scattate dal giornalista di origine calabra Francesco Sbano. È una miscela esplosiva a base di musiche dai toni orgiastici, tarantelle frenetiche, liriche malinconiche o disperate. Si registra un successo che non conosce pause: dopo la Germania, il cd esce in Svizzera, Austria, Olanda, Svezia, Francia, Belgio, Lussemburgo, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti. Il fenomeno suscita l’attenzione di numerose testate giornalistiche e di alcune trasmissioni televisive straniere, suscitando nell’autrice interrogativi cui cerca di rispondere: in che modo sono stati presentati i cd? Che cosa è stato detto o scritto sulla ‘ndrangheta? Quale immagine è emersa dei calabresi e della Calabria? Da questo spunto nasce un’approfondita indagine sull’importante ruolo svolto dai mass media nella diffusione del pregiudizio: la costruzione di realtà fittizie, la diffusione di notizie errate o parziali, la distruzione sistematica che viene attuata nei confronti della regione italiana. Questa diventa il luogo degli estremi: un inferno temibile, nel quale è difficile districarsi, ma anche la terra dell’abbondanza, del paradiso. Insomma, un luogo surreale, immaginario e lontano dalla storia.
Le “cattive idee” si fanno musica, scrive Claudia Mancuso (LucidaMente, anno I, n. 4, maggio 2006). Dopo gli ultimi decenni, in cui tanto si è lottato contro la criminalità organizzata, ottenendo anche piccole, ma significative, vittorie, è ancora possibile accettare che la diffusione di ignobili prodotti commerciali abbia l’effetto di rafforzare - soprattutto all’estero - lo stereotipo secondo il quale tutti i calabresi sono mafiosi o loro complici? Francesca Viscone - esperta ricercatrice socioantropologica - spiega nel saggio La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media (presentazione di Vito Teti, postfazione di Renate Siebert, Rubbettino, pp. 258, € 14,00) come questo sia avvenuto con l’immissione sul mercato di raccolte musicali contenenti i “canti di malavita”, espressioni di una vera e propria subcultura mafiosa.L’aspetto più grave della vicenda è che questi abbiano ottenuto un enorme successo; ben 160.000 copie delle compilation Il canto di malavita. La musica della mafia e Omertà, onuri e sangu. La musica della mafia vol. II sono, infatti, state acquistate in Europa – con picchi di vendita in Germania – e negli Stati Uniti. Un terzo cd della stessa raccolta è stato, poi, immesso sul mercato il 17 ottobre 2005, esattamente il giorno dopo l’omicidio di Francesco Fortugno, in maniera totalmente irrispettosa del terribile momento di angoscia che la Calabria stava vivendo. Il volume della Viscone è suddiviso in due parti: nella prima, dal titolo Gli uomini cattivi non hanno canti belli, l’autrice si concentra sull’analisi dei testi dei canti. Qui si raccontano i riti e i valori della ‘ndrangheta – o meglio, dell’Onorata Società – descrivendo le esistenze degli affiliati secondo i più comuni cliché mafiosi, trasformando vite maledette in biografie eroiche e leggendarie. I protagonisti sono uomini coraggiosi, che non hanno paura di sfidare la legge ma che, piuttosto, vengono da essa perseguitati. Questi devono dare prova del proprio coraggio attraverso una parabola ascendente di azioni delittuose, fatta di crimini, omertà, vendetta e morte. Ad essere narrata è, quindi, un’unica, terribile, sfaccettatura della situazione calabrese, descritta come se fosse la sola realtà esistente, come se tutti fossero conniventi. In questi canti viene, poi, esaltato l’onore di chi non parla e non tradisce, messo a confronto con l’infamia dei pentiti che collaborano con la giustizia. Ad essi sono rivolte innumerevoli ingiurie e minacce. Gli unici sentimenti espressi sono l’odio, il disprezzo e il desiderio di vendetta. Molto frequente è, poi, il canto del carcerato, il quale lamenta un destino ingiusto, autocommiserandosi e provando pietà per la sua categoria. Nessuna parola compassionevole è, invece, riservata alle vittime o alle loro famiglie. A ricorrere con particolare continuità è il mito della vecchia e “buona” ‘ndrangheta, contrapposta alla feroce criminalità attuale. Eppure questa distinzione – ammonisce l’autrice – non ha alcun fondamento di verità, ma serve solo a rivestire di una fasulla patina romantica quella che è, invece, una della più terribili declinazioni della criminalità organizzata. Ad essere descritto – per dirla con Bachtin – è un mondo alla rovescia, in cui i malviventi divengono eroi, gli uomini di legge criminali e i pentiti spie. La realtà si divide, dunque, in un “dentro” e un “fuori”, per cui chi è all’interno dell’organizzazione è “uomo”, mentre chi sta fuori non è nulla, non conta niente. La seconda parte del saggio, La stampa nel vicolo globale, contiene una scelta antologica degli articoli pubblicati dai più prestigiosi giornali mondiali, come Financial Times, Frankfurter Allegemeine Zeitung, Le Monde, New York Times, Newsweek International, che hanno dedicato interi servizi a questi canti, diffondendo per lo più luoghi comuni su una Calabria vista come “terra dei desperados”, in cui persino la gente comune sembra proteggere e sostenere ‘ndranghetisti e latitanti, poiché a sua volta “protetta” da questi ultimi nei confronti di uno Stato ingiusto e, dunque, legittimamente combattuto dai malviventi. La stampa straniera – spiega la Viscone – ha commesso l’imperdonabile errore di ritenere i contenuti dei canti come validi strumenti di indagine antropologica sulla realtà calabrese, offrendone, così, una visione offensiva e del tutto distorta (la stessa che da anni molti calabresi stanno cercando di abbattere). È questo uno degli effetti devastanti della globalizzazione, poiché comporta la diffusione capillare di pregiudizi a carattere razzista verso il Sud del nostro Paese. Oltre a ciò, non bisogna dimenticare la gravità della portata delle false notizie messe in giro dai media di tutto il mondo, come quella secondo la quale la vendita dei canti della malavita è stata proibita dal governo italiano. Questa informazione, oltre a non rispondere a verità, è portatrice, ancora una volta, di un pregiudizio, proprio perché, al contrario, in quanto parte integrante della libera e civile Europa, anche l’Italia permette di acquistare legalmente i cd (come dimostra il fatto che essi siano tuttora rinvenibili – contrassegnati dal marchio Siae – su molte bancarelle dei mercatini). Persino l’insospettabile Bbc è arrivata a costruire a proprie spese uno scenario criminale nel centro di Reggio Calabria. Ad essere inscenate sono state addirittura interviste a boss e latitanti, rifugiati sulle montagne dell’Aspromonte. La pubblicità dei mass media esteri ha senz’altro contribuito al trionfo commerciale delle compilation nel resto del mondo, mentre da noi queste si sono rivelate – non a caso – un vero flop. Ogni italiano, infatti, ascoltandole, non può che avvertire un forte senso di disagio, di rabbia e di disgusto. Ma allora perché – viene da chiedersi leggendo il testo della Viscone – la stampa mondiale ha assunto un atteggiamento tanto offensivo e, allo stesso tempo, superficiale, nei riguardi dei calabresi, portando al successo cd e musicassette di pessima qualità (tenendo anche in considerazione lo scarso grado di professionalità di musicisti e cantanti)? Forse perché, all’interno della diffusa coscienza civile, la Calabria viene considerata un po’ come il fanalino di coda dell’Europa; dunque, il fine di molti Paesi è stato quello di ritrovare una falsa conferma della degradata situazione del Sud in testi di canzoni che non rispondono affatto alla realtà, ma sono frutto di una spudorata operazione commerciale. In questo modo è molto più facile convincersi della propria superiorità culturale, svelando, però, allo stesso tempo, il sottofondo tarato e razzista che l’opinione mondiale ha nei confronti del Meridione. È importantissimo ricordare che questo tipo di marketing compie un terribile torto nei confronti delle innumerevoli vittime della mafia e delle loro famiglie. Chiunque favorisca la vendita delle raccolte contribuisce a nobilitarne il contenuto, minimizzandone l’orrore. Noi, che condividiamo con i giornalisti americani ed europei il compito di fare dell’informazione, non possiamo che ritenerci indignati di fronte alla dimostrazione di una così scarsa professionalità, spintasi alla commercializzazione di valori mafiosi. È precisamente questo che intendiamo per “globalizzazione delle cattive idee”.
MediaMafia. Media, Mafia e la lotta allo stereotipo. Cosa Nostra vista al cinema ed in tv, scrive Vincenzo Guarcello il 25 maggio 2015 su "Il Corriere del Mezzogiorno". «Nella rappresentazione della mafia che funzione ha avuto il cinema? E la televisione? Si può dire che il cinema abbia riflesso il sentire comune o di gran parte della popolazione, o quello di una minoranza illuminata, o l’abbia influenzato, rafforzato se non costruito?». È questa l’idea centrale del libro Mediamafia di Andrea Meccia (Edito da Di Girolamo) sintetizzata dallo studioso della criminalità organizzata Umberto Santino nel saggio introduttivo. Il libro punta a delineare una storia della mafia e della sua rappresentazione cinematografica e televisiva dagli anni ‘70 ai giorni nostri, analizzandone aspetti e contraddizioni. L’idea di fondo è quella di scardinare il fenomeno mafioso in tutte le sue parti: sul grande schermo realtà e mito si intrecciano, deformandosi attraverso quel meccanismo di «ingrossamento» individuato agli inizi del ‘900 da Giovanni Verga, da sempre critico con il mezzo cinematografico. «Nel cinema - afferma Santino - si riflettono le idee e le rappresentazioni che circolano nell’immaginario collettivo: gli stereotipi più sedimentati e le analisi più avvedute, le apologie e le ripulse, le complicità e le sfide (...) Più dei libri, film e sceneggiati televisivi diventano strumenti di conoscenza o di informazione, ma per lo più scavano dentro miniere di stereotipi». E così anche la televisione, con i suoi sceneggiati popolari che poco a poco sono entrati nel linguaggio comune, specialmente tra i più giovani. Da Il Padrino di Francis Ford Coppola a La mafia uccide solo d’estate di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif), passando per capolavori come Cadaveri eccellenti (Rosi, 1976), Il Ladro di Bambini (Amelio, 1992), Tano da morire (Torre, 1997)e Il Divo (Sorrentino, 2008). Attento al linguaggio dei mafiosi, Meccia realizza un percorso crossmediale tra film, canzoni, spot pubblicitari e canzoni. Utilizzando con semplicità i diversi mass media, l’autore ricrea un percorso indirizzato soprattutto a insegnanti, genitori e giovanissimi, con l’obiettivo di costruire una memoria collettiva che sia il più possibile coerente con la realtà, depurata da cliché e preconcetti. Il libro, improntato su una narrazione moderna, pone interrogativi e punta a creare curiosità nel lettore (specialmente i più giovani), troppo spesso ancorato al mito televisivo, affascinato dal «male». Proprio l’autore, in un’intervista radiofonica a Radio Città del Capo, parla dei problemi riscontrati durante i percorsi educativi nelle scuole. «Parlando con i ragazzi - ammette - mi trovo davanti due facce della stessa medaglia: da un lato le gesta degli eroi criminali, ai quali i giovani si affezionano inevitabilmente (epica della mafia) e dall’altro i cosiddetti martiri che combattono Cosa Nostra; idoli positivi, ma che non tengono conto di chi lotta costantemente e riesce a sopravvivere. Entrambe le tendenze, a mio avviso, sono pericolose e vanno combattute». Dalle parole di Beppe Viola, cantate magistralmente dal grande Enzo Jannacci nella ballata «Quelli che..», emerge il vero fulcro del libro di Meccia: non è (solo) la grande spettacolarizzazione, la faccia esterna del sistema mafioso a far paura. Questa è solo la punta dell’iceberg. Bisogna scavare, andare al di là del singolo evento, cercare la mafia «che non fa rumore», vera piaga della società. «Ho deciso così - ammette l’autore nella premessa - di provare a leggere quarant’anni di potere mafioso concentrandomi sulla violenza visibile e sotterranea di Cosa Nostra e spulciando nel racconto che i mezzi di comunicazione di massa ne hanno fatto». Biografia dell’autore. Andrea Meccia è nato nel 1980. Ha conseguito una laurea in Comunicazione con una tesi sul cinema italiano e gli anni di piombo ed insegnante italiano per stranieri . Si occupa di formazione e Media Education e ha collaborato per diverse inchieste sul quotidiano Repubblica.it e sul quotidiano argentino Página/12. Coautore di «Strozzateci tutti» (Aliberti, 2010) e «Novantadue. L’anno che cambiò l’Italia» (Castelvecchi, 2012). «Mediamafia» è il suo primo libro.
Mediamafia. Cosa nostra fra cinema e tv, scrive Paola Bisconti su “L’Inkiesta”. Con “Mediamafia. Cosa Nostra fra cinema e tv”, Di Girolamo Editore, Andrea Meccia approfondisce un aspetto particolarmente interessante riguardo l’attenzione che finora ha suscitato la mafia tra i mass media che l’hanno raccontata, divulgata, a volte minimizzata altre spettacolarizzata. Di certo questo universo così vasto e complesso ha ispirato i più grandi registi di tutti i tempi e ha offerto materiale a sufficienza ai giornalisti della tv e della carta stampata che con assiduità l’hanno descritta. Questo richiamo così forte è stato oggetto di studio per Andrea Meccia, comunicatore e insegnante di italiano per stranieri, collaboratore nella sezione inchieste di Repubblica.It e tra gli autori dei libri “Strozzateci Tutti "(Aliberti, 2010) e “Novantadue. L'anno che cambiò l'Italia” (Castelvecchi, 2012). Spiegando come i mezzi comunicativi spesso abbiano enfatizzato alcune vicende offrendo un’aurea di fascino intorno al mondo mafioso avvolto da miti e leggende, l’autore traccia un excursus storico della rappresentazione cinematografica, televisiva e musicale della mafia. Il saggio introdotto da Umberto Santino conferma come i libri, i film e i vari sceneggiati televisivi sebbene abbiano contribuito ad aumentare le conoscenze sull’argomento, di fatto hanno anche incrementato una lunga serie di stereotipi che vedono i mafiosi terribilmente crudeli e senza scrupoli, su questa violenza visibile si è creata una morbosa forma di curiosità da parte degli spettatori che trascurano la gravità di altre azioni meno cruenti ma ugualmente pericolose come potrebbe essere un’azione finanziaria illegale. Nella prima parte di “Mediamafia” l’autore si sofferma su alcuni principali fatti che caratterizzano il periodo storico compreso tra il 1970 e il 2014. In quest’arco di tempo si è iniziato a raccontare la mafia in capolavori come “Il Padrino” di Francis Ford Coppola nel frattempo l’organizzazione criminale provvedeva a modificare tattica e strategia d’azione. Erano gli anni questi in cui “L’Ora”, il quotidiano palermitano, pubblicava inchieste firmate da giornalisti come Cosimo Cristina, Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, tutti assassinati dalla mafia. Pian piano cresceva tra i cittadini, la consapevolezza circa la gravità di un fenomeno raccontato anche dal giornalismo televisivo con una nuova forma linguistica e concettuale, eppure, specifica Andrea Meccia, la scelta di fare dell’impegno contro le mafie un filone centrale della cronaca nazionale non fu una cosa scontata, né facile. La narrazione continua con la citazione di altri lavori indimenticabili come la “Piovra” considerato un vero e proprio evento mediatico per arrivare poi alle denunce di Libero Grassi, l’imprenditore siciliano che utilizzò le telecamere televisive per dichiarare che non avrebbe pagato il pizzo, fino a riportare con una scrittura fluida e quanto mai avvincente, una serie di eventi clamorosi come la partecipazione di Giorgio Faletti al Festival di Sanremo del 1994 con la canzone “Signor Tenente” e altri drammatici come la strage di Capaci e di via D’Amelio. Nella seconda parte intitolata “Visioni” Andrea Meccia ricorda le morti eccellenti e si sofferma su film e fiction come “Il Capo dei Capi” in riferimento ad essa il magistrato Antonio Ingroia si rivolse agli italiani chiedendo se avessero davvero bisogno di un ritratto del genio del male. Le interviste riportate nella terza parte completano il libro arricchito dalla testimonianza del magistrato Roberto Scarpinato e dalla reporter Letizia Battaglia autrice della fotografia che funge da copertina del testo. Straordinaria nell’impianto narrativo “Mediamafia” si presenta come un’imperdibile guida la cui lettura è fondamentale per approfondire molteplici aspetti relativi al macrocosmo mafia.
Il ruolo dei Media nella lotta alla mafia. Per un dovere di informazione “Dalla mafia invisibile al silenzio sulle mafie”, scrive Lorenzo Baldo su “Antimafia Duemila”. “L’informazione è un elemento decisivo per ogni azione contro la criminalità organizzata”. Per raccontare questo “tavolo” di Contromafie possiamo partire dal titolo del documento conclusivo stilato dal gruppo di lavoro sull’informazione al quale ANTIMAFIADuemila ha aderito. Di primo acchito potrebbe ricordare la citazione di un film, se non altro per lo stato in cui versa l’informazione oggigiorno. Secondo il rapporto 2005 dell’istituto di ricerca americano Freedom House, per quanto riguarda la libertà di stampa, il nostro Paese rientra nella categoria “parzialmente libero”, esattamente al 79° posto della classifica. Di fronte a un simile risultato parlare di informazione come “elemento decisivo” nella lotta alla mafia ci riporta indietro a quella “resistenza” di partigiana memoria ma anche di estrema attualità. Ma allora come è possibile andare oltre quella “resistenza”? E come si può riportare l’informazione al suo ruolo originario per il quale uomini e donne in tutto il mondo hanno pagato con la vita? Soprattutto dopo aver vissuto sulla propria pelle 5 anni di “regime” (votato dall’elettorato italiano) che passo dopo passo ha minato alla base i pilastri della libertà d’informazione in Italia… Le aspettative rivolte in tal senso nei confronti dell’attuale governo scricchiolano ogni giorno di più sotto il peso di quelli che modernamente chiamiamo “inciuci”. Nel mezzo di questo novello mar Rosso ritroviamo la società cosiddetta “civile” che tenta per l’ennesima volta di fare il punto della situazione per riorganizzarsi. Ma il tema mafia e informazione è uno di quelli che non ammette mezze misure o sei a favore o sei contro. E Cosa Nostra da sempre guarda con interesse a chi nel mondo variegato dei media si mette “a disposizione” sull’altare di un riscontro economico; ben consapevole di quanto sia importante “controllare” l’informazione, in entrata e in uscita. Nella giornata “operativa” di Contromafie del 18 novembre 2006 più di 200 persone si sono iscritte al tavolo di lavoro sull’informazione. Nomi noti e nomi sconosciuti, alcuni partecipanti sono intervenuti come relatori e molti altri si sono limitati ad essere semplici ascoltatori. La sera, al termine della sessione di lavoro, siamo rimasti ancora un po’ insieme al nostro “tutor”, il giornalista Roberto Morrione (ex direttore di RaiNews24), il sottoscritto, Manuela Mareso di Narcomafie e la collega di Omicron Patrizia Gugliemi. Bisognava mettere nero su bianco quella mole di idee, progetti e critiche emerse durante la giornata. Giornata che era iniziata affrontando la “deriva culturale” della nostra società che preferisce “l’apparire” invece “dell’essere”. Una deriva nella quale l’informazione subisce (molto spesso volutamente) la “cultura dell’emergenza”, una sub-cultura che si limita a strillare la notizia quando ormai è accaduta, senza un “prima” e senza un “dopo”, dove “l’emergenza” nasconde in realtà problematiche ben note che avrebbero invece bisogno di studi e approfondimenti per poterle risolvere. E invece il versante dell’emergenzialità si ingrossa sempre di più perché queste sono le regole di quel “gioco grande” fatto sulla pelle di una società sempre più assuefatta alla violenza e all’indifferenza. Ma è lo stravolgimento della notizia il vero campanello di allarme citato da buona parte dei relatori. La sentenza di assoluzione nel processo che ha visto imputato di partecipazione ad associazione mafiosa il sen. Giulio Andreotti ha rappresentato un punto cardine nella discussione al tavolo di lavoro. Un vero e proprio simbolo al negativo di come, dal momento dell’emissione di quella sentenza (salvo rarissime eccezioni), l’informazione in Italia abbia ulteriormente sterzato nella direzione del potente di turno che doveva comunque uscirne “santificato”. Poteva essere un’occasione storica per dimostrare con dati alla mano che, nonostante l’assoluzione di un uomo potente, le prove di colpevolezza fino al 1980 erano pesanti come macigni e che per questo la storia l’avrebbe condannato. Ma si è preferito limare, sbianchettare o addirittura reinterpretare le parti più compromettenti prima di pubblicarle o prima di esporle davanti ai riflettori televisivi (salvo quelle rarissime eccezioni sopracitate) per restituire la verginità a un uomo politico servito e riverito a destra e a sinistra. Nell’aula dell’Angelicum l’attenzione è massima, l’analisi di Morrione è precisa e documentata, da vero giornalista che ha vissuto sulla propria pelle una sorta di “censura preventiva” da parte di un ex direttore del Tg1 come Bruno Vespa che “consigliava” i suoi redattori di affrontare il tema mafia come se scrivessero da un paese del nord Europa. Un imbavagliamento all’informazione che l’ex direttore di RaiNews24 ha sempre combattuto anche a costo di rimetterci in prima persona. “Bisogna incalzare tutti i poteri” insiste Morrione con convinzione, mentre mi ritrovo a pensare a tutti quei giornalisti messi a tacere per sempre da quel connubio di poteri forti che lo stesso Falcone aveva già individuato negli anni ‘80. Il messaggio è chiaro, nel concetto etico del giornalismo che non guarda in faccia nessun potere è racchiusa l’essenza di questo mestiere. Il direttore de I Siciliani Pippo Fava prima di essere ammazzato aveva scritto che “un giornalista incapace - per vigliaccheria o calcolo - della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere. Il suo stesso fallimento”. Ma come tutti i grandi uomini anche Giuseppe Fava era stato un precursore dei tempi. Prima di terminare la sua relazione Roberto Morrione ha elencato sinteticamente i punti più importanti delle proposte da avanzare nel documento conclusivo (*che di seguito pubblichiamo) proponendo l’istituzione di un Osservatorio nazionale permanente sull’informazione e dando così il via a un dibattito che ha toccato alcuni nervi scoperti della galassia dell’informazione. Tante le voci che si sono susseguite, ognuna con un suo bagaglio di esperienze, speranze, delusioni, ma con ancora addosso quella voglia di trasmettere ai “novizi” il valore del giornalismo di inchiesta. Attraverso il racconto di Antonella Mascali (giornalista catanese, da anni inviata speciale del network milanese Radiopopolare), abbiamo rivissuto gli anni dell’omicidio di Pippo Fava e di tutto quello che la sua morte ha provocato in alcuni giovani che proprio dal suo sacrificio hanno deciso di diventare giornalisti. Stessa passione nelle parole dell’inviato del Tg3 Fabrizio Feo che ha ricordato gli anni delle inchieste sulla Camorra, con il boss del contrabbando di sigarette Michele Zaza e le sue dichiarazioni ambigue, ma non troppo, sull’area “grigia” di Berlusconi. Ma come si può oggi fare l’inviato speciale se un direttore o un capostruttura limitano la libertà dell’inviato stesso? La domanda per nulla retorica martella in testa a qualcuno dei presenti che si chiede come è possibile tornare a fare giornalismo di inchiesta con questa televisione e questi giornali. Ed è lo stesso Francesco La Licata, scrittore e giornalista de La Stampa, a spiegare molto chiaramente che “il problema dell’informazione è soprattutto politico”. “La politica si è appropriata dei media - sottolinea La Licata - e i giornalisti hanno rinunciato alla critica e all’autonomia in cambio di soldi e di carriera”. Un quadro pietoso ma tristemente vero, ripreso egregiamente dalla scrittrice Lidia Ravera che con graffiante ironia e altrettanta obiettività ha sbattuto in faccia a tutti il problema della “mentalità mafiosa” di cui si può essere anche “portatori sani”. “Il controllo politico sulla Rai è mafia!” ha sentenziato la Ravera senza mezzi termini chiedendosi poi dove sia andata a finire la meritocrazia quando sui media rimbalzano festosamente le storie di chi fa carriera vendendo corpo e anima. Applausi scroscianti e tanta amarezza di fondo. “La mafia è un problema di tutti” ha ricordato Nino Rizzo Nervo, consigliere Rai, ex direttore del Tg3, mettendo in risalto la “responsabilità del servizio pubblico” nei confronti dell’informazione sulla criminalità organizzata. Ma come non ricordare gli anni recenti dove la maggior parte dei servizi ai Tg della Rai censuravano o “addolcivano” ogni riferimento politico collegato ad inchieste giudiziarie?! E non è che il primo periodo della Rai del dopo-Berlusconi abbia dato tanti segnali di discontinuità in tal senso… Al momento di intervenire, dopo un piccolo bilancio sullo stato dell’informazione, passo subito alle proposte che come ANTIMAFIADuemila intendiamo avanzare al gruppo di lavoro: il ridimensionamento del segreto di Stato (soprattutto per i crimini di mafia); una legislazione più snella capace di erogare realmente fondi da destinare ad iniziative editoriali indipendenti; una legislazione che vigili e regoli i fondi destinati ai cosiddetti “giornali di partito” (che molto spesso sono dei “foglietti” sconosciuti che ricevono centinaia di migliaia di euro a fondo perduto dallo Stato); una legislazione che impedisca il radicamento nel territorio di un vero e proprio monopolio dell’informazione (come nel caso della Sicilia con l’editore Mario Ciancio); e infine una legislazione che tuteli il giornalista nel suo diritto di critica, ridefinendo i parametri della diffamazione a mezzo stampa. Ed è motivo di orgoglio per la nostra redazione aver visto inseriti nel documento finale del gruppo dell’informazione, che a sua volta è confluito nel manifesto conclusivo di Contromafie presentato al presidente della Camera Fausto Bertinotti, alcuni punti che avevamo proposto: il ridimensionamento del segreto di Stato e una legislazione più snella e concreta nell’erogazione fondi per iniziative editoriali indipendenti. Altri punti prospettati da ANTIMAFIADuemila erano stati precedentemente proposti dal nostro tutor e da altri partecipanti che avevano già individuato le problematiche da affrontare e le possibili soluzioni. Fra i successivi interventi dei componenti del gruppo alcuni spunti interessanti li ha lasciati l’avv. Michele Costa, figlio dell’ex procuratore di Palermo Gaetano Costa, assassinato dalla mafia il 6 agosto 1980. L’avv. Costa si è addentrato nella mafia “in simbiosi” con lo Stato, arrivando al “Dna della sicilianità” e alla struttura politica e militare di Cosa Nostra. Tutte realtà che secondo Michele Costa devono essere conosciute a fondo e che la stampa “ha il dovere di raccontare.. dall’inizio alla fine”. E proprio sul nodo irrisolto della stampa che si occupa di mafia Manuela Mareso, caporedattrice di Narcomafie, ha spiegato le difficoltà del suo lavoro legate spesso a una sorta di “autocensura” preventiva fatta per evitare querele milionarie che arrivano dai politici inquisiti e dagli avvocati dei mafiosi. Una vera e propria spada di Damocle sospesa sopra ogni voce “libera” che si rispetti. L’intervento dell’ex presidente del tribunale dei minori di Catania, Giovan Battista Scidà, ha suscitato profondo rispetto e ammirazione per questo anziano giudice che si ostina a gridare tutta la sua indignazione nei confronti dello scempio della giustizia di questi ultimi anni inquadrando il problema che ruota attorno al “caso Catania”. L’appello di Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe Alfano, assassinato dalla mafia il 6 gennaio 1993, ha mirato a tenere accesa la memoria del padre per stimolare a mantenere vivo un giornalismo che non si piega. Ma di fronte allo scenario sconfortante di quei cronisti pronti a fare interviste “in ginocchio” al politico di turno non resta molto ottimismo a riguardo. Antonio Conte, rappresentante dell’associazione MegaChip, fondata dal giornalista (ora europarlamentare) Giulietto Chiesa, riporta l’attenzione dei presenti sul ruolo che dovrà avere il futuro Osservatorio nazionale sull’informazione e cioè quello di uno “strumento di lotta culturale” lontano da qualsiasi condizionamento esterno. La rabbia di chi sente fino nella sua parte più intima il mestiere di giornalista emerge con prepotenza nelle parole di Lucio Tomarchio, redattore di Casablanca, il nuovo mensile fondato da Riccardo Orioles e Graziella Proto sulla stessa impronta de I Siciliani di cui Riccardo, Graziella e Lucio facevano parte. Partendo dalla proposta di una nuova legislazione in materia di erogazione di fondi pubblici per l’editoria indipendente Tomarchio elenca i nodi da sciogliere per tornare ad un’informazione libera e che faccia inchiesta; soprattutto in una terra come la Sicilia dove il monopolio dell’informazione non dispiace affatto a Cosa Nostra, anzi. E sempre per rimanere nel campo della libertà di stampa interviene lo storico e giornalista Carlo Ruta, recentemente condannato a 8 mesi di reclusione da un giudice monocratico di Messina (dopo aver subito l’oscuramento del suo sito accaddeinsicilia.net), per aver pubblicato inchieste su vicende di mafia, corruzione etc. alcune delle quali inerenti la morte del giornalista Giovanni Spampinato. Carlo Ruta ha raccontato di come è riuscito ad aprire un nuovo sito finalizzato al giornalismo di inchiesta (www.leinchieste.com) e della sua battaglia per la depenalizzazione dei reati di opinione. Al termine della sessione di lavoro Roberto Morrione ha evidenziato con convinzione come senza una vera informazione libera non ci siano grandi possibilità di invertire quello che è un reale problema per la democrazia. Così come afferma l’ex direttore di RaiNews24, di fronte al progredire sistematico delle varie forme di criminalità organizzata assistiamo a un vuoto di informazione che comporta una duplice responsabilità: da un lato isola quanti ad ogni livello si oppongono alla criminalità organizzata nei territori occupati dalle mafie. Dall’altro lato lascia via libera ad interessi economici e politici che determinano le scelte editoriali attraverso una rete di reciproci favori e di convenienze coincidenti di fatto con gli interessi mafiosi e di altri poteri occulti, come la massoneria deviata e i servizi deviati. Da sempre il giornalismo italiano ha dovuto subire pesanti condizionamenti e pressioni da parte del potere economico e politico. Pochi sono quelli che sono riusciti a mantenere la schiena dritta e molto spesso chi ci ha provato ha dovuto pagare con la vita la propria onestà. 11 giornalisti uccisi dalla mafia rappresentano un prezzo altissimo per un Paese “civile”. Ma l’Italia è quello stesso Paese dalle tante stragi impunite, un Paese “civile” che si è macchiato delle leggi “ad personam” e “contra personam”. E allora forse non dovremmo stupirci più, soprattutto se metà del Paese continua a votare una determinata classe politica. O forse si, possiamo ancora sorprenderci di tanta meschinità magari recuperando l’indignazione e il disgusto così da riprenderci quella dignità che hanno provato a toglierci come cittadini e come giornalisti. Probabilmente in futuro gli storici descriveranno questo periodo storico come una sorta di nuovo Medio Evo dell’informazione dove la libertà di stampa era solo una foglia di fico del “potere”. Un motivo in più per vendere cara la pelle come si suol dire e continuare, ognuno nel proprio ambito, grande o di nicchia che sia, a rendere onore alla professione di giornalista. Scrivere, raccontare, denunciare, fare rete, esigere una maggiore tutela della libertà di informazione da chi ci governa affinché istituiscano una legislazione premiale per tutte le realtà editoriali alternative ai grandi gruppi. E infine tramandare ai posteri cosa è stata e cos’è oggi la lotta alla mafia, la difesa della democrazia, la libertà di espressione, riappropriandoci della forza della parola che da sola a volte ha mosso le montagne.
Quanto mafiano i media su Mafia Capitale? Si chiede Giuliano Cazzola su “Formiche”. Le Punture di Spillo di Giuliano Cazzola, blogger di Formiche.net. Fateci caso. Nel trattare il verminaio di Mafia Capitale i tg si somigliano tutti. Trasmettono le medesime immagini (con in alto a sinistra l’emblema dei Ros) e gli stessi servizi. E non fa differenza che si tratti di canali Rai o Mediaset. Come se gli inquirenti non si limitassero a passare i filmati ma scrivessero di loro pugno anche i testi.
Perché un’inchiesta giudiziaria deve essere accompagnata da un’intensa campagna mediatica rivolta ad orientare l’opinione pubblica e a creare un clima di riprovazione e condanna, come se i processi fossero un inutile orpello, una sorta di impedimento burocratico per l’ansia di fare giustizia, perché tutto è già chiaro ed evidente?
Perché si usano le intercettazioni con la stessa tecnica del pescatore che, prima di immergere la lenza con l’amo, provvede alla c.d. pastura dello specchio d’acqua circostante, allo scopo di attirare i pesci. Non a caso vengono "velinate" ai media conversazioni intercettate prive di ogni rilievo penale, al solo scopo di dimostrare che i boss della Cupola avevano relazioni diffuse e trasversali. Può capitare, quindi, di venire ‘’sbattuti in prima pagina’’ soltanto per aver avuto contatti anche casuali (magari, come è successo a Giuliano Poletti, in una cena o in una riunione o in un incontro elettorale) con qualcuno di questi personaggi. Come ci si può salvare da questi linciaggi?
Verrà il momento in cui – per stare tranquilli – occorrerà farsi rilasciare dei certificati antimafia ad uso individuale con obbligo di rinnovo annuale, da esibire quando ci viene presentata qualche persona che non conosciamo, pretendendo che essa faccia lo stesso con noi. Oppure basterà che le Procure istituiscano un numero verde a cui telefonare in caso di urgenza, se ci capita di attaccare discorso con qualcuno in una cena sociale dei nostri ex compagni di liceo, magari appartenente, nei bei tempi andati, ad una sezione diversa dalla nostra. In questi cinquant’anni Mario Rossi, l’ex capoclasse della terza D, potrebbe essere diventato un mafioso.
Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Si chiede Massimo Prati sul suo Blog “Albtatros-Volando Controvento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del "loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...
Lo Voi «illegittimo», procura nel caos. Neppure 5 mesi a capo della procura di Palermo e per Francesco Lo Voi arriva la mannaia del Tar del Lazio, scrive "Il Giornale". Ad annullare, clamorosamente, la nomina fatta a dicembre da un Csm spaccato è stata la prima sezione quater, che ha accolto i ricorsi dei due contendenti più anziani di 9 anni: il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e quello di Messina Guido Lo Forte, già aggiunti nel capoluogo siciliano. Avevano denunciato il fatto che Lo Voi non avesse mai guidato, come loro, un ufficio giudiziario né una direzione distrettuale antimafia e ora i giudici amministrativi danno loro ragione. La scelta di Palazzo de' Marescialli, scrivono, è macchiata da «illogicità e irrazionalità», la motivazione è «insufficiente». E il Csm viene condannato a pagare 3 mila euro per le spese di giudizio. La nomina era stata bloccata dall'allora presidente Napolitano quando nel vecchio Csm in pole position c'era Lo Forte di Unicost mentre Lari era sostenuto dalle correnti di sinistra. E la scelta del nuovo Csm per un esponente di Magistratura Indipendente era stata letta a Palermo come una «normalizzazione» nella procura del processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. La sentenza del Tar è ora immediatamente esecutiva e i due ricorrenti potrebbero chiedere al Csm di fare una nuova nomina, ma sia Palazzo de' Marescialli che Lo Voi possono rivolgersi al Consiglio di Stato per una sospensiva. Per una strana coincidenza proprio poche ore prima della notizia dal Tar, la commissione competente del Csm faceva una mossa che riguarda sia Lari che Lo Forte. Il primo viene proposto come procuratore generale di Caltanissetta, l'altro viene «trombato» nella corsa alla procura generale di Milano, dove gli viene preferito Roberto Alfonso. In questa situazione, si può ipotizzare che Lari non insista per il vertice della procura di Palermo, mentre Lo Forte sarebbe ancor più motivato. Lo Voi, palermitano, 57 anni, 33 di carriera, era fuori ruolo come membro italiano a Eurojust, la superprocura europea, dopo essere stato togato al Csm molti anni fa. E proprio il peso dato a quest'incarico, facendolo preferire agli altri due candidati, viene contestato nella sentenza scritta da Giampiero Lo Presti. Accogliendo le ragioni esposte dall'avvocato Giuseppe Naccarato, il Tar contesta la mancanza di «adeguata motivazione delle ragioni concrete per le quali le competenze maturate nell'espletamento dell'incarico predetto siano state ritenute, nella prospettiva comparatistica, non soltanto idonee a compensare il deficit di pregresse esperienze direttive e semidirettive specialistiche, ma persino tali da determinare un giudizio complessivo di prevalenza attitudinale del dottor Lo Voi riguardo allo specifico ufficio». La sentenza non sembra lasciare molti margini e provoca al Csm grave imbarazzo, perché il collegio presieduto da Elio Orciuolo afferma che la valutazione è macchiata da un «vizio» inspiegabile. Che riguarda l'attività fuori ruolo, quella a Eurojust.
E poi danno lezioni di legalità!
Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti ”eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con ”Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: ”Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: ”lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.
Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».
Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.
«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».
Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?
«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».
Esistono esperienze alternative?
«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».
Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?
«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».
È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.
«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».
Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.
E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.
Qualche frase del libro?
«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».
Ancora?
«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».
Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?
«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».
Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?
«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».
Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?
«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».
Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?
«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».
Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».
«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».
La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?
«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».
Passiamo alle intercettazioni?
«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».
Il bignè?
«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».
Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?
«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».
Qual è la sua soluzione, allora?
«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».
Ma è soltanto sciatteria?
«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».
Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?
«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»
Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?
«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».
Cioè?
«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».
Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?
«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».
Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».
Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?
«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».
Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.
«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».
È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.
«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».
E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?
«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».
Quale?
«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».
Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?
«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».
La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.
«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».
È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.
«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».
Com’è possibile che abbiamo rinunciato?
«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».
Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.
«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».
Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.
«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».
Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.
«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».
Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.
«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».
Come se ne esce?
«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».
Cosa intende?
«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».
Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?
«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».
Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.
Eppure, ciononostante succede questo!
“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la ‘Procura planetaria’. In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.
Magistrati e mafia...
Zamparini il 21 maggio 2015 all’Università. «La mafia? A volte penso sia stata inventata per dare uno stipendio a quelli che fanno antimafia... Io in Sicilia non ho mai trovato alcun impedimento. Le cose si possono fare anche qui. Mi sento inattaccabile, non sono corrotto e non ho mai corrotto nessuno -ha detto il presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, durante un incontro con gli studenti dell’Università del capoluogo presso l’Aula Magna della Scuola Politecnica - La politica rappresentativa non esiste più, non esistono più i partiti. Ci hanno preso per il naso per cinquant’anni, io non sono ne’ di destra ne’ di sinistra. Farei premier papa Francesco, che è un dono del cielo. Io sono nato cattolico ma penso che tutte le religioni, dal Buddhismo all’Islam, sono buone se parlano d’amore», ha aggiunto Zamparini.
Magistrati ed espropri...
«Siamo in presenza di un esproprio di un'azienda da parte della magistratura, senza che la proprietà sia stata consultata e sia potuta intervenire. Da sostenitore della libera impresa, io non sono d'accordo». Queste le parole sull'Ilva del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi a margine dell'assemblea annuale di Federacciai il 22 maggio 2015. «E' irrazionale e incomprensibile quanto è accaduto all'Ilva – ha detto Squinzi – nell'economia reale di un paese a forte specializzazione industriale la presenza di una solida produzione siderurgica è essenziale per rifornire il mercato interno e rispondere con i fatti ad una pretesa di marginalizzazione del nostro Paese nei nuovi assetti di un'economia sempre più globalizzata». Giudizio condiviso dal presidente di Federacciai Antonio Gozzi: «Abbiamo combattuto con forza fin dall'inizio la scelta dei commissariamenti - ha detto -, decisione che si è trasformata in un esproprio senza indennizzo» ai danni della proprietà Riva. “Sono da sempre stato contrario ai commissariamenti”, ha attaccato Gozzi. “Personalmente li considero un esproprio senza indennizzo. Credo che quella dell’Ilva di Taranto sia una macchia sulla reputazione del Paese“. Definizione, quella di “esproprio”, ripetuta poco dopo dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che ha anche bollato come “irrazionale e incomprensibile” quanto accaduto all’Ilva. Ma l’amministratore delegato di Duferco non si è fermato qui e ha rincarato la dose affermando che “questo vulnus alla proprietà dell’azienda non ha portato risultati né sul fronte ambientale, né su quello industriale. Anzi. L’azienda versa in condizioni preoccupanti dal punto di vista produttivo e finanziario”. Secondo Gozzi “bisogna uscire da questa storia prima che sia troppo tardi, altrimenti si arriva a un punto di non ritorno”, ma “c’è poco tempo” perché il patrimonio iniziale di 2,5 miliardi dell’Ilva è “azzerato” dopo due anni di gestione commissariale: “Un tentativo disperato di fare cassa che ha portato a condotte commerciale che hanno provocato gravi perturbazioni sul mercato”.
Magistrati ed espropri mafiosi...
"Il tribunale di Palermo da pochi mesi ha una sezione dedicata alle misure di prevenzione. Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l'Italia". Lo ha detto il magistrato Silvana Saguto e riferito dall’Ansa, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, nel corso dell'audizione, davanti alla Commissione Antimafia, che rientra nel filone d'inchiesta sui beni confiscati e per un approfondimento sulla vicenda Italgas e Gas Natural Italia Spa attualmente in amministrazione giudiziaria disposta dal tribunale di Palermo. "Il fenomeno mafioso in Sicilia - ha detto Saguto - non è più vasto rispetto ad altre località ma è molto più seguito e ha dato molti più risultati grazie all'azione di prevenzione. Il problema è la gestione delle imprese, mantenere vive le imprese, continuare a gestirle nel corso degli anni, a volte numerosi. Sono molte le difficoltà nel dover convertire una impresa che nasce "viziata", in settori che vanno dall' edilizia alla gestione dei servizi, con tutte le ricadute che questo comporta". Saguto ha riferito che la magistratura ha saputo dal pentito Angelo Siino di un "tavolo per la gestione degli appalti", che si stava spostando a livello nazionale, con la possibilità di gestire l'assegnazione delle varie gare pubbliche: "questo è tutt'ora il problema”.
Mafia:beni confiscati, Mattiello, puntata Iene impone reazione. Relatore riforma,auspicabile censura sul piano dell'opportunità, scrive l’Ansa”. La puntata delle Iene sulla gestione delle misure di prevenzione a Palermo "impone una reazione". A sostenerlo è il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Giustizia e Antimafia e relatore della riforma del Codice antimafia che riguarda le misure di prevenzione. "La Commissione Antimafia - dice Mattiello - ha avuto modo in più di una occasione di approfondire la situazione". E' stato infatti audito in vari momenti sia l'avvocato Cappellano Seminara, sia la presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo Silvana Saguto e sono stati acquisiti gli atti relativi agli affidamenti giudiziari. "Io stesso nell'ultima audizione della presidente Saguto, avvenuta il 28 Aprile - ricorda Mattiello - ho posto esplicitamente la questione del conflitto di interessi e della concentrazione degli incarichi. Per quel che mi risulta, la magistratura non ha ritenuto fino a qui di rilevare alcuna ipotesi di reato, tuttavia credo sia auspicabile una censura sul piano della opportunità di simili comportamenti, pur considerando l'enorme mole di lavoro svolto dal Tribunale misure di prevenzione di Palermo, che da solo gestisce circa il 45% del totale dei sequestri in Italia. Della censura di inopportunità è senz'altro titolare la Commissione Antimafia e trovo una sintonia tra questo mio auspicio e le coraggiose parole della presidente Bindi sul tema delle candidature "imbarazzanti": la qualità dello Stato non viene minata soltanto dalle condotte che costituiscono reati, ma anche da quelle condotte che alimentano la diffidenza dei cittadini". In questi giorni a Palermo si sta svolgendo un convegno promosso dal prof. Costantino Visconti: "spero che possa essere una occasione per prendere posizione. Sarà sicuramente una posizione autorevole", conclude Mattiello.
Il miracolo delle aziende sequestrate alla Mafia. Così si crea lavoro danneggiando i clan. Tremila dipendenti, nuovi assunti e bilanci in attivo. Le imprese sottratte ai clan e ai corrotti nella Capitale non falliscono come nel resto del Paese. Un esempio da esportare e da valorizzare che il governo ignora, scrive Giovanni Tizian su “L’espresso”. L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL. "L'hotel sequestrato alla 'ndrangheta al Gianicolo Tra i tavoli di Pizza Ciro non si respira più aria di camorra e gli affari vanno comunque bene, anche senza i quattrini del clan. Un caso isolato? Al Gianicolo il grand hotel costruito dalla 'ndrangheta in un ex convento di suore, pagato 13 miliardi di vecchie lire, è oggi un'eccellenza nel panorama spesso desolante dei beni sequestrati alle mafie. L'albergo macina utili, ha messo in regola i giovani dipendenti ben prima dell'entrata in vigore del job acts e il ristorante ha ottenuto una paginetta nella mitica guida Michelin. Anche la catena Pizza Ciro ha aumentato i dipendenti da quando lo Stato ha messo alla porta i camorristi. E poi c'è la coop rossa di Mafia Capitale, quella del braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi. La cooperativa dopo la retata è passata di mano ed è finita in custodia di amministratori giudiziari scelti dal tribunale di Roma. E i molti che avevano scomesso sul fallimento dell'azienda che con Buzzi fatturava 60 milioni di euro si sono dovuti ricredere. La coop 29 giugno, infatti, con i dirigenti nominati dai magistrati continua a vincere appalti garantendo così occupazione a 1.300 persone. Una scommessa vinta dal tribunale di Roma e soprattutto dalla sezione misure di prevenzione guidata da un giudice, Guglielmo Montoni, di grande esperienza nella lotta ai clan della Capitale. Quest'ufficio si è trovato a gestire la più grande azienda di Roma, prendendo in carico tutti quei lavoratori della imprese sotto sequestro. In tutto 3 mila dipendenti, paragonabile a un grosso stabilimento Fiat del Sud Italia. Ma il dato incredibile, e in controtendenza rispetto alla malagestione italiana delle società sequestrate, è che i ristoranti, le imprese edili, le cooperative gestite dagli amministratori del tribunale di Roma creano occupazione. Un'inchiesta dei quotidiani locali del Gruppo Espresso mette in luce dove crescono e quante sono le proprietà che le istituzioni strappano alla criminalità organizzata. Ma in alcuni casi, dopo la confisca, le aziende falliscono o i beni non vengono gestiti con attenzione. Sono circa una trentina i nuovi contratti stipulati. Camerieri, direttori di sala, muratori. Delle 250 società sotto controllo del tribunale di piazzale Clodio solo dieci sono a rischio chiusura, le altre navigano in buone acque e alcune hanno persino aumentato gli utili del 35 per cento rispetto al periodo in cui i capi clan erano padroni. Una sfida difficile, piena di insidie, su cui pesa un trend nazionale negativo: nel 90 per cento dei casi le imprese passate in mano allo Stato sono destinate al fallimento. Il crollo di clienti e fatturato è un fatto fisiologico. I fornitori complici dei boss svaniscono, ma soprattutto aumentano i costi, perché quando si subentra alla mafia tante spese che prima non venivano neppure prese in considerazione iniziano a pesare sui conti. Gli imprenditori mafiosi infatti molte regole non le rispettavano e perciò avevano margini di guadagno più alti. Gli amministratori invece hanno sanato le posizioni in nero, fatturano ogni cosa e per occupare il suolo pubblico con i tavolini hanno chiesto le autorizzazioni. Sembra una banalità, ma gli uomini della cosca Contini fino a due anni fa titolari della catena Pizza Ciro, frequentata da vip e politici, non rispettavano alcuna regola. Non si erano fatti scrupoli nell'occupare abusivamente la strada antistante con i tavoli. Irregolarità che nessuno aveva segnalato. Ora che il locale di piazza della Maddalena non è più loro, i professionisti incaricati dal tribunale hanno chiesto l'autorizzazione al Comune e hanno segnalato alla procura una sorta di accanimento dei vigili che, ora sì, sono diventati scrupolosi nei controlli. Per mantenere in vita questi veri e propri gioielli dell'economia locale, è fondamentale affidarli a un nucleo di bravi amministratori giudiziari, i quali a loro volta vengono affiancati da una sorta di manager in grado di andare oltre i conti e gli equilibri di bilancio. Non solo, la strategia si basa anche su una rete costruita con protocolli firmati tra procura, tribunale, associazioni di categoria e banche. Il segreto per evitare il crollo dell'azienda sotto sequestro è agire immediatamente. Insomma, una volta messo alla porta il prestanome del boss, un minuto dopo devono entrare i nuovi amministratori. Se la sotituzione non avviene rapidamente, il ristorante, la pizzeria, l'azienda di costruzioni, perde clienti e appalti, e inizia quella discesa senza scampo che porta alla chiusura. L'esempio emblematico del fallimento è il Cafè de Paris, simbolo della dolce vita e oggi chiuso dopo la confisca. I turisti che passano davanti alle vetrine si fermano e osservano. Non capiscono quello scempio. Una malagestione che assomiglia tanto a una resa incondizionata delle istituzioni. In molti per esempio erano convinti che la cooperativa 29 giugno senza il padrone Salvatore Buzzi non avrebbe resistito a lungo senza le relazioni di cui godeva il capo di Mafia Capitale Massimo Carminati. E invece è ancora lì, con i suoi 1.300 dipendenti, due esperti nominati dal Tribunale e nuovi appalti conquistati. Il nuovo corso della 29 giugno per ora è una scommessa vinta. Così come lo è la catena di ristoranti e pizzerie Pizza Ciro. Tutti i venticinque locali sequestrati al clan Contini della camorra, sparsi per il centro di Roma, vanno a gonfie vele, hanno messo in regola i dipendenti e ne hanno persino assunto di nuovi. C'è poi il Grand hotel Gianicolo sequestrato alla 'ndrangheta dal tribunale di Reggio Calabria e affidato agli amministratori utilizzati dai giudici di Roma. Forse l'esperienza meglio riuscita nel panorama del patrimonio sotto custodia statale. Bilanci in attivo, nuovi dipendenti, un direttore capace e un giovane chef calabrese che ha scelto di affidarsi allo Stato ottenendo un contratto regolare che il clan gli ha sempre negato. E ora può mostrare agli amici con una punta d'orgoglio la pagina che la guida Michelin dedica al ristorante dell'albergo da cui si ammira il cupolone di San Pietro. C'è in questa guida dell'antimafia che funziona anche un altro storico locale di Roma, i Vascellari. Un tempo proprietà della camorra, oggi è gestito dal team del tribunale con ottimi risultati. Oltre ai beni mafiosi, ci sono quelli sottratti ai corrotti. Il Salaria sport village, il tempio dove la cricca Anemone-Balducci-Bertolaso si rilassava con massaggi “stellari”, è il fronte su cui il tribunale sta investendo molte energie. Il progetto per recuperare a pieno la struttura è ambizioso. L'ipotesi è affidarla a una multinazionale dello spettacolo così da trasformarlo in un polo della cultura oltre che dello sport. Secondo le prime indiscrezioni manca solo la firma per concludere l'accordo che obbligherebbe la società a investire somme milionarie sul centro sportivo. In pratica lo Stato, in cambio di garanzie di investimenti seri, ha concesso l'affitto della struttura che altrimenti resterebbe nel limbo della macchina giudiziaria con il rischio più che concreto di non aprire mai più. Da questa buona gestione il primo a guadagnarci è proprio lo Stato che così non vede svanire nel nulla i costi indiretti dei singoli procedimenti di sequestro. Attività che impegna magistrati e detective anche per un anno e mezzo a cui vanno sommate le parcelle per gli amministratori. E dopo il sequestro ci sono le bollette da pagare e la manutenzione da effettuare. Per questo se viene messo a reddito nel minor tempo possibile l'amministrazione si libera di costi che nel tempo pesano molto sui conti pubblici. Il sistema virtuoso messo a punto dovrebbe essere valorizzato dal governo. Tuttavia, c'è un decreto approvato che va nella direzione opposta. Il provvedimento equipara gli amministratori giudiziari ai curatori fallimentari, con la premessa che il lavoro dei primi è molto più semplice e per questo i loro stipendi dovranno essere ridotti. La norma non è stata accolta benissimo nei tribunali. In particolare a Roma dove tre cancellieri e cinque giudici, che di rado vanno in ferie, negli ultimi 12 mesi hanno assegnato 60 beni alla comunità romana. E per farlo si sono affidati a un gruppo di 30 amministratori giudiziari competenti, più simili a manager che a burocrati, che hanno compiuto il piccolo miracolo".
L’Espresso è notoriamente uno sponsor di Libera, l’associazione di sinistra filo magistrati condotta da Don Ciotti. Libera che ha il monopolio dell’associazionismo antimafia in mano alla CGIL.
Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.
Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.
Quel romanzo che fa a pezzi il prete antimafia, scrive Alessandro Gnocchi “Il Giornale". Domani arriva in libreria I Buoni di Luca Rastello. È il primo titolo di narrativa pubblicato da Chiarelettere, editore più noto per le inchieste giornalistiche. La collana «Narrazioni», che accoglierà titoli di Gianluigi Nuzzi (sul Vaticano) e Luigi Bisignani (sul direttore di un quotidiano, forse ispirato a Ferruccio De Bortoli) è in linea con lo spirito battagliero del resto del catalogo. I Buoni non mancherà di fare discutere, perché racconta in modo impietoso il mondo dell'associazionismo, del volontariato e soprattutto dell'antimafia. La vicenda ruota attorno a don Silvano, prete anti-cosche, uomo santo per definizione, (ex) predicatore di strada, paladino degli ultimi. Ma anche manipolatore, parolaio, condiscendente oggetto di idolatria, amico di politici e rockstar. L'antimafia esce, dalle pagine de I buoni, come un sistema non troppo dissimile, nei fini e nel linguaggio, alla mafia stessa. L'associazione di Don Silvano, che amministra i beni sequestrati ai clan, favorisce la «mafia» dei propri amici e utilizza i soldi pubblici per scopi privati. Mentre don Silvano recita omelie in memoria dei caduti sul lavoro, i dipendenti della sua onlus sono privati dei diritti elementari. Legalità e trasparenza valgono solo per gli altri. In casa propria ci si regola invece secondo convenienza. E se i bilanci sono truccati, amen. L'intimidazione, riassunta nella frase omertosa «ci sono cose che non sai», è lo strumento per zittire chiunque osi avanzare una critica. Chi manifesta dubbi, viene liquidato senza cerimonie. È il potere dei più buoni, così come lo cantava Giorgio Gaber, «costruito sulle tragedie e sulle frustrazioni». Il finale apocalittico però suggerisce che il castigo (divino?) giungerà dalle mani di un criminale (un Cattivo, dunque). Il giornalista e scrittore Luca Rastello, tra le altre cose, ha esperienza di questo mondo, avendo lavorato per il Gruppo Abele di don Luigi Ciotti in qualità di direttore della rivista Narcomafie. Adriano Sofri, sul Foglio, ha già messo in luce le analogie tra finzione e realtà, tra don Silvano e don Ciotti. I riscontri sono puntuali, dai luoghi fino all'arte oratoria passando per fatti di cronaca. Rastello in un'intervista a Nicoletta Tiliacos, sul Foglio, ha spiegato che I Buoni è un romanzo, non un pamphlet, «un'operazione narrativa» che fa «riferimento alla realtà». Don Silvano, dunque, è solo don Silvano: «uso personaggi reali - dice l'autore - come paradigmi di un mondo, di un sistema di manipolazione, di sequestro delle coscienze, non come oggetto di denuncia indirizzato a qualcuno in particolare». Comunque la somiglianza con «i personaggi reali» non passerà inosservata, anzi: scatenerà un uragano che nasconderà i pregi del romanzo. Rastello propone una visione anti-retorica della memoria e della legalità. Ma più interessante è la riflessione sulla nostra dipendenza dai simboli e dalle icone. Don Silvano è un impostore. Come dice Andrea, uno dei protagonisti, «abbiamo bisogno di lui» perché abbiamo bisogno di «convivere col male, fingendo di combatterlo». Don Silvano è l'alibi, la consolazione, l'anestetico, la foglia di fico di una società senza slancio e dalla falsa coscienza.
Aziende e amministratori giudiziari, in attesa di una querela facciamo qualche domanda alla D.I.A., scrive Pino Maniaci su "TeleJato". “Io lo posso dire aboliamo la Dia”, dice Gratteri criticando il soprannumero di dirigenti, uffici e segreterie, mentre gli stessi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Sono queste le proposte che avrebbe fatto se fosse arrivato al dicastero della giustizia. “Nessuno ha il coraggio di farlo, i politici mi chiamano e mi dicono: ‘Se lo facciamo ci danno dei mafiosi’. Allora lo dico io. Non possiamo pensare che non si possa chiudere un tribunale inutile. Non possiamo lasciare il 35 per cento di magistrati in più alla procura di Palermo. O si ha il coraggio di mandare a regime il ministero della giustizia oppure non cambierà mai nulla. . Non possiamo sperperare le energie”. La critica è diretta soprattutto agli interventi poco incisivi del passato: “Io sono d’accordo anche nel fare tagli, ma negli ultimi governi sono stati fatti solo quelli lineari del 5 per cento. Oggi guida la commissione che deve redigere norme e procedure per combattere la criminalità organizzata e annuncia le proposte che verranno fatte nei prossimi mesi uomini in surplus potrebbero essere riportati sul territorio. Ma vogliamo risparmiare davvero? Allora chiudiamo la Dia (Direzione investigativa antimafia). Parlo io: risparmiamo in dirigenti e segreterie e affitti e facciamoli tornare sul territorio. Aboliamo il Dap: sapete quanto guadagna un dirigente? 20mila euro”. Ed è proprio lì che, secondo Gratteri, bisogna intervenire. Queste le parole di Gratteri cioè di un magistrato in prima linea che fa’ i conti dello sperpero di ingenti capitali tra forze di polizia in surplus, che non servono a nulla se non a vivere di immagine di comunicati stampa e sparare minchiate di numeri nei vari sequestri di ingenti capitali; ma anche per far si che amministratori giudiziari e periti vengono pagati con le cifre fittizie dei lanci di agenzie. Partendo da questo presupposto vogliamo parlare di quello che succede nel nostro territorio, avendo sempre il coraggio di assumerci le responsabilità e sperando in una querela che finalmente apra uno squarcio di verità su quello che è diventato il business dell’antimafia fittizia e parolaia, buona per fare affari sulle spalle di mafiosi ma anche di cittadini onesti, sperperando e rubando soldi alla comunità tutta. Abbiamo parlato di giudici e amministratori giudiziari voraci, ladri che commettono illegalità diffuse che vengono denunciate agli organi competenti che per convenienza (e vorremmo capire che tipo di convenienza o connivenza) non danno seguito alle segnalazioni fatte da cittadini inermi di fronte a tribunali blindati, che non rispondono nemmeno alle domande di giornalisti che non sono leccaculo. Partiamo dal fatto e ci rivolgiamo alla Dia e speriamo che abbia il coraggio di risponderci, anche se fosse il caso con un mandato di cattura. La nostra Italia o ha investigatori che sanno lavorare o come viene molto spesso fuori dalle notizie di cronaca si prestano a fiancheggiare tribunali dove si trovano magistrati; e non siamo solo noi a dire che sono delle mele marce a cui piace visibilità e i “picciuli”. Prima domanda: oggi con i mezzi a disposizione quanto ci vuole a risalire ad una transazione di denaro? Con la tracciabilità e i potenti mezzi che disponete, perché prima sequestrate un’azienda e poi cercate di capire di chi è la proprietà? Prestate il fianco a far mangiare e arricchire amministratori giudiziari e loro collaboratori, che sono figli di magistrati, di cancellieri e cosi via? C’è un’organizzazione parallela che si spaccia per antimafia e che invece fa’ affari alla stessa maniera dei mafiosi? È questa l’Italia della legalità, della giustizia, della legge uguale per tutti? C’è da ridere se si va’ a sequestrare un impianto di carburante che un onesto cittadino ha comprato ben 16 anni fa’ in maniera regolare, e avete pure il coraggio di farvi consegnare i soldi che ha in tasca continuando a ridergli in faccia. Costate 70 milioni di euro al mese per pagare super stipendi a chi non sa’ nemmeno fare un’indagine seria? Allora chiudiamo la Dia anche perché non sa lavorare; inoltre, ci sono troppe forze di polizia superflue ed inutili che vivono solo di immagine di lanci di agenzie e di sperpero di denaro pubblico. Cara Dia, perché non indagate come un’ amministratore giudiziario possa guadagnare più di sette milioni di euro l’anno? Di chi è amico? Chi lo sostiene? Chi lo foraggia? Chi ci lavora dietro? E quante illegalità ha commesso, tanto da rischiare il giudizio per truffa aggravata e rimanere ancora in carica? Un rappresentante dello Stato deve aspettare eventualmente i tre gradi di giudizio? O per etica morale e dignità di un tribunale deve essere cacciato a pedate in culo? Perché le nomine come amministratori coadiuvatori etc etc vengono fatte anche a figli di cancellieri del tribunale come Grimaldi o come Cannarozzo, sempre gli stessi e sempre olio per tutte le insalate? Perché c’è un’ albo di 4000 pretendenti amministratori, ma vengono nominati sempre i soliti dieci? Sono bravi? Gli piacciono i picciuili? E sempre gli stessi portano al fallimento le aziende sequestrate. C’è pure chi se li vende o rimane all’interno dopo la confisca come amministratore dell’azienda? E l’albo nazionale previsto per legge è un’ optional? Perché sparate sempre cifre iperboliche non conformi alla realtà dei beni sequestrati? Usate i parametri catastali, o il valore di mercato che vi inventate? E sapete poi che i periti vengono pagati sulle cifre da voi esposte? Credo che di materiale per denunciarmi, arrestarmi o investigare, se decidete di fare le cose seriamente ce ne sia abbastanza; ma le nostre domande non finiscono qui: ne abbiamo anche di riserva, insieme alle carte e alle prove che vorremmo sottoporre alla vostra attenzione. Noi speriamo che la sezione misure di prevenzione di Palermo e gli ingenti capitali che amministra siano oggetto di attenzione da parte dei ministeri e della politica di competenza, perché la legge, così com’è, troppo allegra e troppo fantasiosa, colpisce i mafiosi; e lì saremo sempre al vostro fianco, ma colpisce anche le persone per bene. E come una volta mi ha detto un magistrato in prima linea della procura di Palermo, noi i beni prima li sequestriamo e poi vediamo di chi sono non funziona, non funziona, funziona solo per fare arricchire altri manciatari che rappresentano lo stato. Per chiudere, Gratteri è un pazzo? Il prefetto Caruso è un pazzo? Noi pensiamo di no, ma pensiamo invece che la Dia lavori male molto male. Siamo pronti come abbiamo già fatto al tribunale di Caltanissetta e in commissione nazionale antimafia ad essere uditi . Aspettiamo risposte.
Proprio mentre si sta facendo luce sul malaffare che ruota attorno al Tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione (vedi i servizi delle Iene e di Telejato, Marco Salfi), proprio quando viene fuori il coinvolgimento della Saguto nell'affidamento fin troppo allegro degli incarichi a pochi amministratori giudiziari, esce fuori la notizia che la mafia, non si sa come, vorrebbe uccidere la Saguto.
La mafia vuole uccidere la Saguto. È il giudice che sequestra i beni, scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Allarme attentato. Una nota dei Servizi segreti mette in guardia il presidente che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Uno "scambio di favori" fra clan gelesi e palermitani. A rischio ci sarebbe anche un altro magistrato. Potenziate le misure di sicurezza. Le notizie sono tanto frammentarie quanto inquietanti: la mafia vuole uccidere Silvana Saguto, il giudice che guida la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Come se non bastasse, c'è un altro dato che rende lo scenario ancora più preoccupante: per eliminare il magistrato, che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani. Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato. Indiscrezioni vogliono che si tratti di Renato Di Natale, oggi procuratore capo di Agrigento, ma in passato a Caltanissetta dove ha coordinato le inchieste che hanno decimato il clan Emmanuello. C'era Di Natale alla testa dei pm che davano la caccia a Daniele Emmanuello. La latitanza del capomafia finì nel sangue, morto nel 2007 nel corso di un conflitto a fuoco con la polizia in provincia di Enna. Con i suoi fratelli aveva organizzato uno dei clan più potenti della Sicilia sud-orientale, in grado di dialogare con i boss di Palermo. L'allarme è suonato per la prima volta l'anno scorso, ma due mesi fa è stata una nota dei Servizi segreti a fare scattare il piano di sicurezza straordinario per la Saguto. Per proteggere il giudice sono arrivati più uomini di scorta, le è stata assegnata una nuova macchina, messa a disposizione dal ministero dell'Interno, con il livello massimo di blindatura, e l'esercito vigila sotto la sua abitazione. Il progetto di morte - si parla di un attentato le cui modalità restano top secret - ad opera del clan gelese sarebbe stato sventato mesi fa grazie ad alcuni arresti. Ed era un progetto già entrato nella fase operativa, visto che gli esecutori avevano eseguito dei sopralluoghi in città. La nota dell'intelligence, però, avrebbe proiettato nel presente il rischio attentato, probabilmente alla luce di alcune conversazioni captate dalle microspie. Le stangate patrimoniali hanno messo a rischio la stessa sopravvivenza di alcuni clan palermitani. Perché decidere di affidarsi agli uomini al soldo degli Emmanuello? Forse a Palermo non era stata trovata l'intesa tra i boss su chi dovesse entrare in azione o forse sapevano di essere sotto osservazione. Avrebbero così preferito affidarsi a killer che, venendo da fuori città, avrebbero destato meno sospetti. Ma quale famiglia mafiosa palermitana voleva eliminare il giudice? Impossibile fare delle ipotesi, visto che i sequestri delle Misure di prevenzione hanno colpito a tappeto tutti i mandamenti mafiosi. Troppi interessi economici - dalle piccole attività alle grandi imprese - sono stati intaccati della sezione Misure di prevenzione. Senza soldi la mafia non è più in grado di garantire assistenza alle famiglie dei detenuti, pagare gli stipendi dei picciotti, assoldare nuove leve. Insomma senza soldi, Cosa nostra non può né rinnovarsi, né garantire quella catena di mutuo soccorso e assistenza che ne rappresenta il punto di forza. Da quando c'è la Saguto alla guida della sezione del Tribunale, sono stati oltre 400 i provvedimenti avviati. Molti su input della Procura ma tantissimi su iniziativa degli stessi giudici. Sono saltate le connivenze, molto spesso le cointeressenze, fra pezzi dell'imprenditoria e le famiglie mafiose. Un lavoro scomodo che qualcuno vorrebbe spegnere con un gesto eclatante.
Questa mafia bifronte. I patrimoni di Cosa Nostra. I beni tolti ai boss, aumenta il numero dei gestori di tesori immensi, scrive Leopoldo Gargano su "Il Giornale di Sicilia". Ha iniziato la sua carriera facendo da uditore giudiziario con Giovanni Falcone e adesso ha 34 anni di sequestri e confische antimafia alle spalle. Una vita spesa a togliere denaro ai boss ed ai loro complici, quella di Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale. Proprio come sosteneva Falcone, che della lotta ai patrimoni mafiosi aveva fatto un punto fermo del suo lavoro. «Follow the money», diceva il giudice ucciso a Capaci, frase abusatissima ma sostanzialmente vera. Bisogna seguire il denaro per scoprire i misteri di Cosa nostra e dopo averlo seguito, possibilmente bisogna toglierlo alla mafia e restituirlo ai cittadini. E in questi anni di beni e denari, strappati ai mafiosi ce ne sono stati tanti. Dall' ottobre 2010 ad oggi, questo il periodo della gestione Saguto dell'ufficio, sono stati avviati 451 nuovi procedimenti patrimoniali e ne sono stati definiti 401. Ancora pendenti, dunque in attesa di confisca definitiva o di restituzione, ne risultano 257. La stima sui milioni di euro bloccati, tra immobili, aziende, terreni e conti correnti, è molto più difficile. Il valore dei beni sequestrati varia da personaggio a personaggio, impossibile fare una media. Ma per capire di che cifre parliamo, basta citare i due sequestri più grossi degli ultimi mesi. Quello ai danni degli eredi Rappa, un colpo da 800 milioni di euro, e il provvedimento a carico del ragioniere di Villabate Giuseppe Acanto, ex deputato Biancofiore all' Ars e collaboratore del mago dei soldi Giovanni Sucato, a cui è stato bloccato un tesoro da 750 milioni di euro. Ma chi amministra questo enorme patrimonio che da solo potrebbe fruttare quanto una legge finanziaria dello Stato? È uno dei punti di maggior criticità, secondo il punto di vista di alcuni osservatori. Troppo denaro, troppe aziende concentrate nelle mani di pochi professionisti superfortunati che si spartiscono, praticamente senza reale concorrenza di mercato, una torta gigantesca. Il presidente Saguto preferisce non intervenire sulla questione, sostiene di non volere in alcun modo alimentare polemiche. Ma i suoi uffici comunicano un dato. In quattro anni e mezzo, sono stati nominati poco più di cento nuovi amministratori giudiziari, che mai in passato avevano lavorato con la sezione. Una media di 25 ogni anno. Facendo un po' di conti dunque, ognuno gestisce non più di quattro procedimenti. E nuove nomine sono state fatte pochi giorni fa, giovani commercialisti e avvocati che hanno iniziato la carriera di amministratori di patrimoni considerati «sporchi», fino a prova contraria. E poi c'è la questione delle questioni. Le aziende sequestrate sono destinate a chiudere in poco tempo, il loro destino è il fallimento. Questa l'obiezione ripetuta un po' ovunque, lo slogan letto sui cartelli portati in piazza da operai licenziati. È così? Dagli stessi uffici al piano terra del nuovo tribunale, viene fornito un dato. Ovvero un numero: l'1. C'è una sola azienda che ha chiuso i battenti per fallimento. Ed è la sala Bingo Las Vegas di viale Regione Siciliana, un tempo gestito dal clan di Nino Rotolo. Lo Stato si era trasformato in croupier ma ha avuto scarsa fortuna e la società è naufragata. Ma non è finita qui. Perché proprio il mese scorso è stato ceduto il ramo di azienda e l' attività è stata rilevata da un imprenditore che riaprirà la sala, riassumendo parte dei vecchi dipendenti. Alcuni erano stati rimossi perché considerati troppo vicini ai vecchi titolari mafiosi. Le aziende in difficoltà sono invece tante, causa anche la crisi che ha devastato la già gracile economia siciliana, ma inutile nascondere che non è solo questo. Quando comanda il boss, spesso i fornitori sono molto più morbidi, gli impiegati sono in nero e costano di meno e la concorrenza fa un passo indietro. Per legge però i debiti fatti sotto amministrazione giudiziaria sono garantiti dall' Erario, mentre per quelli accumulati in precedenza, e dunque da saldare, c' è il disegno di legge presentato da Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia, che dovrebbe essere risolutivo. Inutile usare eufemismi. Quando arrivano gli amministratori il discorso cambia. Intorno si crea una sorta di ostracismo, le banche sono propense a chiudere i conti ed i clienti fuggono. Come nel caso del ragioniere Acanto. Gestiva la contabilità di circa 400 aziende, 390 delle quali dopo il sequestro si sono volatilizzate in meno di una settimana. Ma gli sono rimaste fedeli. Il ragioniere ha aperto un nuovo studio e tutte le imprese sono tornate da lui.
La signora Saguto in una intervista al Giornale di Sicilia replica alle accuse sulla sua gestione: tutto falso, scrive Telejato. Siamo al botta e risposta. Ma non in un dibattito a viso aperto, in un procedimento giudiziario per diffamazione, nei riguardi della redazione di Telejato, che potrebbe essere fatto senza problemi, poiché la magistratura e i suoi componenti hanno in mano tutti gli strumenti per inquisire, giudicare, condannare. Un procedimento giudiziario potrebbe portare alla luce tante cose che è preferibile tenere nascoste, che è meglio secretare per allontanare la presenza della stampa e delle telecamere. Il botta e risposta avviene in modo più sottile, proprio grazie alla possibilità di poter disporre in qualsiasi momento di giornalisti compiacenti, di porgitori di microfono, di cantori d’ufficio delle opere, delle meraviglie e del grande contributo nella lotta contro la mafia che una singola persona è stata capace di portare avanti nella conduzione dell’ufficio misure di prevenzione di Palermo. E così, dopo i due servizi delle Iene sul comportamento e sull’operato disastroso degli amministratori giudiziari di Palermo, sui fallimenti del 90% delle imprese sequestrate, sul cumulo impressionante di cariche e nomine nelle mani di pochi amministratori giudiziari, ecco che la regina di cui parliamo, la dott.ssa Saguto, per mostrare che si tratta solo di fumo e di notizie sbagliate, alza il telefono, chiama un giornalista del solito Giornale di Sicilia, questa volta si tratta di Leopoldo Gargano, e si fa fare un’intervista nella quale dichiara che nei suoi 34 anni di servizio ha avviato 451 sequestri, che di questi 275 sono in attesa di confisca definitiva, che non è vero che gli amministratori sono sempre gli stessi, ma che sono più di cento i “quotini”, pardon, gli amministratori giudiziari nominati, alcuni dei quali di nuovissima nomina, che non è vero che i beni sequestrati sono amministrati male e falliscono, ma che ne è fallito uno solo , la sala Bingo Las Vegas di Nino Rotolo, dal momento che ai palermitani non piaceva che lo stato si fosse trasformato in croupier, ma che anche questa sala al più presto riaprirà. È vero, ci sono difficoltà c’è la crisi, il boss comandava con metodi non legali, le banche non fanno credito agli amministratori, i clienti fuggono, ma tutto si sistema piano piano. Quindi tranquilli, tutte menzogne di gente che non si rende conto di fare un favore alla mafia nel momento in cui se la prende con questa eroina e regina dell’antimafia, erede del messaggio di Falcone, che è quello di colpire la mafia nei suoi patrimoni. Non è il caso di dire che, a giudicare da quanto si dice attorno, sia la Commissione Antimafia, sia la stampa, sia gli stessi vertici giudiziari di Palermo e Caltanissetta stanno cercando di alzare il velo sui tanti misteri e sulle distorsioni e anomalie che ruotano attorno all’ufficio misure di prevenzione, evidenziando l’assoluta urgenza di nuove normative che regolino il complicato settore della gestione dei beni mafiosi. Staremo a vedere se tutto, come al solito non sarà archiviato. La Saguto, nella sua sapiente strategia di controllo del tutto, cerca di metterci una pezza, o, come diciamo in siciliano, di “mettersi u ferru arrieri a porta”. Da tempo denunciamo tutto ciò, ma da tempo il potere finge di non sentire e non vuole procedere: tutto va bene, abbiamo scherzato, tanti omaggi, dott.ssa Saguto, dio salvi la Regina.
I Quotini. Il Cerchio magico che ruota intorno agli amministratori giudiziari, tutti in quota, nella quota del loro re, cioè di colui che li fa lavorare..., scrive Salvo Vitale su "Telejato". Avere visto allo stadio di Palermo, in tribuna d’onore, la sig.ra Silvana Saguto, il sig. Cappellano Seminara e il sig. Aulo Giganti, ospiti di Zamparini, ha fatto suonare una serie di campanellini d’allarme. Che, malgrado il muro d’impenetrabilità che circonda l’argomento, hanno trovato qualche conferma. L’inghippo che sta sotto questo affare è grosso , tutti suggeriscono di “levarci mano”, tanto non si potrà cambiare, perché il sistema di potere che è stato organizzato attorno ai beni confiscati è capace di resistere a qualsiasi attacco. C’è chi dice che dietro ci sta la massoneria, si parla, senza poterlo dimostrare, di rapporti d’affari tra Cappellano Seminara e il marito della sig.ra Saguto, tal ingegnere Caramma, si dice che la convivente del figlio della Saguto, un’altra avvocatessa dal nome esotico, Donna Pantò, gestirebbe i beni delle aziende Rappa assieme a Walter Virga, figlio del magistrato Virga del Consiglio Superiore della Magistratura, che ha archiviato un procedimento giudiziario nei confronti della Saguto. Queste e altre maldicenze non mettono in discussione un principio: esiste un cerchio magico tra i personaggi che abbiamo citato, tant’è che sono sempre gli stessi , gestiscono imperi economici e hanno trovato vitalizi, affari e ricchezze, senza che nessuno parli e denunci con chiarezza. Sono i nuovi padroni della città. Hanno scoperto come vivere parassitariamente alle spalle degli altri, secondo lo stesso schema e lo stesso principio usato dai mafiosi, sfruttando i proventi dell’accumulazione mafiosa, nel momento in cui questa ha scelto, sperando di poter “farla franca”, cioè di sfuggire ai fulmini del controllo istituzionale, di darsi all’imprenditoria, soprattutto nel settore dell’edilizia. La strada della denuncia nei loro confronti e nei confronti del magistrato delle misure di prevenzione che li nomina è in genere sconsigliata dagli avvocati, sia perché pure essi devono campare, sia perché inasprirebbe le sanzioni repressive, mentre essi devono dimostrare di sapere portare a casa del cliente qualche risultato, sia perché non ci sarebbe più nessuna possibilità di lavoro né per il cliente sotto indagine né per i propri eredi, dal momento che non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede, ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati. Qualcuno ha parlato di “mafia dell’antimafia”: non è esatto spacciare per antimafia l’esercizio di un potere fatto a fini repressivi. La repressione ha un senso quando sotto c’è il dolo, ma l’altra parte del dolo, quello di chi esercita la repressione, eufemisticamente chiamata “prevenzione”, diventa molto spesso prevaricazione e sopruso, specie se sotto c’è un disegno e un circuito affaristico da tutelare. Il circuito lo abbiamo individuato: è fatto dai vari Dara, Cappellano Seminara, Gigante, Turchio, Benanti, Sanfilippo, Aiello, Virga e da una serie di “collaboratori”, avvocati e dipendenti che vi girano attorno, girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: così, se uno di essi compie otto mesi di lavoro, retribuito da 3 a 5 mila euro, ha diritto alla disoccupazione, scaduta la quale sarà assunto da un altro avvocato del giro, per un altro incarico. A Palermo, negli ambienti giudiziari li chiamano “quotini”, nel senso che ognuno versa una quota al sommo re dei “giustizieri”, a colui che regge le fila della Cappella. A vederli, i collaboratori sono tutti avvocaticchi, i “nominati”, cioè gli assunti per espletare incarichi di sorveglianza, sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati. Calcolando missioni, spese di viaggio gonfiate, fatture a rimborso ecc, si arriva a impressionanti cifre. Si veda il caso dei negozi di Niceta, che, al momento del sequestro avevano un fatturato di 20 milioni, che, con la crisi avevano dimezzato la cifra, ma riuscivano a mantenerla, anche in gestione giudiziaria: è stato calcolato un budget spese di 500.000 euro l’anno, di cui, almeno 200 nelle tasche dell’amministratore capo Gigante: lui stesso ha detto che in fondo non è una grande cifra, è pari al 5%, cioè a un vero e proprio pizzo. Anche gli emolumenti dei suoi collaboratori, che non fanno assolutamente niente, se non un saltuario atto di presenza, magari per rifornirsi il guardaroba, sono sbalorditivi: tutto naturalmente grava sui mancati pagamenti per le commesse d’acquisto, sulla chiusura di alcuni punti vendita, che, per una falsa concezione dell’economia, comporterebbero risparmio, e su contratti di solidarietà con i quali si obbligano i dipendenti ad accettare una riduzione del 20% dello stipendio. Onde evitare licenziamenti in grande numero, che susciterebbero clamore mediatico e proteste, oltre che suscitare malumori per le norme che regolano l’amministrazione dei beni sotto sequestro, si spostano i dipendenti del punto chiuso in un altro che ancora resiste e che comunque è già sufficientemente coperto dal personale. E intanto, visto che i fornitori, non avendo più le garanzie di una volta, si rifiutano di fornire merce, gli scaffali si svuotano, gli inizi di stagione, che in genere comportano molte vendite, non partono, sono finiti gli sconti, che hanno portato , con il 70%, perdite e fine rapporti di lavoro. Da questa disperazione, vengono fuori altri risvolti: perché alla Conca D’oro di Zamparini al negozio di Zara, oltre 2000 mq. è stato concesso di non pagare affitto per due anni, mentre Niceta paga 20 mila euro al mese di spazio? C’è forse un sottile disegno che vuole favorire l’imprenditoria straniera e bloccare qualsiasi forma di lavoro in Sicilia, con l’accusa che tutta l’economia palermitana è mafiosa? E se c’è questo, cosa c’è sotto di questo?
Il “Re” è nudo. Come nella favola di Hans Christian Andersen l'incantesimo sembra si stia spezzando, il re è nudo, scrive Marco Salfi su "Telejato". Parliamo di un Re che paradossalmente ha molti tratti in comune con quello delle fiabe per bambini dello scrittore Danese. Si tratta infatti del sovrano degli amministratori giudiziari, diciamo per usare un eufemismo che è il più quotato a Palermo. I dati della camera di commercio parlano chiaro e non mentono a differenza di quanto a riferito nell’intervista rilasciata a Matteo Viviani. Ma andiamo con ordine. Telejato da più di tre anni sta portando avanti un inchiesta sugli amministratori giudiziari e il sistema a tratti marcio che si è sviluppato intorno alle misure di prevenzione del tribunale di Palermo. L’abbiamo di recente ribattezzata “La mafia dell’antimafia” e in merito alle vicende scoperte e denunciate dalla nostra emittente, da diverso tempo abbiamo chiesto di essere ascoltati dalla commissione nazionale antimafia che più volte si è occupata del tema, ascoltando solo la campana della presidente della prima sezione misure di prevenzione de tribunale di Palermo, la dottoressa Silvana Saguto. Si tratta di un giro d’affari di svariati miliardi nelle mani di pochissimi e sotto la responsabilità di uno dei due giudici a latere del fu maxi processo. Le vicende che si intrecciano in queste storie sono diverse e vanno dalla mala amministrazione di patrimoni acclarati mafiosi, a presunti sequestri arbitrari di beni che in alcuni casi hanno portato pure all’amministrazione controllata di grandi aziende come l’Italgas. La speranza è che dopo il passaggio delle Iene non si spengano i riflettori e che la commissione nazionale antimafia e gli organi della magistratura competenti possano far luce su questa vicenda, tenendo conto anche delle tante denunce fatte non solo dalla nostra emittente, ma anche dal prefetto Caruso, che più volte è stato ascoltato in merito, proprio dalla commissione d’inchiesta parlamentare presieduta da Rosy Bindi. Forse finalmente qualcosa sta cambiando e auspichiamo che associazioni che a volte si sono comportate da “professioniste dell’antimafia” possano inserire seriamente questi temi nelle loro agende, in maniera laica, lontane quindi da logiche che poco hanno a che fare con la lotta e il contrasto alla criminalità organizzata. L’antimafia non è un business.
Le Iene intervistano Cappellano Seminara, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Parliamo di Cappellano Seminara, un personaggio che ormai i nostri telespettatori conoscono bene, da noi definito “u re”, ovvero il signore degli amministratori, al quale sono stati dati una sessantina di incarichi da parte della Procura di Palermo, ufficio misure di prevenzione, diretto dalla dott.ssa Saguto. Di questi tempi Cappellano si fa vedere anche con un altro bell’esemplare della razza degli amministratori giudiziari, l’avv. Aulo Gigante, anche lui nel cuore della Saguto e attuale amministratore dell’impero dei Niceta, ormai ridotto allo sfascio. I due si conoscono sin dai tempi in cui a Cappellano venne affidata l’amministrazione giudiziaria del Gruppo Aiello a Cappellano Seminara, e l’avvocato Gabriele Aulo Gigante era il legale rappresentante del Gruppo. Poiché Cappellano Aveva già molte amministrazioni, tirò fuori dal cappello il nome di Andrea Dara, un oscuro revisore dei conti, al quale, tramite i suoi contatti privilegiati con l’Ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, riuscì a fare dare la nomina di amministratore giudiziario, restando egli nell’ombra a muovere i fili delle imprese sequestrate. Dara intorno al 2007 ebbe una serie di contrasti e divergenze con Gigante, che diede le dimissioni, e si scrollò anche della tutela di Cappellano, il quale, nel timore che Dara stesso potesse coinvolgerlo nel dissesto in cui il Gruppo Aiello stava precipitando, prese le distanze e iniziò un contenzioso per il recupero di parcelle per amministrazione della Clinica S. Teresa. La richiesta iniziale era di circa € 1.200.000. Due anni fa Dara, come amministratore, è stato condannato a pagare € 1.000.000 allo stesso Cappellano. Bazzeccole. E nessuno pensi che Dara li abbia tirati fuori dalla sua tasca. In altre occasioni vi abbiamo parlato di come il Cappellano controlla un “cerchio magico” dei “quotini”, ovvero di avvocati, figli di magistrati ecc. in qualche modo legati a lui, nella sua quota”, ai quali vengono dati incarichi vari dal tribunale o da parte di lui stesso. Per darvi una mezza idea del personaggio vi diremo che, dove Cappellano ha realizzato il suo miglior capolavoro è nella Legal.gest.consulting srl, in sigla LGConsulting srl, che risulta di proprietà della figlia Cappellano Carlotta, la quale ha versato 100 euro di quote nominali per diventarne azionista, ma solo del 5%, mentre il padre Gaetano ne ha versati 9.900, proprietario perciò al 95% e ne è amministratrice unica la madre Seminara Elda, nata nel 1932 e quindi di 82 anni. Si tratta di un albergo che mette il Cappellano in concorrenza con se stesso, perché amministratore giudiziario dell’hotel Palazzo Brunaccini. Nel 2011 la Legal gest cede la gestione dei servizi alberghieri ad un’altra società, la Turism project srl, della quale il 100% delle quote sociali è della Legal gest consulting srl, socio unico, cioè lo stesso Cappellano Seminara, il quale è amministratore giudiziario di un altro gruppo alberghiero, la ghs hotel Ponte spa. Tutto questo è quel che si sa sino al 2011, dopodichè, non si sa con quale motivazione, le nomine degli amministratori e delle aziende loro affidate sono diventate segreti d’ufficio. Adesso, dopo il bel servizio sulle imprese Cavallotti e sull’altro bel campione delle amministrazioni giudiziarie che è Modica de Moach, i simpatici ragazzi delle Iene ci riprovano con Cappellano. Quello che hanno combinato lo sapremo in questi giorni e, dopo che andrà in onda, speriamo di darvi tutto il servizio, dal momento che la nostra collaborazione è stata preziosa per la sua realizzazione. Ecco una feroce satira con cui Telejato ha bollato l’immarcescibile amministratore giudiziario:
Seminara Cappellano è un gran figlio di bu….ano…,
quando allunga un po’ la mano egli prende a tutto spiano,
Parcheggiato all’Arenella tiene un gran catamarano
sequestrato a un mafioso siciliano e palermitano,
ci va sopra e va lontano, si diverte a tutto spiano,
Beni ne ha affidati tanti, di mafiosi e pur di santi,
fa fallire tutti quanti, frega soldi e non va avanti.
Porta tutti al fallimento, solo allora egli è contento.
State attenti a Cappellano, non girate il deretano
è capace di strapparvi tutti i peli intorno all’ano.
Tutti dicon che è un co…cciuto, quelli che l’han conosciuto,
tutti eccetto la dott.ssa Saputo.
Cappellano Seminara, “il re” è rinviato a giudizio dalla procura di Roma, scrive "Telejato". L’elenco dei beni sequestrati ed affidati a Gaetano Cappellano Seminara coinvolge una cinquantina di aziende già confiscate ( di quelle sequestrate non si sa nulla), ed offre uno spaccato di come l’attenzione dei mafiosi sia particolarmente rivolta al settore edilizio e immobiliare, ma non disdegna di occuparsi di altri campi, come quello delle forniture mediche, del turismo, dei trasporti, della plastica, delle reti idriche, del metano, dei lavori della pubblica amministrazione. Buona parte dei beni in oggetto si trovano nel circondario di Bagheria, dove Seminara ha uno studio e dove l’imprenditoria siciliana legata a Bernardo Provenzano ha trovato un fertile terreno per investire denaro. A Bagheria c’è Villa Teresa, una delle cliniche più attrezzate, costruita con i soldi di Michelangelo Aiello,il più ricco imprenditore siciliano, con investimenti collaterali di Bernardo Provenzano e con la protezione politica di Totò Cuffaro, oltre che con la complicità della Regione Sicilia, che ha assicurato pagamenti esorbitanti di pagelle mediche. Comunque Villa Teresa è stata affidata a un altro di questi campioni, Dara, al quale l’incarico è stato revocato dopo lunghi anni di cattiva amministrazione. Non faremo l’elenco dei circa 60 beni affidati al nostro grande amministratore, forse il più grande, il re degli amministratori giudiziari. Titolare di uno studio legale nel quale, per sua ammissione, lavorano oltre trenta dipendenti. Si può dire che buona parte dell’imprenditoria palermitana sia finita sotto le sue grinfie, perchè la dott.ssa Silvana Saguto, che dirige il settore delle misure di prevenzione, è assolutamente convinta che nessuno sia migliore di lui. In quest’orgia di affari, ne è capitato uno che si è rivelato la classica buccia di banana su cui il Cappellano è scivolato. Si tratta della discarica di Bucarest, ritenuta la più grande d’Europa, sulla quale aveva messo le mani Vito Ciancimino e poi il figlio Massimo, che ne gestivano una parte, poi confiscata e affidata al solito Cappellano. Quando uno dei proprietari si ritirò e bisognava rinnovare il Consiglio di amministrazione, Cappellano pagò un lavavetri per acquistare, come prestanome una quota importante ed entrare nel consiglio di amministrazione, per poi diventarne presidente, giochetto che gli è riuscito numerose volte. Questa volta il gioco è stato smascherato. Infatti, grazie alle grandi intuizioni del Procuratore Capo di Roma Pignatone, già del tribunale di Palermo, e quindi collega della dott.ssa Saguto. Valenti, che già da 5 anni ha smesso di occuparsi della discarica rumena, di cui era socio, è stato arrestato per “tentativo di riciclaggio” dei soldi della discarica rumena. Tutto ciò malgrado il GUP di Palermo nel 2013 si fosse dichiarato incompetente per territorio e avesse dichiarato l’estraneità del Valente rispetto ai fatti di cui era accusato. Il Valente, che ha denunciato anche un tentativo ricattatorio di alcuni sindaci di importanti città italiane (si parla di Roma e, in particolare di Napoli e del suo sindaco De Magistris, il quale avrebbe speso oltre 10 milioni di euro per intercettarlo e spiare i suoi movimenti, con la richiesta di farsi carico del deposito dei rifiuti della città. Un arresto per “tentativo di riciclaggio” è il massimo cui possa ricorrere la giurisprudenza: non il reato, ma il tentativo di farlo, prima che sia stato fatto. Ecco perché le misure di prevenzione. Prevenire è meglio che curare. Ma Valenti, a questo punto, ha sporto denuncia contro l’operato di Cappellano Seminara, il quale si ritrova oggi inquisito, per truffa aggravata, non solo in Romania, ma anche in Italia, esattamente dalla Procura di Roma, dove dovrà presentarsi il 22 ottobre, perché rinviato a giudizio, dopo tre archiviazioni della stessa inchiesta, sulle quali è facile ipotizzare l’intervento dei magistrati di cui ci siamo occupati. Sembra che la quarta volta il GUP non abbia potuto fare a meno di procedere. Tra gli accusatori di Seminara c’è anche il principale gestore della discarica rumena, un certo Dombrowsky, il quale apparteneva ai servizi segreti rumeni quando era ancora dittatore Jarusewsky . Costui ha chiesto 50 milioni all’ufficio diretto dalla dott.ssa Saguto, come acconto per una ulteriore richiesta di rimborso danni per la cattiva gestione della discarica fatta da Seminara, almeno nella parte che gli competeva. E così Seminara, nel prossimo ottobre, farà un viaggetto a Roma, non sappiamo se per raccontare altre balle, mentre la dott.sa Saguto dovrà cominciare seriamente a pensare dove trovare i primi 50 milioni di euro chiesti da Dombrowsky, in attesa che non le si presentino altri conti. Gli suggeriamo di fare una misura di confisca dei beni proprio nei confronti del suo pupillo, Cappellano, il quale di beni confiscati ne avrà messo da parte parecchi.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
MEDIA E MASS MEDIA: I GIORNALI SIAMO NOI!
Mezzo di comunicazione di massa. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione mezzo di comunicazione di massa fu coniata, insieme all'espressione «comunicazione di massa», nella prima metà del XX secolo in ambito anglosassone. Secondo la definizione che ne dà McQuail, i media di massa sono mezzi progettati per mettere in atto forme di comunicazione «aperte, a distanza, con tante persone in un breve lasso di tempo». In altre parole, la comunicazione di massa (quella classe dei fenomeni comunicativi che si basa sull'uso dei media) è costituita da organizzazioni complesse che hanno lo scopo di «produrre e diffondere messaggi indirizzati a pubblici molto ampi e inclusivi, comprendenti settori estremamente differenziati della popolazione». Per più di quattro secoli, l'unico vero medium di massa è stata la «parola stampata», grazie all'invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg (1456). Agli inizi del XIX secolo, lo sviluppo delle ferrovie, insieme ai progressi nella distribuzione delle reti elettriche, crearono le condizioni per la nascita del secondo mezzo di comunicazione di massa, un vero e proprio salto qualitativo nel mondo delle comunicazioni: il telegrafo. Seguiranno, con un crescendo sempre più rapido, il telefono, la radio e la televisione. La nascita e l'apertura in senso commerciale delle reti telematiche, e in particolare l'avvento di Internet, costituiscono al momento la tappa più recente di questo percorso. In virtù dei tratti peculiari che mostrano (peraltro non tutti in antitesi rispetto ai cosiddetti «media tradizionali»), ci si riferisce ai dispositivi basati sulle nuove tecnologie di comunicazione in rete con l'espressione nuovi media.
La tv regina dei mass media, ma i giovani preferiscono Facebook, scrive “Il Giornale di Sicilia”. Continua la crescita di internet e soprattutto la diffusione di smartphone e tablet. La tv resta nel complesso la regina dei media, anche se i giovani preferiscono Facebook per informarsi. E' quanto emerge dal 12esimo Rapporto Censis-Ucsi sulla comunicazione, promosso da Mediaset, Rai e Telecom Italia. Prosegue la crisi della carta stampata e la lettura dei libri non dà segni di ripresa. L'Italia appare comunque un paese spaccato, con un divario abissale tra giovani e anziani soprattutto sull'uso della rete, mezzo utilizzato in primo luogo per i servizi, ma sempre più anche per gli acquisti.
INTERNET - Nel 2015 gli utenti di internet aumentano ancora (+7,4% rispetto al 2013) e arrivano alla quota record del 70,9% della popolazione italiana. Ma solo il 5,2% si connette con banda ultralarga. Continua la forte diffusione dei social network. È iscritto a Facebook il 50,3% della popolazione, YouTube raggiunge il 42% di utenti, Twitter il 10,1%.
TV - La televisione raggiunge la totalità della popolazione (il 96,7%), con un rafforzamento però delle nuove televisioni: la web tv è arrivata a una utenza del 23,7%, mentre le tv satellitari si attestano al 42,4% e il 10% usa la tv connessa. Anche per la radio si conferma una larghissima diffusione (la ascoltano l'83,9% degli italiani). L'uso degli smartphone continua ad aumentare (+12,9%) e ora vengono impiegati regolarmente da oltre la metà degli italiani (il 52,8%), mentre i tablet raddoppiano la diffusione in un biennio e oggi si trovano tra le mani del 26,6% degli italiani.
CARTA STAMPATA - Non si inverte il ciclo negativo per la carta stampata: -1,6% i lettori dei quotidiani rispetto al 2013, tengono i settimanali e i mensili, mentre sono in crescita i contatti dei quotidiani online (+2,6%) e degli altri portali web di informazione (+4,9%). Dopo la grave flessione degli anni passati, non si segnala una ripresa dei libri (-0,7%): gli italiani che ne hanno letto almeno uno nell'ultimo anno sono solo il 51,4% del totale.
LE FONTI - Le prime cinque fonti di informazione sono: i telegiornali (utilizzati dal 76,5% per informarsi), i giornali radio (52%), i motori di ricerca su internet come Google (51,4%), le tv all news (50,9%) e Facebook (43,7%). Aumento record dell'utenza delle tv all news, in crescita del 34,6% rispetto al 2011, Facebook +16,9%, le app per smartphone +16,7%, YouTube +10,9% e i motori di ricerca guadagnano il 10% dell'utenza di informazione. Ma tra i più giovani la gerarchia delle fonti cambia: al primo posto si colloca Facebook come strumento per informarsi (71,1%), al secondo posto Google (68,7%) e solo al terzo posto compaiono i telegiornali (68,5%).
DISINTERMEDIAZIONE DIGITALE - La funzione pratica di internet maggiormente sfruttata è la ricerca di strade e località (lo fa il 60,4% degli utenti del web). Segue la ricerca di informazioni su aziende, prodotti, servizi (56%). Poi viene l'home banking (46,2%) e l'ascolto della musica (43,9%, percentuale che sale al 69,9% nel caso dei più giovani). Fa acquisti sul web ormai il 43,5% degli utenti, ovvero 15 milioni di italiani. Il 37,1% ritiene che, rispetto ai negozi tradizionali, fare la spesa sul web sia più economico. La comodità rappresenta un vantaggio per il 32,8%. Il rischio che dietro allo scontrino virtuale si celino truffe è segnalato dal 28,7% degli italiani e solo il 10,3% si fida al cento per cento dei pagamenti online. Sbrigare pratiche con uffici pubblici è invece un'attività ancora limitata al 17,1% degli internauti.
Sempre media, ma meno mass. A Perugia la lezione di Jarvis. Al festival del giornalismo l'ex cronista americano oggi docente tra comunicazione e comunità. E poi la strategia mediatica dell'Is, le ombre di Mosca e la festa de l'Espresso , scrive Leonardo Malà su “La Repubblica”. Corre da una parte all’altra della Sala dei Notari, Jeff Jarvis, microfono in mano, per spiegare che i mass media sono finiti, non in quanto media ma in quanto mass. Nell’universo comunicativo di questo ex cronista di Chicago, divenuto negli anni docente universitario alla City University of New York e oggi tra i più autorevoli esperti di comunicazione, non esiste un pubblico indistinto ma una platea di lettori da conoscere quasi individualmente. E a rafforzare il concetto va lui stesso a raccogliere le domande in sala, in questa penultima giornata del Festival del Giornalismo. Introdotto dal direttore di Wired Italia, Massimo Russo, Jarvis ricorda vecchie regole del mestiere, forse dimenticate per la sbornia tecnologica che ha investito tutto il settore. “Il giornalismo è anzitutto servizio - scandisce Jarvis -, e perché ciò accada occorre conoscere i desideri e i problemi del lettore, andargli incontro, indagare sui suoi bisogni. Tradotto in termini editoriali, e non esclusivamente commerciali, il giornalista deve essere promotore di comunità, organizzare il proprio parco lettori, smetterla di rimpastare agenzie per scrivere il decimillesimo articolo sulla stessa notizia. “Che senso ha - esclama con una faccia che a tratti ricorda molto quella di Corrado Augias - spedire un giornalista televisivo a migliaia di chilometri di distanza, davanti a un luogo dove la notizia è già avvenuta e che lui utilizza solo come sfondo? Oggi ci sono tecnologie capaci di dare contenuti ulteriori, stimolanti, soprattutto più utili”. Quindi un invito esplicito agli editori: “Siate esigenti ma mettete a disposizione un capitale paziente per essere i primi e raccogliere i frutti”. Il discorso delle comunità è in effetti colpevolmente dimenticato. Una sosta in Italia consentirebbe a Jarvis di individuare nei luoghi di lavoro le nuove community. Basterebbe registrare le conversazioni di ciascuno di noi (un po’ come si fa col diario alimentare per chi non si accorge di cosa e quanto mangia) per capire che il novanta per cento dei discorsi diurni riguardano il lavoro. Eppure i grandi luoghi di occupazione difficilmente hanno un loro “corrispondente”, come ce l’hanno le città o i paesi. Tutto questo mentre i nostri cellulari, le mail, le chiacchiere al bar, si concentrano sul nuovo dirigente in arrivo, sul contratto in scadenza, il ricorso del collega, perfino l’amante del capo. Stessa cosa per i supermercati: esistono le comunità che si riforniscono ai discount e quelle dei mercati rionali. Ci sono volantini merceologici molto più letti di alcuni giornali ma il capitolo degli acquisti, ovvero una seria e attenta valutazione della merce in vendita, difficilmente viene presa in considerazione. “Occorre fantasia - ripete Jarvis -, bisogna ribaltare l’approccio tradizionale, non avere paura di sperimentare e, perché no, premiare i lettori più collaborativi e meritevoli, rendendoli non solo partecipi del proprio lavoro ma, in un certo senso, condividendo con loro i proventi, magari attraverso piccoli benefit e agevolazioni”.
Cartoline da Mosca. Dallo schermo della Sala Raffello si vedono gli agenti della polizia russa entrare nel sito di Open Russia e sequestrare il materiale al suo interno come fosse la cosa più normale del mondo. Sono le cartoline che il governo Putin spedisce al mondo dell’informazione, questa volta con l’indirizzo di Veronika Koutsyllo. Per un attimo si è avuta la speranza di poterla salutare in collegamento Skype ma non ci si è riusciti. Il che non compromette, anzi, esalta il coraggio della giornalista russa che avrebbe dovuto comparire insieme a Zygmunt Dzieciolowski, Ivan Kolpakov, Maria Makeeva e il famoso scrittore Oleg Kashin, lui sì via Skipe. Di quest’ultimo si sapeva che era stato pestato brutalmente (e sì che non è esile…), che l’avevano poi cacciato dal proprio giornale per essersi schierato con l’opposizione, fino alla sua fuga in Svizzera. Della Makeeva è stato invece sorprendente vedere con quali sistemi il governo russo cerca di distruggere le emittenti private, dunque non strettamente legate al potere. Tra leggi che in un solo giorno tagliano dell’80 per cento gli utili pubblicitari e traslochi forzati, la sua Tv Rain è finita col trasmettere da un monolocale in centro città. Un’insistenza che ha convinto le forze più moderne russe a intervenire e a rilanciare l’emittente.
Isis, voglia di kolossal. Affollatissimi tutti i panel che parlano di Isis e della sua strategia di comunicazione. Spalleggiato dai giornalisti Fabio Chiusi e Marta Serafini, il ricercatore Eugenio Dacrema ne ha tracciato la genesi e soprattutto i tratti principali. Tutti molto occidentali, a ben vedere: “Il primo aspetto innovativo è tutto e subito. Nessuna promessa al di là da venire, il paradiso è dietro l’angolo. Il secondo è saperla vendere bene. L’Isis ha perso diversi territori ma le basta un accordo di partnership con altri gruppi eversivi per inondare il web di cartine geografiche con un nuovo stato annesso. Vedrete - dice ai presenti – che prima o poi arriverà anche un loro kolossal cinematografico, con tanto di effetti speciali”. Fa pensare, infine, l’arruolamento delle ragazze, specie le più giovani, sedotte dall’idea di entrare nel giro delle donne del capo, o più probabilmente, di finire come schiave. Senza alcun intendimento giustificatorio, l’offerta occidentale non dev’essere granché visto che più di una abbocca.
Cinquanta sfumature di libri. Amazon presenta ai giornalisti il suo sistema per renderli editori di se stessi. Si va nella piattaforma, si mettono le coordinate giuste, si sceglie la copertina più accattivante (grazie al sistema grafico caricato all’interno) quindi si sceglie un prezzo congruo. Il problema è lo stesso di tutta la rete, emergere da questo pantano dell’anonimato dove l’autopromozione da sola non può molto. Insomma, o si ha un titolo fortissimo oppure, assemblando una serie di articoli su una stessa vicenda, si punta sul pubblico di segmento.
Un desiderio Espresso. Alla festa per i sessant’anni dell'Espresso c’erano Beatrice Dondi, Lirio Abbate, Marco Damilano, Marco Pratellesi e Alessandro Gilioli, tutti giornalisti del settimanale.
Gira che ti rigira la vecchia E apostrofata tira ancora belle sberle, come nel caso della recente inchiesta di Lirio Abbate su Mafia Capitale. Perché a buttarla in cagnara sono buoni tutti ma quando c’è da mordere la differenza si vede. E la storia si sente. Scritto da: Alberto "Malaparte" Puliafito su “Polis Blog”. L'introduzione dell'incontro è affidata all'editore di Wired Massimo Russo, che propone di mettere in discussione alcuni luoghi comuni. Per esempio, il copyright. Per esempio, «l'idea di poter essere esclusivi, grandi cattedrali all'esterno delle quali c'è solo l'eresia. I media non hanno più l'esclusiva del racconto». Per esempio l'idea di essere gli unici a dover creare contenuti. Poi tocca a Jarvis. «Se i mass media vogliono sopravvivere, devono smettere di trattare il pubblico come se fosse una massa identica. Questo è il concetto che deve morire. Non ci stanno uccidendo Google o Facebook, sarebbe ridicolo dar loro alla colpa. Con il modello di business della massa sta morendo anche l'idea stessa di massa: bisogna riconcepire il business dei mass media. «Il giornalismo è un servizio». «Il contenuto riempie le cose. I servizi "compiono" cose. Esistono per migliorare le vite degli individui e delle comunità. Per farlo, dobbiamo conoscere gli individui, non più come massa. Conoscere i problemi dei lettori. Le loro richieste. Dobbiamo cambiare la nostra cultura per diventare fornitori di servizi». «Bisogna essere specializzati. Fare quel che si fa meglio di chiunque altro. Se non lo si fa meglio di chiunque altro, allora bisogna connettersi con chi lo fa meglio». «I giornalisti devono smettere di fare gli stenografi e ribattere i comunicati. Devono diventare "promotori" di qualcosa. Riconsiderare il loro lavoro». «Dobbiamo spostare la nostra attenzione sulla comunità, osservarla, ascoltarla, prima di pensare a quali strumenti giornalistici si possono utilizzare per aiutarla». Poi, insiste sul senso di appartenenza, per esempio la membership del Guardian. Che è qualcosa di più di un "essere abbonati". È un'appartenenza alla comunità dei lettori. «Dovremmo riorganizzare le nostre informazioni relativamente alle necessità del pubblico, e non alla nostra produzione di contenuti». Un colpo all'esterofilia: «Negli Stati Uniti, le notizie in televisione fanno schifo». «Se volete fare più click, mettete gattini. Va bene. Anche a me piacciono i gattini Ma dobbiamo andare al di là del concetto di volume e concentrarci sul valore. Andare al di là del concetto di inserzioni pubblicitarie di cui non interessa niente a nessuno». «Non so se la pubblicità nativa ci salverà. Non so se ci salverà il paywall. Non credo che la pubblicità nativa avrà prestazioni così buone andando avanti nel tempo. Cercare di prendere in giro il pubblico non va bene». «Dobbiamo reindirizzarci verso i rapporti, conoscere i lettori come individui, utilizzare le informazioni che condividono volontariamente. Dobbiamo riconcepire il nostro lavoro, il prodotto come servizio per le necessità delle persone». «Visualizzazioni delle pagine, utenti unici, like, click, link, tutte queste cose sono la strada verso le immagini dei gattini». «Alcuni dicono che l'attenzione sia una metrica migliore. Va bene, ma potrebbe diventare una ludicizzazione. La metrica che conterà di più sarà la qualità, non la quantità. Riguarderà il livello di valore che possiamo avere nella vita delle persone. Andare al di là del volume. Venderemo comunque pubblicità. Ma non sarà questa la strada verso il successo». «Il capitale tende ad essere impaziente. Gli investitori vogliono risultati subito. Ma noi abbiamo bisogno di tempo, e non possiamo usarlo per mantenere il passato, dobbiamo utilizzarlo per guardare al futuro, sperimentare, creare nuovi prodotti che riguardano le news». «È pura e semplice arroganza pensare di sapere dove ci porterà internet. Le cose cambiano, ma cambiano lentamente. Le riviste, i giornali sono ancora riconoscibili in quanto tali. Dobbiamo invece ripensare il rapporto del giornalismo con i propri lettori». Nella sessione delle domande, è un giovanissimo a fare la migliore in assoluto, quando osserva che «non voglio dare troppi dati miei a un giornalista. Voglio che sia il giornalista a sapere come catturare la mia attenzione». Jarvis è d'accordo, ma fa un esempio che, banalmente, si può riassumere in "segmentazione" o "profilazione" (e si parla sempre di giornale monolitico vs. giornale "profilato". Dice di non essere interessato alla pagina sportiva del Nyt, ma a quella sui media sì. Quindi gradirebbe che il Nyt lo sapesse e gli offrisse quello che gli interessa). «Sono abbonato al Nyt non solo per i contenuti, ma perché sono un sostenitore del Nyt». «Abbiamo letto – e sono state scritte – cinquemila versioni, cinquemila articoli sul dannato vestito bianco e oro o blu e nero. Quello che non funziona, qui, è proprio il modello di business. Se il modello fosse basato sul vero valore, al massimo avremmo link a quella storia, non un pezzo su quella storia».
I giornali siamo noi. Sulle conseguenze (e le responsabilità) di ogni nostro like e retweet, scrive Roberto Catania su “Panorama”. Ammetto di esserci cascato anch’io, l’ultima volta mentre scorrazzavo allegramente sulla mia bacheca di Facebook: mi è scappato un like pavloviano a un articolo pubblicato su un autorevole quotidiano torinese che ironizzava sulle esperienze a pagamento nella tenuta biodinamica di Sting. Ho fatto insomma quello che un buon giornalista non dovrebbe mai fare: recepire una notizia di getto, senza confrontare le fonti, in parole povere senza approfondire. C’è voluto un collega più saggio a riportarmi sulla retta via, a farmi notare che trattavasi di notizia falsa e tendenziosa, strumentalizzata ad arte per mettere in ridicolo l’ex Police. La verità è che viviamo nell’era del clic compulsivo. Basta vedere un titolo ad effetto, una foto strappalacrime, un aggiornamento di stato capace di solleticare le corde dei nostri sentimenti più intimi (e istintivi), per far scattare il pollice alto, la doppia freccia, la stellina, il cuoricino e qualsiasi altra azione di condivisione con la nostra social-sfera. Tutto è così veloce e automatico che quasi ci dimentichiamo dell’effetto a valanga - in gergo si chiama viralità – determinato dai nostri gesti su Internet. Vi piaccia o meno siamo quello che leggiamo, e viceversa. Se ne sono accorti persino i politici che ormai più che contendersi i salotti delle tribune politiche televisive fanno a gara a chi è più blogstar. Perché una buona presenza su Facebook e su Twitter vale più di qualsiasi cosa. Nessun altro media ha la capacità di passaparola del Web; in pochi giorni, anzi, in poche ore, una notizia può fare ripetutamente il giro del mondo. Non importa - o perlomeno non importa a tutti - che sia verificata o meno, basta saperla vendere bene. Nell’era del clic compulsivo puoi leggere di tutto, e il bello è che spesso è il tuo migliore amico a segnalarti la notizia. Puoi leggere di arbitri chiusi negli spogliatoi, di aerei che cadono per colpa delle scie chimiche, di vaccini che avvelenano i neonati, di tumori guariti coi succhi di frutta, di cerchi di grano disegnati dagli alieni. Le chiamano bufale, forse perché le bugie sanno ingolosire più della migliore mozzarella campana. È lo scotto che deve pagare chi (tutti noi) ha deciso di informarsi su Internet. Ogni risposta ai nostri perché è a un clic di distanza. Anche se magari è sbagliata. Non serve essere giornalisti per capirlo. Sono sufficienti un paio di ricerche su Google, un po’ di spirito critico, un pizzico di buon senso. Ha ragione Roberto Saviano quando dice che siamo noi a decidere cosa fare dell’informazione: possiamo scivolarci sopra come dei consumati pattinatori, oppure decidere di andare in profondità, scavare, cercare di capire dove sta - o almeno dove tende - la verità. Pensiamoci bene, insomma, prima di mipiaciare o di ritwittare quello che leggiamo sui social. Ne va della qualità della nostra informazione. A scuola i bambini maleducati di norma vengono messi in castigo. Sarebbe bello che la cattiva informazione facesse la stessa fine: relegata negli angoli più bui e trascurati del Web.
11 cose che non sapevate sui Social Network. Sono causa di divorzi ma, anche, Facebook paga chi riesce a violarlo. Queste e altre curiosità raccolte nel video ironico di BuzzFeed, scrive Marina Jonna su “Panorama”.
1. I social superano il porno. Nel 2008 l'interazione sul web dei social ha superato il porno: ovvero gli utenti passavano più tempo online a interagire con i social, invece di cercare siti porno...incredibile ma vero!
2. Causano divorzi. Lo sospettavamo ma ora è una certezza: Nel 2011 1/3 delle cause di divorzio nel Regno Unito riporta nel verbale la parola Facebook...#sapevatelo.
3. Facebook paga chi lo riesce a violare. Facebook paga un ricompensa minima di 500 dollari a chiunque riesca a violare il suo sistema di sicurezza. Gli hacker sono avvertiti: la sfida è aperta!
4. Utenti Twitter: 4ª nazione nel mondo. Se tutti gli utenti di Twitter si riunissero nella vita reale, formerebbero la quarta nazione più grande del mondo...forse il resto appartiene a Facebook!
5. Il tweet di Obama: un record? Con più di 700K di retweet, il tweet di Obama che annunciava il suo secondo mandato è stato un record!...fino a quando non è stato pubblicato da Ellen DeGeneres il selfie dalla notte degli Oscar 2014: 1.3 milioni di retweet in meno di un'ora! E aveva causato addirittura un Twiiter down momentaneo.
6. Come si chiama la mascotte di Snapchat? Il nome del fantasmino simbolo dell'app di Snapchat è Ghostface Chilla: in onore del rapper Ghostface Killah del gruppo Wu-Tang...avrà le royalties?
7. Quanti selfie ci sono su Istangram? La mania dei selfie ha il suo social di riferimento: ci sono circa 57 milioni di selfie su Istangram. Oltre ai piedi....i cibi...i bambini...e i gatti!
8. Record di selfie su Instagram. Kylie Jenner è la regina dei selfie: più di 450 scatti inondano il suo profilo . Segue il rapper Snoop Dog. Anche se, rispetto a lei, risulta essere un principiante...nel suo profilo trovate anche foto di altri!
9. Google+...Google + plus esiste. Ma sembra non ci siano cose interessanti da segnalare...Sorry !
10. MySpace: c'era una volta un re... Lo sapevate che MySpace era una volta il re indiscusso dei social media? Nel 2005 MySpace rifiutò di acquistare Facebook. Per ben due volte...meglio non pensare come si sentano oggi i vertici...!
11. Facebook vs MySpace. Oggi Facebook ha circa 1,25 miliardi di utenti. MySpace meno di 36 milioni. E, come dice Zuckerberg ridendo, "...per ora...!”.
Facebook e le catene: di che libro sei? Continuano le richieste sul social: dai test "scopri che animale sei” alle nomination "dimmi i tuoi 10 libri preferiti”. Ma cosa nascondono?Continua Marina Jonna su “Panorama”. Quest'anno si è aperto all'insegna di "scopri che animale sei”, siamo passati poi a scoprire che personaggio dei fumetti sei, che tipo di donna/uomo sei, fino ad arrivare all'età mentale. Ora siamo in fase letteraria: dimmi i tuoi 10 libri preferiti. Una domanda che ha coinvolto moltissimi utenti, corsi a stilare la loro classifica . E ora parte la catena dei giocatori preferiti Dunque, il social crea catene di continuo: ma vi siete chiesti il perché? Tutte le informazioni che scriviamo sono di proprietà di Facebook, che ne fa un uso commerciale, ovviamente. Ogni nostra inclinazione, gusto o propensione viene raccolta: e diventiamo un boccone ghiotto per le nuove frontiere della pubblicità che ritaglia offerte "su misura” per ogni utente. Lo sapevate che gli annunci pubblicitari che appaiono a voi non sono gli stessi che escono ai vostri amici? Facebook vi chiede di usare la vostra posizione, chiede l'autorizzazione per un numero di servizi elevato, conosce la vostra e-mail, il numero di telefono e il vostro nome, grado di studio e, come se non bastasse, gli interessi: in campo culturale, sportivo e culinario. Ormai il numero degli utenti sfiora cifre da capogiro: circa 180milioni. Ha fatto il giro del mondo l’articolo del Wall Street Journal dove venivano segnalate alcune applicazioni, utilizzabili su Facebook, che avrebbero raccolto gli ID identificativi degli utenti. Per poi inoltrarli a 25 società di pubblicità che tracciavano le attività degli utenti on line. Dopo questa denuncia FB aveva cambiato la normativa sulla privacy, facendo di fatto le stesse cose, ma avvertendo chiaramente l'utente che le avrebbe fatte. La normativa, infatti, che dovrebbe essere letta con attenzione da ogni utente di Facebook , elenca tutto quello che Facebook potrebbe fare con i dati inseriti: quelli obbligatori (nome, e-mail, sesso e data di nascita) e quelli facoltativi (gusti, amici, foto, video, professione). Non solo, FB potrebbe anche tenere traccia delle azioni che vengono compiute sul social: dalla condivisione di un video, dai like messi su alcuni post. Sulla normativa si legge infatti: "....per esempio, se condividi un video, oltre a memorizzare l’effettivo contenuto che hai caricato, potremmo registrare il fatto che lo hai condiviso”. Da qui, il passo a raccogliere informazioni attraverso test e catene è un attimo. Quindi tutto molto chiaro, come chiaro è anche il fatto che se accettiamo di iscriverci niente sarà più privato. Tra le parti da riguardare con attenzione sulla normativa, e che Facebook potrebbe usare, c'è la raccolta dei dati "sul browser che usi, su dove ti trovo e sull’indirizzo IP, nonché sulle pagine che visiti”; e può anche raccogliere “informazioni su di te da altri utenti”; e, cosa leggermente inquietante, “se i tuoi amici si connettono a un’applicazione o sito web, questa entità sarà in grado di accedere al tuo nome, alla tua immagine del profilo, al sesso, all’ID utente e alle informazioni che hai condiviso con l’impostazione “tutti”. Potrà anche “inviare delle informazioni ai fornitori grazie ai quali mettiamo a disposizione degli utenti i nostri servizi”. Insomma il vero Grande Fratello è tra noi. Utente avvisato, mezzo salvato. O, forse, reso solo più cosciente.
Facebook: ecco come ti cambia il cervello. Circa 180milioni di utenti passano in media due ore al giorno sui social. Ecco 5 conseguenze che intaccano il cervello e il comportamento, scrive Marina Jonna su “Panorama”. Il team di AsapScience ha descritto in un video ironico quali siano le conseguenze sul cervello di un utilizzo smodato e costante dei social. 5 le principali:
1. Dipendenza: i social rappresentano una dipendenza, come dal fumo o dall'alcool. E le conseguenze sul cervello sono simili: perdita di attenzione, incapacità decisionale, perdita dell'attenzione. Questo perché i social appagano senza sforzo: abituano il cervello a ricevere lo stimolo voluto restando passivo.
2. Multitasking: Pensare che l'utilizzo di più social contemporaneamente possa sviluppare la nostra capacità multitasking, è un errore. In realtà chi passa da un social all'altro perde la capacità di concentrazione e immagazzina informazioni nella memoria con più difficoltà.
3. Sindrome della vibrazione fantasma: La sensazione che il telefono stia vibrando o che ci sia arrivata una notifica. Quando invece è solo una nostra percezione. E' capitato a tutti, ma quando la situazione inizia a ripetersi con un po' troppa frequenza, forse si dovrebbe di lasciare lo smartphone a casa ogni tanto. Evitando di viverlo come fosse un prolungamento della nostra mano. Sembra infatti che, alcune aree del nostro cervello, dedicate alle sensazioni tattili, inizino a percepirli come "arti fantasma”...e non dico altro.
4. Dopamine: Il rilascio di dopamine crea una sensazione di benessere al nostro cervello. E' dimostrato che i centri di ricompensa del cervello sono più attivi quando in una conversazione parliamo di noi, invece di ascoltare. Nelle conversazioni vis-à-vis parliamo di noi al massimo per il 30-40% del discorso totale. Sui social la percentuale si sposta all'80%: ovviamente il nostro cervello entra in uno stato di benessere totale. Che soddisfa il nostro egocentrismo.
5. Le relazioni: a differenza di quello che si pensava, le relazioni nate online si sono dimostrate solide, almeno secondo uno studio dell'Università di Chicago. Forse perché si sondano passioni e gusti online prima di incontrarsi. Sempre che non si menta sullo scambio di informazioni e ...sulle foto del profilo!
Facebook e Twitter: la spirale del silenzio. Se avvertiamo sui social che i nostri contatti non la pensano come noi, preferiamo non esprimere la nostra idea. Lo rivela uno studio del Pew Research Center, scrive Marina Jonna su “Panorama”. La chiamano la spirale del silenzio: secondo lo studio " I social media e la spirale del silenzio” pubblicato dal Pew Research Center, l'utilizzo dei social tende a rendere gli utenti conformisti. Ovvero, quando l'utente di un social avverte che i suoi contatti in rete la pensano come lui, è spronato a esprimere la sua opinione. In caso contrario tende a non rendere pubblico il proprio pensiero. La tendenza a esprimersi online sui social che, appare più libera e senza freni, in realtà non è così. Almeno secondo questo studio condotto su un campione di 1.801 americani intervistati sulle rivelazioni di Snowden che riguardavano la sorveglianza di massa via e-mail e telefono. Nonostante l'86% volesse parlare del programma di sorveglianza, solo il 42% di chi usava Facebook e Twitter intendeva farlo postando sui social. Le conclusioni? Solo se gli utenti percepiscono il consenso della rete, si sentono liberi di esprimere la loro opinione. Altrimenti non condividono il proprio pensiero sui social e preferiscono il silenzio. Ma non è tutto: questa tendenza sembra avere conseguenze anche nella vita reale. I dati raccolti suggeriscono infatti agli studiosi che non solo Facebook e Twitter non aprono nuovi ambiti di discussione, ma influenzano anche le relazioni faccia a faccia. Per lo studio di Pew, si potrebbe applicare ai social la teoria della spirale del silenzio, che la sociologa Elisabeth Noelle-Neumann aveva formulato negli Anni 70 e che descriveva il potere dei mass media nei confronti degli utenti. Ma proprio un altro studio pubblicato nel 2012 sempre da Pew "I social media e l'impegno politico” metterebbe in discussione la conclusione cui è giunta l'equipe di ricercatori: questa pubblicazione rilevava che il 66% degli utenti dei social utilizzavano proprio Facebook e Twitter per esprimere le proprie opinioni in ambito politico e sociale. Quindi? Probabilmente l'effetto silenzio è più forte in chi non vuole entrare in polemica sul social e cerca di evitare di innescare una discussione (che normalmente si rivela sterile e potrebbe anche degenerare nell'insulto). Ma che lo stesso comportamento venga poi rispecchiato nella vita reale, ho qualche dubbio: forse il problema non è nella dinamica dei social, ma è insito nel carattere di ciascuno di noi. Se non abbiamo il coraggio di esprimerci per non creare disaccordo, non lo avremo né sul social né di persona. Oppure, decidiamo di non averlo sul social semplicemente perché non conosciamo più della metà dei nostri contatti e, se vogliamo avere un confronto di opinioni, preferiamo farlo di persona. E con chi, possibilmente, stimiamo.
Quando la giustizia diventa spettacolo. Il processo mediatico finisce nella tesi del comandante Zona. Il controverso tema del "processo mediatico" ha catturato l’interesse del comandante della Stazione dei Carabinieri di Corato, Pietro Zona, che ne ha parlato nella sua recente tesi di laurea in Scienze della politica, scrive “Corato Live”. Seguire le vicende di cronaca nera avendo come unica fonte i talk show televisivi è ormai una prassi tristemente consolidata. Ledere la privacy delle persone direttamente coinvolte ed emettere sentenze di condanna solo in virtù dei primi elementi raccolti, anticipando le decisioni di tribunali e magistrati, è purtroppo divenuta la normalità. E' il cosiddetto “processo mediatico” che, con tutte le sue criticità, ha catturato anche l’interesse del luogotenente Pietro Zona, comandante della Stazione dei Carabinieri di Corato. Il tema è stato affrontato nella tesi in Scienze della politica con indirizzo economico giudiziario, in cui Zona si è laureato alla fine del marzo scorso presso la seconda Università degli studi di Napoli. Nell'elaborato il fenomeno è indagato a fondo, a partire dal principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. L'articolo 27, alla base del nostro ordinamento garantista, al secondo comma recita infatti: “L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Così Zona distingue tra verità processuale e verità mediatica. «Il rapporto tra mass media e segretezza delle indagini è problematico - si legge nella tesi di laurea - poiché i mass media hanno la funzione di rendere pubbliche notizie, mentre le indagini sono caratterizzate da riservatezza, anche se, alle volte, si registrano "fughe di notizie"». La differenza sostanziale tra il processo mediatico e quello vero nelle aule di tribunale riguarda l'aspetto emotivo. Le emozioni, ridotte al minimo nei palazzi di giustizia, pervadono invece ogni processo sugli schermi televisivi, dove risulta semplice ed immediata l'emissione di "sentenze" dotate di scarsa se non nulla attendibilità e fondate solo sulle sensazioni che una vicenda di cronaca nera è in grado di trasmettere. Il comandante - già laureato in Scienze dell'amministrazione, sempre con indirizzo economico giudiziario - sostiene che un soggetto imputato, alla luce di quando detto, corra il rischio di vedersi giudicare ben due volte: la prima da parte della magistratura, la seconda ad opera dell'opinione pubblica. È il noto concetto di spettacolarizzazione del diritto, che non giova al procedimento penale, «dal momento che la ricostruzione della verità dei fatti non ha bisogno di fragore, di trambusto, ma piuttosto, ha bisogno di elementi probatori sui quali deve essere fondata la decisione del giudice penale». L'attenzione di Zona, ispirata anche dalla sua lunga esperienza sul campo, si concentra inoltre sul rapporto fra giornalisti ed esponenti del mondo della giustizia, definito «fortemente complicato dalle affinità esistenti tra i membri di questo binomio», poiché entrambe le attività «comportano l'esercizio di un potere che incide non poco sulla dignità dei cittadini, prima ancora che sulla loro libertà». Nella tesi vengono presi come esempi due casi specifici balzati agli onori della cronaca: il delitto di Balsorano e quello di Cogne, entrambi altamente spettacolarizzati, probabilmente perché le vittime erano due bambini indifesi. Chiudono il discorso alcune riflessioni sulla postmodernità e la sovraesposizione dei processi, lasciando intravedere l'opportunità di una corretta e civile collaborazione tra i mezzi di comunicazione di massa e il potere giuridico. Due mondi che spesso entrano in rotta di collisione, ma che potrebbero tuttavia orientarsi al medesimo obiettivo, vale a dire il rispetto della dignità umana.
La gogna vista dalla procura. A Prato c’è un procuratore da urlo (e di sinistra) che ha scelto di andare in pensione in anticipo per protestare contro gli scandali della giustizia. Intercettazioni, giornalisti, bignè. Chicche su Ruby. Storia di Piero Tony, scrive Claudio Cerasa su “Il Foglio”. Le intercettazioni. Il processo mediatico. La gogna. La vergogna. La giustizia politicizzata. Le correnti. La custodia cautelare. Il bignè. Il Csm. Il governo. Il rapporto con i giornalisti. Le persecuzioni. I trattamenti speciali. I poteri dei magistrati. Il copia incolla dei giudici. E ovviamente il caso Ruby (con una vicenda). Ma prima di arrivare qui, prima di arrivare alla ciccia, al succo del discorso, bisogna partire dall’inizio. Dal perché. Dal motivo vero. Dalla ragione della scelta. Un magistrato di sinistra con trent’anni di esperienza che va in pensione con due anni di anticipo rispetto alla tabella di marcia per lanciare un messaggio, per dare un segno, per protestare contro una giustizia che troppe volte dimostra di essere ingiusta, che troppo spesso dimostra di essere eccessivamente politicizzata e che troppo spesso sembra essere incapace di autoriformarsi e di imboccare una giusta direzione. Siamo andati a Prato e abbiamo trovato una storia da urlo. Una storia che riguarda il procuratore capo di questa città e che mette insieme tutto. Il garantismo. Il processo. Le intercettazioni. I giornali. Il circo mediatico. Si comincia da qui, e Piero Tony, il protagonista di questa storia, lo dice tutto d’un fiato. Il perché. Il motivo vero. Dice Piero Tony: “La verità è che non era più possibile, che non resistevo, che non potevo continuare, che era una situazione surreale, che vedevo troppe cose che non avrei voluto vedere e che tra stare ancora due anni qui, in mezzo a tutto questo, e andare invece via, facendo un po’ di chiasso, riprendendomi la mia vita e lanciando un messaggio, la seconda era l’unica cosa da fare. Nessun dubbio, l’unica. Perché in Italia, lo sanno anche i bambini, il processo non è più un semplice processo ma è una gogna, a volte una vergogna, e chi ha coscienza del suo lavoro sa come funziona, sa i giochi che si fanno con gli imputati e sa come si usano le intercettazioni, le carte, gli spifferi, le indagini, gli arresti. Beh, io dico no. E lo dico da sinistra. Lo dico da militante di una corrente di sinistra. Lo dico dopo aver girato mezza Italia. E lo dico dopo trent’anni di carriera. La giustizia, purtroppo, in Italia non sempre funziona come dovrebbe funzionare. Sarebbe bello, sarebbe un sogno, dire che è solo un problema di riforme, di scelte del governo, di leggi fatte e di leggi non fatte. C’è anche quello, sì, ma il problema è nostro, prima di tutto, e fino a quando non cambieremo noi non sarà possibile cambiare nulla”. Lui si chiama Piero Tony, è nato a Zara il 3 giugno 1941, entra in magistratura nel 1969, a 28 anni diventa giudice istruttore a Milano, a trent’anni si iscrive a Magistratura democratica, per undici anni lavora a Venezia come giudice minorile, nel 1984 si è trasferito a Firenze e nel 1991 arriva alla procura generale del capoluogo toscano. Dove diventa famoso, dove, creando scandalo, comincia a teorizzare che il magistrato deve interessarsi più alla giustizia che all’accusa, e dove, durante il processo d’Appello per i delitti del mostro di Firenze, parlando dai banchi dell’accusa, finisce sulle prime pagine di tutti i giornali per via della sua requisitoria di cinque ore con cui smonta punto per punto la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise su Pietro Pacciani. Così: “Mi pesa chiedere ciò che mi appresto a chiedere di fronte a un imputato che concentra in sé, con o senza colpa, perché sicuramente non avrà scelto lui la culla in cui nascere, buona parte del peggio della natura umana. Perché violento e pericoloso, perché bugiardo, sordido, prevaricatore, spregevole, lubrico. Il verbale di dibattimento è costituito da ottanta fascicoli, però di polpa non ce n’è poi tanta”. Era il 1996, anni dopo Pacciani venne assolto, passano i mesi, gli anni, Piero Tony nel 2006 arriva a Prato e otto anni dopo, con due anni di anticipo rispetto al previsto, decide di farsi da parte. Di dare un segnale. E smetterla di avere a che fare con una giustizia ingiusta. La notizia del pensionamento anticipato di Piero Tony la offre in anteprima un giornale locale, il Tirreno, due settimane fa, e tra un detto e un non detto si capisce che il procuratore di Prato è un tipo che non aspetta altro di parlare, di spiegare, di raccontare, di ragionare. E’ così? Contattiamo Tony via email. Gli chiediamo un incontro. Il procuratore ci pensa qualche giorno e alla fine decide di riceverci. A Prato, in Toscana, venti minuti di treno da Firenze. Un vecchio palazzone a un chilometro e mezzo dalla stazione. Molti pini marittimi. Molti faldoni accatastati. Molti funzionari con pantaloncino corto, calzino bianco tirato su fino al ginocchio, camicie a quadri con le maniche arrotolate. Lunghi silenzi. Rumori di porte schiaffeggiate dal vento. Piero Tony è qui, al terzo piano della procura, al suo penultimo giorno di lavoro, e ha voglia di parlare. Di giustizia. Di intercettazioni. Di governo. Di riforme. Di processo. Di correnti. Di politica. E di un dettaglio importante che riguarda un’inchiesta pesante: Ruby. Il procuratore ci fa accomodare nel suo studio, tra una bustona ripiena di libri, una scatola con molti ricordi, un paio di faldoni con inchieste da definire, e accetta di rispondere alle nostre provocazioni. Lo guardi, lo studi, lo ascolti e capisci che nelle parole di Piero Tony c’è la voce di tutti quei magistrati che in tutti questi anni hanno osservato con frustrazione la trasformazione dei processi che regolano la giustizia italiana. I diritti della difesa calpestati, l’esplosione della gogna mediatica, la violazione sistematica della privacy, i mostruosi poteri concessi all’accusa, la progressiva politicizzazione delle procure. Piero Tony fissa negli occhi l’interlocutore, si dondola sulla sedia e inizia a parlare. Si comincia da qui. Prendiamo appunti. “Vede, non so come dire, io faccio questo mestiere da molti anni, ho lavorato nelle procure più importanti d’Italia, con i poliziotti più importanti d’Italia, con i magistrati più importanti d’Italia e già negli anni Settanta mi ero accorto che c’era qualcosa che non funzionava. Qualcosa di distorto, per certi versi inevitabile, che riguarda il tema della custodia cautelare. La verità è questa: è dagli anni Settanta che i magistrati vivono con il cautelare, lo usano in modo discrezionale, con molti eccessi, e lo usano come se fosse un modo per determinare la certezza della pena. Il ragionamento è logico: non so come andrà a finire questo processo ma per far sì che il mio indagato possa avere una punizione intanto lo metto dentro. Non è sempre così, ovvio, ma la storia ci insegna che questo metodo è andato a peggiorare nel corso del tempo con l’affermazione di quello che potrei definire senza problemi il processo mediatico. E oggi, quando si parla di processo passato in giudicato, si intende sostanzialmente questo: una misura cautelare amplificata dal processo portato avanti dalla stampa. Il giudicato, anche grazie al fatto che ci sono spesso magistrati che portano avanti processi che sanno già in partenza che cadranno in prescrizione, coincide ormai con la pena generata dalla gogna mediatica. Ed essendo diventato il processo mediatico una costola del processo tradizionale è ovvio che esistano molti magistrati che giocano spesso con gli amici giornalisti per amplificare gli effetti generati dal processo”. Il magistrato riprende fiato, tira fuori da un cassetto il suo codice di Procedura penale, sfoglia rapidamente alcune pagine, arriva all’articolo numero 358 e improvvisamente, quasi colto da un lampo, ce lo legge – vedremo perché. Articolo numero 358, Titolo V, Attività di indagine del pubblico ministero. “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 358 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Dice Tony: “Lei ha presente Karl Popper?”. Più o meno. Bene. Popper diceva che qualsiasi teoria, per essere scientifica, deve essere falsificabile. Il che significa che dalle sue premesse di base devono poter essere deducibili le condizioni di un esperimento che la possa dimostrare integralmente falsa alla prova dei fatti. Il magistrato, secondo me, dovrebbe comportarsi allo stesso modo. Dovrebbe raccogliere non solo il materiale utile a dimostrare una tesi, la sua tesi, ma anche quello utile a dimostrare il contrario. Non lo dice Piero Tony lo dice il codice di procedura penale. E invece no. Troppo spesso si va avanti a forza di gomitate, di forzature, e spesso succede che un magistrato si innamori così tanto del suo teorema da non voler accorgersi di tutti gli elementi che quel teorema lo contraddicono. E da questo punto di vista le intercettazioni, il modo in cui sono state utilizzate in questi anni, il modo in cui sono diventate un ingrediente importante del processo mediatico, hanno svolto un ruolo chiave nel rafforzare i teoremi dei magistrati, facendogli perdere qualche volta contatto con la realtà”. Piero Tony fa qualche esempio. “L’eccessiva disinvoltura con cui vengono inserite le intercettazioni nei fascicoli è spesso l’indice di una difficoltà con cui gli inquirenti gestiscono un’indagine. Esistono naturalmente casi in cui le intercettazioni costituiscono un elemento imprescindibile di un’indagine ma esistono anche casi in cui le intercettazioni vengono utilizzate in eccesso per ragioni mi verrebbe da dire di pigrizia. Come un surrogato di altre tecniche, di altre modalità investigative. Penso agli appostamenti, per dire, ma si potrebbero fare decine di altri esempi. Ciò che in questi anni mi ha stupito in maniera negativa, e che per fortuna nella mia procura non si è mai verificato, è il modo francamente assurdo con cui agiscono alcuni giudici e alcuni magistrati. E’ il metodo copia-incolla. Tu ricevi dodicimila pagine di intercettazioni, le inserisci nella richiesta di custodia cautelare, poi te le ritrovi nell’ordinanza del gip e anche se alcune intercettazioni non hanno alcun rilievo penale hai la certezza che grazie al metodo copia-incolla rimarrà tutto lì. A ingrossare il fascicolo e a regalare qualche ottimo bignè ai giornalisti”. Slurp. “Sento dire spesso ai vari governi che si sono alternati in questi anni che servirebbe un’udienza filtro per scegliere insieme con le parti le intercettazioni che andrebbero utilizzate e quelle che invece non andrebbero selezionate, e mi viene da sorridere: perché l’udienza filtro, che in realtà si chiama udienza stralcio, esiste già oggi, è prevista dal codice di Procedura penale, servirebbe a tutelare le persone terze non indagate e a salvaguardare la privacy degli indagati. Il problema è che nessuno rispetta questa regola e tutti fanno più o meno come diavolo gli pare. Eppure – dice Piero Tony mostrando al cronista un foglio di carta – basterebbe così poco e basterebbe solo volerlo”. Il foglio di carta in formato A4 poggiato in mezzo ad alcune scartoffie accatastate lungo i bordi del tavolo dello studio del procuratore capo è il regolamento interno, o meglio, “il progetto organizzativo”, presentato ai colleghi da Piero Tony pochi giorni dopo il suo arrivo a Prato. Tony ci mostra un punto. E’ il numero tredici, comma cinque: “Il risultato delle intercettazioni telefoniche e ambientali deve essere utilizzato in ogni atto processuale compresa la richiesta di misure cautelari, al fine di tutelare la privacy sia delle persone estranee che degli stessi indagati, con la mera indicazione delle fonti intercettate nonché del sintetico contenuto di quel risultato, quest’ultimo nelle sole parti conferenti alle indagini ed evitando quanto possibile ogni inserimento testuale delle relative trascrizioni”. Basterebbe poco, dice Piero Tony, eppure molte procure vivono in un regime di dubbia legalità. Dovrebbero inserire nei fascicoli solo i riassunti ma in realtà inseriscono tutto quello che non dovrebbero inserire. Effetto bignè. Chiede il cronista: ma questa grande discrezionalità di cui possono godere gli inquirenti sommata all’estrema politicizzazione della magistratura non rischia di creare un mix pericoloso per il sistema giudiziario? Tony ci offre un altro sorriso e prosegue il suo ragionamento. “Bisogna riconoscere che negli anni ai magistrati sono stati assegnati diversi strumenti con i quali hanno avuto la possibilità di operare con grande discrezionalità. Non penso solo alle intercettazioni – perché è ovvio che un magistrato o un giudice che non ama particolarmente un indagato o un imputato sarà più portato a inserire nel fascicolo molti di quei bignè che non hanno alcun rilievo penale ma che piacendo molto ai giornalisti rappresentano oggettivamente un supporto necessario per portare avanti un processo – ma penso anche a strumenti e a tipologie di reati discutibili come per esempio il concorso esterno (tipologia di reato che non esiste nella legge, che è di fatto una creazione giurisprudenziale, che è stata più volte contestata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, e che da trent’anni avrebbe bisogno quantomeno di un intervento legislativo). L’Italia è ricca di tipologie di reato che permettono di inquadrare un reato senza che sia necessario portare grandi prove provate. E’ così, c’è poco da fare, e per quanto mi riguarda posso dire che la mancanza di tipicità nella giustizia è davvero parente stretta di mancanza di legalità. Il libero convincimento del giudice – prosegue – è un principio sacrosanto ma per convincere il giudice servono fatti, non chiacchiere o motivazioni apparenti”. Pausa. “Anche la storia dell’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta, un giochino da salotto. Ci sono delle scelte prioritarie. La macchina giustizia non riesce ad affrontare milioni di processi. Deve sempre scegliere, in teoria, quali dovrebbe consegnare alla prescrizione e quali invece no. L’obbligatorietà non esiste. Il magistrato, in un modo o in un altro, sceglie sempre di privilegiare una cosa rispetto all’altra. Non c’è un meccanismo automatico che costringe un pm a portare avanti un’indagine se riceve una denuncia o una querela. C’è sempre una discrezionalità. Da un certo punto di vista ci deve essere. Perché bisogna approfondire e bisogna valutare se si tratta di una cazzata o di una cosa seria. L’obbligatorietà dell’azione penale è diventata una favola. E purtroppo, quando un magistrato è politicizzato, può utilizzare questo strumento anche in maniera anomala. Discutibile, diciamo”. E la politica? Piero Tony si illumina, poggia le mani sul tavolo come a voler fare stretching con le braccia, si prepara, si carica, e parte in quarta. “E’ una tautologia dire che la magistratura sia politicizzata. Non si tratta di un’opinione ma si tratta di un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura politicizzata ci sia sempre il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Per questo, e lo dico da associato, da uno che paga da più di trent’anni la sua quota annuale a Md, dico che le correnti, per la magistratura, tendono a essere un male. Un dramma. E in tutto questo noto un elemento di grande contraddizione. Viene quasi da sorridere. Per quale ragione un magistrato non può essere iscritto a un partito e può invece far parte di un prodotto del pantografo, ovvero di una corrente, che di fatto è configurata come un partito? Perché ci prendiamo in giro così?”. Osiamo: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Piero Tony si fa più serio, si ferma un attimo, cerca le giuste parole da utilizzare, le trova, si fa prudente, ma non rinuncia a dire quello che pensa. “Non entro nel merito dei processi, non ho titolo per farlo, ma posso dire senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. E anche sul processo Ruby, che in linea teorica dovrebbe essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale”. Un trattamento speciale, già. Il caso vuole che a Prato, proprio a Prato, uno dei vice di Piero Tony sia Antonio Sangermano, pubblico ministero che ha fatto a lungo parte del pool di magistrati che hanno seguìto da Milano il caso Ruby. E proprio su Sangermano, a Prato, i cronisti di cronaca giudiziaria raccontano un episodio clamoroso. L’episodio riguarda una richiesta particolare arrivata dal Csm e dalla procura di Milano (da Bruti Liberati) per far sì che il dottor Sangermano, nonostante la sua nuova collocazione a Prato, potesse essere ancora utilizzato dalla procura di Milano per seguire il caso Ruby. In giuridichese: “Applicazione extradistrettuale alla procura della Repubblica presso il tribunale di Milano”. Era il dicembre 2011. Il procuratore capo di Prato conferma che quella storia è vera e che quel giorno rispose così: “Gentile procuratore generale. Mi consenta di rilevare che l’impegno del dottor Sangermano nel ‘delicato processo a Milano’ non appare nemmeno paragonabile all’impegno quotidiano dei magistrati di questo ufficio anche a voler considerare tutto quanto si è appreso dai mass-media e si è commentato nelle sedi le più varie. Al di là del possibile riverbero politico – che non compete alla magistratura – e giudiziario sulla persona dell’ex presidente del Consiglio dei ministri pare trattarsi, invero, di mere violazioni alla Legge Merlin da parte di sole tre persone, violazioni in quanto tali di non eccezionale gravità e peso in relazione sia alle pene edittali sia alle aspettative delle parti lese sia alle esigenze dell’istruttoria dibattimentale così come prevedibile”. Il riverbero politico “non compete alla magistratura”. Proprio così. Piero Tony – nonostante la sua richiesta non sia andata a buon fine – lo dice con naturalezza, lo dice da sinistra, lo dice da magistrato, lo dice da garantista e lo dice con libertà. Con lo sguardo e con la voce di tutti quei magistrati e di tutte quelle persone di buon senso che in tutti questi anni hanno osservato con frustrazione la trasformazione della giustizia italiana.
FORCAIOLI CONTRO GARANTISTI.
Il “Fatto” vorrebbe chiuderci. Logico. Ma…, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. C’è un signore che su twitter ha scritto così: «Felice per il fallimento del Garantista. Sansonetti mafioso». E ha corredato questo post con la foto di un tizio (non so se sia lui stesso) col dito medio all’insù. Chi è? Beh, importa poco, dice di chiamarsi Enrico Moriero ed è un lettore del “Fatto”, il giornale di Travaglio. Il linguaggio, si capisce, è quello. Il nostro Enrico si riferisce a un articolo pubblicato nell’edizione on line del “Fatto”, credo ieri, nel quale si riferisce ai lettori dello stato di agitazione sindacale al nostro giornale (per via degli stipendi non ancora pagati) e poi si prosegue con un attacco violento e frontale del quale, francamente, c’è poco da stupirsi. Al “Fatto” non è mai piaciuto il “Garantista”, e non poteva essere altrimenti. Il “Fatto” è il giornale dei magistrati e noi siamo nati, dichiaratamente, per opporci allo strapotere della magistratura. Del resto anche noi,molto spesso, attacchiamo il “Fatto”, non perché vogliamo che chiuda, ci mancherebbe, ma perché ci sembra utile contestare le posizioni e le idee della magistratura, che consideriamo autoritarie e molto pericolose per la conservazione della libertà e dello Stato di diritto. Ancora sull’ultimo numero del giornale, quello di Pasqua, abbiamo dedicato tutta la terza pagina a una polemica molto aspra con Marco Travaglio per via delle sue posizioni favorevoli all’abolizione dei diritti alla privacy, e lo avevamo accusato di “sognare” un’Italia di spioni, che assomigli alla Germania di Honecker e Ulbricht. Non so se le frustate tirate il giorno dopo dal “Fatto” on line siano state una reazione a quell’articolo, o se la coincidenza temporale sia casuale. Non è molto importante. Noi però, quando attacchiamo il “Fatto”, generalmente, attacchiamo le posizioni che esprime. Non cerchiamo di screditarlo come impresa editoriale o come gruppo politico-giudiziario. Anche perché, obiettivamente, il “Fatto” è una impresa editoriale molto solida e un gruppo politico molto forte: vende un botto di copie, guadagna un sacco di soldi, è protetto dal più robusto e dilagante dei poteri pubblici, che è quello della magistratura. Difficile paragonare un vascellino come il nostro a una corazzata come il “Fatto”, vi pare? E tuttavia, a noi, di essere piccolini e gracili – e anche, obiettivamente, in difficoltà economiche – non ci procura vergogna, anzi, ci procura orgoglio. Siamo una piccola cooperativa, costituita da una ventina di giornalisti, di sinistra e di destra e di centro, cristiani convinti e atei impenitenti, poveri in canna e nemmeno molto noti, che a un certo punto ci siamo messi in testa di fare un giornale quotidiano che provasse a coprire, nel panorama dell’informazione italiana, un buco grande come una casa: il punto di vista libertario e garantista. È un punto di vista del tutto assente nei grandi giornali, considerato “sospetto” a sinistra, e approvato a destra soltanto quando si assume la difesa dei politici di destra, a partire da Berlusconi, ma vituperato se per caso si difendono i poveri cristi, i drogati, i rom, i carcerati, le puttane. La nostra è stata una impresa “folle e temeraria” (è scritto così anche nell’articolo del “Fatto”). Senza un soldo, contro il potere, soprattutto contro lo strapotere dei magistrati, contro l’intero schieramento della stampa italiana, contro i partiti e su una posizione politico intellettuale “non prevista” dal senso comune. Eppure…Eppure non è affatto vero che stiamo fallendo. Il giornale è in campo, sebbene sia molto giovane, vende parecchie copie, sta iniziando a smuovere idee e posizioni, a ottenere risultati, conduce con coraggio le sua battaglie (e fa innervosire parecchio, certo, buona parte del partito dei Pm) e non ha affatto intenzione di chiudere i battenti. Tutt’altro. Le difficoltà economiche ci sono, e non ce le risolverà certo il signor Bonaventura. Le affrontiamo da soli, le risolveremo da soli, con la forza nostra e il grandioso spirito di sacrificio dei nostri redattori e dei dipendenti della cooperativa. Che non hanno affatto intenzione di ammainare bandiera bianca. Certo, in Calabria una agitazione sindacale è una mosca bianca, e quando avviene tutti si stupiscono. Negli altri quotidiani calabresi, dove spesso i redattori sono senza contratto o a contratti dimezzati e dove spesso si resta senza stipendio per mesi, non si è abituati a fare sciopero o agitazioni sindacali. I padroni del vapore in Calabria sono potentissimi, ti stroncano se vogliono (e non sempre il sindacato ti difende). Nell’articolo del “Fatto”, Lucio Musolino (l’autore) racconta di quanti giornalisti in questa regione siano supersfruttati, eppure nessuno ricorda un giorno di sciopero nei loro giornali. Da noi è un po’ diverso. I contratti ci sono, e c’è anche la libertà. Il confronto sindacale è giusto che ci sia, e deve essere pienamente libero. Dentro questo confronto si trova la soluzione, non fuori. E noi – sebbene squattrinatissimi e senza santi protettori – troveremo la soluzione. Con calma, serenità, e con grande convinzione nelle nostre idee. Il “Garantista” è un giornale assolutamente nuovo. Non c’è mai stato niente di simile in Calabria. E neppure in Italia. Non ha paura di nessuno, osa sfidare la mafia e l’antimafia, la magistratura e i padroni, gli sfruttatori e partiti politici. Ovvio che non stia simpatico a nessuno. Però – tranquilli – va avanti. E pagherà gli stipendi. Ci dispiace per quel signore gentile col dito medio alzato, e ci dispiace anche per l’amico Travaglio.
Lo Stato teocratico moderno secondo Travaglio, continua Piero Sansonetti. Ormai, se provi a pronunciare in pubblico qualche parola garantista, o a difendere le libertà individuali, la riservatezza della persone, ti linciano. Ti mettono alla berlina. Proprio come facevano i fascisti, i nazisti, una settantina d’anni fa. Ieri Marco Travaglio ha scritto un lungo articolo sul ”Fatto” nel quale sbeffeggia un prestigioso e stimato esponente della politica italiana, Antonello Soru, che è anche il presidente dell’autorità sulla privacy, accusandolo ( e stavolta sulla base di prove certe) di essere il presidente dell’autorità della privacy. Travaglio lo considera un reato. E poi accusandolo di essere un medico, peggio, un dermatologo. Un’intera colonna, in prima pagina, è dedicata a sbeffeggiare l’ex parlamentare sardo e a metterlo in ridicolo, perché medico. Cosa ci fa un medico in parlamento? Se ne troni tra i malati di scabbia che fa meglio! L’essere medico secondo Travaglio è la prova del dilettantismo di questa politica. Ma chi dovrebbe sedere, invece, in Parlamento? Probabilmente nessuno, perché in fondo il Parlamento è abbastanza inutile. Sarebbe più che sufficiente costituire una giunta di magistrati (della corrente giusta, e tutti comunque sottoposti al giudizio di Giancarlo Caselli) e affidare ad essa la stesura delle leggi, la cancellazione di tutti i codici che prevedano diritti o sconti di pena, e infine l’esecuzione stessa delle leggi. Fuori dalle palle medici, avvocati, ingegneri, operai, autisti dei pullman. Che ne sanno loro di come si governa un paese o una prigione? Il motivo dell’attacco sfascisteggiante del ”Fatto” al malcapitato Soru è semplicemente che lo stesso Soru, visto che fa il garante della privacy, aveva fatto notare che la privacy, almeno un po’, va garantita, e che la vita privata della gente, specie quando non c’è alcuna notizia di reato, non può essere raccontata ai quattro venti da magistrati e giornalisti e trasformata in ”metriale” per costruire fango e merda da gettare addosso a chi ci sta antipatico. Travaglio respinge con sdegno l’ipotesi di salvaguardare la privacy , perché – spiega – misure di questo genere sfascerebbero il potere dei Pm, danneggerebbero le indagini _ cioè il bene supremo di uno Stato moderno – e ridurrebbero il nostro paese alla stregua degli Stati Uniti, o della Francia, o di altri libertini e lassisti paesi dell’Occidente corrotto. I processi devono essere fatti dal popolo, celebrati sui giornali e in Tv, e devono essere celebrati sulla base delle informazioni fornite dai magistrati, anche eventualmente – come spesso avviene – violando la legge vigente. Poi alla Corte toccherà ratificare la decisione presa dal tribunale della televisione e del popolo. E Soru, se si oppone, è un medicastro da mettere subito a tacere. Naturalmente Travaglio intuisce l’obiezione, perché ogni tanto se la sente fare: ma vuoi ridurre l’Italia come era una volta la DDR (la mitica Germania comunista di Ulbricht e Honneker, che nei decenni che precedettero l’89 viveva con l’intero ceto intellettuale o politico intercettato per 24 ore al giorno dalla polizia politica)?La Germania comunista era considerata, probabilmente a ragione, il paese più illiberale e poliziesco d’Europa. Naturalmente Travaglio, da buon anticomunista e allievo di Indro Montanelli (il quale però pare che fosse inconsapevole di questa ”discepolatura”) non può esaltare la Germania di Honneker. E allora mette nero su bianco questo ragionamento, francamente candidissimo e disarmante: una cosa – dice – sono ”le aberrazioni della Stasi, la polizia segreta della Germania comunista” e una cosa completamente diversa sono le intercettazioni nell’ambito ”delle doverose indagini della magistratura italiana”. Come fai a rispondere a uno che ti dice così? E’ esplicito, Travaglio, non lascia zone d’ombra: il problema non è cosa si fa, cosa si può fare, cosa è legittimo fare: il problema è chi lo fa. La stessa cosa, fatta dai cattivi è una aberrazione, fatta dai buoni è ”doverosa”. Perfino il linguaggio lascia un po’ senza commenti. Un tipo scanzonato e violento – nella polemica – come Travaglio, quando parla dei magistrati si trasfigura e assume toni da ciambellano, o da sagrestia: ”le doverose indagini...”. Manca solo che dica: ”delle vostre eccellenze…” Il punto è proprio questo (al di là del metodo fascista col quale si offende una brava persona come Soru, che però, essendo un intellettuale di livello, non si sarà neanche offeso di queste fesserie…): è la convinzione della ”superiorità della razza”, la razza dei magistrati (anzi, dei Pm, anzi, di un certo settore dei Pm…) e di alcuni giornalisti. Diciamo del partito giustizialista. Questa convinzione, e la certezza che un buono Stato non deve essere uno stato democratico ma uno Stato Etico, un po’ come il terzo Reich o l’Unione sovietica prima di Gorbaciov, risolvono qualunque questione o contrasto o dubbio politico. La ragione e il torto non sono né confuse tra loro e neppure possono essere ”divise” attraverso un dibattito o un approfondimento: la Ragione è del partito (del partito giustizialista) il torto è di tutti gli altri, in particolare del politici e della vil razza dannata dei garantisti. E’ una visione perfettamente teocratica, ma per fortuna molto meno sanguinaria della teocrazia immaginata dall’Isis…Ho usato due volte la definizione ”partito giustizialista”. Cos’è? Solo una frase fatta, solo propaganda? No, io credo che ormai il partito giustizialista sia strutturato, fortissimo, goda di un grande sostegno nell’opinione pubblica, possa contare su fortissimi strumenti di potere in tutti i campi: economia, editoria, politica, capacità repressiva e di persecuzione dei nemici. E’ un partito che ha il suo nerbo essenziale nella cordata dei Pm che fa capo all’Anm, ma ha anche molte altre componenti, correnti, strumenti. Sarebbe interessante disegnare una mappa di questo partito. Con la sua ala più vistosa, ma forse meno decisiva, che ovviamente sono i Cinque stelle, cioè la componente anarchica, con sfumature di sinistra. Poi c’è ”Il Fatto”, che è la corrente di destra, con una ideologia militaresca, un po’ fascista. Poi ci sono i vari pezzi della magistratura, dai caselliani (che mettono divisa ed elmetto e non sorridono mai) ai Brutisti-Bocassianiani, che vanno al sodo e pensano solo a come processare più gente possibile, ci sono i folcloristici (tipo quel mattacchione di Woodchock che però, simpatico simpatico, fa un sacco di guai), e infine la corrente più seria e ragionante (la meno reazionaria ma anche la più insidiosa, perché dotata di pensiero e conoscenze) che è quella di Sabelli, cioè del vertice dell’Anm. Dietro a questo esercito, che picchia duro e spara a raffica, ed è la mano armato del partito, c’è il potere economico, che dal 1992 ha fatto la scelta di usare la magistratura per demolire la politica. E ha mietuto successi, successi, successi. Ormai questo potere è diventato un potere assoluto, senza opposizione, senza concorrenti. La demolizione della politica, realizzata dal partito giustizialista, è stato il capolavoro del potere economico. E’ buffo che sia così. Travaglio forse non lo sa, e se lo sapesse inorridirebbe: lui ha sempre lavorato per conto del ”Corriere della Sera”, per i gruppi di potere che si aggruppano intorno al Corriere, si proprio così, all’odiato Corriere che fui di Paolo Mieli…Ahi, ahi, ahi.
Renzi, Grillo, Travaglio, Salvini: Ecco a voi i “nuovi Farinacci”, conclude Piero Sansonetti. Il capo del quarto ( o terzo) partito italiano, Matteo Salvini, l’altro ieri non è andato al colloquio con il presidente della Repubblica e ha motivato questa sua (legittima) decisione con una frase offensiva contro Mattarella (”Cosa dovevo andare a chiedergli, il numero di telefono del suo parrucchiere?”). Il Presidente del Consiglio chiama gufi i dirigenti del suo partito che esprimono dissenso nei suoi confronti, e dopo una riunione della Direzione del Pd nella quale ritenne di aver sconfitto Massimo D’Alema, ex presidente del Consiglio, commentò esprimendosi in questi termini: ”Lo ho asfaltato”. Volete che citi qualche dichiarazione di Marco Travaglio? Non c’è bisogno, credo, basta dire che il suo giornale una volta ha pubblicato un editoriale intitolato (”La repubblica delle troie”) e che lui abitualmente usa polemizzare storpiando il nome del suo interlocutore, o affibbiandogli un soprannome insolente. Di Grillo cosa posso dirvi? Che chiama Berlusconi il nano, Bersani lo chiamava, mi pare, Zombi o Gargamella, Renzi lo chiama ”bimbo-minchia”. Fermiamoci qui. Anche perché queste poche citazioni non servono in alcun modo a rappresentare il campionario vastissimo, dilagante, dell’uso dell’offesa, camuffata da sberleffo, per sostituire la polemica politica di sostanza. Io dico: sostituire. Non dico: rafforzare. La durezza dello scontro politico non è una novità, esisteva già nella prima Repubblica, quando la battaglia si inaspriva e i dissensi politici si allargavano e si drammatizzavano. Però, allora, lo spunto era il dissenso, la diversità di opinioni su una grande questione, e l’offesa era un di più. Ora l’offesa è la sostanza e il dissenso sfuma, non si vede o quantomeno è secondario. Mi ricordo, trent’anni fa, fu Claudio Martelli, educato filosofo milanese, a rompere le righe e usare il termine ”neuro-comunismo”(al posto di ”euro-comunismo”) per insultare Enrico Berlinguer. E successe il finimondo, perché fu considerato uno strappo alla buona educazione politica. Martelli lo fece nel corso di un intervento in Parlamento mentre era in corso un ostruzionismo del Pci contro il taglio della scala mobile che durò tre mesi e si concluse solamente, il 7 giugno del 1984, perché Berlinguer fu colpito da un ictus che poi ne provocò la morte. Lo scontro era feroce: ma su un tema sociale, non sulla ricerca dell’urlo, della clamorosità, della ferocia, dell’esaltazione dell’odio come strumento per radunare le proprie truppe. Anche l’ostruzionismo del Pci era uno strumento per radunare le truppe, ma non sull’adesione a un’invettiva bensì sulla difesa di un interesse di gruppo (di classe, si diceva allora) e cioè sul terreno del più puro e drammatico scontro sociale. La ”beatificazione” della volgarità, del trivio, del bullismo estremo, come metodo di lotta politica è invece una eredità del fascismo. C’era un famoso gerarca, che si chiamava Roberto Farinacci, origini popolari e poi breve carriera giornalistica in alcuni giornali locali prima socialisti e poi fascisti, che veniva definito dai suoi stessi camerati ”Farinacci il selvaggio”, era uno specialista in questo tipo di polemica politica. Annientare gli avversari, colpire basso, senza riguardi, puntare all’umiliazione, alla demolizione dell’interlocutore. E poi sorridere, e chiamare l’applauso del circo dei propri sostenitori. Salvini, Grillo, Travaglio e vari altri giornalisti, lo stesso Matteo Renzi, amano questo agonismo politico. Ieri il premier ne ha fatta un’altra. Ha detto che presto l’Italia supererà la Germania come potenza industriale, e diventerà la prima potenza industriale d’Europa. Voi sapete che Mussolini dichiarò: «Spezzeremo le reni alla Grecia». E che quella frase infelice (anche perché l’Italia in Grecia finì con le reni rotte) è diventata un po’ il simbolo della spacconeria politica idiota. Beh, a dire il vero aveva più probabilità Mussolini di vincere la guerra con la Grecia che Renzi di portare l’industria italiana a superare quella tedesca. Lo stile però è quello. Considerare la politica un campo nel quale si fa spettacolo, vince chi recita meglio. E questa scelta porta all’imbarbarimento del linguaggio, che è un imbarbarimento di sostanza. L’imbarbarimento prende il posto dello scontro tra visioni diverse, o dello scontro di classe, o della battaglia ideologica. Non c’è niente da fare, torna il mito di Farinacci. Sgrammaticato, un poco ignorante, digiuno della politica vera, ma aggressivo e capace di fare dell’aggressività la bandiera del fascismo. Io non credo che in Italia esista un pericolo fascista. Altre volte ho polemizzato contro la retorica antifascista, che è stata per settant’anni lo scudo dietro il quale la sinistra ha coperto le sue difficoltà politiche, e che ha usato per ricucire trame di unità quando era più divisa. Penso che quell’antifascismo, spesso illiberale, sempre retorico, militaresco, blindato, sia qualcosa da buttar via. Pericoloso, perché è un antifascismo che scimmiotta il fascismo. Quello del Pd, o dei centri sociali, è lo stesso. Oggi nella società ci sono tanti e diversissimi ”semi” illiberali, autoritari, razzisti, che attraversano come una lunghissima cicatrice tutto il campo politico, dalla sinistra estrema a Casapound. Senza distinzioni profonde. Condizionano il pensiero e il senso comune di partiti e di larghi ceti professionali e sociali, dalla borghesia al proletariato, dalla magistratura, alla chiesa, alla scuola, all’intellettualità. Dove mi pare che il fascismo – lo spirito di quello che a me sembra il fascismo moderno – emerge con più chiarezza è proprio in questo linguaggio della ”demolizione” e dell’odio. Farinacci aveva usato l’invettiva triviale – in parte degradando alcuni temi dannunziani o futuristi – con uno scopo rivoluzionario. Riteneva che quel linguaggio spezzasse luoghi comuni, rovesciasse tabù, potesse accompagnare un fortissimo rivolgimento sociale. ”Sparava sul quartier generale”, come più tardi fecero gli adepti di Mao Tse Tung nella rivoluzione culturale cinese. Il risultato – in un caso e nell’altro – fu la vittoria di chi odiava la libertà, la dignità, la storia. L’estrema conseguenza di quelle lotte triviale furono i falò di libri. Oggi non è molto diverso. Grillo e Travaglio, e con loro Salvini dicono che stanno radendo al suolo il quartier generale. Renzi dice che lui sta rottamando. Lo so che non lo sanno di esser fascisti. Lo so che molti possono ritenere che questo non sia un male. Io dico solo questo: che assomigliano tutti, maledettamente, a Farinacci ( per il quale, peraltro, ho molto rispetto: perché morì, eroicamente, fucilato senza processo da un tribunale del popolo).
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Vatileaks, indagati Nuzzi e Fittipaldi per il caso «corvi» in Vaticano. Gli autori dei libri «Avarizia» e «Via crucis» inquisiti nell’ambito dell’inchiesta sulla fuga di documenti riservati dalla Santa Sede. Fittipaldi: «Rischi del mestiere. Il potere si difende contrattaccando», scrive “Il Corriere della Sera” l'11 novembre 2015. I giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, autori dei libri «Avarizia» e «Via crucis», sono indagati nell’ambito dell’inchiesta vaticana sulla fuga di documenti riservati dalla Santa Sede. Nel libro del giornalista napoletano de L’Espresso (pubblicato da Feltrinelli), come specificato nel sottotitolo, si parla delle «carte che svelano ricchezza, scandali e segreti della Chiesa di Francesco». Sotto inchiesta anche Gianluigi Nuzzi per il suo nuovo libro uscito per Chiarelettere il 9 novembre, in cui racconta fatti e retroscena della drammatica guerra intrapresa da Papa Francesco per rivoluzionare la Chiesa, incontrando non pochi ostacoli nello scardinare un radicato sistema di privilegi e interessi. Il capo d’accusa è «possibile concorso nel reato di divulgazione di notizie e documenti riservati previsto dalla Legge n.IX dello Stato Città del Vaticano». Lo conferma in serata lo stesso portavoce della Santa Sede, Padre Federico Lombardi, il quale ha aggiunge che «nell’attività istruttoria avviata, la magistratura ha acquisito elementi di evidenza del fatto del concorso in reato da parte dei due giornalisti che a questo titolo sono ora indagati». E aggiunge: «Sono all’esame degli inquirenti anche alcune altre persone che per ragioni d’ufficio potrebbero aver cooperato all’acquisizione dei documenti riservati». Ha scelto di commentare la notizia di essere stato indagato dal Vaticano, sul sito del suo giornale Emiliano Fittipaldi: «Quando il giornalismo d’inchiesta scoperchia scandali e segreti che il potere, anche quello temporale del Vaticano, vuole tenere nascosti, quel potere si difende, contrattaccando. Ma è un rischio che fa parte del mio mestiere. Io sono tranquillo, non ho nulla da temere». Emiliano Fittipaldi, autore di «Avarizia» il libro da cui è scaturita l’inchiesta Vatileaks 2 reagisce così alla notizia. «Non mi risulta ci siano rogatorie internazionali - dice Fittipaldi -. Credo si tratti di un’inchiesta vaticana all’interno di Vatileaks. Io sono tranquillo, quando si fa un giornalismo di inchiesta come quello che faccio io, si raccontano anche imbarazzi e scandali». Fittipaldi evidenzia ancora: «non una riga del mio libro è stata smentita. Non conosco comunque quali siano eventuali capi di imputazione, non so se vorranno processarmi. Una cosa mi fa riflettere: Gesù Cristo dice che la verità ci rende liberi e ora arriva una reazione tanto forte». Il caso Vatileaks è esploso nei giorni scorsi, alla vigilia dell’uscita dei due libri quando, a seguito della fuga di notizie, la Gendarmeria vaticana ha arrestato monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Francesca Chaouqui— poi rimessa in libertà per la sua collaborazione – che in passato erano stati rispettivamente segretario e membro della Commissione referente di studio e indirizzo sull’organizzazione delle strutture economico-amministrative della Santa Sede, istituita dal Papa nel luglio 2013 e successivamente sciolta dopo il compimento del suo mandato. Il monsignore (che resta agli arresti) e la pierre sono accusati di aver diffuso documenti riservati. Papa Bergoglio, durante l’Angelus di domenica 8 novembre ha rotto il silenzio e ha detto: «Rubare documenti è un reato, un atto deplorevole». Intanto il Vaticano prosegue nella sua battaglia: «Un’indagine è stata aperta dall’Autorità giudiziaria vaticana in merito alla diffusione del documento riguardante l’Apsa, l’organismo vaticano competente per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica». Così, padre Federico Lombardi in merito a Vatileaks. «Nei giorni scorsi sono apparsi su agenzie e organi di stampa articoli che riferiscono in maniera parziale e imprecisa il contenuto di un documento confidenziale, ipotizzando che in passato l’Apsa sia stata strumentalizzata per un’attività finanziaria illecita», si legge nella nota della sala Stampa della Santa Sede. «L’Autorità giudiziaria vaticana ha aperto un’indagine in merito alla diffusione del documento. L’Apsa - continua la nota - ha sempre collaborato con gli organi competenti, non è sotto indagine e continua a svolgere la propria attività nel rispetto della normativa vigente». Parte del fascicolo è stato pubblicato la scorsa settimana dall’agenzia Reuters e parlava di un coinvolgimento del presidente di Banca Finnat, Giampiero Nattino, che avrebbe utilizzato conti Apsa per transazioni personali sul mercato azionario italiano. Sul caso Vatileaks è intervenuto anche monsignore Nunzio galantino, segretario della Cei: «Il materiale reso pubblico il Papa lo conosce benissimo perché è lui, sulla spinta degli incontri pre-Conclave, che ha fatto fare queste ricerche e ha intrapreso il processo di riforma». Così il segretario della Cei, sugli scandali in Vaticano dopo la fuga di notizie, che ha portato alla pubblicazione dei volumi di Gianluigi Nuzzi e di Emiliano Fittipaldi. La riforma messa in atto dal Pontefice, spiega Galantino a Famiglia Cristiana, «era desiderio anche di Benedetto XVI. Fu lui, durante una Via Crucis, a parlare di sporcizia dentro la Chiesa. Ma la Chiesa ha sentito l’esigenza di chiamare per nome questi peccati, questi abusi, questi atteggiamenti che non sono in linea col Vangelo né con il buon senso né con il bene delle persone».
Vatileaks 2, indagati i due autori dei libri-inchiesta Nuzzi e Fittipaldi. L’accusa: “Divulgazione di notizie”. Gli autori di "Avarizia" e "Via crucis" sospettati di "possibile concorso nel reato di divulgazione di notizie e documenti riservati". Fittipaldi: "Non una riga del mio libro è stata smentita", scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 novembre 2015. I giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi, autori dei libri “Avarizia” e “Via crucis”, sono indagati nell’ambito dell’inchiesta vaticana sulla fuga di documenti riservati della Santa Sede. “La gendarmeria vaticana – ha riferito il direttore della sala stampa, padre Federico Lombardi - nella sua qualità di polizia giudiziaria, aveva segnalato alla magistratura vaticana l’attività svolta” dai due cronisti “a titolo di possibile concorso nel reato di divulgazione di notizie dei documenti riservati previsto dalla legge numero IX del 13 luglio 2013 (articolo 116 bis del Codice penale)”. Il portavoce vaticano ha inoltre spiegato che “nell’attività istruttoria avviata, la magistratura ha acquisito elementi di evidenza del fatto del concorso in reato da parte dei due giornalisti che a questo titolo sono ora indagati”. Padre Lombardi ha infine fatto sapere che “sono all’esame degli inquirenti anche altre posizioni di persone che per ragioni di ufficio potrebbero aver cooperato all’acquisizione dei documenti riservati in questione”. “Quando il giornalismo d’inchiesta scoperchiascandali e segreti che il potere, anche quello temporale del Vaticano, vuole tenere nascosti, quel potere si difende, contrattaccando – ha detto Fittipaldi al sito dell’Espresso una volta appresa la notizia -. Ma è un rischio che fa parte del mio mestiere”. Prima di avere la conferma che si trattasse di un’inchiesta vaticana, il giornalista aveva detto all’AdnKronos: “Non mi risulta ci siano rogatorie internazionali. Credo si tratti di un’inchiesta vaticana all’interno di Vatileaks”. E ancora: “Non una riga del mio libro è stata smentita. Non conosco comunque quali siano eventuali capi di imputazione, non so se vorranno processarmi”. Il caso è esploso alla vigilia dell’uscita nelle librerie dei due titoli quando, a seguito della fuga di notizie, la Gendarmeria vaticana ha arrestato monsignor Lucio Angel Vallejo Balda e Francesca Chaouqui - poi rimessa in libertà – che in passato erano stati rispettivamente segretario e membro della Commissione referente di studio e indirizzo sull’organizzazione delle strutture economico-amministrative della Santa Sede, istituita dal Papa nel luglio 2013 e successivamente sciolta dopo il compimento del suo mandato. In “Avarizia” (Feltrinelli) il giornalista de L’Espresso Fittipaldi racconta ricchezza, scandali e segreti della Chiesa di Francesco, basandosi su documenti della Cosea, la commissione creata da Bergoglio per fare chiarezza nelle finanze vaticane. Sulla fuga di notizie anche Bergoglio è intervenuto duramente: “Rubare documenti è reato, un atto deplorevole”, ha detto durante l’Angelus dell’8 novembre, rompendo così il silenzio sull’oggetto delle due pubblicazioni. E nel mirino della giustizia vaticana nel frattempo sono finite anche altre carte. L’Autorità giudiziaria vaticana ha aperto un’indagine in merito alla diffusione del documento riguardante l’Apsa, l’organismo vaticano competente per l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica. Lo ha riferito ancora padre Lombardi, sottolineando che “l’Apsa ha sempre collaborato con gli organi competenti, non è sotto indagine e continua a svolgere la propria attività nel rispetto della normativa vigente”. L’indagine è legata alla diffusione di un documento confidenziale, che era riservato, e che ipotizzava che in passato l’Apsa sia stata strumentalizzata per un’attività finanziaria illecita. Per questo il promotore di giustizia vaticano, in seguito a un rapporto dell’Autorità di informazione finanziaria, aveva indagato il banchiere italiano Gianpietro Nattino per operazioni di compravendita titoli e transazioni. Sul piede di guerra anche Propaganda Fide che si è vista in questi giorni su molti organi di stampa per l’utilizzo delle sue case. Annunciando che se questo tipo di notizie continueranno ad essere diffuse si riserva di tutelarsi nelle sede competenti, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli respinge le critiche. “Risultano inaccettabili certe insinuazioni fatte da parte di alcuni media che diffondono notizie non rispondenti al vero”. E la stessa Congregazione cita le affermazioni a suo avviso false: affitti a prezzi di favore, case trasformate in sauna, fino alla notizia che la Congregazione sia proprietaria dell’Hotel Priscilla. La risposta è che “la totalità degli immobili della proprietà della Congregazione sono affittati a prezzi di mercato”, a parte “eccezioni per motivi di situazioni di indigenza”. Secondo: “Il reddito derivante dalla locazione degli immobili” è utilizzato per finanziare le missioni e le università pontificie Urbaniana e Collegio Urbano. Terzo: su questi immobili “vengono regolarmente pagate le imposte in Italia e per l’Imu nel 2014 il dicastero ha versato 2.169.200 euro, solo per Roma Capitale”. Nei giorni scorsi il direttore di Radio Maria, padre Livio Fanzaga, aveva pesantemente attaccato Nuzzi e Fittipaldi dai microfoni dell’emittente. “Li impiccherei” aveva detto, aggiungendo: “Quello che mi scandalizza sono i giuda, i giornalistiche hanno la lingua biforcuta; mi fanno nauseare, mi fa fatica pregare per loro, perché io li impiccherei quasi quasi”. E ha concluso: “Ricordo che Giuda, dopo aver concluso l’affare, si andò ad impiccare”. Giuliano Ferrara, poi, aveva offeso i due cronisti definendoli “due smerdatori professionali”.
Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi: quando tocca a loro la gogna.
Gian Luigi Nuzzi: Nel mio libro racconto di reati, ruberie, malversazioni, lotte di potere, di reati e ora rischio 8 anni di carcere! Però non ho sentito di processi a chi si è portato via merce per un valore di 1,6 milioni di euro dai magazzini del Vaticano... Due pesi e due misure?
Emiliano Fittipaldi, autore di ''Avarizia'': ''Non una riga del mio libro è stata smentita, infatti non vengo incriminato per diffamazione, ma rischio da 4 a 8 anni per una legge approvata da Papa Francesco che punisce la rivelazione di notizie o documenti riservati. In pratica il divieto del diritto di cronaca''...A processo insieme a me anche la libertà di stampa, scrive Emiliano Fittipaldi per “la Repubblica”. "Caro direttore, mentre scrivevo Avarizia, il libro-inchiesta in cui racconto gli scandali economici e i segreti finanziari del Vaticano, mai avrei immaginato che dopo la sua pubblicazione sarei finito sotto inchiesta, mandato alla sbarra e processato davanti ai giudici pontifici. Processato perché accusato di un reato che prevede una pena che va dai 4 agli 8 anni di carcere. Secondo la dottrina cattolica l’avarizia è uno dei sette vizi capitali che allontanano l’uomo da Dio. Ero certo che aver intitolato così il volume non avrebbe fatto saltar dalla gioia le gerarchie della curia romana, le cui malefatte e il cui ambiguo rapporto con il denaro sono al centro della mia inchiesta giornalistica. Sapevo perfettamente che svelare che l’appartamento del cardinal Bertone è stato ristrutturato con i soldi della Fondazione del Bambin Gesù — ente destinato alla cura dei bambini malati — avrebbe innervosito coloro che conoscevano da anni la vicenda, e la tenevano nascosta. E prevedevo che descrivere i fondi milionari riempiti con beneficenza dei fedeli e usati per le necessità dei cardinali avrebbe messo in grave imbarazzo chi, tra prelati e monsignori, preferisce alla trasparenza invocata da Bergoglio l’antica consuetudine di lavare i panni sporchi al riparo delle mura leonine. Però speravo che il libro, invece di essere messo all’indice come ai tempi del Sant’Uffizio, provocasse anche una reazione costruttiva da parte del mondo ecclesiastico, un dibattito sulle difficoltà che papa Francesco sta incontrando nel cammino da lui intrapreso per «una Chiesa povera e per i poveri». È invece accaduto il contrario: a parte eccezioni di rilievo come quella di Nunzio Galantino («esiste una necessità di purificazione della Chiesa anche attraverso scandali di questo tipo» ha ragionato il segretario generale della Cei) gran parte delle porpore si sono chiuse a riccio, e alla fine s’è addirittura preferito incriminare non i mercanti del tempio, ma chi li ha smascherati. Un paradosso necessario anche a distogliere l’attenzione della collettività dallo scalpore (e la vergogna) dei fatti narrati. «La verità vi renderà liberi», dice Gesù nel Vangelo secondo Giovanni. Nel mio caso condurre il lavoro d’inchiesta, verificare con pazienza notizie da decine di fonti diverse e incrociare dati per mesi in modo da pubblicare storie vere mi ha portato a dovermi difendere da accuse gravi, e — secondo le norme della giurisprudenza italiana — illiberali. Perché io non sono incolpato per aver diffamato qualcuno, né per aver scritto falsità: finora nemmeno un rigo di Avarizia è stato smentito. Sono stato rinviato a giudizio perché un nuovo articolo del codice penale vaticano, approvato da papa Francesco nel luglio del 2013, prevede pene severe per chiunque «riveli notizie o documenti riservati». La giurisprudenza vaticana considera un delitto l’essenza stessa del nostro mestiere, ossia il dovere di pubblicare i fatti che il potere, qualunque forma esso prenda, vuole tenere occultati alla pubblica opinione. Non solo. Mi si accusa di aver messo a rischio «interessi vitali della Santa Sede»: ma davvero le notizie sul patrimonio immobiliare vaticano (pari a 4 miliardi di euro in palazzi e appartamenti a Roma, Parigi, Londra e la Svizzera) o sui costi necessari a parenti e ordini religiosi per canonizzare un loro beniamino (fare un santo può costare anche 3-400 mila euro) mettono a repentaglio la sicurezza nazionale della Santa Sede? Ho i miei dubbi. I giornalisti lavorano per il primario interesse dei lettori, e non è un caso che la libertà di stampa e il diritto di essere informati sia tutelato in ogni paese che si vuole democratico. In Vaticano ad oggi non esiste alcuna legge che possa essere paragonata all’articolo 21 della nostra Costituzione, né commi a difesa del diritto di cronaca, o codici deontologici che permettano al giornalista di opporre il segreto professionale a tutela delle proprie fonti. Domani inizia il dibattimento e sarò in aula. Ma questo che inizia non è un processo contro di me. È un processo alla libera stampa".
Post di Francesca Chaouqui su Facebook: "Sono andata in Calabria a riaccompagnare a casa mia madre e mia nonna. 1000 km in un giorno, domani ho appuntamento con l'avvocato. Appena siamo arrivati sono saliti tutti i miei parenti, mia zia mi ha portato il pane fresco fatto in casa, la pizza. L'altra zia mi ha abbracciato a lungo, i miei cugini, erano tutti lì. E poi c'ero mio zio che di Papa Francesco è devoto, ha tutte le mie foto con Lui appese nel soggiorno insieme alle mie quelle dei miei cugini quando l'hanno incontrato tempo fa. Era così fiero di me in questi anni. Gli avevo promesso che lo avrei portato ad una messa per il Giubileo, e avevo già fatto richiesta per i pass. Stasera Piangeva. Mi ha visto, mi abbracciato e piangeva. Una roccia, uno che ha vissuto gli anni della seconda guerra mondiale e che ha visto di tutto. Eppure Piangeva. Io invece Ieri quando ho visto il dispositivo del rinvio a giudizio del processo in Vaticano ho pensato che era meglio lasciar perdere, rinunciare a qualsiasi difesa, tanto partendo da quei presupposti tutto sarebbe stato inutile. Ho pensato che potevano fare quello che volevano. Che la giustizia non è mai di questo mondo. Ero rimasta così male che neanche volevo più andarci al processo, tanto più che il Vaticano non ha ammesso l'avvocato Bongiorno come mio difensore, nonostante precedentemente Lei avesse sempre ottenuto il permesso di patrocinare altre cause davanti allo stesso tribunale. Tutto questo prima di stasera. Poi stasera ho visto lì la mia famiglia, loro che mi hanno cresciuto, che mi hanno insegnato che lealtà, onesta e dignità sono i valori più importanti nella vita di un essere umano. Ho pensato a tutti gli amici, tantissimi, che mi sono stati vicini e ci sono per me ogni secondo, in ogni modo. È per loro che stasera ho deciso che martedì vado a difendermi al processo, a dimostrare che mai un solo foglio è passato dalle mie mani a quelle di un giornalista, uno qualsiasi, non solo Emiliano o Gianluigi. Forse non servirà a niente, ma mi batterò come un leone affinché la verità emerga. Possono condannarmi ma se lo faranno sappiate che mai potranno produrre una sola prova che un solo foglio sia stato portato o consegnato da me a chiunque non fosse un mio referente nella commissione, il Santo Padre stesso o il suo Staff. Chi mi segue su questo social Sa che ogni volta che raccontavo qualcosa della mia esperienza presso la Santa Sede usavo il tag ?#piùdituttoalmondo perché niente, nessuna cosa, lavoro, relazione, situazione era più importante dell'aiutare il Pontefice. È ancora così. O non mi sottometterei ad processo basato su regole del 1923, in fondo sono una cittadina italiana a cui niente può essere imposto da OltreTevere finché resto sul suolo italiano. Perció stasera vi chiedo di pregare per me, per la verità. Ci vediamo in aula, martedì.
Vatileaks, Nuzzi e Fittipaldi al processo: “Non siamo martiri ma solo giornalisti”. I giudici respingono richiesta di nullità, scrive Francesco Antonio Grana martedì 24 novembre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. “Noi non siamo martiri, siamo solo giornalisti, cronisti, ma ci sono dei principi che devono essere difesi. È una situazione assurda e kafkiana”. Esordisce così Gianluigi Nuzzi parlando con il pool dei vaticanisti presenti in aula alla prima seduta del processo Vatileaks 2 durato un'ora e 10 minuti. Insieme con Nuzzi, sono imputati anche un altro giornalista, Emiliano Fittipaldi, e i tre presunti corvi: monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, ancora sgli arresti, Francesca Chaouqui e Nicola Maio. Ai giudici del Tribunale vaticano, presieduto da Giuseppe Dalla Torre, Fittipaldi ha voluto leggere una dichiarazione spontanea: “Ho deciso di comparire in questa udienza per doveroso rispetto nei confronti di questo Tribunale che ha ritenuto di dovermi citare. Ma nel comparire ritengo di dover esprimere innanzitutto la mia incredulità nel trovarmi a essere imputato di fronte a una autorità giudiziaria diversa da quella del mio Paese, pur avendo scritto e pubblicato in Italia il libro per il quale si pretende qui di incriminarmi”. Ai giudici vaticani Fittipaldi ha spiegato che “nel mio Paese, d’altronde, la condotta che qui mi addebitate non sarebbe penalmente perseguibile, non essendomi contestato in alcun modo di aver pubblicato notizie false o diffamatorie, ma semplicemente di aver pubblicato notizie: attività protetta e garantita dalla Costituzione italiana, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Aggiungo poi – ha ancora evidenziato il giornalista – e chiedo che il mio avvocato formalizzi tecnicamente questa mia eccezione che il decreto di citazione a giudizio che mi avete notificato non mi consente in alcun modo di difendermi, giacché non contiene, nemmeno implicitamente la benché minima descrizione del fatto che mi viene addebitato”. Per Fittipaldi nel decreto “si dice infatti che sono imputato di acquisizione e divulgazione di documenti e notizie riservate, ma non si dice affatto quali siano questi documenti, o quale siano queste notizie: una condizione di indeterminatezza del tutto inaccettabile, perché pone l’imputato nella condizione di non sapere da cosa doversi difendere, e la pubblica accusa di poter in ogni momento estendere il riferimento della incriminazione a uno qualunque dei documenti o delle notizie contenute nel mio libro. Sono dunque comparso – ha concluso il giornalista – per formulare queste eccezioni, e di ciò chiedo che sia dato atto a verbale”. I giudici, dopo 43 minuti di camera di consiglio, hanno respinto l’istanza di Fittipaldi, che aveva chiesto la nullità, e quella di monsignor Vallejo Balda, che aveva chiesto, invece, più tempo per la difesa. Dal 30 novembre prossimo ci saranno le udienze del processo tutti i giorni, sia di mattina che di pomeriggio se sarà necessario. Il procuratore di giustizia aggiunto, Roberto Zannotti, ha sottolineato che “processo non viene messa in discussione la libertà di stampa, ma il modo in cui sono stati acquisiti i documenti con una condotta illecita e con pressioni su monsignor Vallejo Balda”. Alla prima udienza erano presenti tutti i cinque imputati: monsignor Vallejo Balda, Chaouqui e Maio accusati di aver formato “un sodalizio criminale organizzato allo scopo di commettere più delitti di divulgazione di notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato”; Fittipaldi e Nuzzi, accusati, insieme con gli altri tre imputati, di essersi “illegittimamente procurati” e successivamente di aver “rivelato notizie e documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede e dello Stato”. Ai cinque imputati sono stati affidati avvocati d’ufficio iscritti presso il Tribunale vaticano: Emanuela Bellardini per monsignor Vallejo Balda, Agnese Camilli per la Chaouqui, Rita Claudia Baffioni per Maio, Lucia Musso per Fittipaldi e Roberto Palombini per Nuzzi. Questi ultimi, inizialmente d’ufficio, sono stati scelti dai due giornalisti come avvocati personali. Monsignor Vallejo Balda e Nuzzi hanno, però, chiesto di essere assistiti anche da altri avvocati e la decisone sarà presa nei prossimi giorni dal presidente della Corte d’Appello.
Vatileaks, Ferrara offende Nuzzi e Fittipaldi: “Due smerdatori professionali”, scrive “Il Fatto Quotidiano” il 5 novembre 2015. “Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi? Li considero degli smerdatori professionali, quindi non li stimo. Nuzzi parla di stronzate, su”. Sono le parole dell’ex direttore de Il Foglio, Giuliano Ferrara, a proposito dei libri di Nuzzi e Fittipaldi, “Via Crucis” e “Avarizia”, sugli scandali e sui segreti del Vaticano. Ospite de La Zanzara, su Radio24, il giornalista spiega: “Non credo affatto che sia vero quello che dicono Nuzzi e Fittipaldi sull’attico di Bertone da 500 mq. Non ci credo. Secondo me sono case più piccole, e quando sono più grandi, ci saranno pure il segretario e la perpetua. Sono anche Cardinali, cioè principi della Chiesa. Lavorano per i poveri, ma non sono poveri, non devono essere poveri”. E aggiunge: “Sapete cosa diceva Antonello Trombadori quando gli operai comunisti protestavano perché Togliatti aveva una bella casa di 500 mq a Montesacro? Diceva: “Compagni, ma che Togliatti è della classe operaia? Lui è un tesoro e un tesoro lo tieni in uno scrigno”. Non sono, insomma, questi i problemi della Chiesa, quelli che i giornalisti pettegoli “dagospieschi” scrivono nei loro libri per fare quattrini e per farsi loro, sì, degli appartamenti da 500 metri quadrati”. Ferrara rincara: “Nuzzi e Fittipaldi vorrebbero fare l’opera di pulizia in aiuto della Santa Chiesa povera. Ma ci credete voi? Per me la Chiesa è una cosa importante e non va rovistata come se fosse una pattumiera. La pulizia deve farla Bergoglio coi suoi strumenti. Il mestiere di giornalisti non è origliare o procacciarsi carte, cartuccelle o parlare solo di pettegolezzi e di stronzate. Roberto D’Agostino?” – continua – “Non voglio commentarlo. Fa un mestiere diverso da quello del giornalismo, molto carino e simpatico, ma se commento D’Agostino devo commentare anche la Chaouqui e non voglio. Ma cosa vuoi commentare della Chaouqui? Sant’Agostino diceva: “Taceat mulier in ecclesia”. Le donne fuori dai coglioni della Chiesa! Non devono entrare nella Chiesa le donne! Solo maschi e suore brave che fanno le iniezioni”. L’ex direttore de Il Foglio spiega cosa sta succedendo nel Vaticano e puntualizza: “Bergoglio ha fatto male a chiamare la Chaouqui: è pazzesco che ci sia una pierre al vertice di una segreteria vaticana. Bergoglio è un fantasista rivoluzionario e ha detto: “La Curia è una lebbra”. E poi ha detto di girare come poveri e indossare la scarpe “Mefisto”, che sono quelle che porto io. Naturalmente sono nati casini. E’ normale che in una Chiesa travolta da un fenomeno bestiale come Bergoglio, bestiale anche in senso positivo, esplodano cose di questo genere”. Poi contesta i titoli dei giornali sull’attico del Cardinale Bertone: “Sono ridicoli e grotteschi. Ma poi ‘sti giornalisti che dicono che un cardinale viaggia in classe business. Embe’? Un cardinale viaggia in classe economica? La Chiesa è un’istituzione e le istituzioni costano. I preti pedofili? Aridaje coi pedofili. Sono finiti, quelli servivano a far dimettere Ratzinger. Ora nessuno fa più inchieste su di loro”. Ferrara si pronuncia anche sull’annunciato sodalizio tra Berlusconi e il leader della Lega (“E’ assurdo. Io a Salvini lo prenderei a calci nel sedere e Berlusconi è il capo di Salvini, non può andare ai suoi comizi”). E circa la possibilità che Roma sia governata dal M5S, commenta: “E vabbe’, pazienza, chi se ne frega, così tutti vedono cosa sono capaci di fare i grillozzi”
Da "La Zanzara" - radio24.it. “Nuzzi e Fittipaldi? Sono smerdatori professionali di cui non ho stima. Roba da servizi segreti, da Chaouqui, che poi le due cose non sono così diverse. Al servizio di una cordata di cardinali. Sono giornalisti pettegoli dagospieschi che scrivono libri solo per fare quattrini e comprarsi loro appartamenti da 500 metri quadri. Altro che salvare la Chiesa e aiutare Bergoglio”. Lo dice Giuliano Ferrara a La Zanzara su Radio 24 parlando del nuovo scandalo Vatileaks. “Ma credete per davvero – dice Ferrara – che questi vogliono fare pulizia nella Chiesa? Ma chi ci crede? Nella Chiesa non si rovista come dentro una pattumiera, la pulizia la fa Bergoglio con i suoi strumenti. Sono al servizio di una cordata di cardinali contro un’altra, e poi fanno pure i pasdaran di Bergoglio, Questi giornalisti non fanno il loro mestiere, loro origliano, comprano o procacciano carte e cartuccelle e parlano solo di pettegolezzi e stronzate. Lo fanno per guadagnare soldi, per carriera, fama, gloria e infatti sono diventati delle star televisive”. Continua Ferrara: “La Chaouqui? Sant’Agostino diceva “taceat mulier in ecclesia”, le donne fuori dai coglioni, non devono entrare nella Chiesa le donne, la Chiesa è dei maschi e poi delle suore, brave, che fanno le iniezioni. Bergoglio ha fatto male a chiamarla in Vaticano, è stato un errore, anche lui può sbagliare. E’ pazzesco che ci sia una pr al vertice delle finanze vaticane, una che per mestiere spaccia carte dubbie in giro, perché deve rifare la faccia delle istituzioni di cui si occupa”. “E poi – dice ancora Ferrara – io non credo che sia vero quello che scrivono sulle case dei cardinali e di Bertone. Sono case più piccole e se sono più grandi ci stanno anche il segretario, la perpetua, e poi sono cardinali, non sono mica Ferrara o Cruciani. Sono principi della Chiesa, lavorano per i poveri ma non devono essere poveri. Trombadori diceva agli operai comunisti quando protestavano perché Togliatti aveva una bella casa a Montesacro di 500 metri quadri “compagno, ma che è Togliatti per la classe operaia? Un tesoro e un tesoro lo tieni in uno scrigno”. Bisogna avere un po’ di faccia tosta, Non sono questi i problemi della Chiesa. Poi ho letto che la ristrutturazione dell’appartamento di Bertone è costato 200 mila euro. E allora? Mi sembra una cifra giusta. Rimproverano a Pell di aver viaggiato in business in aereo. Ma un cardinale dove deve viaggiare, in economica? La Chiesa è un’istituzione e le istituzioni costano come i partiti politici. I cardinali devono viaggiare se necessario in business, per riservatezza e sicurezza”. E allora che sta succedendo? “Sta succedendo che Bergoglio è un fantasista rivoluzionario il quale ha detto la curia è una lebbra, e poi ha detto che bisogna essere poveri e girare con le scarpe Mephisto, che sono quelle che indosso anch’io. Appena ha pronunciato la parola lebbra naturalmente sono nati i casini. Si sono scatenati i pasdaran, come nella rivoluzione khomeinista, i quali passano le carte per fare carriera contro altri cardinali, per gloria, per tante cose, e lo fanno per colpire qualcuno. Non dico che non bisogna fare pulizia ma non in questo modo, questo serve solo per mettere cardinali uno contro l’altro”. Hanno fatto bene ad arrestare la Chaouqui e monsignor Balda, sopsettati di essere i ‘corvi’?: “Certo, hanno fatto benissimo. Hanno rubato delle carte e devono indagare. Nuzzi parla di stronzate, è un cane da tartufo, fa solo questo nella vita”.
Che differenza c’è tra i due libri sul Vaticano. Affinità e divergenze tra "Via Crucis" di Gianluigi Nuzzi e "Avarizia" di Emiliano Fittipaldi, dei quali i giornali parlano da due settimane, scrive “Il Post” il 12 novembre 2015. Via Crucis di Gianluigi Nuzzi, pubblicato da Chiarelettere, e Avarizia di Emiliano Fittipaldi, pubblicato da Feltrinelli, sono usciti lo stesso giorno – il 5 novembre –, parlano della stessa cosa – scandali vaticani – e stanno vendendo molto, anche se Nuzzi è ancora in lieve vantaggio, ma ha avuto una prima tiratura molto più alta, mentre Feltrinelli inizialmente non si aspettava questi risultati. Anche gli scandali che i due libri raccontano si devono, in gran parte, alla stessa fonte: i documenti stilati dalla Cosea, la Commissione referente sulle attività economiche vaticane istituita da papa Bergoglio il 18 luglio 2013 e sciolta il 22 maggio 2014, a fine mandato. Della commissione facevano parte 8 membri tra cui monsignor Lucio Angel Vallejo Balda, in qualità di segretario, e Francesca Immacolata Chaouqui, che sono le due persone arrestate dalla Gendameria vaticana lo scorso 2 novembre con l’accusa, appunto, di avere diffuso documenti riservati. Il clamore suscitato dai due arresti è sicuramente stato un moltiplicatore per il lancio dei libri. Da mercoledì 11 novembre anche Nuzzi e Fittipaldi sono indagati in Vaticano per la fuga di notizie e documenti riservati. Avarizia e Via Crucis sono, dunque, molto simili ed è facile confonderli. La prima differenza, da cui ne deriva più una grande, di pubblico, è rappresentata dai due autori: Gianluigi Nuzzi lavora a Libero e conduce Quartogrado su Rete4, quindi si rivolge a un pubblico politicamente orientato a destra; Emiliano Fittipaldi, invece, lavora all’Espresso, che fa parte del Gruppo della Repubblica, e quindi ha lettori più di sinistra. Insieme, i due libri raggiungono tutti quelli che in Italia, indipendentemente dal loro orientamento politico, sono interessati al tema degli scandali della Chiesa. Un’altra differenza, che ha conseguenze sul modo di promuovere i libri, è che Nuzzi è molto conosciuto: Via Crucis è il suo quinto libro, il quarto sul Vaticano. Fittipaldi, invece, non è un giornalista famoso: Avarizia è il suo secondo libro, e il primo – Così ci uccidono, Rizzoli, 2011 – parlava di scandali ambientali (Fittipaldi ha anche cofirmato un libro insieme a Dario Di Vico del Corriere della sera). Sul piano dei contenuti, le differenze sono più di forma che di sostanza: il libro di Nuzzi ha uno stile più analitico e dichiara esplicitamente di non basarsi solo su documenti inediti, ma di avere l’ambizione di spiegare il rapporto tra Chiesa e soldi, e le pratiche vaticane nel gestire il potere e le finanze; mentre quello di Fittipaldi – a parte un prologo molto narrativo, quasi alla Dan Brown – è un’inchiesta pura che dichiara di basarsi interamente su documenti e infatti contiene molte pagine di documenti fotografati. La differenza di notorietà si riflette sulle fascette, entrambe piuttosto piene di parole, che adottano toni scandalistici, ma di intensità diversa. Quella di Chiarelettere è giallina con la foto dell’autore perché punta sui successi precedenti e sulla fama di Nuzzi: «Dopo i bestseller internazionali Vaticano S.p.A. e Sua Santità la nuova sconvolgente inchiesta di Gianluigi Nuzzi». Quella di Feltrinelli è rossa e dice: «Il libro che fa tremare il Vaticano. 5 edizioni in 3 giorni». (È appena da notare che il numero di tirature, diminuendo i costi di stampa, non è più un indicatore del tutto attendibile del numero di copie messe in commercio). Anche le copertine hanno una differenza di sobrietà: quella di Nuzzi, come tutte quelle di Chiarelettere, non ha immagini, mentre quella di Avarizia è la foto di un cardinale con le mani intrecciate dietro la schiena e un braccialetto d’oro tempestato di gemme che sbuca da sotto la tonaca. Sono apparentemente simili, ma in realtà di significato opposto titoli e sottotitoli. Via crucis rimanda alla sofferenza di qualcuno, forse di Cristo, ma forse anche del papa, e infatti il sottotitolo dice: «Da registrazioni e documenti inediti la difficile lotta di Papa Francesco per cambiare la Chiesa». Avarizia, invece, è un’accusa, e il sottotitolo è coerente: «Le carte che svelano ricchezza, scandali e segreti della chiesa di Francesco», è il sottotitolo di Fittipaldi. La differenza, non lieve, è che Nuzzi riconosce al papa di lottare per cambiare le cose, mentre Fittipaldi dice esplicitamente che la chiesa corrotta è quella di Francesco, benché i documenti citati si debbano a una Commissione istituita proprio dal papa per capire che situazione ereditava. I prezzi sono uguali, 18 euro, mentre variano numero di pagine e peso. Via Crucis di Nuzzi ha 321 pagine e pesa – secondo Amazon – 381 grammi (cioè costa 4 centesimi al grammo). Avarizia di Fittipaldi di pagine ne ha 224, ma pesa 358 grammi (quindi costa 5 centesimi al grammo – più di Via Crucis – ma è di carta migliore). Domenica 8 novembre, all’Angelus, Bergoglio ha parlato indirettamente dello scandalo. Queste sono state le sue parole: «So che molti di voi sono stati turbati dalle notizie circolate nei giorni scorsi a proposito di documenti riservati della Santa Sede che sono stati sottratti e pubblicati. Per questo vorrei dirvi anzitutto che rubare quei documenti è un reato. È un atto deplorevole che non aiuta. Io stesso avevo chiesto di fare quello studio, e quei documenti io e i miei collaboratori già li conoscevamo bene, e sono state prese delle misure che hanno incominciato a dare dei frutti, anche alcuni visibili. Perciò voglio assicurarvi che questo triste fatto non mi distoglie certamente dal lavoro di riforma che stiamo portando avanti con i miei collaboratori e con il sostegno di tutti voi. Quindi vi ringrazio e vi chiedo di continuare a pregare per il Papa e per la Chiesa, senza lasciarvi turbare ma andando avanti con fiducia e speranza». Mettere in piazza, con libri e giornali, gli affari interni vaticani è reato, come ha dichiarato urbi et orbi Francesco I. Dunque Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi (autori rispettivamente d'Avarizia e di Via Crucis, il primo pubblicato da Feltrinelli, il secondo da Chiarelettere) sono sospettati di ricettazione. Ben conoscendone la provenienza furtiva, Fittipaldi e Nuzzi avrebbero acquisito e diffuso, secondo la magistratura vaticana, documenti riservati.
Intanto i due giornalisti incassano la solidarietà dell’Ordine (gli «iscritti attenendosi alla verità sostanziale dei fatti devono dare notizie e non essere custodi dei segreti») e della Federazione della stampa («I bavagli e le censure non ci piacciono. Vanno combattuti a tutte le latitudini»). La rappresentante dell'Osce per la libertà dei media, Dunja Mijatovic ha ricordato che «I giornalisti devono essere liberi di riferire su questioni di interesse pubblico e di proteggere le loro fonti confidenziali» invitando «le autorità a non procedere con le accuse e proteggere i diritti dei giornalisti». In questo senso la notizia del loro processo è stata pubblicata da vari organi di informazione con svariati canali. Il senso degli articoli, però, è stato di travisare i fatti. La gogna mediatica da parte dei giornalisti non è stato il nome degli imputati, loro colleghi, bensì lo Stato del Vaticano per la violazione del diritto di Cronaca. (Istituto giuridico italiano). I sinistroidi della stampa non si smentiscono mai. Giustizialisti quando sono i poveri cristi vittime della cronaca, innocentisti quando riguarda le colpe degli scribacchini. Nessuno si è mai scandalizzato degli strali in tv del Nuzzi a danno di Avetrana nel caso di Sarah Scazzi o degli altri protagonisti della cronaca.
Nuzzi e Fittipaldi? Solo i dilettanti pubblicano notizie vecchie senza verificarle, scrive “Uccr” il 10 novembre 2015. Molti si domandano perché diversi esponenti cattolici si stiano concentrando più sulla pubblicazione dei due recenti libri sulle finanze del Vaticano, “Via Crucis” e “Avarizia” di Gianluigi Nuzzi e Emiliano Fittipaldi, piuttosto che occuparsi dei contenuti dei libri e dei documenti da loro pubblicati. E’ molto semplice: le informazioni che riportano i due giornalisti non sono affatto “segrete” ma sono dati che furono raccolti parecchio tempo fa dalla Commissione referente Cosea, istituita da Papa Francesco nel 2013 per avviare una riforma della Curia romana, commissione che oggi non esiste più. Sono documenti vecchi che la Cosea ha preparato ed esposto al Papa e verso i quali sono stati presi già parecchi provvedimenti: «un’indagine che non era stata fatta per essere pubblica, ma per permettere al Papa e ai suoi collaboratori di agire con cognizione di causa. I documenti pubblicati rappresentano la situazione all’inizio del pontificato di Francesco», ha spiegato il vaticanista Andrea Tornielli. Inoltre, diverse accuse di Nuzzi e Fittipaldi sono già note da tempo e oggetto di inchieste del passato da parte di altri giornalisti (come Claudio Rendina), altre sono vere e proprie bufale. Non c’è alcuno scoop, i due giornalisti sono stati usati come burattini dai “corvi” che hanno loro passato documenti datati e notizie vecchie e/o false per chissà quale losco loro progetto. I due hanno preso e pubblicato: lo avrebbe saputo fare chiunque. “Diritto di informare”, si difendono i due giornalisti, ma che informazione è omettere che si tratta di informazioni parziali (usate invece come fossero il “tutto”), presentate come attuali mentre sono datate e, in parte, già note, e verso le quali c’è stata un’azione di correzione da parte dei collaboratori del Papa? A dirlo è stato proprio Papa Francesco, che ha prontamente reagito e smontato lo scoop di Nuzzi-Fittipaldi: «so che molti di voi sono stati turbati dalle notizie circolate nei giorni scorsi a proposito di documenti riservati della Santa Sede che sono stati sottratti e pubblicati», ha detto all’Angelus di domenica scorsa. «Per questo vorrei dirvi anzitutto che rubare quei documenti è un reato. E’ un atto deplorevole che non aiuta. Io stesso avevo chiesto di fare quello studio, e quei documenti io e i miei collaboratori già li conoscevamo bene, e sono state prese delle misure che hanno incominciato a dare dei frutti, anche alcuni visibili. Perciò voglio assicurarvi che questo triste fatto non mi distoglie certamente dal lavoro di riforma che stiamo portando avanti con i miei collaboratori e con il sostegno di tutti voi. Quindi vi ringrazio e vi chiedo di continuare a pregare per il Papa e per la Chiesa, senza lasciarvi turbare ma andando avanti con fiducia e speranza». Sintetizzando: 1) rubare documenti è un reato e dunque pubblicarli è complicità di un reato (ricettazione, per la precisione); 2) Sono stati proprio Francesco e i suoi collaboratori a far emergere quei documenti tempo fa, ai quali è stato risposto con misure adeguate; 3) I “corvi” hanno fallito se pensavano di ostacolare il Papa o creare divisioni interne. Anche padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, è intervenuto, entrando molto nel dettaglio: «Il Papa sa benissimo cosa fare. Sa quale è la sua missione, ed è surreale che si affermi di volerlo aiutare in questo modo», come invece hanno detto Nuzzi e Fittipaldi, i quali hanno pubblicato «informazioni raccolte alla rinfusa», in parte «già note» e anche vecchie, senza «la necessaria possibilità di approfondimento e di valutazione obiettiva, tanto che spesso sono possibili letture diverse a partire dagli stessi dati». Inoltre, le «informazioni pubblicate nei libri sono legate a una fase di lavoro ormai superata, le quali non sono state ottenute in origine contro la volontà del Papa o dei responsabili delle diverse istituzioni ma con la collaborazione» di chi ricopre incarichi di vertice per «concorrere allo scopo positivo» di conoscere e poi decidere. E proprio grazie alle raccomandazioni di Cosea sono state assunte «decisioni e iniziative che sono tuttora in corso di attuazione. Ne sono la dimostrazione la riorganizzazione dei dicasteri economici, la nomina del revisore generale, il funzionamento regolare delle istituzioni competenti per il controllo delle attività economiche e finanziarie» che, sottolinea il portavoce vaticano, sono «una realtà incontrovertibile». In particolare, ha spiegato, i beni immobili del Vaticano, «presi nel loro complesso si presentano come ingenti, ma sono in realtà finalizzati a sostenere nel tempo attività di servizio vastissime gestite dalla Santa Sede o istituzioni connesse, sia a Roma, sia nelle diverse parti del mondo», spiega padre Lombardi. «Le origini delle proprietà di questi beni sono varie e vi sono a disposizione da tempo anche strumenti adatti per conoscerne la storia e gli sviluppi». Ad esempio, è bene informarsi sugli accordi economici fra Italia e Santa Sede nel contesto dei Patti Lateranensi. Altra questione travisata nei libri riguarda l’Obolo di San Pietro, ossia i fondi raccolti nel mondo per la carità del Papa. «È necessario osservare che i suoi impieghi sono vari, anche a seconda delle situazioni, a giudizio del Santo Padre a cui l’Obolo viene dato con fiducia dai fedeli. Le opere di carità del Papa per i poveri sono certamente una delle finalità essenziali, ma non è intenzione dei fedeli escludere che il Papa possa valutare le urgenze e il modo di rispondervi alla luce del suo servizio per il bene della Chiesa universale. Il servizio del Papa comprende anche la Curia Romana – in quanto strumento di servizio–, le sue iniziative fuori della diocesi di Roma, la comunicazione del suo magistero per i fedeli nelle diverse parti del mondo anche povere e lontane, l’appoggio alle 180 rappresentanze diplomatiche pontificie sparse nel mondo che servono le Chiese locali e intervengono come gli agenti principali per distribuire la carità del Papa nei diversi Paesi, oltre che come rappresentanti del Papa presso i governi locali». Un ulteriore esempio di errata interpretazione dei documenti è quello sul Fondo pensioni vaticano. Nel tempo, ricorda il portavoce della Santa Sede, sono state espresse «valutazioni molto diverse, da quelle che parlano con preoccupazione di un grande “buco” a quelle che forniscono una lettura rassicurante, come risultava nei comunicati ufficiali» della Sala Stampa vaticana. Certo non è tutto diventato perfetto, tuttavia occorre distinguere «dove si trovino inconvenienti da correggere o vere scorrettezze da eliminare». Sicuramente le campagne di stampa orchestrate in questi giorni non rendono «ragione del coraggio e dell’impegno con cui il Papa e i suoi collaboratori hanno affrontato e continuano ad affrontare la sfida di un miglioramento dell’uso dei beni temporali a servizio di quelli spirituali». Tante le notizie false riportate da Nuzzi e Fittipladi, già smentite dai diretti interessati, come le le accuse a mons. Sciacca e le accuse a mons. Camaldi. Rispetto all’appartamento del card. Bertone, notizia vecchia di anni, lui ha spiegato -e nessuno lo vuole tenerne in considerazione- che gli è stato «assegnato d’accordo con Papa Francesco e per la ristrutturazione ho sostenuto io le spese: 300 mila euro per un appartamento che non è di mia proprietà e resterà al Governatorato». Rispetto ai soldi che avrebbe versato anche la Fondazione Bambin Gesù sostiene di non sapere nulla e «ho dato istruzioni al mio avvocato, Michele Gentiloni Silveri, di svolgere indagini per verificare cosa sia realmente accaduto». L’ex presidente della Fondazione Bambin Gesù, Giuseppe Profiti, ha chiarito: «Io non ho ricevuto nessun ordine dal cardinal Bertone, l’investimento era proprio una delle azioni del piano di marketing che vedeva come obiettivo questo investimento finalizzato alla raccolta fondi delle grandi aziende nazionali e delle grandi multinazionali estere. Soggetti nei confronti dei quali il brand Vaticano, la location vaticana, la possibilità di essere ospitati in eventi che descrivono l’attività dell’ospedale presso il Vaticano esercita un fascino straordinario e una sensibilità straordinaria, come dimostrano i dati nel donare all’ospedale. Certo che lo rifarei, solo per dare un’indicazione: nel 2013 gli eventi per la Fondazione che hanno visto la partecipazione del Segretario di Stato hanno determinato, nell’anno successivo, un incremento della raccolta fondi di oltre il 70%. Siamo passati da poco più di 3 milioni a oltre 5 milioni all’anno. Certo che lo rifarei, con questi risultati». E ha precisato: «Neanche un euro dei fondi raccolti per i bambini è stato impiegato in questa operazione, che è un investimento». Per quanto riguarda i 300 metri quadri della sua casa, il card. Bertone ha spiegato: «Abito con una comunità di tre suore che mi aiutano, c’è anche una segretaria che il Santo Padre mi ha concesso per scrivere la memoria di tre Papi, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. C’è la biblioteca, l’archivio, le camere per tutti». Mentre per il terrazzo con vista su San Pietro afferma: «Non esiste nessun attico. Io abito al terzo piano e il terrazzo non è mio, è stato risanato durante i lavori ma è quello condominiale, in cima al palazzo. E’ di tutti gli inquilini, cardinali e arcivescovi, che ci vivono». Anche il card. George Pell, citato in alcuni passaggi dei libri di Nuzzi e Fittipaldi per presunte “spese pazze”, ha definito «false e fuorvianti» le affermazioni che in quei volumi lo riguardano. Tanto che la Segreteria per l’Economia, di cui è presidente, ha completato l’anno ben al di sotto del suo bilancio 2014 ed è stato uno dei pochi enti a proporre una riduzione della spesa complessiva nella sua richiesta di budget 2015. Così come ha giustificato nel dettaglio le spese che ha dovuto sostenere nel 2014. Reale invece la questione della Congregazione di Propaganda Fide (Apsa), dove effettivamente permane una insopportabile gestione di favoritismi a politici, imprenditori e vip, vicenda tuttavia già nota da anni e non certo scoperta dai corvi e dai loro giornalisti di fiducia. Anche per questa situazione sta prendendo provvedimenti la riforma della Curia intrapresa da Papa Francesco e collaboratori. Nessuno obbliga a ritenere questi chiarimenti e smentite una verità assoluta, ma un giornalista serio le avrebbe almeno dovute tenere in considerazione. Bastava informarsi dai diretti interessati. La malafede di Gianluigi Nuzzi, invece, l’ha rivelata lui stesso quando ha raccontato di essere stato contattato da funzionari dello IOR prima della pubblicazione del suo libro, i quali si offrirono per dare dei chiarimenti in merito. Eppure il giornalista ha detto: «Mi ha sorpreso il fatto che lo sapessero ma, naturalmente, ho declinato il loro cortese invito». Naturalmente, dunque, ha rifiutato i chiarimenti che avrebbero rischiato di rovinare la sua operazione di marketing anticlericale (poco importa che affermi di mandare i figli in una scuola cattolica). Il tutto confermato dal fatto per “pulire” la sua azione ha cercato di avere al suo fianco don Maurizio Patriciello - un sacerdote giustamente ben voluto dai media per il suo impegno contro la camorra- durante la presentazione della sua “inchiesta” alla stampa internazionale, senza però voler far leggere al “testimonial” il libro, offrendosi di raccontarglielo a voce: «Gianluigi, ma che dici? Tu che sei uno scrittore non sai che un libro si legge e non si spiega?», gli ha risposto il sacerdote. Nuzzi è così sparito e don Patriciello, annusata la polpetta avvelenata, ha denunciato il fatto su “Avvenire”: «Sono rimasto con la sensazione che volesse tirarmi un tiro mancino. Da questi strani modi di fare, naturalmente, sono distante mille miglia. Forse Nuzzi non poteva immaginarlo». Il vero problema di questa vicenda non sono i due giornalisti e i contenuti dei loro libri, ma il fatto che qualcuno in Vaticano abbia rubato queste informazioni e le usi pensando di intralciare il Pontefice. Come ha scritto Alberto Melloni: «Se c’era un disegno di organizzata ostilità contro papa Francesco, questa non si è manifestata nei miserabili reati commessi da ladri travestiti da moralizzatori in concorso con millantatori e tipografi compiacenti. Ma nel tentativo di usare questi ed altri episodi per dipingere» un Papa isolato e impotente. Inoltre, tutto questo non significa affatto chiudere gli occhi sulla mala gestione, a volte illecita, delle finanze che alcuni ambienti della Curia romana hanno praticato per anni. Si spera che non accada più, come promesso da Papa Francesco (anche se la corruzione umana è inestinguibile e la Chiesa è fatta da uomini) e che il Vaticano, lo Stato che ospita la Santa Sede, possa finalmente diventare un punto di riferimento per l’onestà e la trasparenza. Tuttavia, non sono queste le inchieste giornalistiche che servono, Nuzzi e Fittipaldi sembrano più due giornalisti dilettanti che ricevono documenti rubati e vecchie notizie e le pubblicano senza una minima verifica, senza informarsi del fatto che il Papa già conosceva tutto e aveva già preso provvedimenti. Non sembra proprio amore al giornalismo, come affermato Nuzzi, ma semmai si spacciano come moralizzatori della Chiesa nel puro nome dell’avarizia (preparando per un anno un’operazione di marketing internazionale), respingendo i chiarimenti di coloro che accusano e tentando di tirare dalla loro parte persone ben viste mediaticamente per “pulire” la loro operazione. E’ il modus operandi della propaganda anticlericale, altro che “vogliamo aiutare il Papa!”. «E’ un atto deplorevole che non aiuta», ha risposto Papa Francesco.
Così Funzionava la macchina del fango. Vittorio Feltri ricostruisce il caso Boffo. Bertone, Sallusti, Santanchè. E Bisignani. Ecco i protagonisti del falso scoop che fece saltare il direttore di “Avvenire”. E che Feltri conferma ai pm di Napoli e a “l’Espresso”. A passare le carte al quotidiano di Berlusconi furono la “pitonessa” e il faccendiere, legati anche in affari, scrive Emiliano Fittipaldi e Nello Trocchia il 03 luglio 2014 su “L’Espresso”. «Bertone, Bisignani, Santanchè... Fu Alessandro Sallusti a dirmi che la fonte della velina su Dino Boffo era il cardinale Tarcisio Bertone, che l’aveva data a Luigi Bisignani e Daniela Santanchè. Poi era arrivata a Sallusti. È questo quello che ho raccontato ai magistrati. Davanti ai pm si deve dire la verità». Vittorio Feltri non ci pensa un secondo a rispondere alla domanda e in un’intervista esclusiva conferma a “l’Espresso” quello che lui stesso confidò due anni fa a un giudice della procura di Napoli, quando raccontò per la prima volta l’origine del finto scoop che costrinse l’allora direttore di “Avvenire” alle dimissioni. Nessuno prima di oggi sapeva che nel 2012, in effetti, il pm Gianfranco Scarfò in forza alla procura partenopea chiamò Feltri in gran segreto nei suoi uffici sotto il Vesuvio, per interrogarlo come persona informata sui fatti. Il magistrato stava cercando di capire chi era entrato nel casellario giudiziario per cercare informazioni su Boffo, e chiese così al giornalista quale fosse la genesi della notizia infamante pubblicata il 28 agosto 2009 sulla prima pagina de “Il Giornale”, nella quale il direttore del quotidiano cattolico veniva descritto come “noto omosessuale attenzionato dalla polizia”. «Dissi al pm che la catena era Santanchè, Bisignani, Bertone... è quello che mi fu detto da Sallusti, quando lui era condirettore», ricorda Feltri. «Dopo, non so se fosse vero... Io ero il direttore, e mi sono fidato senza pormi tanti problemi. Mi sembrava che fosse assolutamente credibile. Però io non so se posso dirvi queste cose, il magistrato mi chiese di non raccontarle a nessuno... Anche se dopo tanto tempo, forse, si possono dire». A cinque anni di distanza dalla pubblicazione della velina che distrusse la carriera di Boffo e annichilì quella parte della Chiesa avversa alla morale libertina dell’allora premier Silvio Berlusconi, “l’Espresso” è così in grado di ricostruire la vicenda, indicando per nomi e cognomi presunti mandanti, complici e esecutori materiali dell’assassinio mediatico di Dino Boffo. A fine agosto 2009 "Il Giornale" pubblicò spezzoni di due documenti. Uno, autentico, riguardava una faccenda già raccontata in passato da "Panorama": «il supermoralizzatore Boffo» nel 2004 era stato infatti querelato da una giovane ragazza di Terni per molestie telefoniche, una vicenda che si concluse con una multa da 516 euro e un decreto penale di condanna. Il secondo documento pubblicato da Feltri era invece una velina anonima, mai allegata agli atti del Tribunale di Terni, in cui Boffo viene indicato, appunto, come un omosessuale «attenzionato dalle forze dell’ordine». “Il Giornale” la definisce un’informativa di polizia, e azzarda una tesi: Boffo avrebbe avuto una relazione non con la giovane Anna, ma con il suo fidanzato. La lettera è un falso totale. «C’era una fotocopia dove si raccontavano certi fatti, io ho dato un’occhiata», ammette Feltri a “l’Espresso”. «Quando ho saputo che la fonte era quella ovviamente mi sono fidato. Poi non lo so... visto quello che è successo facevo bene a non fidarmi. È facile dirlo dopo, ma quando il tuo condirettore ti viene a dire una cosa del genere, non è che metti in dubbio la sua parola. Nel pomeriggio mi hanno detto che era tutto tranquillo, tutto normale. Io ho dato il via alle pubblicazioni senza la minima preoccupazione. Ho detto al magistrato che Sallusti mi disse che l’origine di quella velina era Bertone. Non potevo fregarmene di questa roba, mi ha detto che la fonte, la provenienza era quella. Mi sono fidato». Oltre a Bertone, Feltri (che al “Foglio” spiegò che la velina gli era arrivata «da una personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente») ha dichiarato al magistrato che Sallusti gli fece anche i nomi del faccendiere Luigi Bisignani, da poco condannato per associazione a delinquere per l'inchiesta P4, e Daniela Santanchè, che sarebbero stati una sorta di “passacarte” per conto del prelato. Una volta davanti al magistrato l’attuale direttore de “Il Giornale” ha negato in toto la versione del suo vecchio maestro. Il pm Scarfò non ha mai depositato le testimonianze, né quella di Feltri ne quella di Sallusti. L’inchiesta ha finora portato alla sbarra solo un cancelliere del palazzo di giustizia di Santa Maria Capua Vetere, Francesco Izzo, accusato di accesso abusivo al sistema informatico: è lui l’uomo che - secondo il magistrato - a marzo 2009 consultò indebitamente il casellario per estrarre i precedenti penali di Boffo. Dopo due anni, il processo è alle fasi finali, in attesa della requisitoria del pm. Sarà probabilmente l'unico a pagare. A parte Feltri, sospeso dall'Ordine per tre mesi. «Ho pagato io solo come sempre succede» chiude Feltri. «C’è quel cretino del direttore che ci va di mezzo. È normale... Ho sbagliato a fidarmi, evidentemente. Ma talvolta capita, nella vita, di fidarsi».
Don Livio Fanzaga: "Quei giornalisti io li impiccherei", scrive “Libero Quotidiano” il 6 novembre 2015. "Gli autori di questi libri, le case editrici, diventeranno milionari. Poi vengono a far le prediche, dite che l'avete fatto per guadagnare! Voglio semplicemente dire che l'avete fatto per guadagnare! Voglio semplicemente dire, a chi ha venduto i documenti, a chi li ha comprati...dico loro che Giuda dopo aver concluso l'affare andò a impiccarsi. Andò a cercare l'albero dove si impiccò. Mi dispiace per lui, per tutti i suoi…diciamo i suoi discendenti, a cui auguro di pentirsi. Quello che mi scandalizza sono i Giuda di ieri e di oggi". Sono durissime le parole del direttore di Radio Maria, Don Livio Fanzaga, per i libri bomba "Avarizia" e "via Crucis" di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi che hanno sconvolto il Vaticano. "Giornalisti cattolici che dicono delle cattiverie….che hanno la lingua biforcuta, la penna biforcuta. È una cosa che mi fa rimettere…Mi fa nausea, mi fanno stomacare. E devo fare fatica a pregare per loro, perché io li impiccherei quasi quasi…". Il suo intervento si conclude poi con parole meno dure e un più misericordioso "Ti fan sudare sangue, a leggerli. Ma siccome il papa ieri a parlato di perdono, per carità perdoniamoli".
Papa Francesco contro i libri sul Vaticano: "Rubare documenti è reato", scrive “Libero Quotidiano” l’8 novembre 2015. “Rubare quei documenti è stato un reato. È un atto deplorevole che non aiuta. Io stesso avevo chiesto di fare quello studio, e quei documenti io e i miei collaboratori già li conoscevamo bene”. Così Papa Francesco all’Angelus commenta la pubblicazioni dei libri di Emiliano Fittipaldi, Avarizia, e di Gianluigi Nuzzi, Via crucis, nei quali sono riportati documenti riservati di Bergoglio. “Cari fratelli e sorelle", ha esordito il Papa da San Pietro, riguardo la vicenda Vatileaks 2, "so che molti di voi sono stati turbati dalle notizie circolate nei giorni scorsi a proposito di documenti riservati della Santa Sede che sono stati sottratti e pubblicati. Questo triste fatto non mi distoglie certamente dal lavoro di riforma che stiamo portando avanti con i miei collaboratori e con il sostegno di tutti voi. Sì, con il sostegno di tutta la Chiesa, perché la Chiesa si rinnova con la preghiera e con la santità quotidiana di ogni battezzato. Perciò vi ringrazio e vi chiedo di continuare a pregare per il Papa e per la Chiesa, senza lasciarvi turbare ma andando avanti con fiducia e speranza”.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
E’ SEMPRE COLPA DEI GIORNALISTI FOTOCOPIA: GUFI E SOBILLATORI A PERDERE.
Luca Telese su “Libero Quotidiano” del 31 dicembre 2015: la disgrazia di chiamarsi Vespa. Ricapitolando: 5 anni fa Federico Vespa, 31enne giornalista con la sola colpa d'essere figlio di un più noto Vespa (mio rivale in tv, purtroppo), è l'unico che accetta di firmare il giornalino carcerario della cooperativa Idee. Da allora è volontario a Rebibbia. Due giorni fa finisce su Repubblica, inzaccherato da una pm che usa il cognome eccellente per condire la sua inchiesta. È additato come facilitatore dei rapporti di Totó Cuffaro. A Federico però non si contesta nulla, non è indagato (!), ha parlato con la moglie di Cuffaro per dirgli «Sta bene» (e il regolamento glielo consente). Prima di scriverne, bastava fare la cosa più semplice: chiamarlo. Chiunque entri in carcere è riempito di messaggi, come sa il comandante delle guardie - Massimo Cardilli - severo e perbene, che tutto controlla. Stefano scrive a Repubblica, spiega: giornalino, calcetto, attività ricreative. I due colleghi invece di scusarsi riportano un'impersonale frase della pm: «Si segnalano volontari che hanno operato a Rebibbia (in primis Federico Vespa) i quali si sono più volte adoperati per mettere in comunicazione Cuffaro con i suoi familiari e persone di sua fiducia». Come dire: noi non c'entriamo. Il che mi convince sempre più che un giorno di carcere farebbe bene a tutti. Ai magistrati, ma soprattutto ai colleghi.
L'Italia dei giornali fotocopia. Viaggio nella crisi di una professione. Di Alessandro Barbano. Con 4 interviste a Giuliano Ferrara, Paolo Gambescia, Ezio Mauro, Paolo Mieli. Il libro si propone di dimostrare che esiste una stretta correlazione tra la crisi di vendita dei quotidiani e la loro omologazione culturale. La quale a sua volta è il frutto del rapporto tra l'identità fragile del giornalismo e la forza delle nuove tecnologie. L'oggetto dell'indagine è la cultura dei giornalisti dei quotidiani italiani, analizzata nelle sue dinamiche relazionali e nelle sue espressioni concrete. La tesi sostenuta nel saggio è che l'avvento tecnologico degli ultimi cinque anni ha imposto nelle redazioni un ribaltamento dei fini della comunicazione. Con interviste a Giuliano Ferrara, Paolo Gambescia, Ezio Mauro, Paolo Mieli. Alessandro Barbano è caporedattore del Messaggero.
Il libro si propone di dimostrare che esiste una stretta correlazione tra la crisi di vendita dei quotidiani e la loro omologazione culturale. La quale a sua volta è il frutto del rapporto tra l'identità fragile del giornalismo e la forza delle nuove tecnologie. Il punto di vista da cui si svolge l'analisi è insieme interno ed esterno alla professione ed integra un sapere professionale con uno accademico: cioè utilizza la cassetta del mestiere propria del giornalista ma anche la cultura scientifica dello studioso. L'oggetto dell'indagine è la cultura dei giornalisti dei quotidiani italiani, analizzata nelle sue dinamiche relazionali e nelle sue espressioni concrete. La tesi sostenuta nel saggio è che l'avvento tecnologico degli ultimi cinque anni ha imposto nelle redazioni un ribaltamento dei fini della comunicazione: l'impiego massiccio di internet nei processi di formazione della notizia da strumento per esaltare le differenze è divenuto metodo di replicazione, più volte possibile, di un modello unico e indifferenziato. L'effetto di questo processo non risiede tanto nell'inattendibilità, o addirittura nella palese falsità della notizia, quanto nella perversa rincorsa emulativa che induce simultaneamente i giornali ad un processo di omologazione, indifferente rispetto ai contenuti. Alessandro Barbano è caporedattore del Messaggero. Già capocronista della Cronaca di Roma, attualmente è responsabile delle edizioni regionali. E' docente di Teorie e tecniche del linguaggio giornalistico presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell'Università di Campobasso. Nel 1997 ha pubblicato per gli editori Lupetti-Manni il libro Professionisti del dubbio.
“Sosteneva Hegel che «la lettura del giornale è la preghiera dell’uomo moderno». Può darsi che avesse ragione. […] Ma c’è preghiera e preghiera. C’è una preghiera che fa toccare e interpretare la realtà e una preghiera ripetitiva, ritualizzata, scontata, noiosa, priva quindi di aura e di credibilità. Questo secondo tipo di preghiera sembra prevalere in Italia. Come mai?”. (Franco Ferrarotti, prefazione a “L’Italia dei giornali fotocopia”).
La riflessione di Alessandro Barbano, caporedattore de “Il Messaggero”, prende il via da questo interrogativo triste e pessimista, ma di fondamentale attualità nella società moderna, quotidianamente immersa in un flusso continuo ed estenuante di messaggi e bombardata da un numero insostenibile di input difficili da interpretare. Il giornalista romano pubblica, per la collana “La società” della casa editrice Franco Angeli, “L’Italia dei giornali fotocopia”, un libro necessario per comprendere lo stato della stampa quotidiana in Italia. Un testo breve ma essenziale per capire, al di là di facili osservazione e scontate critiche, come funziona e dove è diretto il mondo dell’informazione nel nostro paese. L’autore, con uno stile semplice, diretto e lineare analizza, come un rigoroso anatomo-patologo, quell’enorme corpo, ormai privo di vita, rappresentato dal giornalismo italiano. Un corpo pesante, vecchio, che ha ormai perso la parola, che non ha più nulla di interessante da dire, che non fa altro che ripetere, in maniera sterile e acritica, la mole di notizie che arriva quotidianamente dalle principali agenzie stampa della penisola. “Viaggio nella crisi di una professione”: è questo il sottotitolo del libro, in grado di delineare in maniera precisa l’effettivo stato comatoso in cui versano i giornali, i giornalisti e, di conseguenza, i lettori dei quotidiani italiani. Una situazione imbarazzante e demoralizzante, senza dubbio, che Barbano cerca di esaminare adottando un efficace, particolare e doppio punto di vista: quello interno, derivante dall’esperienza ventennale all’interno di varie redazioni, e quello esterno, della persona qualunque che si ritrova, ogni mattina, ad acquistare il giornale, e desidererebbe ottenere, da quell’acquisto, soprattutto una contropartita di informazione, approfondimento e analisi critica della realtà, ma che è costretto, invece, a sorbirsi una inutile e vuota riproduzione delle stesse, identiche notizie su ciascuna delle maggiori testate nazionali. Questo è un dato di fatto, non ci sono dubbi. C’è ben poca differenza, ormai, nell’aprire un quotidiano o sfogliarne un altro. Certo, cambiano le firme, le tendenze politiche, alcuni modi di vedere la realtà, ma per il resto, per quello che riguarda la vera informazione, quella a 360 gradi sul mondo, che vada al di là del semplice dato, della dichiarazione eclatante, del gossip politico, c’è davvero poca differenza, e sembra di avere realmente a che fare con dei quotidiani fotocopiati. Ce ne possiamo accorgere benissimo da soli, ogni mattina, accendendo la televisione per osservare la rassegna stampa realizzata da uno qualsiasi dei giornalisti del telegiornale: il malcapitato di turno, celandosi dietro un tono della voce sicuro e volto ad attirare l’attenzione dello spettatore, in realtà non fa altro che ripetere tre o quattro titoli, per decine di volte, a partire dai quotidiani leader, il “Corriere della Sera” o “La Repubblica”, passando per i quotidiani regionali, fino ad arrivare ai giornali locali, che dovrebbero, in teoria, essere maggiormente radicati nel territorio e più vicini alle esigenze, ai bisogni e alle richieste dei cittadini. Nulla di tutto questo accade, purtroppo, e la lettura del giornale, consuetudine e normalità in molti paesi, diventa in Italia, giorno dopo giorno, un qualcosa di sempre più elitario e ristretto, quasi un rituale di nicchia, riservato a quei pochi che ancora sperano di trovare, tra le pagine di un quotidiano, un’offerta culturale interessante e formativa. Secondo un’autorevole associazione giornalistica mondiale che periodicamente fotografa le abitudini di lettura all’interno dei singoli paesi, l’Italia si trova al trentatreesimo posto nella classifica degli indici di lettura, dietro nazioni come la Slovenia, la Croazia, la Turchia, addirittura la Cina e la Malesia. E, ad uno sguardo più approfondito, ci si rende conto che, al confronto con gli altri stati europei, l’Italia risulta essere tremendamente indietro. Si legge poco, anzi pochissimo. Ed i giornali sembrano non essere in grado di coinvolgere e fidelizzare nuovi lettori. Ci provano, con gadget, allegati, libri a metà prezzo, ma non ci riescono. I giornali restano lì, letti da poche persone che, spesso, non capiscono granché di tutta quella politica presente sulle prime pagine. Una “ipertrofia politica”, così la definisce Barbano, che caratterizza la cultura editoriale di quasi tutte le principali testate nazionali, e che si aggiunge agli altri sintomi evidenti della profonda crisi che attanaglia i quotidiani italiani: innanzitutto l’omologazione culturale sempre più diffusa, aggravata dall’incontenibile sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto di Internet, che si rivelano una pericolosa arma a doppio taglio (“Il problema della nostra modernità è di evitare che il massimo di libertà garantito dallo sviluppo delle nuove tecnologie si traduca nel massimo di omologazione culturale”). In secondo luogo, ed è questa una conseguenza dell’espansione tecnologica, in Italia si registra, in maniera fin troppo accentuato, lo sconfortante fenomeno della “rincorsa emulativa”, che porta i giornali ad imitarsi l’uno con l’altro, a cercare di prevedere ed avvicinarsi il più possibile alle notizie pubblicate dai giornali leader del settore, “La Repubblica” ed il “Corriere della Sera”, ad utilizzare acriticamente le notizie che giungono dall’agenzie di stampa principali e sperare che tutti gli altri facciano lo stesso. La voglia di completezza, naturalmente connessa alle incredibili possibilità del web, non diventa altro che “mero stereotipo culturale”, finendo in secondo piano rispetto alle quattro tappe che governano il processo di omologazione dei quotidiani: l’intuizione, per comprendere le scelte dei giornali concorrenti, la sorveglianza esercitata sugli altri quotidiani, l’adeguamento alla scaletta e alle notizie presenti nei telegiornali principali e, infine, il controllo a posteriori, effettuato il giorno dopo, la verifica che si mette in moto durante la riunione delle undici, per vedere se l’imitazione degli altri giornali è andata a buon fine, e si è offerto al lettore un prodotto equilibrato ed identico a tutti gli altri. Ancora, l’autore continua a scavare tra le cause di questa “monotonia informativa”. Barbano osserva come la mancanza di competenze in alcuni campi, l’improvvisazione e il pressappochismo con cui si risponde ai grandi interrogativi che vengono posti nell’epoca moderna, sia un’altra delle principali ragioni della crisi. Passività, mancanza di approfondimento e ignoranza, da un lato, presenza forte di stereotipi inesatti, di valori-notizia tendenti al catastrofismo e alla drammaticità – continua a vigere il motto per cui “bad news is a good news” – e mancanza di un’analisi dettagliata del passato dall’altro, rendono i quotidiani sempre più lontani dai bisogni e dalle aspettative dei lettori, sempre più distanti dalla realtà vicina al normale cittadino, che vorrebbe conoscere la verità dei fatti che gli accadono attorno, non una serie di notizie incomprensibili e senza agganci con la quotidianità, figlie di una tecnica e di una tecnologia che privano l’informazione di una qualsiasi osservazione approfondita della società. Questa è la malattia del giornalismo italiano, Barbano sembra conoscerla bene, e continua nella sua ricerca con l’analisi della crisi che affligge la professione giornalistica, aggiungendo ai sintomi interni, quelli esterni: la “sfida dei new media”, alla quale il mondo della carta stampata spesso non riesce a rispondere a dovere. Internet, i servizi via sms o umts, il fenomeno dilagante della free press, hanno inferto un altro colpo pesante alla carcassa del giornalismo stampato. La stampa gratuita, con “Leggo”, “City” e “Metro”, raggiunge coinvolge sempre più persone, che trovano, in queste pubblicazioni, agevoli e semplici sintesi delle notizie del giorno, di facile fruizione per chi non può dedicare molto tempo alla lettura, e per di più gratuite: perché spendere, dunque, per avere le stesse notizie sui quotidiani a pagamento, anche se – ovviamente – più approfondite? Una bella domanda, senza dubbio. A questo interrogativo dovranno rispondere soprattutto le redazioni dei giornali, che dovranno capire i bisogni e le necessità dei lettori, instaurare una sorta di dialogo con loro, per offrire un prodotto migliore, che non sia autoreferenziale, difficile, noioso, banale, ma sappia osservare e analizzare la realtà con occhio sempre curioso, desideroso di conoscere e di offrire conoscenza al lettore; un giornale che abbia una propria identità, che si differenzi per vivacità e spessore critico, che diventi, oltre che analisi del giorno prima, soprattutto riflessione sul futuro. È una prospettiva che tutti noi ci auguriamo, e che Barbano vede realizzata solo grazie ad uno “svecchiamento delle redazioni, una parcellizzazione del lavoro in piccoli gruppi, ma soprattutto una frantumazione della vecchia agenda-setting in un progetto di idee affluenti dal diretto contatto dei giornalisti con la società che rappresentano”. Belle parole, insomma. Tutto sta a far diventare questi consigli realtà, al più presto possibile. Antonio Benforte, 2 febbraio 2005
RENZI, I GIORNALISTI E GLI INSEGNANTI. Per me l’Ordine dei Giornalisti può chiudere anche domattina. E gli insegnanti che non hanno partecipato al concorsone? Peggio per loro, hanno dato retta ai sobillatori e ora restano precari, scrive Daniela Molina, giornalista, il 30 dicembre 2015 su “Donna in Affari”. Nella conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio si è inimicato un paio di categorie di lavoratori precari: i giornalisti e gli insegnanti. Precari da anni, precari senza via d’uscita se un Presidente del consiglio che è anche alla guida di uno dei più importanti partiti politici italiani ha di queste opinioni. Ma raccontiamo dal principio. Come i giornalisti sanno, ogni fine d’anno il Consiglio Nazionale dell’Ordine organizza la conferenza stampa del Presidente del Consiglio dei Ministri. In apertura, spetta al Presidente dell’Ordine dare un messaggio al Presidente del Consiglio e quest’anno l’attuale presidente Enzo Iacopino ha voluto porre l’accento sulla posizione sempre più vacillante di molti giornalisti italiani. Ha usato parole forti, Iacopino, nel tentativo di avere finalmente una risposta a una richiesta d’aiuto che questa categoria lavorativa dalle ampie responsabilità esprime da anni. Iacopino ha parlato di schiavitù e barbarie, così argomentando: “la schiavitù dei giornalisti italiani nei confronti degli editori non solo è tollerata ma è anche codificata in contratti, come quelli che prevedono un compenso annuale lordo, comprese le spese di ogni tipo e le tasse, di poco più di 4.000 euro per servizi scritti e con aggiunta di audiovisivi e fotografie, senza limiti di orario o di impegno. O come quelli che prevedono il pagamento di 1 solo euro ad articolo. “E c’è chi chiede di decurtare i compensi con effetto retroattivo al 1° gennaio 2015: o si accetta o si lascia il giornale” aggiunge Iacopino chiedendo a Renzi di far sì che non vengano dati finanziamenti pubblici agli editori che non pagano i giornalisti [spetta infatti alla Presidenza del Consiglio decidere a chi darli, ndr], tutti i giornalisti, non solo i contrattualizzati, riferendosi a chi diceva “tutti chi? Ai contrattualizzati, perché gli altri, i collaboratori, è inutile pagarli”. Poi passa alla seconda parola cruda: barbarie, riferendosi a quei giornalisti che vengono incarcerati per proteggere la propria fonte e porta un esempio recentissimo, quello di un giornalista ultraottantenne che è stato messo in carcere e deve scontare una pena di 2 anni e 11 mesi perché non ha rivelato il nome di una sua fonte, cosa che non può fare perchè obbligato, oltre che dalla sua coscienza, dal codice deontologico (che ha pure forza di legge). E Iacopino si riferisce ancora ai 521 giornalisti italiani che nel 2015 (dati Osservatorio Ossigeno per l’Informazione) hanno subito minacce di ogni tipo, anche di morte. Ma purtroppo la risposta di Matteo Renzi non è quella sperata: “non condivido le sue parole” dice “non credo ci sia schiavitù né barbarie in Italia”. E aggiunge: “io sono per abolire l’Ordine dei Giornalisti. Anche domattina”. Non solo: fa pesare il fatto che all’estero i giornalisti stanno molto peggio, riferendosi a quelli che sono stati ammazzati o sono incarcerati “lì si può parlare di schiavitù, non certo da noi” (dimenticando che tra quelli ce ne sono anche di italiani). E sui compensi se la cava con un “tramite il sottosegretario Lotti verificherò i punti che ha segnalato in relazione all’equo compenso”. Non c’è possibilità di replica, i tempi sono stretti e la conferenza stampa deve andare avanti, ma Iacopino a un certo momento ce la fa a infilare un commento del tipo “se altrove le cose vanno peggio non è una giustificazione perché qui vadano male”. Ma non sortisce effetto. Renzi, si sa, va avanti per la sua strada e così continua passando a parlare di ciò che ha fatto il suo governo in questo 2015. E lì, ecco una nuova gaffe: stavolta se la prende con i docenti precari. “Grazie al Jobs Act 300.000 persone hanno trovato lavoro” afferma. “Un giovane mi ha persino fermato per strada per ringraziarmi perché grazie a questa legge era stato assunto a tempo indeterminato. E anche una professoressa, dopo la Legge sulla Buona Scuola, ha messo online un video per ringraziare, un video di addio al precariato”. Renzi ci tiene quindi a sottolineare che alcuni professori precari non hanno fatto domanda e, sobillati da qualcuno, hanno detto a chi partecipava al concorso “vi deporteranno”. Al contrario, se l’avessero fatta, “non solo sarebbero stati regolarmente assunti, ma sarebbero rimasti nella loro regione”. Invece ora sono rimasti come stavano, precari perché se la sono voluta. Renzi ha parlato anche di molte altre cose, ma sempre con lo stesso spinto ottimismo: L’Italia si è rimessa in moto. È un Paese stabile. Un Paese pieno di energie vive, vitali. Il 2015 è stato meglio del 2014. Il nostro deficit è il più basso degli ultimi anni. Siamo usciti dalla recessione, la disoccupazione è calata, gli italiani stanno tornando a spendere, la fiducia è aumentata. Se dovessi scommettere oggi sui risultati delle elezioni del 2018 direi che le vinciamo subito, al primo turno, con la maggioranza assoluta. Siamo contenti per il suo ottimismo e non vogliamo “fare i gufi” però molti giornalisti e molti insegnanti non lo sono altrettanto. Le nostre ragioni? Ne abbiamo a iosa, ma vorremmo parlarne con qualcuno che ci ascoltasse veramente.
Perché Renzi ce l'ha con quei gufi di giornalisti. L'Ordine va abolito e sottopagare le iene dattilografe non è una barbarie. Così il premier, un po' alla D'Alema e un po' alla Berlusconi, si mostra sempre più insofferente verso una categoria che non ha mai amato. Dai talk show "pollaio" al concorso leopoldino "Scegli il peggior titolo di giornale", passando per la riforma delle intercettazioni, scrive Susanna Turco il 30 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Sono passati esattamente 365 giorni, dall’ultima conferenza stampa di fine anno, e stavolta Matteo Renzi mette da parte la prudenza: “La mia posizione è nota: fosse per me l’Ordine dei giornalisti lo abolirei domani mattina”, sbotta al tavolo con Enzo Jacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Il 29 dicembre 2014 era stato più cauto: “L’opinione sulla riforma dell’ordine dei giornalisti la tengo per me”, disse, aggiungendo blando che “il governo avrà il desiderio di collaborare per capire quali leggi di riforma (dell’Ordine, ndr) possono essere approvate, in che tempi e in che modi”. Anche così, dunque, slitta l’atteggiamento del premier nei confronti del vasto mondo dell’informazione. Un crescendo a partire da questa estate, quando proprio lui, creatura che si è affermata da Rottamatore nei talk show, li ha dipinti come “un pollaio” inguardabile. E poi nell’ultima Leopolda, quando ha messo su la parodia di un concorso sul “Top delle 11 balle sul governo Renzi” con relativo il referendum on line “Scegli il peggior titolo di giornale” (“I titoli dei giornali li faccia direttamente lui, così facciamo prima”, ha twittato Ferruccio De Bortoli, quel gufo rosicone). E infine oggi, con il punzecchiamento continuo con il presidente Jacopino, nel corso della peraltro istituzionale conferenza stampa di fine anno. ''La mia posizione sull'Ordine dei Giornalisti è nota: lo abolirei domani mattina. Non siamo intervenuti perché tutto quello che riguarda la libertà di informazione necessita di grande prudenza da parte del Governo''. Così il premier Matteo Renzi, nel corso della conferenza stampa di fine anno. Non c’è soltanto l’abolizione dell’Ordine, infatti: assai più significativo, è il modo con il quale Renzi ha respinto come infondata la denuncia per gli scarsi compensi a cui sono sottoposti molti giornalisti precari. Jacopino fa l’esempio di “guadagni da 4900 euro l’anno” e parla di “schiavitù e barbarie”. Subito Renzi replica: "Non condivido le sue parole. E non credo che ci sia una schiavitù o una barbarie in Italia”, perché quelle sono parole da usarsi, per esempio, per le donne in catene, argomenta il premier, non per i giornalisti. “Ma una barbarie più grande non annulla un’altra barbarie”, replica Iacopino. Ora, senza perdersi nella querelle terminologica o in ipotetiche classifiche di barbarie, c’è più che altro da segnalare che Renzi, da ultimo – persino arrivando a negare l’esistenza di giornalisti sfruttati - mostra di amare sempre meno una categoria che del resto non ha mai amato. Un atteggiamento, peraltro, anche difficile da classificare. Sarcastico come quello di Massimo D’Alema con le sue “iene dattilografe”, attento come quello di Walter Veltroni che non si perdeva un inciso, ma insieme liquidatorio come quello di Silvio Berlusconi, per il quale i giornali erano tout court covi di comunisti. Lo si potrebbe definire ambiguo? Di certo c’è che se è vero che il mestiere di giornalista è, o meglio dovrebbe tendere ad essere quello del gufo (critico, diffidente, eccetera), ciò che rende così difficilmente classificabile l’atteggiamento del premier è che, a differenza di tutte le altre categorie di gufi, i giornalisti Renzi vorrebbe anche, irresistibilmente, portarli dalla propria parte. Trasformarli in colombe, quando già non lo siano. Come ebbe a dire a un giornalista, che in una pausa del Consiglio Ue gli chiedeva della tempistica sul pareggio di bilancio: “Non pretendo di convincerla della bontà della linea del governo ma voglio aiutare gli italiani a capire che l'Europa è il nostro futuro e non il passato”. Ecco, il punto è però che per convincere gli italiani, un po’ anche i giornalisti deve convincerli. Altrimenti gli italiani non capiscono, si confondono. Gufi, da trasformare in colombe. Di qui, una grande attenzione nello stabilire da un lato quali siano i giornalisti “buoni” e quelli “cattivi” (c’è chi dice esistano addirittura delle liste, ma è senz’altro un rosicone), e dall’altro, in pubblico, nell’avanzare tutta una serie di artifici di slide e una trama di battute e cameratismo che, anche titillando gli ego sempre abbondanti nella categoria, riscuotono anche un qualche successo. Accade però poi che dietro la battuta brillante si nascondano buone dosi di sarcasmo e quasi la volontà di dirigere, più che di convincere (“a volte le vostre sinapsi mi stupiscono”, “ma quanti siete? Tutti italiani? si potrebbe proporre una spending review anche per voi”, “i botti di capodanno non mi sembrano la notizia chiave di oggi” ). Mirabile l’esempio tratto, di nuovo, dalla conferenza stampa dello scorso anno, quando i giornalisti volevano a tutti i costi tirar fuori dal premier un nome papabile per il Quirinale, e lui non voleva farlo: “Non facciamo il ping pong. Noi possiamo stare nella prossima ora a fare le stesse domande, io darò le stesse risposte, metto il pilota automatico”, sbottò Renzi. Lui, in effetti, era invece ansioso di sottolineare di “aver riformato il mondo del lavoro, apportato delle modifiche alla riforma costituzionale un cambiamento della giustizia, un decreto sul fisco di cui si sta scrivendo poco ma che è una pietra miliare”. E certo il giornalismo a volte è anche un mestiere scemo, dove ci si ostina a fare le stesse domande, magari inutili, invece di parlare delle “pietre miliari” piantate dal governo. Una croce che però, anche quando sostanzialmente inoffensiva, Renzi mostra di sopportare ancor meno degli altri. Perché appunto, toglie spazio agli argomenti chiave. Del resto, il premier è talmente bravo nell’imporre il proprio story telling, la propria narrazione, a fare da spin doctor di se stesso, che non si capacita, quasi si dispiace, quando la piega dell’informazione non è esattamente quella che a lui sembra più equa, più giusta. E certo non gli sarà piaciuto che, per fare un esempio, in autunno l’Ordine dei giornalisti, insieme a una serie di altre associazioni, abbia promosso la battaglia sul “no al bavaglio” contro il disegno di legge che affida al governo “il potere di stabilire le regole sulla pubblicazione delle intercettazioni limitando la diffusione a quelle di rilevanza penale ed escludendo le conversazioni d'interesse pubblico”. Perché Renzi vorrebbe solo proteggere le persone non coinvolte dalle indagini, brutto si dica che con le restrizioni non si sarebbe saputo nulla di Calciopoli, dell’indagine su propaganda Fide, delle risate di Francesco Piscicelli all’indomani del terremoto a L’Aquila. E mentre quella battaglia è destinata a riaccendersi (basta solo aspettare i prossimi passaggi parlamentari), c’è da notare che nelle due ore di conferenza stampa il maggior pepe lo abbia riservato giusto ai giornalisti. Chissà perché: certo non gli mancavano gli argomenti.
Renzi: sull’Ordine dei giornalisti populismo "tre palle, un soldo", scrive Antonio Padellaro il 30 dicembre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. C’è il populismo. E c’è il populismo tre palle un soldo. Tipo, Matteo Renzi che ospite dell’Ordine dei giornalisti chiede l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti, “domani stesso”. È una storia vecchia quella dei baracconi delle fiere e dei luna park, dove con un soldo potevi prendere di mira le sagome di personaggi più o meno famosi, e se li abbattevi vincevi una bambolina. Ora, sulla necessità o meno di un ordine che ti concede il timbro di giornalista, si discute spesso. Seriamente, come nel caso del referendum radicale del 1997: non raggiunse il quorum, ma il 65,5per cento dei votanti si dichiarò favorevole all’abolizione. E anche molto poco seriamente, come ha fatto il premier nella conferenza stampa di ieri, usando battute da strapaese per farsi bello con gli elettori. Sembrava di stare al bar di certi film stile Pieraccioni (con tutto il rispetto), dove bastano un paio di camparini e subito c’è quello che chiede tra gli applausi la riapertura dei casini e dove politici, banchieri e giornalisti stanno sulle palle a tutti. Non potendo (per intuibili ragioni) toccare le prime due categorie, Renzi ha preso a pallate la terza. Ingiustamente, va detto, vista la soavità di certe domande e il quasi totale controllo governativo dell’informazione scritta e televisiva. C’è da dire poi che se t’invitano a pranzo in casa d’amici non è carino criticare le pietanze o mettersi a sparlare del padrone di casa. Se l’Ordine gli fa tanto schifo poteva declinare l’invito invece di assumere l’aria scocciata di chi abituato a parlare con “Angela” (Merkel) e con “Jean Claude” (Junker)non può perdere tempo a dare spiegazioni. Ps. Anche chi scrive è convinto che l’Ordine dei giornalisti rappresenti una struttura corporativa e anacronistica, soprattutto ai tempi di Internet. Però, dopo aver ascoltato Renzi, vien voglia di ripensarci.
Oltre le battute sull'Ordine dei giornalisti. Renzi ha i numeri (in Parlamento) per abolirlo. La posizione del premier è netta, ma quel “toccasse a me” lascia intendere che sia una scelta che andrebbe incontro a molte resistenze, difficile da far passare. In realtà la soppressione dell’Odg potrebbe ricevere un supporto ampio e trasversale in parlamento, scrive Luciano Capone il 30 Dicembre 2015 su “Il Foglio”. “Come sapete, seguendomi da qualche anno, la mia posizione sull’Ordine dei giornalisti è che, toccasse a me, lo abolirei domani mattina”. Così ha risposto il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, alle osservazioni del presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino nel corso della consueta conferenza stampa di fine anno. La posizione del premier è netta, ma quel “toccasse a me” lascia intendere che sia una scelta che andrebbe incontro a molte resistenze, difficile da far passare. In realtà la soppressione dell’Odg, qualora presentata dal premier, potrebbe ricevere un supporto ampio e trasversale in parlamento: oltre al Pd, partito di maggioranza relativa e di cui Renzi è anche segretario, risponderebbero affermativamente anche le principali forze di opposizione, dal Movimento 5 stelle alla Lega Nord passando per Forza Italia. Nei tempi recenti il partito di Beppe Grillo è stato uno dei più attivi fautori dell’abolizione dell’“albo mussoliniano dei giornalisti”, prima attraverso una raccolta firme per un referendum e poi, dopo l’ingresso in Parlamento, con un paio di proposte di legge: al Senato, sottoscritta da 53 senatori pentastellati con primo firmatario Vito Crimi, e alla Camera su iniziativa del deputato Giuseppe Brescia secondo cui “l’Ordine dei giornalisti non ha ragion d’essere”. Sulla stessa lunghezza d’onda c’è la Lega Nord che nel corso della sua storia si è più volte espressa contro il valore legale del titolo di studio e per l’abolizione dell’Odg, sottoscrivendo alcune proposte di legge in tal senso. La posizione non è cambiata con la nuova leadership, visto che recentemente Matteo Salvini ha dichiarato che “l'Ordine dei Giornalisti non serve a niente”. Anche Forza Italia, soprattutto nella sua fase iniziale più liberale e liberista, si è fatta portatrice di varie proposte di smantellamento di ordini e corporazioni: nel 1995 Silvio Berlusconi, allora capo dell’opposizione, sottoscrisse i referendum dei Radicali, compreso quello per l’abolizione dell’ordine dei giornalisti e anche dopo la trasformazione in Popolo della Libertà gli azzurri hanno presentato diverse proposte per chiudere l’Odg. Ci sono anche altre forze parlamentari, numericamente più piccole, che appoggerebbero la proposta del premier. Probabilmente i centristi di Scelta Civica per la loro impostazione liberale. Forse la destra di Fratelli d’Italia visto che fu uno dei suoi padri nobili, Pinuccio Tatarella, a proporne la soppressione nel 1992 da deputato del Msi: “Gli albi hanno una sola ragion d'essere, quando siano non solo aperti ma facoltativi e quando l'esercizio della professione giornalistica sia libero a tutti”, scriveva. Sicuramente i radicali, ora sparpagliati in vari partiti, che storicamente sono stati i portabandiera di questa riforma sin dagli anni ’70. A ben guardare l’idea di Renzi sarebbe una delle poche riforme che in questo Parlamento potrebbe ottenere se non l’unanimità una larghissima maggioranza, sia alla Camera che al Senato. L’abolizione dell’ordine riceverebbe anche l’approvazione postuma di un padre costituente come Luigi Einaudi: “Albi di giornalisti! Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa", scriveva nel 1945 il futuro Presidente della Repubblica. E poi continuava: "Giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire o che semplicemente sentono di poter dire meglio o presentar meglio la stessa idea che gli altri dicono o presentano male…L’albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero”.
Ordine, dall’abolizione all’autoimplosione. L’albo dei giornalisti è obsoleto. Pure Iacopino lo dice, ne prenda atto, scrive "Il Foglio" il 02 Novembre 2013. "Albi di giornalisti! Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa. Giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire o che semplicemente sentono di poter dire meglio o presentar meglio la stessa idea che gli altri dicono o presentano male”. Luigi Einaudi lo scrisse nel 1945, nel mezzo di riflessioni ancor più radicali e profetiche su quei lacci e lacciuoli che nei decenni successivi hanno imbalsamato cervelli umani e spiriti animali nel nostro paese. Tuttavia è evidente che stare seduti sulle spalle di giganti non ha mai impedito al dibattito pubblico e mediatico italiano di volare a bassa quota. Non ci risparmiamo quasi nulla, comprese le polemiche risibili sulla bocciatura di Giulia Innocenzi all’esame per avere il tesserino da “giornalista professionista”. Sia chiaro: Innocenzi giornalista lo è già oggi, o meglio da cinque anni e con successo di audience (a fianco di Michele Santoro), eppure non lo sarà per l’Ordine nei prossimi mesi (sarà promossa a un secondo tentativo, come altri illustri pubblicisti prima di lei, e senza far torto ai bravissimi che l’esame lo superano al primo colpo). Giornalista senza bollino, insomma. Ma occorre davvero questo bollino, con annessi balzelli per sostenere economicamente i bollinatori? No. E’ giudicato inutile in tutto il mondo libero, tranne che da noi. Al punto che in queste ore perfino Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, su Facebook si è lasciato andare: “Il Presidente dell’Ordine non dovrebbe dirlo: ma non è il tesserino che fa di una persona un giornalista”. Per un paese che si crogiola nell’immobilismo, sarebbe troppo temerario chiedere l’abolizione dell’albo. Ma noi ci accontentiamo dell’evidente implosione: presidente Iacopino, ci aiuta a certificarla?
I gufi, i sindacati e gli altri nemici, le parole che raccontano il premier. Scelte (e slide) in conferenza stampa. Anche i giornalisti nel mirino: abolirei l’Ordine Da Merkel a Cottarelli Le critiche piovono, tra gli altri, sull’ex commissario alla spending review, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera” del 30 dicembre 2015. «Sobillare» è parola del vocabolario politico molto impegnativa e carica di (cattiva) storia, e Matteo Renzi l’ha usata in conferenza stampa per denunciare i «sobillatori» sindacali che avrebbero terrorizzato i professori precari agitando lo spettro della «deportazione» scolastica, parola ancor più sovraccarica di storia cattiva e tragica usata irresponsabilmente dai sindacati. Ma la denuncia della «sobillazione» si attaglia perfettamente al racconto che Matteo Renzi vuole dare di se stesso: lui e i nemici, lui contro i «gufi», lui contro chi rema contro, lui contro i rosiconi, lui contro i conservatori. Lui contro. Il racconto renziano, storytelling se si preferisce, è strutturato sull’antagonismo, sul dualismo, tra lo slancio del giovane premier e l’occhiuta resistenza di chi vuole ostacolarlo, animato sempre e inevitabilmente da motivi oscuri e inconfessabili, da malmostosità reazionaria e senile, da autolesionismo dannoso per l’Italia. Se non ci fosse un nemico, Renzi dovrebbe inventarlo. E anche ieri nella consueta conferenza stampa il premier ha creato la regia dell’inimicizia perfetta. Sembrava quasi smanioso, nella ricerca del nemico. Martedì è apparso così composto da sembrare quasi stanco e svogliato. Il contrario dell’effervescenza ipercinetica della prima conferenza stampa, una raffica di battute, motti di spirito, annunci choc, giovanilismo sfrenato e twittarolo. La conferenza stampa in cui un premier aveva introdotto la «slide» come simbolo di modernità e discontinuità rispetto alle uscite in doppiopetto della vecchia politica pigra e dal passo da dinosauro. Martedì Renzi ha usato una slide per trasmettere il suo messaggio. Ma con una novità: il fumetto del gufo. L’antitesi, il nemico, il sabotatore, il sobillatore. La retorica del gufo disfattista sta diventando un po’ logora? Renzi non può rinunciare al suo messaggio, ma ha bisogno di stilizzarla, renderla più comprensibile, immaginifica. Ecco allora il gufo appollaiato sulla slide. Non il «taci, il nemico ti ascolta», ma «metti il segno più, che il gufo mette il segno meno». Il gufo è la perfetta rappresentazione della coppia amico-nemico, noi-loro. Suggerisce l’idea di qualcuno che trama nell’ombra, si compiace delle sconfitte, vuole che Renzi fallisca e con lui ogni proposito di riforma e di innovazione. Hai dubbi sulla politica economica del governo? Gufo. Ha qualche dubbio che le tasse a conti fatti diminuiranno? Disfattista. Non pensi che la riforma del Senato sia la migliore sulla faccia della Terra? Rosicone. E infatti ieri Renzi ha annunciato nella conferenza stampa dedicata alla costruzione del nemico che sul referendum costituzionale lui, il giovane premier baldanzoso e generoso, giocherà la partita finale, l’Armageddon, lui contro tutti, Russell Crowe solo nell’arena, il gladiatore ad affrontare la triste armata dei gufi di ogni colore. E quanti ce n’erano di gufi, che Renzi ha stanato in conferenza stampa. I giornalisti, prima di tutto. Maltrattati tramite duello con il presidente dell’Ordine dei giornalisti, organismo che Renzi dice di voler abolire. O meglio, dice che «se fosse per lui», l’Ordine sarebbe bell’e che abolito. Ma lui fa il presidente del Consiglio. Vuole abolire l’Ordine dei giornalisti? Lo faccia (qualcuno protesterà, ma molti saranno dalla parte del premier). Però se lo fa, poi chi potrebbe sostituire quel comodo nemico? Poi i nemici soliti, i sindacati, gufi sobillatori. Poi però la new entry, Angela Merkel e l’establishment europeo, presi a bersaglio nei giorni in cui il governo era in difficoltà per il pasticcio della Banca Etruria, e che ieri sono diventati nuovamente il nemico da respingere, i frenatori dell’Italia, gli umiliatori di professioni che vorrebbero calpestare la nostra giovane e dinamica e intraprendente e rottamatrice Nazione soffocata dall’austerità europea e tedesca in particolare. E poi persino il commissario Cottarelli, quello della spending review, che avrebbe tagliato male secondo il premier che finalmente si è liberato di lui e la cui opera potatrice dunque, per Renzi, sarebbe stata ben peggiore di un governo che alla fine ha deciso di tagliare molto poco. O quasi niente, come dicono i gufi che scrivono, altrimenti detti, altro luogo frequentatissimo nel lessico renziano, «commentatori», oppure «professoroni». Tra la prima conferenza stampa e questa di fine 2015, le dinamiche posturali (c’è tutta una sofisticatissima bibliografia sulla «prossemica del potere»), il lessico, le stesse espressioni facciali di Renzi sono cambiate moltissimo. Prima era più baldanzoso, ora è meno felice, politicamente si intende. Prima per lui parlava solo il futuro, e il «cronoprogramma» era tutto una promettente avventura. Oggi il tempo scorre inesorabilmente, e il gioco si fa duro: o con me o contro di me, o con il cambiamento oppure nella schiera infetta dei gufi. Meno sorrisi, meno complicità con i giornalisti amicalmente chiamati per nome, come avveniva nella prima conferenza stampa, e più circospezione, più sospetto addirittura. Sembrerebbe un Renzi un po’ preoccupato. Ma forse sarebbe da gufi sottolinearlo.
RENZI E I GUFI A PERDERE, scrive Claudio Velardi il 30 dicembre 2015 su “Il Rottamatore”. I gufi ci vedranno anche molto bene al buio, ma ho l’impressione che non siano animali granché intelligenti. A Renzi è bastato piazzarli ieri mattina in un angoletto delle sue slides per ottenere quello che voleva: la loro reazione narcisistica e compiaciuta. “Ecco, si è ricordato di noi, vuol dire che contiamo ancora”, hanno esultato in coro stamattina sui giornali. Senza capire, invece, che ancora una volta il nostro li ha giocosamente e cinicamente utilizzati, e messi in trappola. Poveri animaletti.
La prima buona regola di ogni uomo politico che si rispetti è individuare i suoi nemici, per darli in pasto all’opinione pubblica amica e costringerli a giocare sul terreno che gli è più favorevole. Gli scemi ci cascano. Invece di incalzare il politico su altri piani, di scavare nelle cose che il politico non vuol sentirsi dire, gli vanno a ruota (molto spesso – nel caso dei giornalisti – anche perché non saprebbero che cosa dire, dato che non studiano, non approfondiscono i dossier, etc…). Con il risultato di apparire solo come una corte querula e fastidiosa, in permanente attesa di un sussiegoso cenno del politico, in cerca di una qualsivoglia forma di legittimazione personale, di una battutina rubata o di uno sguardo ammiccante. Nel frattempo prendono botte, come nella conferenza stampa di ieri mattina. “Fosse per me abolirei domani mattina l’Ordine dei giornalisti”, ha detto Renzi. E nessuno che gli abbia chiesto: “Bene, Presidente, che cosa aspetta a farlo?”. Nessuno dei giornali che oggi ci abbia fatto un titolo, un servizio, un approfondimento. Forse perché, grazie all’Ordine, tanti colleghi prendono le mancette dei cosiddetti aggiornamenti professionali. Oppure nessuno che gli abbia ricordato: “E, già che ci siamo, perché non aboliamo anche gli altri Ordini, quelli degli architetti, dei notai, dei commercialisti, degli avvocati, etc…, come si è più volte detto di voler fare?”. Niente. Silenzio assoluto. “Più 0.8 di Pil, più 300mila posti di lavoro”, ha detto poi il maramaldo. E nessun giornalista del Fatto Quotidiano che gliel’abbia contestato in conferenza stampa, sciorinando i dati che invece il giornale pubblica oggi. Veri o falsi che siano questi dati – vigliacchetti che siete – chiedetegliene conto in diretta, non il giorno dopo, senza contraddittorio. Ancora. “Nel 2018 vinco al primo turno”. E nessun giornalista del Sole 24ore che gli abbia sottoposto le lunari tesi di Ricolfi, pubblicate sul giornale di Confindustria, che assegna la prossima vittoria elettorale al M5S. E così via, sugli argomenti più significativi in agenda. Tutti a strisciare come servi in conferenza stampa, pronti a prendersi la rivincita dei frustrati quando la partita è finita, sui giornali di stamattina. Fino a quando saranno questi i nemici di Renzi, il giovanotto avrà vita non facile ma facilissima. Altro che 2016 decisivo, come dice oggi Cerasa sul Foglio. Per Renzi il 2016 sarà una passeggiata come il 2015, se in politica non verranno avanti avversari preparati, non propagandisti di professione, e se l’informazione non comincerà a fare il suo mestiere non per partito preso ma con solidi argomenti e un minimo -anche solo un minimo – di obiettività. A me può fare anche piacere, perché penso che Renzi vince non solo perché non ha alternative, ma anche perché è abbastanza bravo e intelligente. Ma un sistema che voglia minimamente funzionare ha bisogno di alternative politiche all’altezza e di giornalisti con la schiena dritta. In Italia, al momento, abbiamo solo gufi a perdere.
E’ SEMPRE COLPA DEI GIORNALISTI, scrive Lamberto Colla su “La Gazzetta dell’Emilia” Domenica, 02 Agosto 2015. Fuga di notizie dai tribunali, è colpa dei giornalisti, intercettazioni telefoniche riportate sui giornali, è colpa dei giornalisti, Insomma i giornalisti sono "crocetta" e delizia dei giudici e dei politici. Come un tormentone, ciclicamente, torna la necessità di mettere il bavaglio ai giornalisti. Anche se, dobbiamo confessarlo, l'editoria nazionale non si sia mai particolarmente distinta per inchieste giornalistiche tali da fare tremare i palazzi di corte. Il più delle volte ci si è limitati a qualche scoop su locazioni concesse a buon mercato a qualche politico piuttosto di un orologio donato in cambio di favori con il sospetto, comunque, che la notizia fosse stata diffusa per scopi ben specifici di avvantaggiare l'una o l'altra parte politica colpendo nella vita privata un suo esponente di vertice. Della "velina" invece vi è larga diffusione. E, come bombette a orologeria, ecco che vengono alla luce piccoli e grandi misfatti, di natura professionale e molto spesso di natura privata che nulla c'entrano con l'accusa, ma utili da fare orientare l'opinione pubblica verso giudizi di colpevolezza ancor prima che il processo, quello vero, abbia addirittura inizio. Insomma, sembra quasi che il giornalista sia, in questi casi, il mero staffettista, e qui sta la vera colpa della categoria, dell'informazione o della "bufala" di turno a servizio occulto di qualcuno. Alcuni giornalisti, vuoi per protagonismo, vuoi per eccesso di zelo e con la speranza, magari, di diventare il nuovo Indro Montanelli, raccolgono con superficialità la "velina", la confezionane egregiamente e la sbattono in prima pagina con buona pace dell'etica professionale e della dignità personale. Questa categoria di professionisti dell'informazione sono i preziosissimi "utili idioti", molto spesso ignari di essere al servizio di potenti corporazioni, che lanciano il primo sasso nello stagno della disinformazione, della informazione guidata verso una verità distorta o comunque di parte. Per quanto becera, servizievole e fedele al proprio padrone possa essere un giornalista non riesco assolutamente a credere che non abbia a cuore il proprio lavoro e soprattutto la propria dignità. Ed il bubbone Crocetta / Borsellino, guarda caso venuto a galla alla vigilia della cerimonia di commemorazione del 23esimo anniversario dall'attentato di via D'Amelio che portò la morte al Giudice Paolo Borsellino e ai suoi 5 agenti di scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina, rischia di essere l'esempio perfetto del malcostume e delle strane relazioni che connettono, politica, uffici giudiziari e distributori d'informazione. Già perché nessuno, nemmeno il più masochistico autolesionista avrebbe pubblicato una notizia come quella relativa alla intercettazione telefonica nella quale il Professor Matteo Tutino avrebbe recitato, al governatore della Sicilia Crocetta, la fantomatica frase, poi pubblicata da l'Espresso, «Laura Borsellino va fatta fuori. Come il padre» senza averne minimamente verificato l'esistenza e la autorevolezza della fonte. Tutto e il contrario di tutto è accaduto poi nell'arco di poche ore e la farsa siciliana è andata in onda. Andiamo con ordine. L'Espresso esce con lo scoop e lo stordimento è universale. Talmente accecante è la notizia che lo stesso Rosario Crocetta non ha reazioni immediate, non alza barricate a difesa di un'altra verità, non smentisce anzi, completamente impallato, mi verrebbe da dire, si "auto-sospende" dall'incarico di Governatore della Sicilia passando il testimone proprio a chi sostituì l'Assessore alla Sanità, Lucia Borsellino appunto, che si dimise per contrasto con il governatore stesso. Di fatto una ammissione di colpevolezza seppure limitata al fatto che, a seguito di quello che avrebbe dovuto ascoltare, non avesse replicato ma se ne fosse stato zitto (come molti comuni mortali avrebbero fatto in una sorta di compatimento per quanto udito) o quantomeno una "silente" ammissione della esistenza della telefonata, dei contenuti della stessa e riportati dai due giornalisti, Piero Messina e Maurizio Zoppi, oggi indagati. Un respiro di sollievo il Crocetta deve averlo tirato quando il Capo della Procura di Palermo, Francesco Lo Voi, dichiara che quelle intercettazioni non esistono. Una affermazione che per Crocetta, ha il medesimo effetto dei sali per sincopatici e, lancia in resta, va al contrattacco dichiarando che chiederà all'Espresso ben 10 milioni di euro a titolo di risarcimento danni. Quindi, nell'arco di poche ore, si è passati dall'auto-sospensione alla richiesta di risarcimento milionario del danno. A questo punto cresce il sospetto che chi racconta balle non siano i giornalisti in questione bensì altri, e tra i sospettati non può essere escluso lo stesso Capo della Procura palermitana, forse indotto a a farlo per salvaguardare indagini tutelate da riservatezza. Intanto, giusto per non sbagliare, sono i giornalisti a essere indagati. E che non mi si venga a dire che l'indagine è una forma di tutela per loro. Per la cronaca, Messina è indagato per calunnia e pubblicazione di notizie false, Zoppi soltanto per questo secondo reato. La perentoria negazione di Lo Voi, in merito alla esistenza delle intercettazioni, è difficilmente contestabile e contrastabile soprattutto perché sarà difficile, e comunque sconveniente per l'attività di inchiesta giornalistica, dichiarare la generalità della "talpa" e che questa infine abbia il coraggio e la convenienza di confermare il suo coinvolgimento e sia nelle condizioni di fornire le prove. La farsa siciliana è andata in onda e nella terra di Pirandello e Sciascia non poteva che essere così. In conclusione, allo stato attuale, la colpa è dei giornalisti e intanto la "mafia" gongola.
Cattivo giornalismo? Tutta colpa dei giornali.
«Che mestiere fai? Giornalista.»
«E per chi scrivi? Per nessuno in particolare. Sono un freelance».
«Cioè sei disoccupato?»
Non è un dialogo inventato, ma uno scambio di battute che ho sentito spesso – con accenti diversi – nel corso degli anni. Dietro c’è (c’era?) un’idea molto radicata in Italia: se non fai parte di una redazione come redattore “fisso”, non conti, non lavori, non esisti. Che poi era così negli anni Sessanta Settanta e Ottanta. Quando a metà degli anni ’90 era già chiaro in quale direzione andasse l’organizzazione del lavoro giornalistico (e non solo), la categoria perse un’occasione d’oro: quella di attrezzarsi per tempo e arginare quella che sarebbe stata, con tutta evidenza, un’emorragia di posti di lavoro e un’ecatombe di testate. E insieme perse anche l’opportunità per rinnovarsi. Il ciclone Rete, Web, Internet, l’online, chiamatelo come volete, turbinò e risucchiò l’informazione facendo saltare tutti i “tetti” sicuri della placida editoria italiana. Cambiarono meccanismi di lettura, di diffusione, cambiarono i contenuti, il modo di scrivere. E cambiò il mondo del lavoro, appunto. Oggi il mercato del lavoro giornalistico ha assunto dimensioni paradossali e opposte a quelle di 30 anni fa. Dall’ultimo rapporto sulla professione in Italia, realizzato sulla base dei dati (aggiornati al 31 dicembre 2013) forniti dagli enti professionali (Casagit, Fnsi, Inpgi, Ordine dei giornalisti) a Ldsi.it il campo del lavoro giornalistico dipendente si restringe ogni anno di più, mentre cresce il lavoro autonomo. Alla fine del 2013 la percentuale degli ‘’autonomi’’ sulla popolazione giornalistica attiva era 62,6% nel 2012 era al 59,5. Parallelamente i redattori assunti sono scesi dal 40,5 al 37,4%. La forbice è larga anche nella parte dei redditi. Ma esattamente al contrario. Se anche nel settore tutelato dei dipendenti il salario medio diminuisce, la retribuzione media di un autonomo, che nel 2012 era di 11.2678 euro lordi, nel 2013 è di 10.941, il 3% in meno. I redditi medi del lavoro autonomo sono il 17,9% di quelli del lavoro dipendente, 5,6 volte inferiori. Una situazione ingovernabile di cui gli editori si approfittano creando schiere di giovani (per lo più) giornalisti precari e sottopagati. E che non riguarda solamente l’Italia. Il cortocircuito tra informazione e professione è anche al centro dell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity. “Uno dei problemi che ho con Internet – ha dichiarato in più interviste lo scrittore americano – è che sta rendendo tutti freelance. È un cane che si morde la coda: qualcuno fa un enorme lavoro per trovare dei fatti, ma nell’istante in ci li pubblica vengono subito presi, linkati, twittati, copiati, senza che chi li ha scoperti venga adeguatamente compensato da chi li consuma. Io, come romanziere, ho la fortuna di essere pagato bene per i contenuti che produco, e non vedo perché ai giornalisti non dovrebbe succedere altrettanto”. Antonella Marrone, Roma, 10 Dicembre, 2015 su “Che Futuro”.
Il giornalismo è in crisi? La colpa è di noi giornalisti, scrive Walter Giannò il 24 ottobre 2015. Cari colleghi, basta piangersi addosso. Basta dare la colpa a internet se il giornalismo sta attraversando – e da tempo – un momento di crisi economica. Basta avercela con gli editori se un pezzo è pagato pochi euro. Perché, se la professione di giornalista si sta trasformando in un hobby, la responsabilità non è dello strumento web – che è, invece, una risorsa straordinaria – né degli editori che fanno il loro mestiere (perché il loro scopo è il profitto) ma di noi stessi. Sì, è solo colpa nostra se il sistema è ormai pieno di storture. Pensateci bene: ogni qual volta c’è un collega (o aspirante tale) che accetta di scrivere un pezzo per 2, 3, 5, 10 euro (spesso, per giunta lorde) non fa altro che trasmettere il messaggio che il giornalismo non è una cosa seria (mentre ha la stessa importanza sociale di un medico o di un avvocato) e rovina l’intera categoria. Per di più, chi può accettare simili pagamenti se non i “ragazzini”? Ovvero chi può permettersi di essere sottopagato, magari di spendere più di quanto riceve per raccogliere le informazioni necessarie per scrivere un articolo, giacché – fortuna loro – sostenuti dalle famiglie? È indubbio, infatti, che un adulto, anche se con tanti anni di esperienza sulle spalle e bravissimo nel raccontare fatti (quelli veri, originali, suffragati da fonti certe), non può rimboccarsi le maniche per una paga miserevole! Da qui la conseguenza ovvia di una professione in crisi perché difetta sempre più di qualità e di originalità. Apriamo, poi, una parentesi sulla figura del giornalista tutto fare. Non importa più che sappia scrivere un articolo degno di questo nome ma occorre che sia fotografo e videoreporter. Anzi, questi tre requisiti stanno diventando fondamentali per entrare a far parte di una redazione (naturalmente non da assunti ma con contratti di collaborazione ridicoli). Eppure, il giornalista è chi si occupa del fatto; il fotografo (professionista) è chi lo immortala con uno scatto; il video reporter (professionista) è chi lo racconta con le immagini. Ma questo sta accadendo e la nostra categoria tace… ma poi piange se partono i licenziamenti e le riduzioni delle paghe tra i professionisti dei servizi fotografici e video. Il problema, infatti, è questo: il silenzio. Non abbiamo il coraggio di ribellarci: perché se uno decide di non accettare di scrivere per tre euro, ci sarà qualcun altro che lo farà al suo posto; perché se decidi di farti avanti, le porte delle redazioni smetteranno di aprirsi; perché si spargerà la voce che sei un tipo difficile. D’altronde, ci sono cose che tutti sappiamo ma contro cui non combattiamo: come la consuetudine di far pagare le ritenute d’acconto agli stessi collaboratori, con un giro di soldi tra conti correnti, per poi dimostrare gli avvenuti pagamenti al momento della presentazione della domanda d’iscrizione all’Albo dei Giornalisti. No, non ho le prove di questo ma chi di voi ha la faccia tosta di sostenere che non è mai accaduto e che continua a non accadere? Ecco perché siamo noi i colpevoli della crisi economica (e qualitativa) del giornalismo. Sì, siamo dei codardi e preferiamo fare comunella tra di noi, magari mettendo da parte i potenziali ribelli, pur di lasciare le cose come stanno. Sapete anche perché? Ci piace dire in giro che siamo giornalisti. Perché dirlo fa “figo”: è uno status non una professione che ha in sé una straordinaria funzione pubblica. Bisogna, però, cominciare a reagire, no? Non tanto per il giornalismo ma per i lettori che hanno il diritto di essere informati come si deve. E, per raggiungere quest’obiettivo, occorre che il giornalista e ogni altro elemento fondamentale del processo dell’informazione riprenda a fare il suo mestiere e che sia pagato come si deve, sostenendo con forza che il giornalismo non è quel mestiere che ti permette di fare il salto di qualità sociale ed essere, magari, invidiato; non è quel mestiere che ti permette di intervistare la gente che conta e, talvolta, con tanto di fotografia da condividere su Facebook. No, il giornalismo è una missione. Ecco perché ho deciso di alzare la voce. Ogni qual volta avrò la prova certa di una redazione che paghi un giornalista con pochi euro, contravvenendo alle tariffe indicative, segnalerò il fattaccio all’Ordine dei Giornalisti che così non potrà non ascoltarmi. Anche perché a che serve l’Ordine dei Giornalisti se il giornalista sta smettendo di essere una professione? Se sono pochi i giornalisti nell’Isola che riescono a fare bene il proprio lavoro e possono altresì tornare a casa, con la sicurezza di pagare l’affitto e riempire il frigorifero? No, se l’Ordine dei Giornalisti non sveglia le coscienze dei giornalisti e non bacchetta quanti stanno letteralmente rovinando la categoria, accettando paghe da fame, non ha alcun senso di esistere. È il momento del giornalismo 3.0. Prima che il giornalismo, quello vero, si estingua. P.s.: questo post è dedicato ai tanti giornalisti siciliani straordinari in giro che meriterebbero non solo attestati di stima ma di dignità.
Per colpa dei giornalisti ci rimettono i cittadini, scrive “Il Fango Quotidiano” il 27 luglio 2015. Come era prevedibile e come avviene sistematicamente in Italia, quando una categoria di tipo corporativo, in questo caso quella dei giornalisti, viene in qualche modo a (ri)trovarsi oggetto di polemiche e/o interventi normativi, partono il sollevamento di scudi, gli allarmi anti censura e l’esercito di commentatori e indignados si scatena. La diffamazione, il gossip, la delegittimazione, il discredito devono essere accettati come una sorta di “effetto collaterale” necessario e inevitabile al fine di consentire alle INCHIESTE DI MAFIA (quasi mai efficaci e risolutorie) di continuare a essere effettuate. Se si vuole che la legge possa fare il suo corso bisogna per forza di cose accettare il fango. Ecco quindi che “giornali” come il fatto Quotidiano fanno di tutto per creare confusione (e ce ne già tanta senza il loro intervento) mischiando l’uso dello strumento delle intercettazioni alla loro pubblicazione.
Ieri a essere opportunamente travisato e usato è toccato a Raffaele Cantone. Oggi è stato il turno di Nicola Gratteri. A cominciare dal titolo del intervista: “questa legge bavaglio è un regalo ai criminali”, il tutto viene imbastito e diretto al solo fine di imbonire e manipolare i lettori ignoranti che di solito leggono il FQ e far loro dire:” e se lo dice Gratteri allora…”. Peccato che Gratteri sia la stessa persona che ha scritto una proposta inerente alla pubblicazione delle intercettazioni molto più stringente e severa che in un suo articolo recita: «Nei provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, ad eccezione delle sentenze, è vietato l’inserimento del testo integrale di intercettazioni di conversazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione, acquisite agli atti di un procedimento penale, a meno che la riproduzione testuale non sia rilevante a fini di prova». Prevedendo una nuova fattispecie di reato. La “Pubblicazione arbitraria di intercettazioni” “volte a colmare macroscopiche lacune emerse nella prassi in ottica ‘effettività’ del diritto di difesa e riservatezza delle comunicazioni”. Dice ancora Gratteri: “L’inedito divieto mira a una tutela rafforzata del diritto di privacy, eliminando il fenomeno negativo della divulgazione, proprio tramite gli atti dell’autorità giudiziaria, del contenuto di informazioni che esulano l’accertamento processuale. Si vuole così porre uno deciso e serio sbarramento alla possibilità che la lesione alla sfera riservata degli intercettati possa trovare la sua origine nell’attività di impiego procedimentale o processuale dei risultati delle intercettazioni”. Come abbiamo scritto cento volte, Gratteri non intende proteggere chi diffama e pubblica intercettazioni che non hanno rilevanza penale e riguardano persone non indagate, ma garantire il diritto per un cittadino di riprendere di nascosto il proprio estorsore quando viene a chiedere/pretendere il pizzo. Ma i giornalisti hanno gioco facile perchè non appena si sente anche solo parlare di limite alla pubblicazione, Boom! Esplodono i cancelli dell’inferno mediatico e i cavalieri dello zodiaco dell’informazione vengono subito inviati a difendere il diritto di cronaca e d’informazione. Ovviamente al tutto si aggiunge la cialtroneria tipica italiana che nello scrivere la ricetta della carbonara decide di aggiungerci la panna e quindi con l’intenzione di fare una cosa giusta e buona finisce sempre per fare una cagata pazzesca. Ed è quello che sta succedendo anche con l’emendamento a firma Pagano (11 righe sembrano più un articolo di legge che un emendamento…): imporre che il rinvio a giudizio o l’archiviazione debbano essere fatti entro 3 mesi dalla fine delle indagini, pena l’avocazione del procedimento, sembra davvero una stupidaggine. I cittadini hanno diritto di sapere che Crocetta è stato in silenzio dopo avere ascoltato una frase inesistente, e per questo “crocifisso”; devono sapere che Matteo Renzi giudica Enrico Letta un incapace e pensava a un rimpasto di governo (non è suo diritto avere pensieri propri e strategie politiche…); devono sapere che D’Alema vende il vino o meglio si vende per un po’ di vino, cosa poi smentita e finita nel dimenticatoio, ma che ha ottenuto in pieno l’obbiettivo di sputtanare e infangare D’Alema; devono sapere che il figlio di Lupi ha accettato un lavoro e un orologio come fanno e farebbero tutti i figli normali d’Italia. Queste sono le cose importanti… Perchè se la gente conosce queste cose può cambiare idea e votare un comico pazzo che va in Grecia a speculare voti sulla povera gente per poi tornare andare in vacanza extralusso e dire: “i ristoranti greci erano pieni”. Uno che in piazza urla che i greci si iniettano il virus dell’HIV per aver il sussidio. Uno che si preoccupa di ricordare che uno stragista aveva pur le sue motivazioni. Il bello è che per sapere cose normali e ovvie si utilizzano le intercettazioni ma per le assurdità le bufale e le stupidaggini bastano gli occhi e le orecchie…Alla fine finirà tutto a tarallucci e vino, come sempre: I giornalisti continueranno a gettare fango e diffamare al solo fine di guadagnare e aiutare il loro partiti o la loro coalizione di riferimento; i fannulloni continueranno a timbrare 5 cartellini e andarsene in piscina durante l’ora di lavoro e a scioperare per non timbrare o essere controllati, naturalmente sempre garantiti dai sindacati; i criminali continueranno a ridere del caos calmo che li avvantaggia e a fare i loro affari grazie ai politici ecc. A rimetterci, ovviamente, saranno sempre e solo i cittadini che non avranno nemmeno più il diritto di tutelarsi e difendersi.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.
Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.
L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.
Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.
Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.
Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.
Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.
Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".
Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale , si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell' agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.
Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola. “I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.
Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. la profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto-ai-bambini-Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà-di-espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».
Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva-maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.
Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica-Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.
Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.
E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga , ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.
Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?
«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell' Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».
Lei l'ha conosciuta?
«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».
Fu una visione? O udì una voce?
«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».
Che cosa sa della mistica?
«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».
Ma che ha di speciale L'Evangelo ?
«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».
L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.
«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».
Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.
«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».
L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».
«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».
Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.
«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».
È vero che Pio XII stimava la Valtorta?
«È vero che lesse l' Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».
Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?
«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».
Sorprendente.
«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».
Perché me lo racconta?
«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque
immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!