Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
CULTUROPOLI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELLA DISCULTURA
"L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati. L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. La raccomandazione nel pubblico impiego è la negazione della meritocrazia e dell'efficienza, oltre ad essere un reato impunito e sottaciuto, dato che sono gli stessi raccomandati ad occuparsene. Cultura e scienza in mani improprie.
Le scuole non mi invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".
di Antonio Giangrande
CULTUROPOLI
L'ITALIA DELLA DISCULTURA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
«Ecco perchè ci sono tanti "coglioni" in giro, se poveretti non hanno nulla da imparare!»
Dr Antonio Giangrande
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
SOMMARIO PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA NUOVA IDEOLOGIA.
CERVELLI IN FUGA.
ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.
ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.
LA SCUOLA AL FRONTE.
ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.
L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!
ADDIO AL CONGIUNTIVO.
POPULISMO. KITSCH, TRASH E CATTIVO GUSTO.
I NOBEL D’ITALIA.
PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".
FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.
ELOGIO DEL PLAGIO. CHI, COME, E PERCHÉ IL “COPIA E INCOLLA” È LA BASE – NASCOSTA – DELLA LETTERATURA.
GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.
BIBLIOGRAFIA ED OSSESSIONE.
LE ULTIME PAROLE FAMOSE: GLI ADDII DEL SUICIDIO.
ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.
GLI ITALIANI: TRA I POPOLI PIU’ IGNORANTI.
IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.
IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.
L'ANTIPOLITICA E L'ASTENSIONISMO.
L’ANTIPOLITICA E LE SUE VITTIME. IL PACIFISMO.
IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.
LA LIBERTA'.
LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?
CHI TRADI' LE BRIGATE ROSSE? I ROSSI!
OWENS: ROOSEVELT PIU’ RAZZISTA DI HITLER.
A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?
RISCRIVERE PER DOMINARE. LA STORIA COME ARMA DEI REGIMI.
BELLA CIAO….UN′ENNESIMO FALSO STORICO.
FEMMINISMO COME DERIVA CULTURALE.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.
E’ STATO LA MAFIA!
LEZIONE DI MAFIA.
GLI ANTIFASCISTI MILITANTI? SONO FASCISTI.
SVEGLIATI ITALIA E LAVORA CON IL TURISMO.
IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI.
TITOLATI SI’, TITOLATI NO!
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
IL MONDO DIVISO TRA COLTI ED IGNORANTI.
L’IGNORANZA DELLE PERSONE COLTE.
BENEDETTO SIA ZALONE.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
SOMMARIO SECONDA PARTE
A PROPOSITO DELLE FIERE-MOSTRE DEL LIBRO E LE BIBLIODIVERSITA’. LA LOBBY ROSSA DELLA CULTURA.
L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".
GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.
GLI INFLUENCER.
GLI INTELLETTUALI ITALIANI. NON SOLO CULTURAME.
LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.
CLAUDIO BAGLIONI E LE SOLITE CANZONETTE.
MAI NULLA CAMBIA. 1968: TRAGICA ILLUSIONE.
1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.
A COSA SERVONO...
LE FAKE NEWS CHE GIRANO IN RETE.
L’HA DETTO LA TELEVISIONE! LE FAKE NEWS DI STATO.
LA VERITA' E' FALSA.
LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.
LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.
IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.
GLI ESTREMISTI DELLE NOSTRE VITE.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
ESSERE LIBERALI OD ESSERE DI SINISTRA?
25 APRILE 2015. 70 ANNI DALLA LIBERAZIONE. L'ALTRA RESISTENZA CONTRO IL RITO DELL'ANTIFASCISMO UN PO’ FASCISTA.
NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.
VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.
POVIA ED I MORALIZZATORI.
EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.
LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).
ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!
LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
VA TUTTO BEN MADAMA LA MARCHESA. INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO E LAVAGGIO DEL CERVELLO.
BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.
LIBERTA'. TERMINE VACUO. PATRIA, ORDINE E LEGGE: SLOGAN CHE UNISCE DESTRA E SINISTRA.
OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.
LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.
L’ISLAM NON SI TOCCA.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.
LE CROCIATE: ORGOGLIO CRISTIANO!
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.
IL NATALE COME TRADIZIONE E CULTURA: GENESI ED EVOLUZIONE.
IL TERRORISMO ISLAMICO CHE VIENE DA LONTANO. QUANDO NEW YORK E PARIGI ERAVAMO NOI.
LA DIFFERENZA TRA RELIGIONI.
INTELLETTUALI A SCARTAMENTO RIDOTTO.
COSA NON VORREMMO PIU' VEDERE IN TV.
COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.
FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.
NEOREALISMO E MODA.
CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
PREMIO STREGA ED AUTOCITAZIONI. LO SCRITTORE NON E’ MAI AUTORE.
ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.
SI CENSURA, MA NON SI DICE.
BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.
SIAMO TUTTI PUTTANE.
LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
LA SOTTOCULTURA IDIOTA DELL'ANTIFASCISMO MILITANTE. L'OSTRACISMO ARTISTICO A DANNO DEI MUSSOLINI.
SESSO E CIVILTA’. IL COMUNE SENSO DEL PUDORE: QUANTO E’ COMUNE E QUANTO E’ IMPOSTO?
LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.
SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.
CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.
CULTURA, INFORMAZIONE E SOCIETA’. A PROPOSITO DI WIKIPEDIA. L’ENCICLOPEDIA CENSORIA.
SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI.
PROMOZIONE DELL'ITALIA? NO GRAZIE!
PARLIAMO DI PRODOTTI EDITORIALI E LORO DISTRIBUZIONE.
LA CASTA DEGLI EDITORI: LA CENSURA OCCULTA.
PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.
LA TRUFFA DELLE CLASSIFICHE DEI LIBRI.
UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
SIAE: LA STORIA.
PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.
LA NUOVA IDEOLOGIA.
La nuova ideologia, scrive Piero Sansonetti il 27 Ottobre su "Il Dubbio". Nelle classi dirigenti, non solo nel popolo, sta crescendo una nuova, terribile, ideologia totalitaria. Gli avvocati, restati soli a difendere il Diritto. È chiaro che bisogna tenere conto del dolore, della rabbia che provano i parenti delle vittime. Non credo che il problema siano loro. Il problema è il clima nel quale vivono. Il modo nel quale si costruisce quello che i filosofi chiamano lo “spirito pubblico”. La reazione dissennata dei parenti che hanno aggredito l’avvocato è maturata dentro lo spirito pubblico che oggi è dominante. E’ uno spirito pubblico intollerante, arrogante, egoista, giustizialista, che spinge ciascuno di noi a cercare di essere prima di tutto giudice severo e spietato. Il massimo della rettitudine morale la si raggiunge giudicando e non perdonando niente. È in questo modo che si contribuisce al miglioramento e alla pulizia della nostra società. Naturalmente in questa idea non c’è posto per il diritto. E tantomeno per l’avvocato, che del diritto è protagonista decisivo. E di conseguenza l’avvocato, e la sua pretesa di far prevalere il diritto sull’etica, o sulla presunta etica, diventa il nemico. L’avvocato non è più visto come una figura essenziale al funzionamento di una comunità civile, ma come l’” arma” del colpevole. Neppure il complice: di più, lo strumento attraverso il quale il colpevole raggiunge la massima abiezione possibile che un delitto può produrre: l’impunità. Se la vetta dell’etica è la punizione, vuol dire che l’infimo dell’etica è l’assoluzione. E l’avvocato è il garante, o almeno il ricercatore dell’assoluzione, e dunque il colpevole dell’assoluzione, e quindi è lui che commette il delitto più grande, più grande ancora del delitto commesso ( o forse anche non commesso) dall’imputato. L’imputato difende se stesso, l’avvocato difende il delitto. E quindi forse l’imputato è innocente, l’avvocato mai. In questa logica terrificante, nella quale tutti i principi della civiltà giuridica vengono travolti, è chiaro che si giustifica pienamente anche l’aggressione di ieri a un avvocato di Pisa. Il problema è che non è una logica che appartiene a una piccola minoranza, a qualche brandello di “plebe”, e che è contrastata dall’intellettualità, dall’informazione, dalla politica. Il contrario: è il fondamento della nuova ideologia dominante, sostenuta dai grandi giornali, da quasi tutte le Tv, dalla politica, dal web. Si dice che le ideologie siano morte. Non è vero. Sono morte le grandi ideologie del novecento, fondate sullo studio, sulla ricerca, sulla filosofia, sul tentativo di creare giustizia sociale e libertà, sull’illusione che la giustizia sociale potesse essere il motore della modernità. Sono morte le ideologie rivoluzionarie – pace, uguaglianza e lavoro – o quelle conservatrici o reazionarie – ordine e patria – ma è nata una nuova ideologia, fortissima, vastissima – trasversale tra sinistra e destra – che riproduce le vecchie idee (vecchie vecchie) dell’aristocrazia. Questa ideologia sostiene che esiste un piccolo gruppo di eletti, di giusti, di puri, in grado di giudicare e punire la grande massa dei reprobi e dei corrotti. Ti dice: se vuoi dimostrare di essere tra i giusti devi giudicare e punire anche tu. Tanto più odierai gli altri e li indicherai come colpevoli, tanto più potrai dimostrare la tua purezza, la tua grandezza. È un’ideologia che ogni giorno dilaga un po’ di più. Moltissime categorie intellettuali si sono prostrate a questo nuovo Dio che avanza. Forse gli avvocati sono gli unici che resistono. Si oppongono. Propongono un modello diverso e si aggrappano al Diritto. Per questo sono indicati come bersagli dell’ira giustizialista. Per questo le persone che ieri a Pisa hanno aggredito un avvocato, oggi, probabilmente, non si pentiranno ma si sentiranno persone migliori.
Esiste un canone etico italiano: ecco il suo decalogo, scrive Dino Cofrancesco l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Quali sono le caratteristiche di questa cultura politica – altrimenti definita “canone ideologico italiano”? Il caso dell’insegnante elementare di sostegno Lavinia Flavia Cassaro è emblematico. La militante dei centri sociali protagonista, a Torino, dell’aggressione alla polizia, per impedire una manifestazione di un gruppo della destra radicale, ha ribattuto alle accuse che le son piovute addosso da ogni parte, di essere «giustamente delusa dal sistema statale, per il vilipendio quotidiano nei confronti della Costituzione, per le connivenze, ma soprattutto le pratiche fasciste, in questo Paese. Sono una persona e sono antifascista. Non mi vergogno della sana rabbia che tutta questa incomprensibile indifferenza scatena nel mio cuore e nella mia mente». Estremista? Sicuramente lo è, ma al modo in cui lo è il memento pauperistico- evangelico del cristianesimo, che le promesse contenute nel Discorso della Montagna intende realizzare già su questa terra, hic et nunc. Lavinia Flavia Cassaro è la fondamentalista di una political culture ampiamente diffusa nel nostro paese e, soprattutto, nelle nostre scuole, dove gli onnipotenti pedagogisti cattolici degli anni cinquanta sono stati sostituiti da altri maîtresà-penser di ben diverso orientamento etico- politico (e i cattolici rimasti sono quelli alla don Milani). Quali sono le caratteristiche di questa cultura politica – altrimenti definita “canone ideologico italiano”? Proviamo a riassumerle in un decalogo:
1. Uno stile polemico che vede la virtù politica nella lotta senza tregua – e senza esclusione di colpi ai nemici del Bene (la Patria, la Classe, l’Ortodossia religiosa).
2. Una visione del mondo che non accetterà mai il principio che i valori e gli interessi degli individui e dei gruppi sociali, quando non contrastino con le leggi, stanno tutti sullo stesso piano, nel senso che sono tutti egualmente legittimi e degni di rispetto e considerazione.
3. Una teoria del sacerdozio universale laico e secolarizzato che, conferendo ad ogni singola persona il diritto di leggere e interpretare la Bibbia laica – ovvero la Carta Costituzionale -, si traduce nel processo sempre aperto alle autorità costituite (Governo, Parlamento, apparati di sicurezza) chiamate a rispondere del loro operato in difesa dei sacri principi.
4. Un rigetto naturale della filosofia liberale delle Forme, in base alla quale il rispetto delle regole del gioco conta molto di più del risultato del gioco e una causa buona che vinca barando non è più tale. Per il canone ideologico italiano, le procedure si rispettano finché fanno vincere i nostri ma diventano strumenti inservibili e nocivi se portano al potere gli altri.
5. Una sorta di teoria della rilevanza costituzionale della piazza che vede nella “partecipazione” (cortei, sfilate, sit in, occupazioni di edifici pubblici, proteste davanti alle sedi dei partiti o delle ambasciate) la quintessenza della democrazia, la manifestazione autentica e diretta della voluntas populi di cui la classe politica è tenuta a prendere atto (e se non lo fa, vuol dire che il paese legale è lontano dal paese reale).
6. La concezione degli organi dello Stato come bracci secolari al servizio non della Legge ma della sostanza etica che regge la comunità nazionale. Per fare un esempio, la polizia non ha il compito di far rispettare le norme volte a rendere efficace l’art.49 della Costituzione («Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» ) ma deve sciogliere con la forza le riunioni di Casa Pound e chiudere la loro sedi.
7. Il ritorno alla divisione medievale dei poteri: da una parte, il potere temporale – lo Stato, l’Amministrazione, i tribunali, le scuole etc. – dall’altra, il potere spirituale – i custodi della Rivoluzione, fascista, comunista, antifascista – al quale il primo dovrebbe sempre sottoporsi. Di qui il Partito carismatico ma soprattutto le associazioni carismatiche che non sono gruppi di pressione accanto ad altri gruppi ma vere e proprie versioni secolari dei Consigli Supremi islamici i cui verdetti sono più importanti delle disposizioni legislative o delle stesse sentenze dei tribunali. Sono loro, ad esempio, che debbono stabilire se Casa Pound abbia o no libertà di riunirsi e di far cultura. 8. Una concezione storiografica edificante che non crede, sostanzialmente, all’obiettività della ricerca e alla regola aurea del “sentire le due campane”: solo la grande autostrada che porta alle conquiste ideali di oggi va tenuta in considerazione – le strade secondarie sono inutili e dannose. Fuor di metafora, i fatti si distinguono in fatti principali – quelli che descrivono le fasi dell’ascesa trionfale del Bene – e in fatti secondari – quelli che enfatizzando i costi in termini di violenza e di barbarie, scatenate dal conflitto ideologico, gettano fango e ombra su stagioni eroiche.
9. Il dovere di rimuovere i simboli del regime abbattuto, sul modello della distruzione di Palmyra da parte dei talebani. Statue, monumenti, intitolazioni di strade vanno tutti abbattuti, come facevano gli antichi ‘ fondamentalisti’ cristiani con gli imponenti resti della classicità pagana. Per fare un altro esempio significativo, una lapide, nell’atrio di un Ateneo, che ricordi Giovanni Gentile, grande filosofo ma soprattutto grandissimo promotore di benemerite iniziative culturali, viene considerata come un vulnus, un’offesa alle vittime del fascismo, una profanazione della Costituzione. Al dovere di rimuovere i simboli del regime abbattuto si lega la “promozione” delle città che diedero un maggiore contributo di sangue alla buona causa, a “città sante” in cui non possono avere sede o, semplicemente, tener comizi o congressi gli eredi dei regimi travolti dalla santa collera popolare.
10. Un legame complesso col populismo. Quello del canone ideologico italiano potrebbe definirsi, con un ossimoro, un populismo elitario: il popolo è, sì, l’autorità più alta ma il potere effettivo sta nelle avanguardie carismatiche gli antemarcia, i resistenti, i movimenti collettivi e le loro guide etc. – che ne interpretano la volontà più autentica, che la conta dei voti non rispecchia. Per dirla con Rousseau, nel populismo senza aggettivi, la volontà del popolo è la volonté de tous, nel populismo elitario è la volonté generale.
Gli interpreti della volontà generale stanno all’Autorità suprema, il Popolo, come in Giappone fino al 1867, gli shogun stavano al Tenno – la fonte di legittimità, che serviva solo a legittimarne il potere. Di qui la diffidenza per le masse – la “plebe” quando non siano dirette dai guardiani della comunità politica. Se si tiene presente questo decalogo, c’è da chiedersi: ma qual è poi, la colpa della «professoressa dell’odio», come Lavinia Flavia Cassaro è stata definita da Matteo Renzi? La pasionaria siculo- piemontese, in realtà, è l’espressione più coerente dell’canone ideologico italiano e di quella giustizia-fai-da-te di cui si è detto al punto 3 – parlando della teoria del sacerdozio universale. È vero che non si inveisce o non si attacca la polizia posta a salvaguardia dell’ordine pubblico, ma una polizia che protegge una compagnia di zombie, lasciandoli liberi di celebrare le loro messe nere e i loro riti satanici non giustifica l’indignazione e la «sana rabbia» che l’ «incomprensibile indifferenza scatena» nel «cuore» e nella «mente» di chi ha preso maledettamente sul serio gli slogan della nostra interminabile guerra civile? La si cacci pure dalla scuola – come peraltro sarebbe giustissimo tanto il suo posto verrà preso da un’altra, da cento, da mille Cassaro.
CERVELLI IN FUGA.
Poletti, il calcetto e tutte le gaffe su giovani e lavoro. Dai "bamboccioni" di Padoa Schioppa alla monotonia del posto fisso di Monti. Oltre Poletti, tutti i politici che sono scivolati sui giovani e il loro futuro, scrive Maria Franco il 29 marzo 2017 su "Panorama". Questa volta non si è trattato di un congiuntivo sbagliato, di un errore di geografia, di una citazione erroneamente attribuita e nemmeno di sviste sulla Costituzione. A scatenare la polemica che ha investito il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stata infatti una frase espressa in italiano corretto, secondo molti anche onesta nel contenuto ma per tutti tragicamente inopportuna.
Il calcetto. Incontrando gli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna, Poletti ha infatti suggerito loro di coltivare il più possibile le relazioni sociali. Nulla di male se non avesse anche aggiunto che per trovare lavoro è “più utile giocare a calcetto che mandare in giro curricula”. Molte ricerche gli danno ragione: secondo i dati Isfol solo il 3% trova lavoro attraverso i centri per l'impiego mentre “l’Italia continua ad essere un paese – ha dichiarato il Commissario straordinario dell'ente pubblico di ricerca Stefano Sacchi - dove per trovare lavoro conta moltissimo la rete di conoscenze che un individuo può mettere in campo”. Eppure il ministro è stato travolto da critiche e attacchi e le opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle in testa, ne hanno chiesto le dimissioni.
I cervelli in fuga. D'altra parte il ministro del Lavoro non è nuovo a questo tipo di esternazioni scivolose. Qualche mese fa, a colloquio con dei giornalisti in difesa del Jobs Act, Poletti usò frasi piuttosto sprezzanti nei confronti di chi decide di lasciare l'Italia per cercare miglior fortuna all'Estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche allora il ministro tentò di correggere il tiro e si scusò: “non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Un'altra polemica risale a circa un anno fa quando sempre Poletti dichiarò che “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.
Fornero e i giovani “choosy”. Tra i ministri meno amati nella storia della Repubblica italiana, Elsa Fornero viene ancora oggi ricordata come la professoressa che ha sbagliato i conti sui cosiddetti “esodati” e che ha dato dei “choosy” (schizzinosi) ai giovani che non si accontentano di ciò che gli viene offerto quando si affacciano al mondo del lavoro. Per esattezza ciò che allora fece la ministra fu elargire loro il consiglio di “non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi”. Ricordando ciò che ella era solita dire sempre ai suoi studenti, Fornero suggeriva che fosse opportuno prendere subito il primo lavoro che capitava per poi “da dentro” guardarsi intorno. Anche in questo caso sarebbe ipocrita negare che il 99% dei genitori italiani suggeriscano la stessa cosa ai loro figli. Ma da un ministro del Lavoro i giovani italiani si aspettano non consigli bensì soluzioni che li sottraggano a un futuro da precari a tempo indeterminato.
Monti e il posto fisso. Certo è che dentro il governo Monti, di cui Fornero ha fatto parte, il posto fisso non ha mai goduto di un particolare favore. “Che noia” dichiarò infatti l'allora premier Mario Monti a Matrix. “I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare”. Peccato che in un Paese dove, secondo dati Istat, la disoccupazione giovanile si attestava a gennaio al 40,6%, il problema non è più nemmeno quello di trovare un posto fisso ma di trovarne uno qualsiasi.
Anna Maria Cancellieri e i mammoni. Quasi che denigrare i giovani fosse diventata l'ossessione di molti dei membri del governo Monti, anche l'allora ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non si fece scappare l'occasione di lanciare la propria personale bombetta. Intervistata da Tgcom24, la ministra che fu costretta a dimettersi quando da Guardasigilli del governo Letta fu coinvolta nel caso Ligresti, in una sola frase Cancellieri rievocò la celebre etichetta di “bamboccioni” appiccicata addosso ai giovani dal Padoa Schioppa e ribadì il giudizio espresso da Monti sul posto fisso: “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città – disse infatti – di fianco a mamma e papà...”.
Martone e gli sfigati. Sui giovani, il lavoro e il loro futuro anche l'allora viceministro al Welfare (sempre del governo Monti) volle consegnare alle cronache una perla di presunta saggezza ma di dubbia opportunità. Alla sua prima uscita pubblica, un convegno sull'apprendistato organizzato dalla Regione Lazio, Michel Martone bollò infatti come uno “sfigato” chi a 28 anni ancora non è riuscito a mettersi una laurea in tasca. “Dobbiamo dire ai nostri giovani - disse il vice della Fornero - che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. Anche in questo caso il consiglio dall'alto, paternalistico e secchione, di un “giovane” particolarmente fortunato, fu respinto al mittente con profluvio annesso di infuocate polemiche.
Padoa Schioppa e i bamboccioni. A conquistarsi il titolo di “madre di tutte le gaffe” fu quella scappata allo scomparso ministro dell'Economia nel secondo governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa. Nel presentare la finanziaria del 2007, l'allora titolare di via XX Settembre disse infatti che le misure a favore delle famiglie sarebbero servite anche “a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa". Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”. Ma quanti sono quelli che non si rendono autonomi per scelta? Una domanda che evidentemente il ministro non si pose o che non ritenne opportuno porsi per evitare di essere in futuro ricordato solo per questo episodio nonostante una prestigiosa e lunga carriera ai vertici sia della Commissione europea che della Banca d'Italia.
Brunetta e l'Italia peggiore. Anche perdere la pazienza in pubblico può giocare brutti scherzi a chi fa politica. È successo per esempio al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta all'epoca in cui era ministro della Funzione Pubblica. Al termine del suo intervento a un convegno sull'innovazione, un gruppo di precari chiede di prendere la parola. Il ministro chiamò sul palco due donne (precarie dell'agenzia tecnica del ministero del Lavoro) e appena quelle pronunciarono la parola “precarie”, Brunetta scese dal palco pronunciando uno stizzito “siete l'Italia peggiore”.
Poletti, Padoa-Schioppa, Berlusconi: dieci anni di battute contro i giovani precari. "Meglio il calcetto del curriculum" è stato solo l'ultimo sfottò di una lunga serie di uscite governative. Da Donne sposate mio figlio! agli sfigati senza ancora una laurea, scrive Wil Nonleggerlo il 28 marzo 2017 su "L'Espresso". Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti "Sfigati", "poco occupabili", "bamboccioni", "choosy"”. Insomma, "l'Italia peggiore". Dieci anni di crisi economica, dieci anni di battutine, sfottò, consigli imbarazzanti per studenti, precari e mondo del lavoro in generale. Ecco la risposta governativa ad una disoccupazione giovanile che veleggia stabile sul 40%, tra le più alte dell'Eurozona. L'ultimo caso riguarda il ministro del Lavoro Poletti: inviare curricula? Meglio il calcetto, crea più opportunità. Scivoloni di questo tipo non riguardano ovviamente solo i governi Renzi-Gentiloni, partono da Padoa-Schioppa e attraversano 10 anni di esecutivi, politici e tecnici. Li abbiamo raccolti per voi.
- Meglio il calcetto dei curricula (Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti agli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna - 27 marzo 2017): Nella ricerca di un lavoro "il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale", si creano più opportunità "a giocare a calcetto che a mandare in giro i curricula".
- Dopo lo scoppio delle polemiche il ministro Poletti prova a spiegare meglio il concetto (28 marzo 2017): "Critiche? È una stupidaggine sintetizzare in una riga due ore di dialogo con i ragazzi. Il calcetto, se volete, è la metafora della relazione sociale".
- Fuori dai piedi (Il ministro Poletti a colloquio con i giornalisti a Fano - 19 dicembre 2016): "Bene così: se 100mila giovani sono andati via non vuol dire che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Quelli che se ne sono andati è bene che stiano dove sono, il Paese non soffrirà sicuramente nel non averli più tra i piedi".
- Consigli per la laurea (Il ministro Poletti - non laureato - durante la convention di Veronafiere "Job&Orienta" - 26 novembre 2015): "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".
- Italiani poco occupabili (Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta - 9 ottobre 2013): "L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro".
- Choosy (Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, durante un convegno a Milano - 22 ottobre 2012): "I giovani escono dalla scuola e devono trovare un'occupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi".
- Sfigati (Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti, alla sua prima uscita pubblica, in un convegno sull’apprendistato organizzato dalla Regione Lazio - 24 gennaio 2012): "Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato".
- Precari, siete l'Italia peggiore! (Renato Brunetta, ministro per la Funzione Pubblica del governo Berlusconi, risponde così ad un gruppo di precari durante la terza edizione della “Giornata Nazionale dell’Innovazione” - 14 giugno 2011): Il ministro invita due donne che chiedono di fare una domanda sul palco, ma non appena pronunciano la parola "precari" Brunetta perde completamente la pazienza: "Grazie, arrivederci. Questa è la peggiore Italia!". Uscendo dalla sala strapperà pure il cartellone dei manifestanti.
- La ricetta di Berlusconi contro la precarietà: donne, sposate mio figlio! (L'allora premier risponde ad una studentessa che nel corso della rubrica del Tg2 Punto di vista gli chiede come sia possibile, per una giovane coppia, farsi una famiglia senza un lavoro stabile - 13 marzo 2008): "Intanto bisognerebbe che in questa giovane coppia - ed è un consiglio che da padre mi permetto di dare a lei - dovrebbe cercarsi magari il figlio di Berlusconi o di qualcun altro... Lei col sorriso che ha potrebbe anche permetterselo!".
- I bamboccioni (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze del governo Prodi, promuovendo agevolazioni all'affitto per i più giovani - 6 ottobre 2007): "Mandiamo i bamboccioni fuori casa!".
“Sfigati”, disse il dottor Michel Martone, viceministro per un quarto di stagione. “Bamboccioni”, disse il ministro Tommaso Padoa Schioppa. “Choosy”, schifiltosi e pigri, così il ministro Elsa Fornero. “Giovani in fuga? Conosco gente che è meglio non averla tra i piedi”, dice il ministro Giuliano Poletti in carica al dicastero del Lavoro. In principio fu Tommaso Padoa Schioppa. Nel 2007 l'allora ministro dell'Economia, scomparso nel 2010, definì "bamboccioni" i giovani italiani. "Mandiamoli fuori di casa", disse all'epoca. E giù polemiche, con l'Italia spaccata tra bamboccioni sì e bamboccioni no. Da allora è stato un susseguirsi di sparate sui ragazzi del Belpaese. Fornero, Martone, Giovannini e il 26 novembre 2015 Giuliano Poletti secondo cui una laurea presa a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico.
Basta! Ora siamo pure incompetenti. Da Padoa-Schioppa a Fornero, da Martone a Giovannini: i ministri se la prendono sempre con gli italiani in difficoltà. Bamboccioni, choosy e chi ne ha più ne metta. Ma perché non si guardano allo specchio? 9 ottobre 2013 da Libero quotidiano. Dopo “choosy”, “scansafatiche” e “bamboccioni”, ora gli italiani sono pure “incompetenti”. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, dopo sei mesi a palazzo Chigi centra subito l’obiettivo: farsi odiare da chi lavora e soprattutto da chi un lavoro non ce l’ha. Intervenendo a un convengo sul Senato sui 10 anni della legge Biagi, Giovannini afferma: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Affermazioni pesanti di per sé, ancora di più se a pronunciare è il ministro del Lavoro”. Ma il ministro non fa marcia indietro: “Quelle cifre – ha aggiunto – ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità. La responsabilità di questa situazione – ha concluso – è di tutti”. Il dato di ieri dell’organizzazione mostrava come l’Italia sia tra gli ultimi posti al mondo per le competenze fondamentali necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e della vita sociale. Ma quei dati di certo non sono il passaporto per poter definire gli italiani come “incompetenti” e “inoccupabili”. Insomma Giovannini si accoda subito alla buona tradizione di offese che sono piovute sugli italiani negli ultimi anni. Giovannini come la Fornero – L’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero qualche mese prima di lasciare il suo incarico disse chiaramente: “Gli italiani costano tanto e lavorano poco”. La bordata era arrivata subito dopo l’attacco ai giovani disoccupati che, sempre la Fornero, definì “choosy”, ovvero “stizzinosi, con poco spirito di adattamento”. Infine l’attacco di Giovannini è in linea con quello dell’ex ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa che definì i giovani disoccupati come “bamboccioni”. Mentre l’ex sottosegretario al Lavoro, Martone disse che “laurearsi dopo i 28 anni, è roba da sfigati”.
Bamboccioni, choosy, pistola: quando i ministri fanno infuriare i giovani, scrive Ugo Barbàra su "Agi" il 20 dicembre 2016. Le scuse non bastano a fugare le nubi di tempesta che si addensano sul ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero" ha detto dopo che sul web si è diffusa alla velocità della luce una sua affermazione riportata dalla stampa su alcuni giovani andati all'estero, "questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi". "Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso", si legge nella nota di precisazione. "Penso, semplicemente", aggiunge, "che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie".
Il Fatto Quotidiano traccia un parallelismo tra le parole di Poletti e quelle di Claudio Scajola, che definì "rompicoglioni" Marco Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle nuove Brigate Rosse. Ricercatori, ma anche liberi professionisti di livello, imprenditori, inventori di start up: per Poletti meglio che se ne siano andati, ad arricchire con le loro conoscenze, la loro capacità di intuito e di analisi, la loro immaginazione e fantasia, altri paesi.
Non è la prima volta che Poletti attira su di sé le ire dei laureati. Poco più di un anno fa se ne uscì con un'altra frase destinata a scatenare ondate di polemiche: "rendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21". Ma non è l'unico, tra i vertici delle istituzioni, a primeggiare per impopolarità tra i giovani.
In ottobre è stato il ministero dello Sviluppo economico a fare una gaffe non da poco: la blogger Eleonora Voltolina aveva trovato in un opuscolo destinato agli investitori esteri un invito forse allettante per loro, ma non lusinghiero per i lavoratori italiani il cui senso era questo: costano poco anche quando hanno un elevato tasso di scolarizzazione.
Nell'ottobre del 2012 fu l'allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a finire sotto il fuoco delle polemiche per una frase sui giovani che non devono essere troppo schizzinosi al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. “Non devono essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Meglio cogliere la prima occasione e poi guardarsi intorno”.
Dieci mesi prima, nel gennaio del 2012, era stato il viceministro del Lavoro, Michel Martone, a dare degli 'sfigati' ai giovani: "Se a 28 anni non sei ancora laureato - aveva detto partecipando a un incontro sull'apprendistato - sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari".
Nell'ottobre del 2007 era stato l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a usare un termine destinato a diventare di uso comune nel dibattito politico. Le misure a favore delle famiglie, disse presentando la finanziaria, serviranno anche "a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa. Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi".
La guerra infame del potere contro i giovani di questo Paese. Da Poletti alla Fornero. Ma il suo capostipite fu il ministro Padoa Schioppa, passato alla storia con la sua invettiva contro "i giovani bamboccioni", scrive Luca Telese il 20 dicembre 2016. Dei pistola. Malagente. Persone indesiderate da tenere - addirittura - fuori dall'Italia. L'incredibile gaffe del ministro al Lavoro Giuliano Poletti questa volta va studiata nel dettaglio. E non per ridicola e flebile richiesta di scuse che ha seguito l'infelice sortita, ma perché - purtroppo - non rappresenta un caso isolato. "Se 100mila giovani se ne sono andati dall'Italia - ha detto il ministro con incomprensibile fare aggressivo - non è che qui sono rimasti 60 milioni di 'pistola'". Il ministro del Lavoro, conversava amabilmente con i giornalisti a Fano e pochi minuti prima aveva difeso il Jobs Act del governo e aperto alla possibilità di rivedere le norme sui voucher. Già questa, a ben vedere, era una manifestazione di stato confusionale, visto che solo tre giorni prima lo stesso ministro si augurava una crisi anticipata del suo governo, pur di impedire il referendum abrogativo sui voucher e sull'articolo 18. Ma evidentemente, mentre fingeva di aprire, Poletti sembrava anche interessato a punire, se non altro sul piano simbolico: "Intanto - osservava stilando il suo atto d'accusa - bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi". E a questo punto che era arrivato il colpo di grazia, la mazzata sui reprobi. "Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". A chi si riferisse Poletti, non è dato di saperlo, resterà un mistero. Però ci sono almeno due indizi importanti da seguire. Il primo: le parole del ministro arrivano dopo un preferendo in cui le tesi del governo sono state bocciate a maggioranza quasi unanime, dagli elettori compresi nella fascia anagrafica fra i 18 e i 35 anni. La seconda, però, è molto più profonda, sottile, e merita una riflessione.
Denigrare i giovani è diventato uno sport nazionale. La guerra infame ed ideologica dei governi italiani contro i giovani in questo paese parte da lontano, e non è stata incominciata da Poletti. Ha il suo capostipite nelle parole scioccanti del ministro Padoa Schioppa che con il sorriso sulle labbra la sua celebre invettiva contro "i giovani bamboccioni". Italiani infantili e colpevoli perché incapaci di trovare una strada, mammoni, desiderosi di protezioni, pappe pronte e tutele. Non era che l'inizio. Quindi dopo il ministro dell'ulivo, fu la volta della ministra Fornero, la sacerdotessa del rigore con la lacrima facile, in uno dei suoi momenti di melodrammatica megalomania, si lanciò in una invettiva contro "i choosy", gli schizzinosi, contro i ragazzini che non hanno voglia di fare la propria parte. La faceva egregiamente lei, peraltro, massacrando i pensionati, battezzando con le sue lacrime di coccodrillo, battaglioni di esodati.
E che dire dell'allora sottosegretario al lavoro, Michel Martone? Anche lui ci era andato giù duro: "Hai 28 anni e non ti sei ancora laureato? Allora sei uno sfigato". A queste frasi, divenute ormai proverbiale, si sono aggiunte decine di dichiarazioni, di gaffe rivelatrici, di infortuni lessicali, seguiti da scuse più o meno maldestre in alcuni casi, e da nessuna scusa, nella maggior parte. Piuttosto che considerare questo florilegio una collezione di parole dal sen fuggite, o casi isolati, bisognerà rassegnarsi a prendere in considerazione questo repertorio di errori come una sorta di inconsapevole ma fluente manifesto ideologico. Come una dichiarazione di guerra a una classe sociale, anagrafica, che le classi dirigenti italiane considerano nemica. Mentre smantellavano diritti in tutte le leggi sul lavoro a partire dal pacchetto Treu, mentre colpivano la #buonascuola, mentre bastonavano, e non solo metaforicamente la precarietà, costruivano una apartheid di diritti, i governi italiani si sono dati la staffetta in un opera di demolizione psicologica delle loro vittime. Non sono loro ad avere colpa dell'esodo, non nel loro la responsabilità della fuga dei cervelli, non sono loro ad essere deficitari nelle loro risposte e iniqui nel loro operato. Con un geniale riflesso istintivo, hanno trasformando le loro vittime in carnefici, e viceversa.
Per alcuni i privilegi sono ormai una grazia dovuta. A sentire le sparate di Poletti e dei suoi epigoni, è chi paga il prezzo delle loro politiche che si deve vergognare e non viceversa. C'è dietro questa retorica cattiva, anche qualcosa di più, un istinto corporativo. La classe dirigente dei garantiti, che pensa a se stessa, ai propri figli e ai propri privilegi come ad una grazia dovuta. Come al biglietto di ingresso nel club dell'aristocrazia e delle elite. A tutti gli altri, invece, guarda come una masnada di usurpatori, disperati che si affollano bussando alle porte delle loro fortezze. I giovani che sono partiti, in verità, sono quelli che non rinunciano a muovere l’ascensore sociale. Sono quelli che non si mettono in fila di fronte ai nonni e ai baroni. Sono quelli che non accettano la geometria di potere delle vecchie e nuove caste, coloro che non vogliono pagare la tassa d'ingresso nelle corporazioni garantite. Fra qualche anno, quando tutto sarà più chiaro, le Fornero e i Poletti, che in questi anni la stampa e i media hanno trattato con i guanti di velluto, saranno ricordati come i razzisti americani degli anni ‘60, quelli che sorridevano con i colletti inamidati, mentre dormono coperture ideologica discorso lui, ai cappi, e ai roghi in cui si bruciavano i "negri" che non volevano piegarsi e accettare la parte dello zio Tom.
ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.
L'Italia, il Paese con tre milioni di poeti. Sembra che la poesia non ci sia. Poi la incontri in un film, in un centro sociale, tra i libri più venduti. Perché sono tantissimi gli italiani che scrivono, leggono e si finanziano. Con successo, scrive Fabio Chiusi l'1 gennaio 2017 su “L’Espresso”. C’è una “disperata vitalità” nel mondo della poesia in Italia. “Disperata” come in Pier Paolo Pasolini, perché la vita in versi prosegue, muta e si rinnova, eppure ciclicamente bisogna tornare a tastarne il polso, accertarsi che il cuore del paziente batta ancora. Colpa di un mercato inesistente o quasi, che vale oggi secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori appena il 6% del totale dei libri pubblicati per, scrive Nielsen, un venduto complessivo di mezzo milione di copie. Se le stime parlano di circa tre milioni di poeti nel nostro paese, si comprende che i versi si scrivono più di quanto si leggono. Un problema culturale, certo, ma anche un dato che testimonia come la poesia sia e resti «una necessità profonda», dice all’Espresso uno dei massimi autori viventi, Milo De Angelis, «qualcosa che parla alla nostra sete». Un modo per capire quanti però davvero se ne abbeverino, e come, è misurare le sortite della cultura di massa in quella che, anche nell’era del “tutto connesso”, resta una nicchia. C’è una nuova sensibilità nel cinema, per esempio, che si accompagna a successo di pubblico e critica: «Dopo il cannibalismo da reality sulle vite “maledette” dei poeti”», commenta Alberto Pellegatta, classe 1978 e presto in libreria con “Ipotesi di felicità” per Mondadori, «film come “Paterson” e “Neruda” cercano di avvicinare la poesia con maggiore rispetto, e con la cura che si deve alle cose più fragili e preziose, ai dettagli minimi che fanno la differenza, e che quasi tutti trascurano». Ancora, c’è il rinnovato interesse per Giacomo Leopardi, riletto da Alessandro D’Avenia in un libro in vetta alle classifiche di narrativa, e già nel 2014 da Mario Martone nel film “Il giovane favoloso”. Non solo: ci sono i nuovi modi attraverso cui la poesia diventa “partecipata”. In rete, per esempio, il sito “Interno Poesia” sfrutta il “crowdfunding”, cioè il finanziamento tramite donazioni online dei lettori, per lanciare e sostenere le raccolte di autori conosciuti e non. È un modo per ovviare alla richiesta, di buona parte degli editori del settore, di un contributo monetario per pubblicare. E funziona. I progetti, spiega l’ideatore Andrea Cati, vengono sviluppati tramite vere e proprie campagne promozionali della durata di 30-50 giorni basate su presentazioni delle anteprime dei libri proposti, ma anche condividendoli sui social network, nelle newsletter, perfino in video su YouTube dell’autore alle prese con la sua opera. «Si fa una prevendita, come nella musica», dice Cati, parlando di centinaia di partecipanti, la maggior parte giovani, e di budget - duemila euro di norma - raggiunti e superati. Più partecipazione del lettore nell’ideazione stessa del libro, insomma, ma anche più cura per l’immagine, il marketing, il fare della poesia un prodotto di mercato. Idee da cui «gli addetti ai lavori rifuggono», secondo Cati, ma sbagliando: «Senza una buona promozione, le vendite non aumenteranno». Un’altra “innovazione” che fa storcere il naso a chi tradizionalmente detiene le chiavi della poesia sono i “poetry slam”. Lanciate in Italia da Lello Voce nel 2001, queste gare tra poeti con tanto di giuria - votante - selezionata casualmente tra il pubblico sono diventate rapidamente un luogo abituale di aggregazione per poeti e aspiranti tali, ibridando il mondo dei versi con quello dello spettacolo, le qualità del poeta con quelle del performer, ma anche aprendolo a fasce della popolazione che altrimenti non vi entrerebbero in contatto. I numeri sono impressionanti: 250 “slam” in tutto il paese per il solo campionato ufficiale, e presenze dalle poche decine di persone alle centinaia, a seconda della capienza dei luoghi - taverne, centri sociali, biblioteche. «Ma a Perugia ne ho fatto uno con seimila persone», dice Voce, che rivendica l’origine nell’oralità del componimento poetico, e disegna scenari internazionali anche più partecipati. Come in Sudamerica, dove un autore come Arnaldo Antunes, già musicista coi Tribalistas, vende 50 mila copie; ma anche nel resto d’Europa. A partire dalla Germania: «A Monaco 800 persone hanno pagato 15 euro l’una per partecipare», spiega Voce, le cui commistioni di poesia e musica sono reperibili su Spotify, e che non ha timore di parlare di cantautori come poeti a tutto tondo. Posizioni che dividono molto, e con asprezza. «I poetry slam sono creature senza solitudine e riguardano, più che la poesia, l’intrattenimento o il cabaret», attacca De Angelis. «L’intrattenimento è intrattenimento», conferma Maurizio Cucchi, curatore della prestigiosa collana “Lo Specchio” di Mondadori e autore tra i protagonisti del panorama poetico contemporaneo. Quanto alla musica, «ho sempre avuto simpatia per i cantanti, ma ognuno ha la propria arte». Insomma, «prima di darci qualsiasi risposta» sulla vitalità del mondo poetico è «necessario definire cos’è per ognuno poesia», sostiene Mary Barbara Tolusso, giornalista e poetessa pordenonese. «Per me mantiene il suo carattere di eccellenza nella forma scritta, in ciò che è stato l’imprinting di formazione», che deriva cioè dai manuali scolastici e dai libri. E invece, prosegue, «l’epoca impone che tutto è spettacolo, un fenomeno che mira a parlare ai più e di conseguenza deve semplificare i codici. È il motivo per cui si scambiano i cantanti per poeti, i blogger per scrittori e così via». Ma anche limitandosi alla sua forma tradizionale, la poesia è viva e vegeta. Guanda ha appena rilanciato in tascabile la sua storica collana. Elisa Donzelli, responsabile del catalogo di poesia dell’omonimo editore, dice che dal lancio nel 1994 «siamo cresciuti», dimostrando che «non è vero che con la poesia si va in debito». E non solo pubblicando giganti del calibro di Andrea Zanzotto e Charles Simic: il libro più venduto è “Notti di pace occidentale” di Antonella Anedda. L’interesse per la buona poesia, in altre parole, resiste anche limitandosi a quella scritta. Tolusso lo conferma come selezionatrice del premio Cetonaverde Poesia, affollato dai componimenti di «ragazzi giovanissimi che, nonostante i tam tam delle odierne ambizioni, si concentrano su qualcosa di cui sanno in anticipo non darà né soldi né fama e lo fanno concentrandosi sulla parola, senza apporto di musica o microfoni». La stessa divisione, e altrettanto netta, si impone rispetto al ruolo di Internet e dei social media nella produzione e diffusione di versi. L’impressione è che si sia a una frattura generazionale, ma anche concettuale e di potere, che riflette il dibattito in corso in altri settori dell’editoria e nel giornalismo. Da un lato, nuove voci che cercano spazio sfruttando la “disintermediazione” e la “disruption” fornite dalle tecnologie di comunicazione digitale, che consentono di evitare il passaggio da editori e riviste; dall’altro, i detentori delle forme e dei canali tradizionali di creazione e diffusione del sapere poetico, terrorizzati dalla marea montante di incompetenza. Nel mezzo, il problema di mantenere la complessità della poesia senza banalizzarla in “memi” su Instagram - come nel fenomeno di successo, degli “Instapoets” - e insieme il tentativo di non esiliare i versi da Facebook e Twitter, facendo in modo diventino luogo di confronto costruttivo e serio tra autori e appassionati. Per alcuni, una battaglia persa. Tra loro il poeta romano Jacopo Ricciardi, per cui i social «non permettono un reale confronto tra poeti». Anzi, «su Facebook si trova una socialità fatta di coloro che vogliono essere poeti e non lo sono, mentre i poeti che lo sono non vogliono pubblicarsi su Facebook», ma cercano luoghi autorevoli. Cucchi concorda: «Il problema è che con questi nuovi mezzi di comunicazione si pensa più alla propria presenza che alla ricerca poetica. Occorrerebbero mezzi più selettivi». Il rischio è che l’autore prevalga sul libro, il contenitore sul contenuto, e si finisca travolti da un mare di componimenti mediocri, che sembrano perfino adottare le forme comunicative e il linguaggio «delle conversazioni virtuali in rete». E tuttavia, spiega Donzelli, i “mi piace” sui social si traducono davvero in libri venduti. E il bisogno di ricambio, pur urlato spesso con eccessiva insofferenza proprio online, a sua volta è reale. «Per dire che ci sia una nuova vita della poesia c’è bisogno di cambiare facce, uscendo dall’autoreferenzialità dei soliti noti», dice Michelangelo Camelliti, che da trent’anni anima LietoColle, una piccola ma prestigiosa realtà editoriale con sede in provincia di Como. Non c’è soltanto il narcisismo iperconnesso, insomma: c’è anche un vizio antico, aggiunge, l’obbligo di appartenere a “clan” o sparire dal circuito dei premi e dei festival più prestigiosi. Che pure ci sono, e costituiscono un altro dei fattori di vitalità della poesia in Italia. Protagonista indiscusso, secondo tutti gli interpellati, è Pordenonelegge, che tramite la cura e l’organizzazione del poeta Gian Mario Villalta porta centinaia di spettatori a confronto con i massimi autori internazionali, ma anche con quelli emergenti e locali. Camelliti per esempio ne presenta quattro, giovani, alla manifestazione friulana, dopo attenta selezione. La poesia, a Pordenone, ha una propria “Casa”, sempre aperta per letture e confronti, e una libreria dedicata, dove - giura Camelliti - i libri si vendono. Ma gli eventi sono distribuiti durante tutto l’anno, con 100-150 partecipanti alla volta. La questione non è insomma meramente tecnologica. Del resto, alcune riviste cartacee, come Nuovi Argomenti, sembrano vivere più sul web che in edicola. Per Villalta, semmai, i problemi sono di natura più profonda. Il primo è il “settarismo” esasperato, dovuto alla mancanza di un centro culturale capace di riunire e mettere in dialogo gruppi e istanze di realtà territoriali e culturali diverse. Il secondo, conseguente, è che il mondo della poesia non è più capace di concentrarsi su uno stesso tema, e affrontarlo «con un discorso comune». È all’incirca quanto mostra con insofferenza Cucchi dicendo di rimpiangere quasi la pletora di manifesti di poetica che tanto detestava da giovane: oggi quella problematizzazione teoretica manca, così come manca un orizzonte ideologico di fondo. Difficile sia altrimenti, di fronte a uno scenario così composito, così atomizzato e allo stesso tempo conflittuale. Ma non mancano nemmeno i tentativi di cucire gli strappi. A La Spezia, per esempio, a fine febbraio si terrà un evento, “Mitilanza #1, Gli spazi mobili della poesia”, che si propone di riunire le diverse realtà che indagano il limite del versificare contemporaneo, con tavole rotonde su “street poetry” - chi scrive, ma sui muri e i volantini - ma anche nuove forme dell’editoria, incroci con teatro e musica, e soprattutto l’incontro tra la generazione delle avanguardie di Nanni Balestrini e del Gruppo 63 con i giovani sperimentatori di oggi, dagli animatori del sito GAMMM a chi prende parte agli “slam”. «L’intenzione è che ci sia baruffa», spiega Francesco Terzago, consulente di comunicazione per una società di robotica, ma anche poeta e organizzatore. Perché il confronto aperto, anche aspro, è salutare, vitale, e i tempi per il ricambio generazionale «sono maturi». Soprattutto, perché «oggi non è più possibile ignorare il pubblico, standosene chiusi nella propria cameretta». Resta da capire come conciliare l’era della condivisione con l’intimità indispensabile alla poesia - al farla, come al leggerla. È forse su questo che si giocherà il futuro di un’arte che resta «la più semplice e difficile che esista», come dice Cucchi. E che, tutto sommato, non ha bisogno di ritornare, perché - conclude De Angelis - «ogni volta che un poeta va nelle scuole o nelle carceri a parlare dei suoi versi, getta un seme che verrà raccolto».
Levigatori di parole. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità, scrive Wlodek Goldkorn l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". In una recensione su una mostra di dipinti giapponesi, Walter Benjamin dice che nell’immagine c’è qualcosa di eterno. Simili sono le intuizioni dei teorici della fotografia: ciò che vediamo impresso sulla pellicola o in uno scatto digitale è il risultato di una congiunzione tra tempo, luogo e lo sguardo di chi fotografa; ogni immagine è come se abolisse la differenza tra il passato, il presente e il futuro. Ma la stessa regola vale per la parola, quando è usata dai poeti. E forse per questo, perché allude all’eternità e al tempo dopo il tempo, e non solo perché è una preghiera laica, la poesia, anche se vende poco, gode di ottima salute. La poesia è lentezza, perché ogni parola deve essere esatta (nel senso che all’esattezza dava Italo Calvino in “Lezioni americane” dove cita “L’anguilla” di Montale) e precisa. Si racconta di poeti che attendono mesi finché sulla pagina non appaia l’aggettivo o il verbo giusto. La poesia non sopporta il parlar sciatto, non tollera la mancanza di attenzione, richiede uno sforzo meditativo. Non esiste poesia sbrigativa. La poesia permette l’uso di figure retoriche come sineddoche (una parte per la totalità), metafora, metonimia (il trasferimento del significato da una parola all’altra), senza per questo rendere il discorso demagogico, come accade ai politici. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità. Scrive Seamus Heaney, in “La spiaggia”: «Anche la linea punteggiata tracciata dal bastone di mio padre / sulla spiaggia di Sandymount / è qualcosa che la marea non porterà via». Ecco, la memoria vive più a lungo nella parola che nei monumenti di pietra. Il poeta sovverte l’ordine stabilito. Non solo Neruda o Éluard, direttamente impegnati in politica. Quest’ultimo scriveva nel 1942 in “Libertà”: «Sui miei rifugi distrutti / Sui miei fari crollati / Sui muri del mio tormento / Scrivo il tuo nome». È un classico ormai il dialogo tra Josif Brodskij e i giudici sovietici: «Giudice: Qual è la tua professione? Brodskij: Traduttore e poeta. Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti? Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?». In un saggio, il Nobel russo spiegava come la poesia aiuti a resistere alle pressioni del potere, a non piegarsi, a non scendere a compromessi. Tutto questo, perché Brodskij, come pochi altri - e sulla scia di un grande maestro Osip Mandelstam, morto di fame in un Lager sovietico - sapeva quanto l’estetica fosse inscindibile dall’etica. E anche a questo serve la poesia, a capire che una cosa brutta non può essere buona. La poesia trasforma i luoghi del quotidiano in entità mitiche e oniriche. Scriveva il polacco Zbigniew Herbert: «Rovigo non si distingueva per nulla di particolare / era un capolavoro di mediocrità strade diritte case non belle / (…) Eppure era una città in carne e pietra – come tante / una città dove qualcuno ieri è morto qualcuno è impazzito (...)». E infine, la lentezza della poesia ci riporta alla lentezza dell’amore, e quindi di nuovo a qualcosa di eterno. Lo sapeva Mahmud Darwish, poeta palestinese che in “Una lezione di Kamasutra” cantava: «Se arriva in ritardo / aspettala, / se arriva in anticipo / aspettala / e non spaventare gli uccelli sulle sue trecce, (…) e parlale come il flauto / alla coda spaventata del violino, / (…) e aspettala / e leviga la sua notte anello dopo anello». Levigare è un’azione da artigiano che tende alla perfezione. Ecco, amiamo la poesia perché mette insieme il sogno e il quotidiano lavoro delle mani (lo intuiva meglio di tutti Wislawa Szymborska): alla ricerca dell’assoluto.
ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.
Editoria, siamo sommersi di libri che nessuno legge. Continuiamo a ripeterci da anni che il settore editoriale è in crisi perché gli italiani non sono un popolo di lettori, ma non è così vero, perché a vedere i numeri i lettori sono più o meno gli stessi da quarant'anni. Il problema è un altro e assomiglia a una obesità, scrive Andrea Coccia il 28 Gennaio 2017 su “L’Inkiesta”. Anche quest'anno, come da consolidata tradizione, ci troviamo a commentare i dati aggregati dall'Associazioni Italiana Editori, dalla percentuale dei lettori forti sul totale dei lettori, fino al numero delle copie vendute e al giro di affari. Un sacco di cifre cifrette, cifrone, alcune assolute, altre relative, qualcuna fortemente in positivo, qualcuna fortemente in negativo, altre invece sostanzialmente stabili. La fotografia dell'Italia che legge, insomma, è più o meno sempre la stessa: i lettori forti sono stabili sui 3 milioni, come sempre; quelli deboli oscillano in dipendenza del successo o meno del best sellerone, come sempre; le fasce forti sono i vecchi e i givanissimi, come sempre, e via dicendo. Ma la popolazione, in fondo, sembra sempre più o meno la stessa, stabile da quasi quarant'anni: tra i 22 e i 24 milioni di persone. Tra le cifre pubblicate dall'AIE quest'anno, però, un dato interessante sul serio c'è. E curiosamente è uno dei pochi per il quale la statistica non c'entra nulla, perché è un fatto misurabile e riguarda la produzione di libri nel nostro paese, non il consumo. Eh sì, a guardare i dati dalla giusta distanza lo si nota: di fronte a un pubblico dal corpo sostanzialmente stabile nella sua magrezza rachitica, il mercato editoriale è diventato letteralmente obeso. Il fenomeno è macroscopico: nel 2016 il mercato ha visto entrare in libreria più di 66mila nuovi titoli, di cui 18mila di sola narrativa. Nel 1980, sempre secondo l'AIE, quegli stessi numeri parlavano di un mercato totalmente diverso, fatto di sole 13mila novità, di cui soltanto 1000 erano di narrativa. Se andiamo a vedere le stime del numero di lettori fatte dall'ISTAT in quegli anni, il numero assoluto che troviamo è, indovinate un po', sempre lo stesso, circa 24milioni. All'epoca erano il 46 per cento del Paese, ora sono il 41, ma il numero assoluto è sempre più o meno stabile. Quindi, ricapitolando: in quarant'anni circa, a lettori grosso modo stabili, abbiamo assistito a un aumento della produzione di circa il 600 per cento, un aumento che, nel solo campo della narrativa, è di circa il 1800 per cento. Ovvero, se fino agli anni Ottanta per ogni lettore uscivano circa 3 libri all'anno, ora ne escono 10. Una vera e propria marea di carta che viene rovesciata nel mercato, un mercato che però non si è allargato, è rimasto più o meno della stessa grandezza. Le conseguenza sono molteplici: più libri vuol dire meno tempo per sceglierli, lavorarli e promuoverli. Ma anche meno tempo a disposizione di ogni libro per trovare i propri lettori. Il risultato? Abbassamento della qualità, crollo del tempo di permanenza sullo scaffale, ridotto a volte a poche settimane, vendite medie sempre più basse. Negli ultimi dieci anni l'industria editoriale ha chiamato tutto ciò “Crisi dell'editoria”, dando la responsabilità ai lettori. Già, perché l'industria editoriale è parecchio brava a scaricare le colpe sui propri clienti: “in Italia stanno sparendo i lettori”, si dice sempre, tanto che ormai è diventato un ritornello, un mantra che ci siamo ripetuti di continuo negli ultimi anni. Eppure, a vedere i numeri, non è esattamente così. O meglio, è vero che la maggior parte degli italiani non leggono, ma non è una novità. Era così anche quando l'industria editoriale era sana, negli anni Ottanta, per esempio, quando non c'era la Crisi. Ma se il crollo dei lettori non c'è, allora qual è l'anello che non tiene? La domanda non è di quelle semplici da risolvere. La sensazione però è che una parte della risposta sia proprio in questa dieta all'ingrasso, iniziata proprio nel pieno degli anni Ottanta, esattamente quando l'editoria italiana è diventata una vera e propria industria, quando sono cominciate le concentrazioni editoriali, quando ha iniziato a svilupparsi la grande distribuzione organizzata (la modalità di distribuzione più in crisi negli ultimi anni). È questa industrializzazione che ha trasformato il campo di gioco dell'editoria italiana in una giungla affollata, in cui ogni anno vengono fatti piovere 66mila libri — sei volte la quantità che si pubblicava quarant'anni fa — libri che però, più che arrivare ai propri lettori elettivi, assomigliano a una moneta di scambio. Una moneta in forte svalutazione che alimenta il circolo vizioso delle rese, che permetterà anche alle case editrici più grandi di tenere in piedi i propri fatturati, ma che, non essendo prodotta per soddisfare nessuna esigenza particolare dei lettori, sta soffocando l'intero settore.
Il circolo vizioso dell’editoria libraria, scrive il 2/02/2017 Antonio Tombolini. Di tanto in tanto qualcuno prova a spiegare come mai in Italia, paese in cui tutti si lamentano del fatto che si leggono pochi libri e che ci sono pochi lettori, poi si pubblichino ogni anno così tanti libri nuovi. Ci ha provato di recente Andrea Coccia, con questo articolo su Linkiesta, ma sbaglia anche lui: è vero il contrario di quello che scrive l’autore dell’articolo, non è la sovrapproduzione ad alimentare il vortice delle rese, è invece il meccanismo delle rese ad alimentare la proliferazione dei nuovi titoli. E il digitale non c’entra niente (se aumento l’offerta digitale non faccio del male a nessuno: non distruggo carta, non inquino, non butto via soldi inutilmente eccetera). E non c’entrano niente neanche “l’industrializzazione” né “le grandi concentrazioni editoriali” (ridicolo, su scala mondiale Mondazzoli è un microbo). C’entrano invece, e molto, gli usi consolidati della filiera tradizionale del libro, che gli operatori dominanti (grandi editori e distributori, che in Italia sono poi la stessa cosa) non solo faticano a superare, ma tentano disperatamente (e dissennatamente) di difendere, con una distribuzione fatta di una miriade di librerie sparse ovunque, e ora in crisi profonda, abituate come sono a un mercato drogato dal “tanto se non lo vendo lo rendo”. Ecco come funziona.
Io sono un piccolo editore. Pubblico un libro perché ci credo, mi piace, lo ritengo bello e utile. Lo pubblico di carta, perché sono un “vero” editore “tradizionale”. Bene. Vado in tipografia, dove mi dicono che ne devo stampare almeno mille copie, ché farne di meno tanto costa uguale. Parlo col distributore (lì sì c’è non la concentrazione, ma il monopolio ormai: Messaggerie), che mi dice che “Ehi, se non mi dai almeno duemila copie per coprire significativamente le librerie io non posso impegnarmi a distribuire il tuo titolo”. Diciamo che ne stampo duemila. Diciamo che stamparle mi costa 5.000€, 2,50€ a copia. A quanto lo vendo? Vediamo… il 60% del prezzo lo vuole il distributore, che poi se lo divide con la libreria che vende il libro al privato. Io devo pagare il costo di stampa, l’impaginazione, l’illustratore, i diritti d’autore. E ovviamente anche l’affitto dell’ufficio, le utenze, il mio stipendio, il commercialista ecc… Se lo vendo a 10€ me ne tornano 4, e 2,50 sono già spesi per la stampa, mi bastano 1,50€ per coprire tutte le altre spese? Mi sa proprio di no. Vendiamolo a 15€, e speriamo bene.
Il distributore a questo punto mi compra (si fa per dire, c’è sempre il diritto di reso!) le 2000 copie, e io, tutto felice, stacco la mia prima fattura, ho venduto 2000 copie, per un importo totale di ben (30.000 – 60%) = 12.000€, wow! Ovviamente il distributore non mi paga subito (figuriamoci, paga a 120-210gg). Sono un editore per bene, e voglio pagare chi ha lavorato per me. L’autore no, perché prenderà le royalties sul venduto, ma gli altri li devo pagare subito: al tipografo devo dare i suoi 2.000€, all’impaginatore (che con la crisi mi fa un buon prezzo) i suoi 300€, il grafico altrettanti, il correttore di bozze. Ah, ci sono anche i 600€ di affitto, altrettanti di bollette, e… URKA! Dove li prendo i soldi? Aspetta, lo so: ho fatto proprio adesso una fattura di ben 12.000€, vado in banca e mi faccio anticipare l’importo, poi quando il distributore mi paga la fattura li restituisco alla banca. “OK, non c’è problema, metti una firma qua, mi dice il direttore della banca, sì, è la fideiussione, una formalità obbligatoria, ovviamente”. Mi ritrovo 12.000 Euro nel conto. Pago chi devo pagare, mi prendo uno stipendiuccio anch’io, e mi fermo, non pubblico più niente, aspetto che mi paghino la prima fattura. Ho pagato tutti, e dopo quattro mesi mi trovo con poco o niente nel conto. Ho dovuto pagare i mensili dell’affitto e le bollette, e un po’ di stipendio per me. Sono passati 120 giorni, chiamo il distributore: “Allora, mi puoi pagare questa fattura?”.
In Italia la media delle rese (libri invenduti) è superiore al 60%: ogni 100 copie stampate, almeno 60 restano invendute. Ed è una media: fatta di alcuni libri, pochissimi, che vendono tutte le copie, e molti libri, moltissimi, che vendono niente o quasi niente. Ma facciamo finta che il mio libro si comporti come il “libro medio”. Dunque ho appena chiamato il distributore per farmi pagare la fattura, e mi fa “ehi, guarda che di quelle duemila copie ne abbiamo vendute ottocento, che facciamo con le altre milleduecento?”. L’editore gli dice “beh, che ne so io”, e il distributore gli dice “beh, lo so io: io non ti pago duemila, ma ottocento copie, quindi intanto fammi una nota di credito per le copie invendute così ti pago i 4.800€ che ti devo”. Già, la mia bella fattura di 12mila euro si è ridotta a 4.800€. Ma c’è dell’altro, mi dice il distributore: “Le altre milleduecento copie devo andarle a prendere dalle librerie dove le ho portate, perché devono liberare i loro spazi per altri libri, e questo ha un costo, che ovviamente ti addebiterò. Poi se vorrai le tengo io nel mio magazzino, e ti costerà un tot a metro cubo per ogni giorno di giacenza, oppure te le porto a casa tua, e ci sarà un altro costo che ti addebiterò.” E io dove le metto? Forse mi tocca affittare un piccolo magazzino per metterci le copie invendute!
A quel punto chiama il direttore di banca “Ciao Piccolo Editore, sono passati i 120 giorni, quell’anticipo sulla fattura è scaduto, devi restituirmi l’importo che ti ho anticipato!”. Il dramma: devo restituire, e subito, alla banca i 12mila Euro che mi ha prestato. Ma il distributore me ne ha dati solo 4.800, come faccio? Già, come faccio a “tappare” il buco senza che venga a pignorarmi la casa che mi ha toccato dargli in garanzia per il fido? Facile: pubblico un altro titolo, stacco un’altra fattura da 12mila euro, e con quelli attappo il buco, e faccio un altro giro di giostra! WOW!
Ecco spiegato come mai ci sono così tanti titoli nuovi in un mercato in cui tutti si lamentano che nessuno legge. Questo è il vero cancro che minaccia di distruggere l’editoria libraria. L’editore si infognerà sempre di più in una gigantesca bolla che prima o poi esploderà, per esempio quando qualcuno gli dirà che valorizzare le scorte di invenduto a bilancio a valori artificialmente gonfiatinon serve a niente, perché il valore del suo invenduto è zero, anzi, è negativo, visto che gli genera costi di magazzino e che per smaltirlo deve pagare). Cui prodest?
Chi prospera in un sistema come questo? Il distributore, e in maniera perversa e vampiresca: il suo guadagno infatti non dipende tanto dalle copie vendute, ma dipende in misura crescente dalla vendita di servizi correlati alla gestione delle rese! Meno libri si vendono e più il distributore guadagna! Come ha fatto Messaggerie a diventare il secondo gruppo editoriale italiano, con marchi come Longanesi, Garzanti, Salani, ecc… acquisiti uno dopo l’altro? Facile: prima o poi il direttore di banca dice all’editore che non può più anticipargli la fattura, l’editore quindi si indebita in misura crescente col distributore, fino a che il distributore se lo compra con quattro soldi. Certo che la cosa regge finché c’è chi alimenta il progressivo indebitamento degli editori. Appena i rubinetti del credito si chiudono, la bolla esplode.
A che punto siamo? Che sta esplodendo. RCS Libri è tecnicamente fallita (sì, ok, acquisita da Mondadori Libri, figuriamoci, una finzione, peraltro finanziata al 100% con, indovina un po’, prestiti bancari!) e tutti sono indebitatissimi. Ma anche Messaggerie ormai ha spremuto lo spremibile, gli editori non hanno più soldi da dargli, e chiudono, così come le librerie, e Messaggerie è costretta a svalutare e azzerare i suoi crediti. Una curiosità. Hai per caso letto la parola “ebook” in tutto questo? No. Il cancro dell’editoria libraria non c’entra niente con un presunto ruolo killer dell’ebook rispetto al libro di carta.
Del libro, del predominante ruolo del caso nella sua fortuna, dei barbari che lo stanno salvando, scrive il 16/05/2016 Antonio Tombolini. [Riporto fissandolo qui un mio sfogo originato da questo post di Zio Josu Facebook, ché lì Zuckerberg continua dolosamente a inghiottire tutto per tutto divorare e tutto condurre al luogo in cui non c’è più memoria.] Il successo di un libro, come il successo di una canzone, di un quadro, di un tiro in porta, è sempre il risultato di una misteriosa alchimia fatta di dedizione e fortuna, fatica e casualità, talento e relazioni. Thomas Alva Edison e/o Albert Einstein (la citazione è di volta in volta attribuita all’uno o all’altro, e non manca chi, in ambiente letterario, la attribuisce devotamente e disinvoltamente a Umberto Eco) se la cavavano riducendo a due le variabili: “perspiration”, il sudore della fronte, e “inspiration”, l’ispirazione del genio. Col cavolo. Non mancheranno mai successi inspiegabili. Non mancheranno mai libri che nessuno mai avrà letto (erano belli o brutti? Nessuno lo saprà mai). Non mancheranno mai successi travolgenti post-mortem, magari a distanza di anni, decenni, o secoli addirittura, come in musica accadde a un intonatore di organi tedesco del ‘600, tale Johann Sebastian Bach. Il Caso. Il caso è il maggior protagonista delle nostre vite, in ogni loro aspetto. Tanto più lo è in relazione ai destini di cose effimere come le “opere dell’ingegno”. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, si tratta di una verità lampante. Eppure l’uomo, nella sua illusoria ansia di dimostrare a se stesso di saper governare la vita e il mondo, da sempre ne sottovaluta, fino a cancellarlo, il peso. Prendi questa: il libro di Fabio Volo vende un sacco. Magari tra cinquant’anni non se ne ricorderà nessuno. O magari tra cent’anni sarà il solo libro rimasto sulla faccia della terra. A molti piace. A molti altri fa schifo. Per alcuni è scritto male. Per altri è scritto benissimo. Per alcuni è una lettura insopportabile. Per altri dedicarsi a leggerlo è il momento più bello della giornata. Ma pensaci bene, torna qui sopra, sostituisci a “Fabio Volo” l’autore che vuoi voi: tutto quello che viene dopo resta vero, incontestabilmente vero.
E allora, che ne è della “qualità” dei libri? A cosa è possibile ancorarla? A cosa ancorare la “qualità” di un libro?
A un atto arbitrario, e in quanto tale non-sindacabile da chicchessia. L’atto arbitrario di un lettore, di un editore che sceglie di pubblicare quel libro invece di un altro, di un critico che decide di osannarlo. E alla stessa “libera-arbitrarietà” sarà possibile ancorare un giudizio di “non qualità” di un libro: l’atto arbitrario del lettore che ne legge una pagina per poi metterlo da parte, quello di un editore che lo cestina, quello di un critico (sia esso, sempre meno, un professionista, o, sempre più, un recensore) che decide di stroncarlo. Così come la qualità di un libro non può prescindere dalla arbitrarietà del caso (che poi vuol dire “del tempo”) che decide addirittura se far accorgere qualcuno dell’esistenza di quel libro, oppure no. Per questo continuo a ritenere sbagliate e di retroguardia le raffinate intellettualistiche analisi dei tanti che, a fronte del fenomeno del self-publishing (dove self-publishing = fenomeno per cui più libri e più autori riescono a raggiungere gli scaffali di una libreria, concedendosi una chance di visibilità) si concentrano sul falso problema della “sovrabbondanza”: oddio, i libri adesso sono troppi, come farà il lettore a scegliere e a orientarsi? Con tutta questa roba, esclamano, c’è un sacco di robaccia, chi ci salverà?
Si tratta di uno spettacolare effetto di illusione ottica: tutti questi libri, che oggi affollano sempre più gli scaffali di vetrine virtuali e non grazie al self-publishing, tutti questi libri c’erano già, c’erano anche prima, perché l’uomo ha voglia di scrivere, e ha voglia di farsi leggere. Punto. Indipendentemente dalle concrete chance di successo, indipendentemente dall’evidenza dei fatti per cui nella stragrande maggioranza dei casi del mio libro non gliene fregherà niente a nessuno, indipendentemente dal fatto che qualcuno possa parlarne bene o male. L’uomo vuole esprimersi. Di più: l’uomo è espressione. Di più: l’uomo è tale nella misura in cui può liberamente esprimersi. E scrivere un libro è uno dei modi della libera espressione, e dunque dell’essere, dell’uomo. Cosa cambia per il lettore ai tempi dei barbari digitali e delle orde del self-publishing? Come potranno orientarsi dentro la giungla della miriade di titoli da cui sono sempre più assediati? Come aiutare il lettore a orientarsi nella scelta dei libri cui dedicare il proprio tempo?
Alt. Un passo indietro: ho definito “falso problema” quello che risulta dalle analisi dominanti sul fenomeno del self-publishing, quello che afferma che i libri ora sono troppi, troppissimi. Non è vero. Quei libri che grazie alle tecnologie digitali e alla rete oggi si possono concedere una chance di incontro con un lettore c’erano già, erano già tutti lì: erano già tutti lì dentro i cassetti degli autori. Erano già tutti lì nei cestini degli editori. O erano già tutti lì rimasti dentro la testa del loro autore, perché se c’è un deterrente alla scrittura del libro ebbene questo consiste nel non intravvedere neanche una chance che possa avere un lettore. Erano già tutti lì, libri “buoni” e libri “cattivi”. “Buoni” per alcuni, “cattivi”, gli stessi libri, per altri. Oggi arrivano tutti, alla pari, sugli scaffali delle librerie online, e la casta di quelli che pensavano di detenere le chiavi del Regno dei Libri (i Guardiani della Distribuzione) si ritrae inorridita a fronte di tanto spettacolo. Tutto ciò non è affatto male. Non è male che tutti possano esprimersi scrivendo libri, così come non è male che tutti possano suonare uno strumento, o prendere un pennello e imbrattare una tela o un foglio, o ritrovarsi con gli amici per dare calci a un pallone nel tentativo di emulare i pallonetti di Maradona o i tiri nel sette di Cristiano Ronaldo. Non è un male, anzi, è un bene! OK, precisato questo il problema resta: ma per i lettori? Come fanno a orientarsi?
Ci sono diversi livelli di risposta. Il primo: a caso. Dal punto di vista del lettore non c’è niente di male nell’usare il caso (i più raffinati, quando gli fa comodo, parlano in questi casi di serendipity, ma riguardo ai “nuovi libri” no, evocano solo drammi lancinanti) per cercare a destra e a manca il prossimo libro da leggere. Che comincerò a leggere e poi butterò via se mi fa schifo, e ne parlerò malissimo se ne avrò voglia. O che viceversa obbligherò tutti gli amici a leggere tanto mi è piaciuto. O che mi lascerà indifferente spingendomi a tentare il prossimo.
C’è poi il livello degli strumenti di “discoverability”, di cui usa dire oggi. Alcuni esistono già, altri se ne stanno inventando, chi investe sugli algoritmi, chi scommette sul fattore umano. Autori che se ne fregano di promuovere il proprio libro, e autori che gli dedicano la vita e ogni energia.
Io ho il mio parere: gli Editori. I nuovi editori, in grado di dire “questi sono i libri che io pubblico, in base a questi criteri, facendolo fare a queste persone, con questa storia”. Editori che hanno il compito di traslare in un catalogo la loro visione del mondo, non perché quel che c’è dentro è il meglio, è “la qualità”, contro il resto che è fuori. Ma per proporre a chi legge con onestà una faccia, condivisibile o meno, piacevole o meno, attraverso cui orientarsi nelle scelte. E anche questo, badate bene, non è la cosa che conta di più, perché quando si tratta del libro, della esperienza di lettura di un libro, la cosa che conta più di tutte è solo una. Che si leggano i libri. Che l’esperienza della lettura di un libro sopravviva, si salvi, e prosperi per sempre. Che si scrivano, per salvaguardare la libera espressione che è l’uomo, e che si leggano, per salvaguardare l’esperienza peculiare che è il libro. Sembrerà sacrilego affermarlo, ma ne sono convinto: da lettore, da editore, da uomo libero. Quello che mi interessa è che l’esperienza di lettura di un libro (così vitale perché qualcuno sia motivato a scrivere, e quindi a esprimere così la sua libertà e il suo essere) sopravviva e prosperi ai tempi del digitale. Parliamo quindi di perché ci piace questo libro e del percome quell’altro non ci piaccia affatto. Ma rallegriamoci per ogni libro che vede la luce, per ogni libro che viene scritto. E per ogni libro che viene letto. E rallegriamoci del fatto che – grazie al digitale – ogni libro ha ormai almeno una chance di essere letto da qualcuno, in qualsiasi parte del mondo, e in un momento qualsiasi del tempo, perché grazie al digitale, e alle barriere abbattute da questi “barbari” (di cui mi onoro di essere parte) ogni libro oggi è subito disponibile ovunque e per sempre. Amen.
LA SCUOLA AL FRONTE.
Scuola, la nevrosi delle riforme. Negli ultimi 25 anni il mondo della formazione è stato investito da cambiamenti continui. Con una progressiva erosione della cultura, scrive Raoul Kirchmayr l'1 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Dagli anni Ottanta una delle parole centrali nel discorso delle istituzioni è stata senza dubbio “riforma”, il cui significato primo, che per molto tempo ha evocato un orizzonte di progresso civile e di emancipazione, è stato sostituito da un altro. La nuova accezione rimanda all’operazione tecnica di accomodamento di una macchina al fine di incrementarne l’efficienza. Con questo significato il significante “riforma” ha preso a circolare a ritmi sempre più spediti, fino a quando è diventato dominante nell’attuale lessico dell’opinione pubblica. La parola “riforma” si è così accompagnata a un ventaglio di attributi (“urgente”, “necessaria”, “ineludibile”, “d’emergenza” ecc.) che affermano tanto l’esigenza di rapidità quanto un rigido determinismo che non potrebbe né dovrebbe essere disconosciuto, pena l’avverarsi di previsioni immancabilmente fosche e dunque da scongiurare. La parola “riforma” comporta sempre, di conseguenza, una previsione (solitamente presentata come scientificamente calcolata) e, in senso più ampio, un’ipoteca sul futuro. In questo senso, la “riforma” non può che essere “responsabile”: il suo carattere di destino astratto si traduce ipso facto in un’assenza di alternative che si vuole perfino etica (del resto, si è compreso da tempo che l’istanza etica è l’ingrediente sempre strutturalmente mancante del mondo tardo-capitalistico, mentre ne rivela, di converso, gli intenti ortopedici e disciplinari). Nell’ultimo quarto di secolo, oltre al mondo del lavoro, un altro ambito è stato parallelamente investito - e non solo nel nostro paese - da ripetuti impulsi alla “riforma”. Si tratta del mondo della formazione e della ricerca, dell’università e della scuola, coinvolto in una vera e propria spirale che ha conosciuto delle tappe importanti nella legge sull’autonomia universitaria del 1990 (la “riforma Ruberti”), nel “processo di Bologna” con cui l’Unione europea ha raccordato i sistemi educativi dei paesi membri, fino alla recente legge 107 del 2015 (la “buona scuola” del governo Renzi). Ciascuna tappa ha introdotto sempre nuovi fattori di cambiamento che, presentati sotto le bandiere della modernizzazione e del miglioramento, non hanno modificato il sistema verso un nuovo equilibrio più avanzato, ma sono stati la spinta per un’ulteriore giro di “riforme”. In questi ultimi anni l’università e la scuola sono state oggetto di una vera e propria “coazione a riformare”. Oltre che con tagli di spesa pubblica, la coazione si è manifestata soprattutto nei sintomatici mutamenti del linguaggio che hanno avuto come scopo la trasformazione irreversibile degli ambienti della ricerca e dell’apprendimento, e con essi l’insieme dei soggetti coinvolti: docenti, ricercatori, studenti, famiglie e, non da ultimi, amministrativi e ausiliari. Il cambiamento è avvenuto con una progressiva erosione della lingua della cultura, quella lingua che sarebbe compito delle istituzioni tramandare come eredità condivisa e memoria collettiva. In altre parole come quell’ethos o “religione civile” di cui il nostro paese sembrerebbe storicamente difettare. Il tentativo di sterilizzare la capacità della cultura a produrre ethos e a figurare mondi (anche utopici, immaginari e impossibili) è progredito con l’iniezione di un vocabolario che, incarnando la visione del mondo neoliberale, ne è l’espressione funzionale. Si pensi solo al lessico, ormai acquisito, dei crediti e dei debiti, all’introduzione seriale di sigle e acronimi, all’equivalenza tra studio e lavoro (fino all’alternanza studio-lavoro), per non citare l’enigmatica nozione di “competenza”, scientificamente farraginosa ma ideologicamente efficace. Non si tratta più del tecnicismo freddo e ingegneristico cui era improntata la lingua dell’ormai lontano boom economico. Quella che da tempo viene inoculata nella scuola e nell’università, diventando forma di vita e di relazione, è una lingua povera che si intreccia con la gergalità di uno pseudo-inglese, mediante la quale si affermano nuovi rapporti di potere e si stabiliscono nuove linee di faglia sociali. Il progetto di “valorizzazione delle risorse” (di cui la meritocrazia è figlia) fa tutt’uno con questa lingua spuria, attuandosi per mezzo di procedure che, mentre si appellano alla libera scelta di ciascuno, spingono invece gli individui a operazioni di accomodamento al discorso dominante. L’adattamento linguistico alla logica dell’efficienza e della performance, cui ognuno è sottoposto, tende a diventare stile cognitivo (in accordo con la recente enfasi pedagogica sui soft skills), quando non preveda addirittura tra i suoi obiettivi espliciti la produzione di nuove forme di soggettività. Il rilievo della lingua non è dunque marginale. A una lettura rapida potrebbe sembrare uno dei tanti esempi di provincialismo nostrano. Visto più da vicino, appare come un sintomo diffuso del modo in cui le forme della riproduzione culturale vengono modellate in senso neoliberale. La parola “riforma” in senso neoliberale non fa che mimare la riforma nel senso democratico dell’estensione dei diritti e dell’eguaglianza dei cittadini, mentre la svuota progressivamente di contenuto, con il risultato di generare nuove forme di diseguaglianza. Perciò l’accanimento riformatore su scuola e università è un tassello strategico nel progetto con cui le forze dominanti cercano di consolidare la loro attuale egemonia economica e culturale. Si capisce allora che il significato della parola “riforma” non può essere dissociato dalla tendenza del tardo-capitalismo a una ristrutturazione perenne che non investe più soltanto il campo dell’economia ma impatta risolutamente sulla vita individuale e collettiva. La conseguenza è che le istituzioni dello Stato, nel caso in cui sia esso democratico e preveda la tutela del “sociale”, sono considerate come dei limiti o degli impedimenti all’estrazione di plusvalore. È per permettere una più massiccia, rapida ed efficace estrazione che le istituzioni, nel loro complesso, vengono dunque riformate. Per il nostro paese questo obiettivo non sarebbe perseguibile senza la cornice più ampia in cui si colloca il modellamento della scuola e dell’università, cioè la “sincronizzazione” delle istituzioni nazionali con quelle europee, in nome dell’efficienza dei sistemi educativi. Se volessimo comprendere il senso della “coazione a riformare” che sta disegnando l’avvenire delle nostre scuole e delle nostre università, è certo nella direzione di questa “sincronizzazione” in corso che dovremmo guardare. In generale, la retorica della “riforma” è un dispositivo discorsivo che intacca il discorso democratico e lo riscrive. A ogni giro cancella il senso “progressivo” precedente e lo sostituisce con un altro che, all’apparenza identico, in sostanza lo nega. Tra i saperi disponibili, la psicoanalisi ci fornisce degli strumenti per riconoscere questo meccanismo di ripetizione che genera spirali regressive. In Al di là del principio di piacere, saggio controverso che impresse una svolta alla sua metapsicologia, Sigmund Freud descrisse una particolare dinamica psichica, consistente nella reiterazione nevrotica di un evento traumatico. Studiando i casi clinici forniti dai vissuti dei reduci dal fronte, che mostravano questa forma di disturbo, Freud si trovò a riflettere sull’esistenza di una forza opposta alle pulsioni di vita: la chiamò, com’è noto, pulsione di morte. La specificità di questa pulsione è di agire vicariamente, legando la pulsione di vita alla ripetizione dell’evento traumatico, di modo che le energie psichiche risultano drenate e incanalate verso formazioni gravemente nevrotiche che, purtuttavia, garantiscono un godimento inconscio. Se si volesse prendere sul serio l’ipotesi di Freud, ci si potrebbe chiedere in quali ambiti della vita sociale contemporanea la coazione a ripetere produce nuove forme di nevrosi e con quali eventi traumatici essa possa continuare ad alimentarsi, sottraendo così energie alla vita e alla trasformazione effettiva, a tutto vantaggio di un godimento mortifero. La psicoanalisi della società è in grado di riconoscere la pervasività delle dinamiche coattive, le quali permettono sì la conservazione di un precario equilibrio individuale e collettivo, ma a un costo psichico crescente. Si potrebbe dunque introdurre il punto di vista dell’economia pulsionale per saggiare le conseguenze concrete del discorso “riformatore” sul piano della psicologia collettiva. Da una parte, il costo psichico potrebbe spiegare il malessere perdurante delle nostre società, dovuto all’attesa di riforme che, invece, si converte presto in un’amara consapevolezza del peggioramento della nostra condizione. Dall’altra, una riflessione sull’economia pulsionale permetterebbe di comprendere la capacità performativa di penetrazione che la parola “riforma” conserva nei nostri discorsi e nelle nostre convinzioni, con una forza di seduzione che pare urgente sottoporre a un lavoro critico, allo scopo di indebolirne quanto meno gli effetti depressivi. Un lavoro che, prima ancora di metterne in discussione i meccanismi coattivi, ci permetta di liberare delle energie collettive che diano forma alla nostra attesa di cambiamento.
Così la scuola resiste alle riforme. Organici, merito, alternanza: la Buona scuola ha provocato mille conflitti. Su assegni, potenziamento e stage ogni istituto decide come può, fra entusiasmi e malcontento. Ecco dove le promesse di cambiamento sono rimaste incagliate. E come prof e studenti, nonostante tutto, cercano di opporsi al caos, scrive Francesca Sironi l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono le 7.55, suona la campanella. Al pianterreno un gruppo di supplenti s’affretta a finire il caffè. «Sono precario da 13 anni», dice l’unico maschio. «Altro che scomparsi, assunti da veterani. Siamo qui. Ora devo andare», e segue una fila di studenti. È lunedì, indossano il piumino: «È un prefabbricato, il problema del freddo dopo il week end è ovvio». Primo piano, terza media. La prof d’italiano, Alessandra Ibba, fa entrare la collega di tedesco. Illustrano insieme una ballata di Goethe. «Wer reitet so spät...». L’insegnante di sostegno passa fra i banchi. «La differenza è che il romanticismo era rassegnato alla sofferenza, l’illuminismo invece era convinto della felicità», dice Matteo. Primo banco, felpa blu, è il più bravo della classe. Ed è romeno. O meglio un nuovo italiano. Uno dei sei alunni “stranieri” su 10 che frequentano l’istituto Scialoia, quasi-periferia Nord di Milano. Un pezzo di futuro e di Stato. Dove filtra, come altrove, la riforma alla prova di realtà. Come nelle altre 41.152 scuole statali, infatti, anche qui diventa dimostrazione l’ipotesi della “Buona Scuola”. Tutto compreso: compresi il caos sugli organici e i festeggiamenti per le assunzioni, le crisi fra insegnanti dal Sud e provveditorati del Nord, gli assegni di merito di cui nessuno fa vanto, i dubbi e gli entusiasmi sull’alternanza scuola-lavoro, la matematica a cui mancano pedagogie e la solitudine dei bimbi con “bisogni speciali”, restati senza professionisti a supporto. Se è sulle lezioni alla lavagna che si è infranta infatti tanta parte della popolarità di Matteo Renzi, se è contro il Miur che si abbattono ricorsi e sentenze, è dentro il testo della riforma, oltre che nei cavilli, nei provvedimenti, post-accordi e burocrazie che si è stemperato presto il colore del cambiamento promesso. Troppe girandole diventano stallo. E se questa è la grande debolezza della scuola, resta però una forza: la sua resilienza. Perché l’antologia del caos continua a fermarsi alla porta di classe. «In aula, ragazzi, silenzio». La preside dell’Istituto Scialoja - infanzia, elementari e medie, un impegno sulla lingua tedesca “per dare un futuro ai nostri giovani” - mostra uno schema. «Il primo settembre ero felice», dice: «la sala riunioni era piena. L’organico completo». Durante l’estate Ida Morello s’era applicata, come i suoi pari, a oneri e onori della “chiamata diretta”, uno dei super-poteri dati dalla riforma ai dirigenti, apprezzati da loro, osteggiati dalla base: aveva elencato le necessità, letto i curriculum dei candidati, organizzato colloqui via Skype per scegliere. «Certo, avrei voluto potenziare la matematica, ma in questa zona c’erano solo cinque nomi. Già richiesti altrove». A fine agosto era riuscita a coprire, per la prima volta, tutti i posti di sostegno alla primaria, con persone titolate. «Ma le maestre arruolate hanno poi chiesto e ottenuto l’assegnazione provvisoria al Sud». Sono tornate cioè vicine a casa. Il 90 per cento delle insegnanti allo Scialoja arriva da Sicilia, Calabria, Puglia, Campania. Non è una novità né un caso: è così ovunque, come ricordano i dossier ripresi da Gian Antonio Stella sul Corriere. Nel paese rimasto diviso, la questione è diventata polemica nei primi mesi dell’anno, con sedi remote assegnate a chi aveva figli e famiglia, da una parte, e il contro-esodo al sole dall’altra. Risultato: disagi per gli studenti, buchi nei programmi e supplenze tardive. «Siamo noi del Sud a istruire i figli del Nord!», dice affranta dalla disputa Salvina, maestra chiamate allo Scialoja, che ha deciso di restare: «Io però sono single, e per me è un’occasione». A 48 anni vive con due colleghe in un appartamento vicino alla stazione. Una nuova vita da coinquiline, a 40 anni, a Milano. «Certo qui ci sono cultura e formazione. L’anno scorso ero finita in un piccolo borgo in Emilia. Uno shock», racconta la sua roomate, Daniela, della provincia di Ragusa. Sono sedute sui banchi mignon nella scuola d’infanzia, per una riunione pomeridiana, che sollevando la questione diventa più riunione carbonara: «Conosco colleghe devastate dal piano assunzioni della riforma», racconta un’insegnante campana: «Per 1.300 euro in una valle comasca, la vita distrutta». «Io invece sono felice del posto che mi ha dato Renzi», dice un’altra, di Lecce, da settembre di ruolo: «Sapevamo le regole. Mio marito non era d’accordo. Ma io ho insistito». Con loro c’è un maestro, siciliano. È supplente, moglie e figlia a carico. In primavera ha tentato il concorso ma è stato bocciato, come il 50 per cento dei candidati. «Per il ministero non andiamo bene. Eppure in provveditorato ci continuano a chiamare perché hanno bisogno di noi». Dopo le prove dello scorso anno dovranno entrare in ruolo 63.712 nuovi docenti. In alcuni settori sono stati scartati fino a otto aspiranti su 10. Lucrezia è una dei cinquemila ricorrenti che hanno ottenuto di fare una prova ad aprile, perché erano sbagliati i criteri con cui si stabiliva chi potesse partecipare al test e chi no. «Ho superato corsi universitari selettivi per l’abilitazione. Speso oltre cinquemila euro in formazione. Insegno da anni. Sono stanca. Vogliamo certezze. Mentre aumenta il caos». Anche Maria Cristina Pulli è finita in un incaglio. Era stata messa di fronte al perdere tutto o prendere un ruolo alle medie, nonostante i suoi 162 punti in graduatoria di greco e latino al liceo. Sotto scacco, aveva accettato. Poi hanno cambiato le regole, ma intanto: «Mi dicevano: “che ti lamenti, ora hai un posto fisso”. Ma non era solo per il contratto che ho studiato e investito per anni», racconta lei: «Mi sono rimessa in gioco. I ragazzi, la scuola, do il massimo. È stata dura. Quando entro in crisi mi ripeto “sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”». Dante. «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Isabella ha le unghie laccate d’azzurro. Sta al secondo banco, terzo piano, classe 3DL del linguistico Artemisia Gentileschi di Milano. Lezione di ripasso, parafrasi e commento ai canti. «Qual è il significato allegorico della lupa? Quello di un potere che aspira sempre a crescere. Ricordate? Di una ricchezza che non si pone limite, che diventa fine a sé». Il professore, Davide Bondì, collabora con l’università di Milano, Storia della filosofia contemporanea. È qui da un po’. «I nuovi docenti hanno curriculum impressionanti», dice Gabriella De Filippi, la vicepreside. Secondo gli analisti della Fondazione Agnelli è il contrario, a mediare statistiche: «L’assunzione in blocco di chi era nelle graduatorie ha avuto effetti negativi, abbassando la qualità e ostacolando il rinnovamento», spiegano. «Oltre al mismatch di competenze: sono entrati troppi docenti di materie giuridiche, ad esempio, mentre continuano a mancare in matematica e scienze». Il Gentileschi ha 1.536 alunni, 30 classi di Liceo e 36 di Tecnico economico turistico. Cinzia Celino è la prof di Chimica più amata dell’istituto. Nella sua classe ha scelto per prima le “flipped classroom”: i ragazzi seguono le lezioni a casa, su video registrati, mentre in aula svolgono insieme esercizi e prove. «Dà risultati eccezionali, soprattutto con gli studenti meno bravi». Lei è una degli insegnanti che quest’anno hanno ricevuto “l’assegno al merito”, il bonus ai migliori previsto dalla riforma. «Sì, bene. Però... Il nostro preside è stato serio, ha seguito la griglia di valutazione data dai docenti. Ma a mio avviso i beneficiari sono stati troppi. Tutto questo rumore, per 300 euro. E non si può neanche sapere chi fosse in graduatoria, a che posto. Tanto valeva...». Al Gentileschi l’assegno è stato dato al 33 per cento dei prof. Ogni scuola ha fatto a modo suo: chi l’ha distribuito al 10, chi all’80. E ad ascoltare o leggere reazioni ne sono rimasti scontenti più di quanti non gioiscano di fronte a quest’altro mosaico della legge: chi l’ha ricevuto tace o lamenta criteri e pesi. Chi ne è rimasto escluso borbotta, o asseconda veleni. L’assegno è così diventato presto uno dei tasselli di riforma da riformare, per il nuovo ministro Valeria Fedeli. Fatica alleggerita su altro, però. Pochi giorni dopo l’incarico veniva pubblicato infatti dal Miur un dossier sul risultato più sbandierato della Buona Scuola: l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria per gli studenti delle superiori - 200 ore ai licei, 400 a tecnici e professionali. Lo stage (anche in “imprese simulate” in aula, se serve) è diventato obbligatorio per poter accedere all’esame. Devono, insomma. Ma lo stesso è presentato come un successo l’oltre «95 per cento» di alunni partecipanti al piano. «Da noi non ci sono stati problemi, sono percorsi che abbiamo avviato anni fa», racconta Agostino Miele, il dirigente del Gentileschi: «Grazie a un accordo con Valtour, ad esempio, i nostri ragazzi sono in villaggi in tutta Italia». Dal Volta di Reggio Calabria alcuni adolescenti sono volati al Cern. In altre province sono invece i “campioni dell’Alternanza”, battezzati tali dall’ex ministro Stefania Giannini, a garantire formazione sul campo: come commessi di Zara o Mac Donald’s, ad esempio. È il “modello tedesco”? «Mai manderei uno studente da Zara solo per esaurire le ore. Queste esperienze devono avere attinenza a ciò che studiano», risponde Alessandro Parola. E sì che il liceo che dirige, Classico e Scientifico a Cuneo, è in una delle province più povere di aziende registrate all’albo nazionale per gli stage. «Stiamo costruendo rapporti con musei, biblioteche o centri studi come l’Istituto Candiolo sulle malattie tumorali». Percorrendo il registro delle sue preoccupazioni più gravi, Parola insiste però su altro. «La sicurezza degli edifici è responsabilità di noi dirigenti. Ma non ho soldi in cassa per la manutenzione ordinaria. Così mi invento “fund raiser”, trovo bandi da fondazioni bancarie o dalla Ue. Di notte mi sveglio con gli incubi. A fine novembre il prefetto ha consigliato di chiudere le scuole per il maltempo. Al Darwin di Rivoli proprio in quei giorni è caduto un controsoffitto per le infiltrazioni d’acqua». L’ex governo ha previsto fino a sette miliardi e 800 milioni di euro per rendere sicure le scuole. Alla presidenza del Consiglio una squadra coordina le spese. «Aiutiamo a focalizzare gli obiettivi. Come quello fondamentale dell’adeguamento, e non solo del “miglioramento”, sismico. O l’opportunità di costruire nuovi impianti piuttosto che ristrutturare prefabbricati», spiega Laura Galimberti, l’architetto che guida la squadra: «Sono le regioni però a stabilire priorità e lavori. Noi non possiamo intervenire sulle loro scelte». Così non sempre la mappa dei 3.500 edifici scolastici in zona sismica coincide con la mappa dei cantieri aperti, ad esempio. Un’urgenza improrogabile, come mostrano le foto di Rocco Rorandelli, nate per un progetto con Cittadinanzattiva. È finita l’ora. Nell’ultimo tema la professoressa Ibba chiedeva ai ragazzi di immaginare un colloquio con un 50enne cresciuto senza smartphone. «Io che insegno da 25 anni e ho un gruppo di WhatsApp con gli studenti...». Resiliente, la scuola resiste.
Buona scuola? Solo per gli avvocati: è record di ricorsi. Ventotto cause al giorno: il ministero dell’Istruzione non è mai stato così sommerso dalle battaglie giudiziarie. Più di 7mila nel corso del 2016. La maggior parte riguardano concorsi e graduatorie, scrive Francesca Sironi il 2 febbraio 2017 su "L'Espresso". Ventotto cause al giorno. I ricorsi presentati contro il ministero dell’Istruzione e i suoi rami scolastici sono stati settemila e duecentosei nel 2016, di cui 1.340 solo contro la Buona Scuola. Sono i dati dell’Avvocatura generale dello Stato, l’organo legale dell’istituzione, che l’Espresso può pubblicare in queste pagine. I dati mostrano ancora un’altra scenografia dell’impasse in cui versano cattedre e strutture per la formazione: il contenzioso in tribunale. Dal 2012 le battaglie giudiziarie non hanno fatto che aumentare, passando dalle 3.485 di allora alle oltre settemila dell’anno scorso, un ritmo rimasto inalterato nelle prime settimane del 2017. Le associazioni di categoria, le sigle che rappresentano gli interessi di docenti e personale, pubblicano comunicati quotidiani per festeggiare vittorie collettive, sentenze, risarcimenti. Gli avvocati che difendono il Miur da questo sciame di cause spiegano invece come il boom di processi sia una sorta di “fenomeno ciclico”, un’onda puntuale quanto la marea a ogni nuovo bando o concorso per l’ingresso in ruolo; ricordano poi che i massicci numeri di vertenze contro le scuole siano dovuti anche alla mole titanica di docenti e famiglie coinvolte in un’istituzione “in prima linea” come quella educativa. Di certo però il peso delle liti si avverte e aumenta, al centro come in periferia. Michele Gramazio è il presidente dell’associazione dei presidi pugliesi e dice di «essere diventato una sorta di esperto legale, per forza». Ingegnere elettronico, dirigente scolastico dal 2010, negli ultimi tempi si è difeso da solo – difendendo l’istituzione – per tre volte, perché nelle cause di lavoro più semplici, in primo grado, l’avvocatura generale chiede spesso, ormai, agli uffici scolastici regionali di occuparsi direttamente della pratica. È un modo per lasciare che la struttura centrale di Stato si occupi soprattutto dei macro-ricorsi dalle conseguenze più rilevanti per il ministero. Ma sul territorio restano così i presidi a improvvisarsi avvocati. «Io ce l’ho fatta, però di solito l’amministrazione soccombe. E molti miei colleghi sono in difficoltà», racconta Gramazio. Alcune regioni, come l’Emilia Romagna, hanno costituito un piccolo pool regionale, specializzato in codici e leggi. Altre invece lasciano che siano i dirigenti a presentarsi dal giudice. «L’unico supporto che ho ricevuto», ricorda il preside: «È stata una mail con alcuni suggerimenti. «Si consiglia di precisare quanto segue...». Almeno per impostare la difesa». Le vertenze rilevate nel database dell’avvocatura si dividono in quattro blocchi. Quelle che hanno come oggetto “Concorsi e graduatorie che riguardano gli insegnanti” e sono state 4.043 nel 2016, tre volte tanto tre anni fa; poi ci sono le cause intentate dalle famiglie per la “promozione di alunni” - solo 308 l’anno scorso, un numero stabile da tempo; quindi i processi per la responsabilità civile di infortuni accaduti agli studenti, diminuiti dai 1.715 del 2012 ai 1.515 di oggi. E infine, negli ultimi due anni, sono state conteggiate le oltre 1.300 cause contro la Buona Scuola. La riforma macina vertenze anche perché, spiegano gli esperti, quanto più aumentano le variabili, quanto più complessi si fanno i fattori necessari a stabilire per quale ambito, aggregazione, titolo o categoria, ad esempio, qualcuno viene assunto e altri no, quanto più si moltiplicano gli ami a cui si appiglia il contenzioso, e la difficoltà a districarsi per difendere i migliori. E la Buona Scuola ha vinto forse il record in termini di labirinticità burocratica. Servirà la lezione?
ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.
Gli antichi popoli citati nella Bibbia inventarono gli alfabeti europei. Egizi, Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Filistei: civiltà bene organizzate. Le iscrizioni e le cronache ci narrano con immediatezza le loro vicende, scrive Livia Capponi il 15 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Popoli del Mare, Filistei: i loro nomi affiorano da qualche enigmatico passo della Bibbia: ma chi erano costoro? Non appena ci si avvicina al Vicino Oriente antico, si scopre una varietà di regni, lingue, scritture di impressionante ricchezza, spesso però trascurata a causa di quel complesso di superiorità nei confronti dell’Oriente, definito dallo studioso palestinese Edward Saïd «orientalismo», che caratterizzava molti studiosi europei del secolo scorso, e che abbiamo ereditato dalla nostra beneamata tradizione classica. Il volume della serie La Storia in edicola domani con il «Corriere della Sera» s’intitola Imperi e Stati nazionali dell’età del Ferro e copre il periodo dal 1200 al 539 avanti Cristo. L’oggetto trattato dagli autori nei loro saggi potrebbe sembrare qualcosa di immobile, impenetrabile e perduto. Nulla di più sbagliato. Si tratta di civiltà fortemente burocratizzate, dove iscrizioni, cronache, annali, documenti d’archivio ci restituiscono con immediatezza le parole dei protagonisti a tutti i livelli sociali, dalla propaganda dei re ai registri con le paghe dei lavoratori. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, è una storia molto viva, in cui l’economia e il commercio sono il motore di migrazioni e di contaminazioni linguistiche e culturali, e i grandi imperi territoriali si reggono non solo sugli eserciti, ma anche su paci armate raggiunte tramite complessi accordi diplomatici. In più, questo campo di studi è continuamente arricchito da scoperte e progressi interpretativi, che spesso portano a ribaltare le ortodossie di pochi decenni prima. Per la massa di lettere e circolari (fino a 15 mila l’anno) fra i re e la loro burocrazia, l’impero neo-assiro (IX-VII sec. a.C.) è stato soprannominato «impero della comunicazione». Le iscrizioni ufficiali dei re di Ninive contengono dettagliate res gestae rivolte ai posteri, il cui tono insieme tecnico e ieratico ha lasciato un’eco persino in quelle di Augusto. L’ideologia, espressa in modo martellante dall’edilizia e dai testi scritti, afferma che l’attività del re è guidata e favorita dall’ausilio divino. Il sovrano è il vicario in terra del dio nazionale Assur, che rende ogni sua guerra «giusta» per definizione. Il centro del mondo è l’Assiria, buona e santa; la periferia, cattiva e peccaminosa; l’uomo assiro è civile, lo straniero barbaro. In qualche caso le guerre assire sono favorite persino dagli dei del nemico, che, adirati per i suoi peccati, lo abbandonano alla punizione che merita. E la dea venerata in tutta la cultura mesopotamica è Ishtar, contraddittoria come i cicli della natura, capace di essere al tempo stesso vergine e madre, pura e impura, protettrice amorevole e, all’occorrenza, guerriera sanguinosa. Se si confrontano le storie di Israele scritte in Italia nel XX secolo si noterà un cambiamento radicale ed un progressivo distacco dal racconto biblico, a favore delle fonti archeologiche e documentarie. A partire dalla stele del faraone Merenptah (1230 a.C.), il primo documento che cita il nome di Israele fra i popoli sconfitti dall’Egitto, l’archeologia smentisce la notizia dell’Esodo biblico, cioè di una migrazione ebraica dall’Egitto alla terra di Canaan, seguita da una conquista per infiltrazione o aggressione. Pare invece che gli Ebrei, tribù dedite alla pastorizia e poi alla coltivazione di vino e olio, siano sempre stati lì, riconducibili ad uno sviluppo interno. Un’altra stele egiziana poco più antica menziona una tribù di Raham, rivelando il significato di «Abraham» come il «padre dei Raham», e identificando Israele/Giacobbe in un suo discendente che diede il nome al popolo. La storia di re David, così come la racconta la Bibbia, è oggi ritenuta leggendaria. Il rapporto di amore esclusivo che lega il popolo di Israele a Yahweh si può confrontare con il legame fra il re e il popolo nei giuramenti di fedeltà assiri: «Non cercheremo alcun altro re o alcun altro signore per noi». Molti precetti biblici sono stati confrontati con altri codici legali, come quello babilonese di Hammurabi (1750 a.C.), gettando luce sulla koiné giuridica vicino-orientale. La dichiarazione sulle offerte pronunciata durante la liturgia del pranzo pasquale, che costituisce la professione di fede ebraica, inizia con la frase «mio padre era un Arameo errante». Gli Aramei, regno formatosi intorno a casate di origine tribale, lasciano un segno duraturo con la loro lingua, che nell’impero neoassiro diventa un mezzo di comunicazione internazionale, dalla Persia all’Egitto, dalla Siria alla Battriana. Con essa si sviluppa un sistema alfabetico di 22 segni, che prende piede anche nei porti della Fenicia, seguendo le rotte commerciali. Grazie alla sua praticità e adattabilità espressiva, questo alfabeto è adottato da tutte le lingue semitiche dette «cananaiche», incluso l’ebraico, e servirà poi anche per costituire gli alfabeti greci, precursori di ogni sistema di scrittura in Europa.
Italiani "analfabeti funzionali", incapaci di decifrare il mondo. Uno su tre non capisce un articolo di giornale, un contratto, un foglietto delle istruzioni. E non è un'emergenza elettorale ma sociale e politica, scrive Oscar di Montigny il 5 aprile 2018 su "Panorama". Quando nel 1861 si fece il Regno d'Italia, la priorità successiva fu "fare gli Italiani", come disse Massimo D'Azeglio. Il primo strumento era la scuola: per creare un popolo bisognava metterlo in condizione di leggere, scrivere e far di conto. Ci volle quasi un secolo (e il maestro Alberto Manzi) per passare dal 78 per cento di analfabetismo di allora alla quasi totale scomparsa degli illetterati. Ma i problemi tornano in modo più subdolo. In un mondo in cui 260 milioni di bambini non hanno accesso ad alcuna istruzione, in Italia, secondo l'Ocse, più del 70 per cento della popolazione è oggi analfabeta funzionale; non è analfabeta totale, perché ha ricevuto una minima educazione, tuttavia non riesce a comprendere brevi testi di utilità quotidiana o a compiere le più basiche operazioni di calcolo. Non capisce un articolo di giornale, un semplice contratto, un foglietto delle istruzioni, non sa calcolare la somma di una spesa o lo sconto su un prodotto. Il dato è allarmante: un italiano su tre non sa decifrare il mondo intorno senza una semplificazione o un'intermediazione. Ancora più preoccupante è che queste persone hanno comunque avuto un'istruzione. Se una volta si parlava di analfabetismo di ritorno, cioè di adulti che dimenticavano molte nozioni, ora siamo di fronte a un fenomeno che pare più organico e generalizzato. Si esce dalle scuole con strumenti già insufficienti ad affrontare la società. Il problema dell'analfabetismo non è solo un fattore culturale, è ancor di più un'emergenza sociale e politica. Secondo la dichiarazione dell'Unesco del 1975, l'alfabetizzazione "fornisce gli strumenti per acquisire la capacità critica nei confronti della società, stimola i progetti che possano agire sul mondo e trasformarlo". Spirito critico, progetti, relazioni: senza una capacità di elaborazione elementare tutto ciò è irrealizzabile. Figuriamoci orientarsi fra le varie proposte politiche, rivendicare diritti contrattuali, difendersi dalle ingiustizie. Eppure viviamo nell'epoca del web: lo smartphone sembra aprirci una conoscenza infinita. La maggior parte di noi invece non riesce a cercare né a comprendere questi innumerevoli stimoli. Non stupisce il fenomeno delle fake news: la scarsa capacità di capire i testi rende ancora più difficoltoso discernerne la veridicità. Molto più facile diffonderle. Il mai troppo compianto Tullio De Mauro ha parlato fino agli ultimi suoi mesi di "un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante": invece di rifiorire per questa abbondanza di conoscenza, facciamo rattrappire i nostri cervelli. Non pretendiamo dunque che milioni di concittadini si approccino alle piccole o grandi cose della vita (come votare) senza preferire la propria pancia alla ragione. Ma attenzione anche a fare troppe distinzioni fra noi e loro: quando ci rifiutiamo di essere curiosi, quando per pigrizia evitiamo la scoperta e la novità, quando non dialoghiamo con le opinioni degli altri, finiamo per essere tutti analfabeti funzionali. (Articolo pubblicato sul n° 15 di Panorama, in edicola dal 29 marzo 2018, con il titolo "La riflessione").
L'analfabetismo delle istituzioni e l'incapacità di cogliere il cambiamento. Big data, fake news, intelligenza artificiale, robot: il mondo cambia e chi gestisce la cosa pubblica non sa più che pesci prendere, scrive Luciano Lombardi il 21 marzo 2018 su "Panorama". Il caso Facebook-Cambridge Analytica ha la forma di una brutta ferita. Che sembra nuova, ma in realtà è una ferita vecchia. Oltre che molto estesa, dai big data della fattispecie alle fake news, per esempio, dall’intelligenza artificiale ai robot e a come questi ultimi stanno cambiando i connotati al mondo del lavoro. In tutte le circostanze che rientrano in ciascuno di questi casi, quello che colpisce, più di ogni altra cosa, è l’incapacità delle istituzioni di intercettare i possibili effetti negativi dell’epifenomeno di turno e neutralizzarli prima della loro degenerazione. Prendiamo il caso di cui si parla in questi giorni: le manipolazioni via social a fini elettorali, ormai puntuali a ogni tornata da elettorale in qualsivoglia luogo del pianeta. Senza andare a scomodare il Russiagate, cioè la "madre di tutti gli scandali" di questo tipo già in tempi lontani (lontanissimi per il calendario della Rete) si andava parlando dei rischi di ingerenza nel contesto politico. E la questione, più generale, degli usi impropri dei dati personali nasce con la stessa Internet nel momento in cui questa ha cominciato a entrare nella vita di tutti.
Prevenzione zero. Eppure, nonostante gli avvertimenti, nonostante gli innumerevoli episodi, le istituzioni hanno fatto poco o nulla se non limitarsi ex post ad avvertire dell’importanza di rispettare le regole, oppure punire. Sempre e solo a posteriori. Trascurando il fatto che, probabilmente, le suddette regole non sono sufficienti, nella migliore delle ipotesi, o più spesso sono completamente inefficaci. Quando non del tutto assenti. Quanto detto finora vale, parimenti, per le altre grandi questioni connesse all’era digitale. Le fake news, altro caso emblematico. Come se, la percezione di veridicità della notizia in base a criteri emozionali e non come conseguenza di un’analisi sull’effettiva veridicità dei fatti fosse un fatto nuovo. Come se la post-verità - e con lei le “bufale” più o meno eclatanti, più o meno sofisticate - fosse un fenomeno dell’ultim’ora, spuntato dal nulla all’improvviso e degenerato tanto rapidamente da non dare il tempo di agire a chi è chiamato a vigilare.
Il sistema ormai fa acqua. La stessa cosa vale per gli altri due aspetti che abbiamo preso ad esempio per questa riflessione. Cosa si legge e cosa si ascolta perlopiù, a tutti i livelli, quando si è di fronte a un ragionamento sui cambiamenti del mondo del lavoro? Che ci sono sempre stati. Ed è un fatto, vero. Come è vero che quando una professione sparisce, quando una categoria di attività commerciali esce dal mercato, quando un sistema di produzione fa il suo tempo non c’è da preoccuparsi troppo perché tanto c’è sempre una mano invisibile che entra in gioco e ristabilisce gli equilibri. Così è stato - più o meno - finora. Eppure gli scenari oggi sembrano tutt’altro che autolivellanti, per esempio perché, rispetto al passato, la velocità con cui l’emergere di una nuova professionalità è infinitamente più lenta di quanto ci metta a sparire quella che sarebbe destinata a soppiantare. O perché, più in generale, banalmente, quelle che chiamiamo rivoluzioni, oggi, hanno una portata ben più disruptive, in senso buono e in senso cattivo, di quelle che le hanno precedute. E anche ammettendo, senza concedere, che questo assunto non sia vero, gli strumenti che oggi si hanno a disposizione per analizzare, prevedere ed impedire sono (dovrebbero essere?) infinitamente maggiori e migliori di quelli che esistevano in passato. Poche storie e poche scuse quindi. Abbiamo un grande, enorme problema: l’incapacità delle istituzioni di leggere lo zeitgeist, di riconoscere il segno dei tempi con sufficiente anticipo e capacità interpretativa e di tradurre poi le conclusioni in azioni concrete, a livello politico, economico e legislativo. Siamo, cioè, di fronte a una diffuso analfabetismo tecnologico, nella sua forma peggiore, perché non riguarda più soltanto il cittadino, l'utente, il consumatore, ma riguarda soprattutto chi gestisce la cosa pubblica.
Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate, scrive Raffaele Simone il 27 settembre 2017 su "L'Espresso". Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente.
Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza.
La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere?
«L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti.
La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.
Ocse: pochi laureati e bistrattati. Studenti del Sud indietro di un anno. Pochi laureati, poco preparati e bistrattati. Il divario della performance tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico. Così l’Ocse nel rapporto sulla "Strategia per le competenze" 2017. “L’Italia, negli ultimi anni, ha fatto notevoli passi in avanti nel miglioramento della qualità dell’istruzione”, ma forti sono le differenze nelle performance degli studenti all’interno del Paese, “con le regioni del Sud che restano molto indietro rispetto alle altre”, tanto che “il divario della performance in Pisa (gli standard internazionali di valutazione) tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico”. “Solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto alla media Ocse del 30%”. Inoltre “gli italiani laureati hanno, in media, un più basso tasso di competenze” in lettura e matematica (26esimo posto su 29 paesi Ocse). Non solo. L’Italia è “l’unico Paese del G7” in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine è più alta di quella che fa capo ad attività non di routine. In inglese il fenomeno è noto come "skills mismatch", in italiano si potrebbe tradurre con "dialogo tra sordi", dove i due potenziali interlocutori sono il lavoratore e il posto di lavoro. Insomma le competenze non risultano in linea con la mansione. Cosa da noi “molto diffusa”, spiega l’Ocse in un dossier specifico sulla materia. “Il livello dei salari in Italia è spesso correlato all’età e all’esperienza del lavoratore piuttosto che alla performance individuale, caratteristica che disincentiva nei dipendenti un uso intensivo delle competenze sul posto di lavoro”. “Attualmente l’Italia è intrappolata in un "low-skills equilibrium", un basso livello di competenze generalizzato: una situazione in cui la scarsa offerta di competenze è accompagnata da una debole domanda da parte delle imprese”. Insomma da una parte la forza lavoro non si presenta sul mercato preparata, attrezzata a svolgere le diverse mansioni possibili, dall’altra le aziende non pretendono.
La scuola superiore? È ancora un fatto di classe (sociale). Meno di un diplomato al liceo classico su 10 è figlio di operai e impiegati. Perché il fattore socio-economico è determinante nelle scelte dei ragazzi dopo le medie. Un gap di partenza che non abbiamo superato. E che incide nelle scelte universitarie, scrive Cristina Da Rold il 31 marzo 2017 su "L'Espresso". Il fatto che 7 diplomati su 10 abbiano intenzione di iscriversi all'università non è sufficiente per poter dire di essere sempre più vicini a rendere davvero equo l'accesso all'università. Il gradiente sociale che emerge se si considera la classe socio-economica di appartenenza dei giovani diplomati a seconda del tipo di diploma è infatti drammaticamente evidente. Anche se frequentare un liceo pubblico costa allo stesso modo di un istituto tecnico o di uno professionale, un terzo di chi si diploma al liceo proviene da famiglie di classe sociale considerata “elevata”, mentre solo il 17 per cento da famiglie che lavorano nell'esecutivo. Lo mostrano i dati raccolti da AlmaDiploma , la “sorella” di Almalaurea che ogni anno cerca di fare il punto sulle condizioni dei ragazzi prima che essi arrivino all'università. Per capire meglio di cosa stiamo parlando vale la pensa sciogliere un po' questa nomenclatura. Secondo le categorie di AlmaDiploma la classe sociale considerata “elevata” è rappresentata da liberi professionisti (medici, avvocati), dirigenti, docenti universitari e imprenditori con almeno 15 dipendenti. La classe “media impiegatizia” comprende impiegati con mansioni di coordinamento, direttivi o quadri intermedi e insegnanti, mentre la “classe media autonoma” coadiuvanti familiari, soci di cooperative e imprenditori con meno di 15 dipendenti. Infine, la classe del lavoro esecutivo è composta da operai, da qualsiasi forma di lavoratore subalterno e assimilato e da tutti coloro che sono considerati “impiegati esecutivi”, con contratti di varie forme e colore. Una specifica che rende ancora più rilevante il fatto che solo un liceale su 6 provenga da una famiglia che lavora nell'esecutivo. Si tratta in realtà di una stima al rialzo. Se consideriamo solo le due “roccaforti”, cioè il liceo classico e il liceo scientifico, il gradiente è ancora più evidente: il 45% dei diplomati nel 2016 nei licei classici è figlio di professionisti, dirigenti, docenti universitari, imprenditori, contro un 8,7% rappresentato da figli di operai e di impiegati. Simile la situazione per i licei scientifici, dove quest'ultima categoria rappresenta il 13,1%, tendendo a preferire, come formazione liceale, i licei delle scienze umane e i licei artistici. Certo, si tratta di un sondaggio, non di una raccolta svolta a tappeto, scuola per scuola. Leggendo il rapporto di AlmaDiploma si apprende infatti che questi dati rappresentano 261 istituti per un totale 43.171 studenti esaminati: 61 nel Lazio, 45 in Lombardia, 40 in Emilia Romagna, 26 in Liguria, 22 in Puglia, 20 in Toscana, 12 in Trentino-Alto Adige, 11 in Sicilia, 9 in Veneto e 15 in altre 7 regioni italiane. Perfettamente omogenea invece la proporzione di studenti esaminata per classe sociale. È ampiamente sottorappresentato il sud, ma anche per questo si tratta di dati interessanti perché ci tolgono dall'imbarazzo di pensare che forse questo gap così marcato rifletta in qualche modo un gradiente geografico, dal momento che solo una piccola parte di questi dati proviene dalle scuole del Meridione. Colpisce molto anche ciò che emerge dalle domande che AlmaDiploma pone ai giovani riguardo al loro prossimo futuro. Se filtriamo i risultati per i liceali italiani, coloro cioè che si presuppone più di tutti proseguiranno gli studi, fra coloro che non intendono iscriversi all'università, quasi il 30% appartiene alla classe dell'esecutivo, che ricordiamo costituisce solo il 15% del totale dei diplomati liceali. Inoltre, sempre solo considerando i liceali, il 30% di chi viene bocciato 2 o più volte appartiene alla classe sociale più bassa, contro il 17% della classe elevata. E di nuovo, ricordiamo che i primi rappresentano solo il 17% del totale degli iscritti ai licei. Un dato che ci fa riflettere ancora una volta sul substrato sociale che stiamo costruendo, e su quanto le condizioni di partenza possano incidere sulle attuali possibilità di un giovane nato in una famiglia con meno possibilità di altre di partenza, di seguire il medesimo percorso di un suo coetaneo e di usufruire delle migliori possibilità formative, curriculari e non. Vale la pena per esempio soffermarsi sulle percentuali di diplomati che hanno effettuato un soggiorno di studio all'estero, a seconda del tipo di scuola superiore considerata. Ancora una volta il gradiente si fa sentire: anche escludendo il liceo linguistico, che per ovvie ragioni propone molte attività di questo tipo, i giovani che fanno questo tipo di esperienza sono il doppio nei licei rispetto agli istituti tecnici o professionali. In media 4 ragazzi su 10 del classico e dello scientifico hanno usufruito di periodi di studio all'estero contro il 15% degli istituti professionali. Il divario aumenta se si considerano solo i soggiorni lunghi, superiori alle 2 settimane, prerogativa scelta da un liceale su 10 e da un diplomato professionale su 100. Si possono guardare questi dati da diversi punti di vista, per esempio notando il fatto che il 33% di chi ha intenzione di iscriversi all'università e contemporaneamente cercare un lavoro, proviene dalle classi sociali elevate. Tuttavia, in termini di disuguaglianze sociali il punto di osservazione – dicono gli esperti – deve essere quello dell'elemento più vulnerabile. Il punto di vista più interessante non è infatti che i figli delle classi sociali più elevate non scelgano le scuole professionali, come è facilmente prevedibile, o che tendano a proseguire gli studi dopo il diploma: l'elemento cruciale per valutare gli estremi di una società disuguale è capire perché ancora oggi meno di un diplomato al liceo classico su 10 sia figlio di operai e impiegati. Un possibile risultato di questo trend lo raccontava un anno fa AlmaLaurea, mostrando come chi proviene da famiglie più istruite sia più propenso a intraprendere percorsi di studio più lunghi, le famose “lauree a ciclo unico”, come medicina e giurisprudenza. Un dato su tutti: il 43% dei laureati in medicina proviene da classi sociali elevate (cioè con entrambi i genitori laureati), e in generale il 34% degli iscritti a corsi di laurea magistrale a ciclo unico. I figli di operai e impiegati rappresentano solo il 15% dei laureati magistrali a ciclo unico, cioè del neo-medici e dei neo-avvocati, contro un 34% costituito dai figli della classe sociale più elevata. Viene da chiedersi dunque se si tratta solo di una condizione economica, specie alla luce del recente dibattito sul Reddito di Inclusione per le famiglie meno abbienti, o se dietro ci sia dell'altro, barriere culturali e sociali. Quello che è certo è che in ballo vi è anche la composizione stessa della classe dirigente del domani.
Il trionfo degli analfabeti: non si è mai scritto tanto e tanto male. Dagli strafalcioni grammaticali dei politici alla dealfabetizzazione resa evidente dai social network, oggi siamo circondati dalla brutta scrittura. E non si tratta di un fenomeno solo italiano, scrive Raffaele Simone il 13 aprile 2017 su "L'Espresso". L’italiano è in declino? I giovani lo stanno perdendo? Nelle settimane scorse queste domande hanno rifatto capolino per via di un fait-divers: 600 professori universitari, tra i quali alcuni nomi noti, hanno scritto una lettera al capo del governo, al ministro dell’istruzione e alla stampa, per denunciare che «alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente» e commettono «errori appena tollerabili in terza elementare». Forti di questa diagnosi, i Seicento hanno stabilito che la colpa è della scuola, troppo disinvolta e liberale: ne chiedono quindi una «davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica». Dopo questo rullo di tamburi, che sembrava annunciare chissà quale carica, i Seicento si sono limitati però a proporre qualche ritocchino qua e là all’organizzazione della scuola, di portata così modesta da sembrare, più che un manifesto di riscossa, un post-it passato da un preside ai suoi docenti. Del resto, qualche giorno dopo, quasi a farlo apposta, l’appello ha trovato una brutale conferma nei fatti: in un concorsone per maestri, la metà dei candidati si sono lasciati andare a plateali svarioni e castronerie. Comunque sia, benché il documento fosse scritto in una prosa malferma e burocratica e non tutti i Seicento siano noti come campioni di bello stile, non c’è dubbio che il dominio dell’italiano da parte dei giovani sia in grave declino. Nei miei decenni all’università ho incontrato non meno di dieci coorti di ragazzi, e posso confermare per esperienza diretta che uno smottamento linguistico e culturale presso i giovani era evidente almeno dagli anni Ottanta.
La questione si può affrontare a diversi livelli. Se vogliamo solo farci quattro risate, potremo fare collezioni di un po’ e fà, di un'elemento e i zoccoli ecc. Ci sorprenderà che solo pochi padroneggino l’apostrofo e gli accenti, distinguano sì (segno di assenso e avverbio multiuso) da si, sappiano come si scrivono soqquadro, acquitrino e intravvedere, e coi congiuntivi se la cavino meglio di Di Maio. Va detto però che strafalcioni non si trovano solo nel linguaggio dei giovani, ma affiorano anche in prose premium. Le scemenze pullulano sui maggiori media del paese, nei quali la punteggiatura è ormai traballante, il passato remoto è scomparso (Giulio Cesare è nato…) e la virgola dopo il vocativo è solo dei cruscanti. A un livello un po’ più complesso, ci sorprenderà vedere (esperienza personale) che neanche uno degli studenti di un corso specialistico conosca il senso di imbelle, imberbe, inerme, empio, beffardo e tanti altri aggettivi di questo tono. La sorpresa sarà ancora maggiore scoprendo che nessuno o quasi è in grado di completare un proverbio che a voi pare ovvio (tanto va la gatta al lardo…, bandiera vecchia…). Ma se vogliamo andare un po’ a fondo, bisognerà dire (e ricordare ai Seicento) che a indebolirsi non è la “lingua italiana” come materia scolastica. È molto di più: non stanno andando in fumo solo l’ortografia, la grammatica, la sintassi e il lessico, ma tutta quella formidabile macchina mentale (un tesoro dell’Occidente) con cui si acquista, conserva, elabora la conoscenza. Parlo insomma dell’intera attrezzatura che si usa per acquisire conoscenze e elaborarle, esporle, farle valere, ricordarle, usarle nella pratica.
Qualcuno cercherà di consolarci ricordandoci che il declino, se c’è, colpisce tutti i paesi avanzati. Il saggio The Closing of the American Mind di Allen Bloom, che descriveva con allarme cose esattamente di quel genere che accadevano negli USA, è del 1987. A un livello più basso, in Francia nel 2016 si sono visti costretti a sopprimere per legge alcune trappole ortografiche, tanti erano gli errori (anche dei colti) nella scrittura. Sono state modificate una quantità di grafie ingannevoli (oignon “cipolla” si potrà scrivere anche ognon); poi, arrendendosi al fatto che per i giovani il circonflesso è ormai solo un dettaglio delle faccine, lo si è abolito su i e su u (chissà perché, non su a)! Quindi, per dire, la maîtresse sarà d’ora in poi una maitresse… Questo tentativo di consolazione si può leggere però anche come un allarme da horror: l’attacco ai meccanismi del conoscere (ortografia inclusa) non è locale, ma planetario, e questa non è fantascienza. Ma chi sono i nemici? Non sappiamo dove sono, ma sappiamo chi sono. Da almeno trent’anni i giovani si trovano nella tenaglia di un mondo che è insieme descolarizzante e dealfabetizzante. Quanto al primo punto, è un mondo pieno di attrazioni, tentazioni, trappole seducenti, inviti, richiami a esperienze facilmente accessibili (droga inclusa). Insomma, nel complesso, un mondo così terribilmente attraente che al confronto la scuola, con tutto quel che comporta (pazienza, attenzione, ripetizione, silenzio), ha perduto mordente e appare piuttosto come una gran noia. La vita fuori è mille volte più libera e ricca di quella che si svolge entre les murs (“tra le mura” della scuola, secondo il titolo del bel film francese, in Italia La classe).
A dealfabetizzare queste generazioni già descolarizzate ci pensa il digitale di massa usato senza criterio. Una frase del genere è sicuramente impopolare, ma bisogna ben ammettere che i primi dieci anni dello smart phone, celebrati qualche settimana fa, sono anche i primi dieci anni del crollo della cultura condivisa. Su smartphone e tablet ubiqui, tutti scrivono o leggono qualcosa in ogni momento e luogo, perfino al cinema, in sala operatoria e alla guida di autobus. Ma come scrivono? Cosa scrivono? Cosa e come leggono? Molte di queste cose sono puro trash, junk, monnezza. Per giunta, la loro vita mentale è sottoposta a una perturbazione perpetua, dominata dall’interruzione continua, dallo zapping compulsivo, dalla mezza cultura che circola in rete, dal copia e incolla come pratica standard. Faccine piazzate dappertutto, fusioni di parole (tecnicamente, univerbazioni: massì, mannò, maddai, evvai, eddai, ecc.), contrazioni coatte (dal celebre xché in poi), appunti presi coi pollici e whatsapp per descrivere (fotografandoli) anche i momenti più irrilevanti e triti della vita. Insomma, se è vero che non si è mai scritto tanto nella storia, mai lo scrivere è stato a tal punto privo di ogni potere alfabetizzante.
Il guasto linguistico che ha tanto scandalizzato i Seicento è quindi solo una delle facce della e-cultura ormai prevalente, e neanche la più importante. La scuola, poveretta, non è colpevole che in parte. Nata per caso, la e-cultura è salita dalle aule e dalle discoteche alle professioni e alla vita comune, a partire dai media, e si è propagata viralmente. Basta sentire gli spropositi di pronuncia dei giornalisti televisivi, le intonazioni sballate, le pause viziose, i discorsi letti senza evidentemente capirci niente, per rendersi conto che il virus si è scatenato. I maestri elementari che scrivono svarioni sono i primi frutti maturi e adulti di questa semina.
Basteranno le quattro propostine di riorganizzazione didattica frettolosamente sottoscritte dai Seicento per compensare gli effetti di un bradisismo catastrofico? Cosa può la scuola? Chi può contrastare il blocco computazionale-educativo dominato da corporations come Apple, Google, Facebook e Pearson?
Come sempre, però, nella catastrofe c’è chi corre ai ripari. Mentre la scuola si dequalifica (e la lingua si liquefa), i giovani più svegli continuano a prepararsi seriamente, imparano a scrivere e leggere come si deve e usano i device solo quando gli servono. Ne conosco non pochi. L’esplosione internazionale dello house-schooling (ora si chiama così: far scuola a casa) è un indizio minuscolo, ma eloquente, di questo “si salvi chi può”.
Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori. Sono capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita quotidiana. Nessuna nazione in Europa, a parte la Turchia, ne conta così tanti. Tutti i numeri per capire la dimensione di un fenomeno spesso sottovalutato, scrive Elisa Murgese il 21 marzo 2017 su "L'Espresso". Hanno più di 55 anni, sono poco istruiti e svolgono professioni non qualificate. Oppure sono giovanissimi che stanno a casa dei genitori senza lavorare né studiare. O, ancora, provengono da famiglie dove sono presenti meno di 25 libri. Sono gli analfabeti funzionali, quegli italiani che non sono in grado di capire il libretto di istruzioni di un cellulare o che non sanno risalire a un numero di telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del link “Contattaci”. È “low skilled” più di un italiano su quattro e l'Italia ricopre una tra le posizioni peggiori nell' indagine Piaac, penultima in Europa per livello di competenze (preceduta solo dalla Turchia) e quartultima su scala mondiale rispetto ai 33 paesi analizzati dall'Ocse (con performance migliori solo di Cile e Indonesia). Non si parla in questo caso di persone incapaci di leggere o fare di conto, piuttosto di persone prive «delle competenze richieste in varie situazioni della vita quotidiana», sia essa «lavorativa, relativa al tempo libero», oppure «legata ai linguaggi delle nuove tecnologie», precisa Simona Mineo, ricercatore Inapp, l'Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol). «Chi è analfabeta funzionale non è incapace di leggere - continua Mineo, che è stata anche National data manager per l’indagine OCSE-PIAAC condotta in Italia - ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni». Un monito che riguarda gli italiani tutti perché, come conferma all'Espresso Friedrich Huebler, massimo esperto di alfabetizzazione per l'Istituto di statistica dell'Unesco: «Senza pratica, le capacità legate all'alfabetizzazione possono essere perse anno dopo anno». Come a dire che analfabeti non si nasce ma si diventa. Secondo l'Unesco, nel 2015 gli analfabeti in Italia erano pari all'1 per cento, percentuale che si riduce allo 0,1 se si considera solo la popolazione dai 15 ai 24 anni. «In molte regioni industrializzate, come l'Europa, la maggior parte della popolazione è capace di leggere e scrivere - continua Huebler - L'enfasi, infatti, è da porre sull'analfabetismo funzionale e sui livelli di alfabetizzazione piuttosto che sulle basiche capacità di lettura e scrittura». Al centro dell'analisi dell'esperto dell'Unesco ci sono proprio i dati dell'analisi Piaac, che mostrano come, nonostante l'Italia abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100 per cento, la percentuale di analfabeti funzionali è la più alta dell'Unione europea. D'altronde, «anche se la maggior parte degli abitanti dei paesi ricchi è capace di leggere e scrivere - chiude Huebler - non si deve dimenticare come i livelli di alfabetizzazione non sono gli stessi per tutta la popolazione».
L'identikit dei nuovi analfabeti in Italia. Solo il 10 percento è disoccupato, fanno lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre degli analfabeti funzionali italiani è over 55. Tra i soggetti più colpiti le fasce culturalmente più deboli come i pensionati e le persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito mentre, per quanto riguarda la distribuzione geografica, il sud e il nord ovest del Paese sono le regioni con le percentuali più alte, visto che da sole ospitano più del 60 percento dei low skilled italiani. A tracciare l'identikit dell'analfabeta funzionale italiano sono le elaborazioni dell'Osservatorio Isfol raccolte nell'articolo “I low skilled in Italia”, studio nato per indagare su quella nutrita parte della popolazione italiana che nell'indagine dell'Ocse ha mostrato di possedere bassissime competenze. Tra i risultati più interessanti, l'aumento della percentuale di low skilled al crescere dell’età, passando dal 20 percento della fascia 16-24 anni all'oltre 41 percento degli over 55. «Questo perché chi è nato prima del 1953 non ha usufruito della scolarità obbligatoria - continua la ricercatrice Mineo - ma anche perché nelle fasce più adulte si soffre maggiormente dell’analfabetismo di ritorno». Ovvero, «se non sono coltivate, vengono perse anche quelle competenze minime acquisite durante le fasi di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Andamento inverso per gli high skilled: in altre parole, mano a mano che i mesi passano sul calendario, aumentano le possibilità di diventare analfabeti funzionali. Balsamo contro la perdita delle nostre capacità può essere tornare tra i banchi di scuola da adulti o partecipare attivamente al mondo del lavoro. Eppure, non ogni occupazione può “salvarci” dall'essere potenziali analfabeti funzionali visto che solo alcune attività garantiscono il mantenimento se non addirittura lo sviluppo di capacità e conoscenze. «Sono le skilled occupations, ovvero professioni intellettuali, scientifiche e tecniche» precisa Simona Mineo. Quale quindi la causa delle cattive performance degli over 50? Colpa dei loro brevi percorsi scolastici e di un precoce ingresso nel mercato del lavoro, ma «ciò che conta più di tutto è la mancanza di una costante 'manutenzione' e 'coltivazione' delle competenze». È l'assenza di allenamento mentale, quindi, la causa che la ricercatrice individua per il declino della popolazione più anziana. «Si dovrebbe garantire un invecchiamento attivo», e sostenere attività di apprendimento in età adulta. «Iniziative che purtroppo, in Italia, continuano ad essere estremamente ridotte». Contraltare degli over 50 sono i Neet (i giovani tra i 16 e i 24 anni che non stanno né lavorando né studiando), visto che secondo lo studio di Inapp coloro che appartengono a questa categoria hanno una probabilità cinque volte maggiore di avere bassi livelli di competenza.
I libri che abbiamo in casa fanno la differenza. Quanti volumi erano riporti sulla libreria di casa tua quando avevi 16 anni? Ecco una delle domande del questione Piaac che può fare la differenza visto che spesso gli analfabeti funzionali sono cresciuti in famiglie in cui erano presenti un numero limitato di libri. «Questo dato è particolarmente accentuato nel nostro Paese -si legge nel report - dove il 73 percento dei low skilled è cresciuto in famiglie in cui erano presenti meno di 25 libri». Una mancanza che può portare i giovani a cadere in un crudele circolo vizioso. «L'assenza di un livello base di competenze - racconta Simona Mineo - rende difficili ulteriori attività di apprendimento», tanto da portare le competenze dei giovani con background fragili a «invecchiare e deteriorarsi nel tempo», rendendo per loro sempre un miraggio «l’accesso a qualsiasi forma di apprendimento». Le nostre competenze, quindi, non sono statiche. La famiglia, l’età, l’istruzione e il lavoro possono determinarne nell’arco della vita lo sviluppo ma anche la loro perdita. E il tessuto italiano potrebbe addirittura aiutare la diffusione dell'analfabetismo funzionale. Tra i punti deboli del nostro Paese, infatti, «l’abbandono scolastico precoce, i giovani che non lavorano o vivono condizioni di lavoro nero e precario, la mancanza di formazione sul lavoro» continua la ricercatrice, puntando il dito anche contro «la disaffezione alla cultura e all'istruzione, che caratterizza tutta la popolazione». D'altronde, come ricordava Tullio De Mauro, «la regressione rispetto ai livelli acquisiti nel percorso scolastico colpisce dappertutto gli adulti». «Occorre -, quindi, secondo lo studioso che più di tutti in questi ultimi anni ha continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, - riflettere su stili di vita e assetti sociali che producono questi dislivelli di competenze e queste masse di deprivati tra gli adulti».
«Gli studenti non sanno l’italiano». La denuncia di 600 prof universitari. Appello accorato dei docenti che chiedono un intervento urgente al governo e al Parlamento. «Nelle tesi di laurea, errori da terza elementare. Bisogna ripartire dai fondamentali: grammatica, ortografia, comprensione del testo», scrive Orsola Riva il 4 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Possibile ritrovarsi a correggere una tesi di laurea dovendo usare la matita rossa e blu come in un temino della scuola elementare? Purtroppo sì. Basta leggere alcune delle testimonianze drammatiche dei 600 professori universitari che in pochi giorni hanno sottoscritto un accorato appello al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo dai fondamentali: «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Può sembrare un ritorno indietro ma, come spiega Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di Firenze che hanno promosso la lettera, «forse stiamo risentendo anche di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70». E invece, come già si diceva in un film diventato di culto dopo gli anni del riflusso, «chi parla male pensa male». O, come preferisce ricordare il professor Ragazzini citando Sciascia, «l’italiano non è l’italiano, è il ragionare». «E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente - si legge nella lettera -. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». La notizia non è nuova, ma non per questo è meno drammatica. Anche dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa che misura le competenze dei quindicenni di mezzo mondo i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte. E a sorpresa è soprattutto in italiano che andiamo male. Con buona pace della stanca retorica anti-crociana. Dal 2000 a oggi non abbiamo recuperato mezza posizione, mentre in matematica, dove pure eravamo molto più indietro, abbiamo fatto enormi passi avanti. Tra i firmatari della lettera si contano (al momento) 8 accademici della Crusca, quattro rettori, il pedagogista Benedetto Vertecchi, gli storici Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora e Mario Isnenghi, e poi filosofi (Massimo Cacciari), sociologi (Ilvo Diamanti), la scrittrice e insegnante Paola Mastrocola, da sempre in prima linea per una scuola severa e giusta (giusta anche perché severa), matematici e docenti di diritto, storici dell’arte e neuropsichiatri. Tutti uniti nel denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una parte degli studenti universitari. Come racconta bene questa testimonianza di uno dei firmatari: «Mi è capitato di incontrare in treno una studentessa che non sapeva quale fosse la “penultima” lettera del codice di prenotazione del suo biglietto».
La lettera dei 600 docenti universitari al governo: "Molti studenti scrivono male, intervenite". Il documento firmato da accademici della Crusca, linguisti, storici e filosofi. Nella lista Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari e Carlo Fusaro: "Alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di italiano", scrive Gerardo Adinolfi su "La Repubblica” il 4 febbraio 2017. "Molti studenti scrivono male in italiano, servono interventi urgenti". E' il contenuto della lettera che oltre 600 docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi e economisti hanno inviato al governo e al parlamento per chiedere "interventi urgenti" per rimediare alle carenze dei loro studenti: "È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente", si legge nel documento partito dal gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità e firmato, tra gli altri, da Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari, Carlo Fusaro e Paola Mastrocola. "Da tempo - continua la lettera - i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana". Secondo i docenti, il sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, "anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico". "Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all'aggiornamento degli insegnanti, ma - si fa notare - non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti, oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né l'impegno degli insegnanti, né l'acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti". Nella lettera si indica quindi una serie di dettagliate linee d'intervento per arrivare, "al termine del primo ciclo" di studi, ad un "sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti". Nella lunga lista dei firmatari ci sono molti nomi illustri: gli Accademici della Crusca Rita Librandi, Annalisa Nesi e Piero Beltrami, i linguisti Stefania Stefanelli e Edoardo Lombardi Vallauri, quatto rettori universitari, i docenti di letteratura italiana Giuseppe Nicoletti e Biancamaria Frabotta, gli storici Luciano Canfora e Mario Isnenghi, il matematico Lucio Russo e i costituzionalisti Paolo Caretti e Fulco Lanchester e ancora l'economista Marcello Messori e i docenti di diritto pubblico comparato e romano Ginevra Cerrina Feroni e Giuseppe Valditara. "Circa i tre quarti degli studenti delle triennali sono di fatto semianalfabeti - si legge tra i commenti dei docenti alla lettera - È una tragedia nazionale non percepita dall’ opinione pubblica, dalla stampa e naturalmente dalla classe politica. Apprezzo che finalmente si ponga il problema. Ahimè, ho potuto constatare anch'io i guasti che segnalate, dal momento che il mio esame è scritto e ne vengono fuori delle belle... È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che vogliono intraprendere la professione di giornalista e presentano povertà di vocabolario, scrivono come se stessero redigendo un sms, con conseguenti contrazioni di vocaboli, o inciampano sui congiuntivi". Un altro docente invece spiega: "Fortunatamente si incontrano anche ragazzi in gamba e preparati. Dedico ormai una buona parte della mia attività di docente a correggere l'italiano delle tesi di laurea. Purtroppo l'insegnamento di base, invece di concentrarsi su poche ed essenziali competenze, tende ad ampliarsi e a complessificarsi a dismisura, coi risultati che constatiamo. Le maestre elementari - spesso bravissime e motivatissime - devono obbedire a un sacco di circolari che le inducono a fare le assistenti sociali. La situazione, poi, è resa oggettivamente problematica dalla latitanza di troppe famiglie, che mandano a scuola bimbi incapaci di una normale convivenza".
«Si, nò, un’altro strafalcione» L’italiano incerto dei miei studenti. Il racconto del docente di linguistica. Più degli errori, preoccupa la difficoltà di decodificare i testi scritti. La grammatica va rispettata, ma sfidi la lingua in cui viviamo, scrive Giuseppe Antonelli il 6 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. La situazione è grammatica, si potrebbe dire riprendendo l’arguto titolo di un libro recente. Anche nel senso che improvvisamente la grammatica si è ritrovata al centro di un’attenzione che di solito non le viene riservata. E questa è un’ottima cosa, se è vero che - come scriveva Pessoa - «la fortuna di un popolo dipende dallo stato della sua grammatica». Va detto, d’altra parte, che la situazione era già ampiamente nota. «Le lamentele sull’italiano approssimativo degli studenti costituiscono un topos abituale», si legge nella prima pagina di un libro del 1991 intitolato La lingua degli studenti universitari. Negli studi degli ultimi anni sull’italiano degli universitari vengono segnalati errori di tanti tipi. Mancanza di capoversi, punteggiatura assente o errata («un centro urbano, gode di maggiore prestigio»), usi impropri dell’apostrofo («un’altro»), dell’accento («si, nò») e delle maiuscole («alcuni Tratti»), fraintendimenti lessicali («tutte le mie speranze si sono assolte»). Ma la questione più urgente riguarda la scarsa capacità di organizzare, o anche solo decodificare, adeguatamente un testo. Ovvero di argomentare il proprio pensiero e di interpretare - comprendendone il senso e lo scopo - quello degli altri. Vale a dire quegli aspetti che fanno della grammatica un elemento determinante non solo per la comunicazione e la socializzazione, ma anche per una cittadinanza consapevole. Ecco perché diventa sempre più importante insegnare la grammatica finalizzandola alla produzione di testi. Solo che per far questo bisogna liberarsi di alcuni riflessi condizionati. Nessuno insegna più la geografia o le scienze come si faceva cinquant’anni fa: il mondo è cambiato, ci sono state nuove scoperte. Bene: è cambiato anche l’italiano, oltre a quello che sappiamo sul funzionamento delle lingue. La grammatica non è granitica, ma dinamica. Che senso ha - ad esempio - demonizzare la tecnologia, quando è grazie alle nuove tecnologie che la scrittura è entrata davvero a far parte delle nostre vite? Tutto acquista un’altra concretezza se lo si mette in relazione con i testi reali. Resta grave, ovviamente, sbagliare l’uso di una acca o di un accento (anche se nel segreto della tua tastiera, la prof non ti vede: il correttore automatico sì). Ma ancora più grave è che la scrittura dei messaggini stia abituando i ragazzi a una testualità spezzettata, incompleta, insufficiente. E allora si potrebbe partire dal confronto tra questi testi e quelli tradizionali, per far capire come si costruisce un testo compiuto ed efficace: che abbia un inizio, uno svolgimento e una fine. Si potrebbe insistere un po’ di meno sulla differenza tra complemento di compagnia e di unione e un po’ di più su quei connettivi che servono a stabilire i rapporti logici tra le varie frasi. Smettere di dire che lui e lei non possono essere usati come soggetto e spiegare bene i casi in cui il soggetto di una frase deve essere esplicitato. Ogni livello della grammatica - dalla punteggiatura al lessico, dalla coniugazione dei verbi alla costruzione della frase - può essere orientato verso questo obiettivo. Anche per evitare la sensazione di un eccessivo scollamento tra l’essere e il dover essere, tra la norma e l’uso, tra la scrittura scolastica e quella di tutti i giorni. La sensazione di una doppia verità, infatti, rischia di alimentare atteggiamenti di lassismo e rinuncia: «tanto la grammatica che insegnano a scuola nella vita vera non serve ...». Per mostrarsi vitale (in ogni senso) la grammatica deve accettare la sfida con la lingua in cui viviamo. Se la situazione è grammatica, la grammatica dev’essere all’altezza della situazione.
Colpa di noi prof se i ragazzi non sanno più l'italiano, scrive Spartaco Pupo, Ricercatore e docente di storia delle dottrine politiche, Università della Calabria, Lunedì 6/02/2017 su "Il Giornale". È davvero singolare che oltre 600 docenti universitari, alcuni anche prestigiosi, abbiano firmato un appello dai toni così semplicistici o, per usare un termine di gran moda, «populistici», per chiedere al governo e al parlamento «interventi urgenti» contro il «semianalfabetismo» dei loro studenti, accusati di scrivere malissimo in italiano e di commettere gravi errori di sintassi, grammatica e lessico. Il problema, in realtà, è più complesso di quanto vorrebbero fare apparire questi colleghi, e investe, oltre alla scuola, anche e soprattutto l'università italiana, che fino a prova contraria laurea i professori delle scuole che formano i ragazzi somari oggi denunciati, i quali esistono per davvero, aumentano ogni anno di più, e di cui è giusto dibattere. Tuttavia, non ci sarebbe nulla di scandaloso se dei genitori italiani firmassero anch'essi un appello per prendersela con l'università che regala lauree ai docenti dei propri figli. Sarebbe, certo, un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, ma una cosa è certa: gran parte delle responsabilità di questo fenomeno è ascrivibile proprio alla crisi dell'intero sistema formativo, che è il prodotto non solo di scelte politiche, teorie pedagogiche e psicologiche e convinzioni ideologiche di origine sessantottina tendenti a un generale livellamento delle competenze, sempre più tecnicistiche e sempre meno umanistiche, a dispetto della valorizzazione del talento e del merito, ma anche dell'indisturbata «selezione» di un corpo accademico che lancia solo oggi l'allarme, piangendo lacrime di coccodrillo. È vero che nella scuola dell'obbligo il buonismo con cui gli insegnanti tendono a promuovere tutti, anche gli analfabeti, è dilagante, ma è altrettanto vero che i nostri ragazzi fanno oggi i conti con un disprezzo generalizzato della lingua italiana diffuso sia nei romanzi di certi autori contemporanei, pieni zeppi di parolacce, sia nei giornali e nella televisione, che fanno largo uso di un linguaggio sempre più sciatto, pieno di scorciatoie e strafalcioni. E che dire del predominio incontrastato dell'inglese oggi peraltro imposto a cominciare proprio dall'università, a tutto svantaggio dell'uso dell'italiano? Gran parte della classe accademica che oggi si lamenta dell'ingresso all'università di gente che non usa bene il congiuntivo, fino all'altro ieri si è abbeverata agli insegnamenti di professori come Tullio De Mauro, che dopo averci per una vita invitato a privilegiare e conservare i nostri dialetti, solo poco prima di morire si è messo a denunciare l'ignoranza della lingua italiana tra i giovani. Ma la nostra è anche una università figlia di intellettuali devoti alla «oicofobia» (letteralmente vuol dire «paura della propria casa»), fenomeno che colpisce soprattutto la classe intellettuale italiana ed europea e che porta al disprezzo della propria cultura e di tutto ciò che ha a che fare con il retaggio identitario della nazione, a iniziare dalla lingua. Sin dal 1965, l'anno del suo Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa non ha mai smesso di prendersela con gli intellettuali nazional-popolari, bollandoli di provincialismo e conservatorismo e accusati di essere l'incarnazione di una cultura paesana e piccolo borghese. Si ricorderà il suo feroce attacco a Francesco De Sanctis, reo, a suo dire, di avere scritto una storia della letteratura che celebrava la civiltà italiana moderna, e ai «ridicoli soprassalti nazionalistici» in cui la cultura letteraria italiana è stata coinvolta. Ancora nel 2009 Asor Rosa pensava di convertire una «normale» storia della letteratura italiana in una storia «europea» della letteratura italiana, come recita il titolo della sua ultima opera. Tutto ciò ha sin qui fatto parte dell'«impegno» del buon accademico e della sua missione «salvifica» del mondo, con risultati assai deludenti e che sono sotto gli occhi di tutti.
"Se potrei" e altri orrori: come si usano i verbi. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 6 febbraio 2017 su "L'Espresso". Oh davvero, il verbo è tutto. Volete fare una frase? Ci vuole un verbo. Voi mi direte: “No, guarda, ci stanno pure le frasi senza verbo." Il che è vero, ma poi vedremo che magari un verbo, in qualche modo, ce l'hanno pure loro. Quindi, il verbo, dicevamo.
Il verbo, nelle frase, fa tutto. Senza, è come fare un aperitivo senza le patatine: si può ma non è granché.
Il verbo è fondamentale perché dice tutto: racconta infatti l'azione. Se non c'è una azione, reale, immaginata, sperata, attesa, pensata, auspicata non succede niente, e non se non succede niente non si racconta, né si fanno frasi. Quindi il verbo è il nostro caposaldo.
I verbi, lo sappiamo tutti, hanno i tempi e i modi e le persone. A scuola, quando ce li fanno coniugare pensiamo tutti: “Eccheppalle!". In effetti coniugare i verbi è operazione noiosissima. Il problema è che per spiegare come succedono le cose è necessario usare i verbi in maniera corretta.
Il modo del verbo, per esempio, ci spiega l'azione: è una cosa reale? E' una cosa immaginaria? La differenza è notevole. Io, per esempio, se adesso ho fame mangio una mela. Perché ce l'ho. Se non ce l'avessi, al massimo potrei dire che mangerei volentieri una mela, ma resto a bocca asciutta. Quindi, capite bene, comprendere il modo del verbo è importante, se non altro per capire se digiunerò e no.
Quando una cosa accade nella realtà il modo da usare è l'indicativo. Io mangio una mela, io incontrai Elena al mercato, io vedrò domani la partita allo stadio. Sul serio, queste cose le faccio, le ho fatte o le farò davvero.
Se invece io non sono certa che una cosa sia accaduta davvero, ma lo penso o me lo auguro, si usa il congiuntivo. Io penso che tu sia buono (lo penso, e magari pure lo spero, ma non ne sono certo, potresti essere una carogna). Magari piovesse! (Ma non è detto che piova). Credo che fosse Luigi quello che ho visto ieri sera per strada (ma magari no, era Carlo, o un tizio qualsiasi, perché non l'ho visto bene e sono pure cecata di mio).
Se l'azione invece può accadere solo a patto che si verifichi una qualche altra condizione, si usa il condizionale (i grammatici hanno una fantasia limitata nello scegliere i nomi, come si nota). Se avessi una mela (condizione)-> me la mangerei (azione). Se invece do un ordine, allora si usa l'imperativo (ve l'ho detto, non hanno una gran fantasia con i nomi), e per essere sicuro che si capisca che è un ordine, l'imperativo di solito viene usato con un bel punto esclamativo dopo: Portami una mela!
Il verbo, in analisi logica, si chiama "predicato" perché racconta quello che succede. È predicato verbale se racconta una azione, è predicato nominale se invece descrive una qualità del soggetto, ed in quel caso è formato dal verbo essere più una parte nominale, che può essere un aggettivo o un nome. Luca mangia - > predicato verbale (racconta una azione). Luca è alto / è un professore - > predicato nominale, racconta una caratteristica o una qualità di Luca.
Ora, se scrivete una frase, mettetecelo, il verbo. Le frasi senza verbo un po' sono zoppicanti e si sentono molto sole. Non fatele bullizzare dai periodi pieni di verbi e di subordinate, che si sentono superiori.
I verbi raccontano il mondo. Del resto anche il Vangelo di Giovanni comincia dicendo che in principio era il Verbo. Il che dimostra che Giovanni forse aveva anche le visioni, ma comunque sapeva bene come si raccontano le storie e aveva capito tutto della grammatica.
E poi c’è il risvolto della medaglia.
Da analfabeti a laureati, la rivoluzione culturale dei nuovi padrini. Da Dostoevskij a Pennac, ma anche Dickens, l’Eneide e le suore mistiche. Ecco le opere sui comodini dei capi di Cosa Nostra, scrive Attilio Bolzoni il 7 febbraio 2017 su "La Repubblica". È LA generazione di mafia più colta. Per forza: sono rinchiusi da anni nella dannazione del 41 bis e tutti soli con Dostoevskij e i fratelli Karamazov, con Tolstoj, Svevo, Pasternak, Pirandello, con i filosofi tedeschi, i teologi protestanti, Virgilio e Kant. In Italia si legge sempre di meno ma "dentro" sempre di più. A parte quello zoticone di Totò Riina che è rimasto come dice lui stesso, "un seconda elementare", gli uomini della Cupola si sono allitterati, hanno studiato, da seminalfabeti che erano molti hanno preso una e anche due lauree, si sono immersi nella storia e nei misteri della religione, avidi di discipline umanistiche e anche scientifiche. È un altro mito che cade nella Cosa Nostra che non c'è più perché ce n'è una nuova dentro e fuori il carcere. Una volta nei loro covi c'era sempre una Bibbia sul comodino e in qualche cassetto Il Padrino di Mario Puzo, non mancavano mai i Beati Paoli e Coriolano della Floresta di Wiliam Galt, romanzi cult di un'aristocrazia criminale che è sottoterra. La mafia del 41 bis ha imparato a proprie spese e si è emancipata intellettualmente, in compagnia de Il Dottor Zivago o di Todo modo. I divieti del regime speciale carcerario non hanno offerto un'altra scelta. Come ricorda Giuseppe Grassonelli a Carmelo Sardo - nel libro "Malerba" - quando è appena entrato nella fortezza dell'Asinara subito dopo le stragi del '92. Grassonelli era uno dei boss della "Stidda", si ritrovò nell'isola del Diavolo in un loculo di cemento dove trovò una brandina di ferro e sopra un'edizione di Guerra e Pace. Provò a leggere qualche pagina e non ci riuscì, al tempo sapeva a malapena mettere la sua firma. Riprovò una, due, tre, quattro volte. E quando finalmente finì il libro scoppiò a piangere. Oggi Giuseppe Grassonelli si addentra con sofisticato piacere nel labirinto del periodo rivoluzionario napoletano del 1799, in particolare sulle "insorgenze" che coinvolsero tutte le province del Regno. E che dire allora di Gaspare Spatuzza, quello della strage di Paolo Borsellino e sempre quello - che a sentire un altro pentito - lo descriveva mentre "con una mano manciava e con un'altra arriminava", con una mano teneva stretto un panino con il prosciutto e con l'altra un mestolo di legno con il quale pestava un cadavere sciolto nell'acido. Spatuzza ha incontrato la sociologa Alessandra Dino in una struttura penitenziaria (lei ne ha poi scritto un formidabile saggio) e l'ha invitata nella sua piccola biblioteca. C'era Delitto e Castigo, c'era La coscienza di Zeno, c'erano tre volumi di filosofia di Reale e Antiseri. Poi le ha regalato una sintesi di un libro di Joe Dispensa, Cambia l'abitudine di essere te stesso, con dedica: "Chi avrebbe mai potuto immaginare che un giorno Gaspare, un seminalfabeta, fosse in grado di spiegare, anche se con le parole del Dott. Joe Dispensa, qualcosa sulla fisica quantistica?". Ma non sono soltanto i boss del 41 bis che si sono raffinati fra trattati storici e testi ancora più impegnativi che sconfinano nell'aldilà. Anche i latitanti passavano o passano le loro giornate sui libri. Pietro Aglieri per esempio, dietro l'altare dove l'andava a trovare un fratacchione della Kalsa, aveva tutte le opere di Edith Stein, la monaca filosofa tedesca dell'Ordine delle Carmelitane Scalze che morì ad Auschwitz - era di origine ebraica - nel 1942. L'imprendibile Matteo Messina Denaro qualche anno fa dialogava per lettera sotto il falso nome di "Alessio" con l'ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino (che si firmava "Svetonio") confessandogli, suo malgrado, "di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto", immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore francese Daniel Pennac. Nelle sue corrispondenze con "Svetonio", Matteo ricordava anche l'Eneide, ragionava su Toni Negri, citava Jorge Amado: "Non c'è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica". Una rivoluzione culturale. E forse a iniziarla è stato il capostipite dei Corleonesi, Luciano Liggio, uno che nonostante le "leggende" create intorno a lui sembrava più un gangster che un mafioso. Disse una volta ai commissari della prima Antimafia: "Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. I classici. Ho letto Dickens e Croce". E sfottendoli, ha concluso: "Ma quello che ammiro di più è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente ".
"Parole in cammino": errori, web, neologismi. Tutto rende viva la lingua italiana. È datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 07/04/2017, su "Il Giornale". Alla domanda sulla salute della lingua italiana vengono subito alla mente gli svarioni dei giornalisti, i lapsus calami dei politici e le ingenuità linguistiche del popolo della Rete. Eppure non è così nero il presente (e il futuro) della lingua trasmessoci, giù «per li rami», dallo stesso Dante. Per capire insomma e per conoscere tutti gli aspetti del nostro comune patrimonio linguistico ora c'è anche un festival: «Parole in cammino». Ideato e curato da Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica italiana a Cagliari, insieme con l'università di Siena che vuole così degnamente festeggiare il centenario (1917-2017) della Scuola di lingua italiana per stranieri. E che avrà come cornice appunto (da oggi a domenica) la città toscana. Linguisti, ovviamente, giornalisti, docenti e insegnanti si confronteranno su un grande e appassionante tema come la lingua italiana. Dimostrando, tra l'altro, che lo studio e la pratica virtuosa di questa lingua è meno isolato di quello che sembri. È vero che i problemi ci sono e sono molti. È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che a un concorso per diventare maestri di ruolo nel Lazio, l'80% degli aspiranti maestri ha commesso grossolani errori di ortografia. Mentre, ormai, è datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari. Eppure trasmissioni e siti web come La lingua batte registrano un ampio consenso. E fenomeni come quello di Fiorella Atzori (la prima youtuber a difesa dell'uso corretto del nostro idioma) sono tutt'altro che trascurabili. La Atzori è giovanissima. E - come racconta lei stessa - non è nemmeno una linguista. Dopo aver usato come «cliente» i più vari tutorial (alla cucina al make up), ha deciso di buttarsi. Scegliendo come argomento la grammatica italiana. «Fin da piccola ero appassionata di grammatica, merito di mia nonna maestra - racconta la Atzori che l'8 aprile presenterà al festival il suo libro Sgrammaticando (salviamo l'italiano dalla Rete) -. E da cinque anni sono a tempo pieno una youtuber». Con un risultato davvero impressionante. Dal primo video trasmesso su Youtube (finora sono quasi 400) ha ottenuto oltre 2,7 milioni di visualizzazioni, con 26 mila persone iscritte al canale di «Sgrammaticando». E dal tutorial (anglicismo che però viene dritto dritto dal latino) ai neologismi che arricchiscono la nostra lingua il passo è breve. E al festival gli «inventori» di parole nuove sono tra i protagonisti più attesi. Come il piccolo Matteo T. ed Enrico Mentana che verranno premiati per il loro supporto nel rendere il nostro lessico sempre più ampio ed efficace. Il primo è arrivato agli onori della cronaca per la parola «petaloso», accettata e registrata dalla Crusca. Il direttore del tg de La 7 per la parola «webete» (decisamente efficace per descrivere i creduloni che abboccano alle notizie fasulle in Rete). La nostra lingua però non è mai stata avara di neologismi. In fondo ogni epoca ha i suoi. Non è quindi la vivacità o debolezza dell'invenzione lessicale a impensierire un linguistica di rango come Francesco Sabatini (presidente onorario dell'Accademia della Crusca). Semmai l'approccio poco scientifico nell'insegnamento dell'italiano fin dalla scuola primaria. «All'inizio del Novecento il 50% degli italiani era analfabeta, contro solo l'1% dei tedeschi - racconta Sabatini -. Da allora di strada ne abbiamo fatta, ovviamente. Però c'è ancora molto da fare». «Soprattutto ora - aggiunge - che la tecnologia ha innalzato le competenze necessarie per vivere e lavorare». D'altronde riflette Sabatini - il cui ultimo libro Lezioni d'italiano (Mondadori) sta avendo un ampio successo di pubblico - non dobbiamo demonizzare la tecnologia. I tablet e gli smartphone, dice, sono necessari. «L'agilità manuale è una cosa - spiega - il contenuto linguistico delle operazioni su tablet o device elettronici è un'altra. Mica demonizziamo le scarpe perché per camminare servono solo i piedi!»
Neologismi a ritmo di tweet. Un dizionario dell'italiano creativo. Dal 7 al 9 aprile si svolge a Siena la prima edizione della kermesse "Parole in cammino", un viaggio tra l'italiano del passato e del futuro: incontri con intellettuali e giornalisti e laboratori per le scuole sulla lingua italiana che cambia. Qui un'anticipazione dell'intervento dell'ideatore del festival, scrive Massimo Arcangeli il 5 aprile 2017 su "L'Espresso". Direttamente dal web: “Io lollo sempre un devasto quando i cazzoni ci lasciano o quasi le penne a fare i lollers con gli animali spaccaculi”, scrive Randolk. “Io me la rido sempre di gusto quando gli stolti rischiano la pelle a trattare con leggerezza certi animali selvaggi”, traduce NickZip a beneficio dei navigatori virtuali digiuni di slang. Prove di neologia giovanile. Un possente onomaturgo è stato Dante. Nel 2015, per celebrare il 750° anno dalla sua nascita, ideai, per la Festa di Scienza e Filosofia di Foligno, un dizionario goliardico di vocaboli o significati inventati cui diedi il nome diTwittabolario. L’iniziativa, ispirata a una analoga di due anni prima e svolta in collaborazione con Scritture brevi, una comunità di affiliati a Twitter, avrebbe visto una grande partecipazione. Fra gli utenti più attivi Anna Petrazzuolo, autrice di una raccolta di parole e definizioni inventate d’autore (Di sana pianta); vi brillavano esempi come questi:
bugivéra s. f. [comp. di bugi(a) e vera]. Né bugia né verità, una bugia che è anche verità o una verità che anche una bugia. Ve ne sono di due tipi: la bugìvera detta a fin di bene (propria delle monache) e la bugìvera detta a fin di male (propria di giornalisti, medici e dietologi). Nella religione cattolica è considerata peccato veniale; in politica è una virtù. La madre superiora disse una bugìvera grande quanto una cassapanca (dalla “Monaca triste” di Alessandro Vermicelli) (FERDINANDO GAETA).
cremlìno s. m. [dal lat. tardo cremum "la parte butirrosa, spessa e opaca che affiora sul latte", sul modello di cremino]. Grande dolce natalizio alla crema, tradizionale della Moscovia: Ivan Alexandrovic tornò a casa con una fame tale che si sarebbe mangiato un intero cremlino (MARCO FULVIO BAROZZI).
enrigolètto s. m. [dal personaggio protagonista dell’opera verdiana Rigoletto, sul modello di Enrico Letta]. Chi ricorda la tragica vicenda di Rigoletto, il buffone vittima del destino e dei capricci dei potenti: Quell’enrigoletto illuso credeva di riuscire a tenere a bada il rottamatore (MARCO FULVIO BAROZZI).
whatsappatóre s. m. [incrocio dell'ingl. whatsapp e del nap. zappatore]. 1 Chi fa uso delle applicazioni di un terminale telefonico in modo rudimentale o approssimativo: Sei proprio uno whatsappatore! 2. (fig.) Chi, nonostante ami la tecnologia, conserva sentimenti filiali: Whatsappatore nun s''a scorda 'a mamma (MAURIZIO DE ANGELIS).
Fra gli esempi prodotti nel 2015:
Acetone. Condimento per insalatone.
Aculeo. Spillone costruito appositamente per punzecchiare i glutei.
Allucinazione. Patria degli alluci.
Arazzo. Dipinto velocissimo.
Astigmatico. Privo di fori nelle mani.
L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!
Gb, questionario a scuola: "Di che lingua sei: italiano, napoletano o siciliano?". Scuse dal Foreign Office. L'iniziativa per stabilire l'area linguistica di provenienza aveva lo scopo di fornire una migliore assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Ma è stata interpretata, alla fine, come una "schedatura" in base all'origine regionale. "Rammarico" del governo britannico per un "errore storico", scrive Enrico Franceschini il 12 ottobre 2016 su "La Repubblica". Parlate italiano, napoletano o siciliano? La domanda fa parte di un questionario che alcune scuole della Gran Bretagna hanno inviato alle famiglie dei nuovi alunni per l'anno scolastico iniziato da circa un mese. L'iniziativa aveva, in teoria, uno scopo non discriminatorio: stabilire l'area linguistica di appartenenza dei figli di immigrati per poter fornire sia ai bambini, sia eventualmente ai genitori, la necessaria assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Analizzando il modulo, si notano suddivisioni anche per i vari tipi di lingua punjabi, cinese, arabo. E l'elenco contiene una categoria anche per il sardo (sardinian), considerato una lingua a parte. Ma quale che fosse l'intento, il risultato è stato comunque di far sentire i nostri connazionali come se venissero "schedati" in base all'origine regionale. Come se esistessero almeno tre tipi di cittadino italiano: l'italiano-italiano, l'italiano-napoletano e l'italiano-siciliano. Qualche famiglia italiana ha segnalato la cosa alla nostra ambasciata di Londra e la protesta è stata immediata. "L'Ambasciata d'Italia nel Regno Unito è intervenuta per richiedere la modifica di talune categorizzazioni regionali riferite all'Italia comparse sui moduli online per l'iscrizione scolastica in alcune circoscrizioni in Inghilterra e nel Galles", afferma una nota dell'ufficio stampa della nostra sede diplomatica. "I codici presentati per la selezione dell'appartenenza etnica, utilizzati sui siti di alcune circoscrizioni scolastiche, indicavano infatti una scelta fra italiano, italiano - napoletano e italiano-siciliano. L'Ambasciata ha protestato con le autorità britanniche, richiedendo la rimozione immediata di tali categorizzazioni". Nella nota verbale di protesta si ricorda che "l'Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato": un commento all'insegna dell'understatement inglese, cioè senza bisogno di gridare, da parte della nostra ambasciata, che in parole semplici suonerebbe come una tirata d'orecchi al ministero d'Istruzione britannico, non lo sapete che l'Italia non è più un'espressione geografica? A caricare ulteriormente la polemica deve aver contribuito anche la decisione, solo pochi giorni fa, di escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit alla London School of Economics. Con la differenza che questa volta il Foreign Office britannico non ha esitato a chiedere scusa all'Italia "deplorando l'accaduto" e assicurando "un intervento perché vengano subito rimosse queste categorizzazioni non giustificate e non giustificabili". Il Foreign Office, tra l'altro, ha fatto sapere che "verificherà per quale motivo, in pochi e isolati distretti scolastici, siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro non avevano alcuna volontà discriminatoria, ma semplicemente miravano all'accertamento di qualche ulteriore difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico inglese e gallese". Alle scuse del Foreign Office segue la dichiarazione di un portavoce per esprimere il "rammarico" causato a Downing Street dall'errore "storico". "Il governo britannico - spiega anche il portavoce - acquisisce informazioni linguistiche come parte del censimento scolastico per assicurarsi che gli studenti di madrelingua diversa dall'inglese possano ricevere la migliore istruzione possibile nel Regno Unito. Ci è stata segnalata la presenza di uno storico errore amministrativo nei codici linguistici in uso fin dal 2006. Anche se tale errore non ha avuto alcun impatto sull'istruzione ricevuta dagli alunni italiani nel Regno Unito, il governo britannico esprime il proprio rammarico per l'accaduto e per le offese da questo eventualmente arrecate. Il ministero dell'Istruzione britannico ha modificato i codici in questione e da oggi tutti gli allievi di madrelingua italiana saranno classificati sotto un unico codice". Soddisfatto l'ambasciatore Pasquale Terracciano: "Si evita così il montare di una polemica su quello che è stato un errore dovuto a ignoranza e superficialità da parte di qualche isolato distretto scolastico più che a una reale volontà discriminatoria. E' importante evitare l'insorgere di equivoci nella fase delicata del post-Brexit". Prima delle scuse del Foreign Office, l'ambasciatore era stato molto duro nel denunciare "iniziative locali motivate probabilmente dall'intenzione d'identificare inesistenti esigenze linguistiche particolari e garantire un ipotetico sostegno. Ma di buone intenzioni è lastricata la strada dell'inferno, specie quando diventano involontariamente discriminatorie, oltre che offensive per i meridionali". Mentre il sottosegretario al ministero dell'Istruzione italiano, David Faraone, si era detto incredulo per il fatto che "ancora oggi siamo costretti ad affrontare pregiudizi di questo tipo. La scuola italiana ha superato da tempo questi stereotipi e in Italia, come nel Regno Unito, si deve lavorare per l'integrazione e la formazione delle generazioni future".
Il questionario inglese che scheda gli studenti napoletani e siciliani. La protesta del nostro ambasciatore a Londra, Pasquale Terracciano, che ha spedito al Foreign Office una «nota verbale» per sollevare il caso, scrive il 12 ottobre 2016 Fabio Cavalera, corrispondente a Londra per "Il Corriere della Sera". Una pagina di un documento del «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles che raccoglie dati su etnia e prima lingua degli studenti, richiesti ai genitori al momento dell’ammissione. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. A essere cattivi, invece, c’è da pensare di molto peggio. Fatto sta che in alcune scuole del Regno Unito, all’atto dell’iscrizione, occorre passare dalle forche caudine della classificazione etnica. E per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. Non poteva stare zitta la nostra rappresentanza diplomatica dinanzi a uno scempio tale e difatti l’ambasciatore Pasquale Terracciano ha spedito alForeign Office una «nota verbale» per sollevare il caso che è stato documentato in un certo numero di scuole dell’Inghilterra e del Galles: al momento della richiesta di ammissione on line richiedono ai genitori «di specificare l’etnia e la prima lingua» del figlio. Una sorta di marchio che «deve essere rimosso con effetto immediato». I primi a inorridire sono stati i nostri connazionali del distretto metropolitano di Bradford i cui consigli scolastici hanno messo in rete la «classificazione». Ma, chissà come, quello che poteva essere un errore isolato è diventato un modulo adottato anche, per esempio, nel Galles. Non in qualche istituto isolato di qualche isolato villaggio. Ma niente meno che dal «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles. Seguiti successivamente, Bradford e Galles, da altri consigli territoriali. I connazionali, dunque, hanno informato l’ambasciata che si è mossa sul ministero degli esteri di sua maestà. Dabbenaggine? Ignoranza? L’ambasciatore Terracciano esclude che si tratti «di una forma di discriminazione attiva». E ha ragione. Nessuna violenza. Ma ritiene che in un momento caratterizzato da una sensibilità particolare sui temi dell’immigrazione e in piena tensione Brexit, sia fastidioso e pericoloso «introdurre una distinzione artificiale» del genere. Un capitombolo di pessimo gusto. La spiegazione non va ricercata in volontà persecutorie contro gli italiani che sono trattati benissimo e apprezzati moltissimo. Più semplicemente, forse, è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento.
Poi c'è la spiegazione di chi dà per scontato che nel 2016 i bambini di famiglie meridionali all'estero ancora non sappiano parlare l'italiano, come se non esistesse la tv o internet per divulgare la madre lingua.
Italiano, napoletano o siciliano? L'autore del post del 12 ottobre 2016 su "Butan" si firma Maicol Engel. In queste ora (ma erano già alcuni giorni che circolava) mi state segnalando in tantissimi la notizia del questionario inglese per le famiglie degli studenti, questionario che secondo tanti sarebbe “scandaloso” visto che prevede quattro caselle diverse per gli italiani, una per i napoletani, una per i siciliani, una per gli “altri” e una generica Italians. Un questionario per «schedare» gli studenti napoletani in Inghilterra. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. … per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento. Queste le parole del Corriere della Sera, che evidentemente, come tutte le testate italiane, si è fermato solo a guardare le notizie circolate in Italia e le lamentele degli italiani residenti in UK, senza cercare il documento da cui si partiva. Non si sta parlando di nazionalità o provenienza diversa, ma di lingua. L’elenco che viene fatto compilare per l’ammissione a scuola spiega chiaramente che viene richiesta la prima lingua (che si parla a casa) e difatti basta guardare con attenzione per accorgersi che l’Italia non è l’unico paese ad avere più caselle possibili. Scelte diverse per lingue diverse. I berberi hanno 4 scelte, gli arabi 7, chi viene dal Bengali 3, i cinesi 6 e così via. Si tratta di dialetti o variazioni della lingua base, dialetti che sono così diffusi da necessitare una casella a parte. Qui potete trovare uno degli elenchi che prevedono questo sistema di codificazione della prima lingua. Noterete che subito prima di Italian c’è Informazione non ottenuta, ovvero chi compila può tranquillamente omettere la lingua. Come potrete vedere ci sono 4 scelte (più una dedicata alla lingua sarda). Chi vuole può tranquillamente scegliere che parla come prima lingua italiano. Il fatto che ci siano altre scelte non condiziona questa possibilità, non è una schedatura etnica, solo un tentativo di capire quale sia la prima lingua dell’alunno. Alcuni di voi storceranno il naso, lo capisco, ma io stesso ho un amica nata in UK da genitori italiani che oggi conosce l’italiano perché l’ha imparato con corsi appositi, a casa sua si parlava solo dialetto (lei viene dalla Basilicata). Ci sono tantissimi nostri connazionali che a casa parlano solo e unicamente i dialetti delle loro zone di provenienza, e così i figli, magari nati in terra straniera, non sono in grado di parlare l’italiano, ma solo il dialetto di mamma e papà. Non c’è davvero nulla di così scandaloso, non se la stanno prendendo con i nostri emigranti, non c’è nessuna intenzione di schedare gli alunni, ma solo l’interesse a sapere quale sia la lingua principale parlata a casa. Sia chiaro, i nuovi quesiti per le ammissioni a scuola hanno infastidito anche alcuni britannici d’altra nazionalità, le lamentele sul web si sprecano. Ma è importante accettare che il nostro paese esporta anche italiani che all’estero, per non perdere le radici di casa, parlano solo nel loro dialetto regionale. Probabilmente il napoletano e un generico dialetto siciliano sono quelli più diffusi. Non ci trovo nulla di così scandaloso, non fosse che gli stessi britannici nello scrivere napoletan hanno commesso un errore, visto che la grafia corretta è neapolitan. Lo so che sembra incredibile, ma dobbiamo accettare che non tutti in Italia parlino l’italiano come prima lingua anche a casa, anche nel 2016. Non ci sarebbe nulla di male, difendere l’identità regionale è qualcosa a cui noi italiani teniamo molto, da sempre, non fosse che alcuni di questi genitori l’italiano se lo sono scordato da anni (se mai l’hanno saputo). Io però con gli inglesi a questo punto sono un po’ arrabbiato. Perché non hanno evidenziato anche il bolognese? Dopo le lamentele del nostro ambasciatore sembra che il governo inglese si sia scusato, alcuni usano la cosa come dimostrazione che fosse una schedatura e che l’articolo qui sopra non abbia senso. Se arrivati fin qua siete ancora di quell’opinione evidentemente non mi so spiegare bene. Resto fermamente convinto che la polemica nata su questa storia sia equivalente alla denuncia fatta dal sindaco di Amatrice contro Charlie Hebdo, un ulteriore via per farci prendere per i fondelli all’estero. La cosa che mi fa sorridere di più è che in altro contesto, pur di difendere l’ufficialità di questo o quel dialetto certi soggetti si sarebbero strappati le vesti.
Supera francese e tedesco: l'italiano è la quarta lingua più studiata al mondo. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese, l'italiano è la quarta lingua più studiata del pianeta. Il dato è stato comunicato durante gli Stati Generali della lingua italiana che si sono tenuti a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi, organizzati dal Ministero degli Affari Esteri e dal Ministero dell'Istruzione. Arte, cultura e musica lirica sono parte fondamentale dell'interesse suscitato all'estero dall'italiano. Ma non manca l'appeal esercitato dal buon cibo e il made in Italy.
Tutti pazzi per l'italiano, è la quarta lingua più studiata, scrive Massimo Maugeri il 18 ottobre su "Agi". Quarta lingua più studiata nel mondo dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese. E in crescita esponenziale. L'italiano è sempre più amato e diffuso, e i numeri lo dimostrano: nel biennio 2015/16, oltre 400 mila studenti in più rispetto al biennio precedente, hanno iniziato a studiare la nostra lingua il cui appeal continua a essere legato alla passione per l'arte e la cultura. Negli ultimi anni tuttavia, una forte attrazione è esercitata anche dal Made in Italy in tutte le sue forme, dalla moda al design, fino al cibo e al vino. E lo studio della lingua di Dante è considerata da molti giovani stranieri anche un modo per trovare lavoro nei settori in cui l'Italia è ai primi posti, dal lusso all'enogastronomia. Un impulso "decisivo" alla diffusione della lingua sarà dato in futuro dai nuovi media. In base ai dati diffusi durante gli Stati generali della lingua italiana nel mondo, nell'anno scolastico 2014/2015 sono stati 2 milioni 233 mila 373 gli studenti stranieri di lingua italiana nel mondo. Un numero che gli esperti considerano "estremamente imponente" e che segna "un incremento notevole" rispetto al milione e 700 mila studenti del 2013/14 e al milione 522 mila dell'anno scolastico 2012/13. Secondo le statistiche, la maggioranza assoluta degli studenti di italiano nel mondo (il 55%) studia la nostra lingua a scuola, mentre 324.386 persone lo fanno contesti diversi da quelli scolastici. Circa 42 mila studenti stranieri hanno seguito corsi di italiano presso enti come la società Dante Alighieri o altre associazioni culturali. In crescita anche l'albo degli italofoni, il registro di tutti coloro che parlano la lingua italiana e si sono distinti in vari ambiti professionali, che ha registrato un incremento del 70% nell'ultimo biennio, raggiungendo quota 1.100 nominativi. Resta ferma invece la voce borse di studio: la direzione generale per la promozione del sistema Paese, nel biennio considerato, ha offerto borse di studio solo a 571 cittadini stranieri, pari a complessive 3.836 mensilità. Arte, cultura, letteratura, storia. Ma anche moda e design. Cambiano i fattori che secondo il rapporto stanno alimentando l'appeal della lingua italiana nel mondo da parte degli stranieri. Il nostro patrimonio artistico, architettonico, musicale e letterario resta la prima ragione per cui gli stranieri si avvicinano alla lingua italiana, ma ultimamente, rileva il documento degli Stati generali della lingua, nell'immaginario collettivo vengono associati all'Italia anche le eccellenze dal Made in Italy, come la moda, il cibo e il design. Si tratta, secondo gli esperti, di uno dei principali veicoli attraverso cui attrarre le nuove generazioni verso lo studio dell'italiano, anche con prospettive di lavoro e di business. In ambito europeo i Paesi che registrano una maggiore presenza di studenti di italiano sono la Francia e la Germania. Quest'ultima, in particolare, è il primo Paese al mondo per numero assoluto di studenti della nostra lingua. La maggior parte dei corsi di italiano in Germania si tiene soprattutto nelle Università popolari in cui si concentra l'88% degli studenti, grazie a tasse di iscrizione più basse e offerta di corsi e materiale in settori molto diversi. Anche in Francia il numero di studenti di italiano è in crescita costante, nell'anno 2014/15 sono stati oltre 270 mila. Stati Uniti e Australia sono i paesi anglofoni con il maggior numero di studenti di italiano. In Australia, in particolare, dove l'italiano è parte del patrimonio culturale ereditato dalla forte immigrazione di nostri connazionali, sono stati conclusi una serie di accordi per l'inserimento sistematico di corsi di italiano nei sistemi scolastici locali. L'italiano resta la seconda lingua più studiata e resiste all’assalto delle lingue asiatiche, soprattutto il cinese, che si sta espandendo in maniera molto forte. Negli Usa, l'italiano è la quarta lingua straniera più studiata, e gli Stati Uniti hanno il primato del Paese che ha il più alto numero di cattedre e di italiano e dipartimenti di italianistica nel mondo. Ad oggi negli Usa ci sono circa 50 dipartimenti di italianistica e circa 400 corsi di italiano a livello universitario. Crescono inoltre gli studenti americani che sono venuti a studiare in Italia: nell'ultimo biennio sono aumentati del 4,4% rispetto al biennio precedente. Negli Usa, in circa 800 scuole di ogni ordine e grado, l'italiano costituisce una parte dell'offerta curricolare. Il 60% di queste scuole si concentra sulla costa est, nella fascia Boston, New York, Philadelphia, Washington. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il francese, l'italiano si contende con il giapponese, il coreano e il tedesco, il quarto posto tra le lingue più studiate in Cina. Il numero degli studenti di italiano è in crescita, emerge dai numeri diffusi dagli Stati generali, ma la presenza dell'italiano nel sistema scolastico cinese è praticamente nulla e in quello universitario è molto limitata: si registrano infatti solo 2.900 studenti circa, distribuiti nei 30 atenei cinesi che offrono corsi di italiano. Malgrado il forte legame culturale e l'immenso flusso migratorio che nel secolo scorso hanno caratterizzato il rapporto tra i due paesi, l'Argentina è solo il sesto paese al mondo per numero assoluto di studenti d'italiano, che rimane la terza lingua più studiata dopo inglese e francese. L'Argentina resta il paese in cui si registra la più significativa incidenza demografica e sociale di italiani, con oltre 900 mila italiani residenti, ma la popolazione più giovane, secondo il rapporto, sta perdendo interesse per la lingua degli avi emigrati e rinuncia a studiare l'italiano per la mancanza di eventuali sbocchi professionali che invece sono più facilitati dall'apprendimento di altre lingue. Migliora la situazione in Brasile invece: l'anno scorso, è stato concluso un memorandum d'intesa con il ministero dell'Istruzione brasiliano per aumentare i corsi di italiano a livello universitario. L'Albania è oggi il Paese più italianofono del mondo, dopo l'Italia. Grazie alla televisione. Il segnale terrestre che arrivava sugli apparecchi dei cittadini albanesi durante uno dei regimi socialisti più chiusi e isolati dell'ex blocco dell'Est, ha fatto sì che l'Italia si trasformasse in un modello culturale e linguistico di riferimento per gli albanesi. Ma paradossalmente la tecnologia ha bloccato questo fenomeno: il passaggio al digitale terrestre infatti ha interrotto questo canale e la conoscenza della lingua italiana da parte delle giovani generazioni di albanesi è molto meno diffusa che in passato. L'Albania rimane comunque il Paese con una maggiore presenza di studenti di italiano, in particolare nelle scuole locali. Tra i Paesi del Mediterraneo, Tunisia e Egitto sono quelli dove l'italiano si sta diffondendo di più. L'Egitto in particolare è il Paese col più alto numero assoluto di studenti italiani e dove la domanda di insegnamento dell'italiano come seconda lingua, dopo l'inglese, sta crescendo in maniera più veloce. In Tunisia, dal 1989, la lingua italiana è inserita come terza lingua opzionale, (dopo francese, considerata lingua madre, e inglese) in tutti i licei del Paese. I giovani si avvicinano ai prodotti 'lingua-cultura-economia-società italiana', sempre di più attraverso i nuovi media. Moltissime aree del mondo un tempo non raggiunte dall'offerta culturale italiana e dal suo 'fascino', oggi sono invece a portata di mano. Dunque, secondo la gran parte degli esperti, la nuova sfida è quella di riuscire a veicolare il prodotto Italia e la sua lingua attraverso canali di comunicazione del tutto nuovi, a cominciare dai social media. Ma per fare questo servono due cose: "Una strategia politica e istituzionale che promuova i contenuti in italiano sul web" e "un più pieno e consapevole coinvolgimento del sistema imprenditoriale". L'invito è a creare piattaforme condivise tra le imprese italiane impegnate nei processi di internazionalizzazione e i soggetti che operano per diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo. Il futuro della lingua italiana e dello stesso sistema Paese, passa per una linea rossa che unisce economia, cultura e diffusione digitale. (AGI)
Bellezze dell’italiano. La quarta lingua più studiata al mondo, scrive Simona Maggiorelli il 19 ottobre 2016 su "Left". Mentre la Lega pretende che si insegni il dialetto “lombardo” a scuola, l’italiano si prende una bella rivincita. Oggi è al quarto posto fra le lingue più studiate al mondo dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese. Nella Giornata ProGrammatica di Radio3 il 19 ottobre tutto il palinsesto è dedicato all’italiano, con decine di ospiti e il coinvolgimento di Istituti di cultura italiana. Ecco cosa ha detto il linguista Antonelli a Left: La lingua lombarda rischia di estinguersi. Armata di questa convinzione la Lega Nord torna a voler imporre l’insegnamento della lingua lombarda nelle scuole. «Non ha proprio senso insegnare i dialetti», dice però il linguista Giuseppe Antonelli. «Il dialetto è sempre stato la lingua degli affetti, della vita quotidiana», spiega il docente dell’università di Cassino e autore de La lingua batte ogni domenica su Radio 3. «E poi non è vero che i dialetti vadano scomparendo. Una ricerca Istat dice che sono molto vivi. Mentre sono scesi al 2 % gli italiani che parlano solo il dialetto». Una conquista importante. «La grammatica italiana è un diritto», scriveva Gramsci. E gli italiani lo hanno conquistato a fatica, come si evince dalle prove di italiano per l’iscrizione alle liste elettorali che Antonelli cita nel suo nuovo Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli). «In tempi di email e social network è più che mai importante studiare l’italiano scritto» aggiunge il conduttore della IV edizione della Giornata pro-grammatica in onda su Radio3. «Per gran parte degli italiani il diletto rappresenta la dimensione familiare, giocosa, colorita. Pasolini, che preconizzava un italiano tecnocratico e freddo, aveva paura che la perdessimo». È accaduto invece che l’italiano è andato incontro a nuove sfide. «Non basta parlarlo, bisogna saperlo scrivere, in modo diverso, dagli sms. Per questo servono più ore di italiano a scuola, invitando alla lettura di romanzi e poesia». Anche il linguista e critico letterario Gian Luigi Beccaria dice, da sempre, che non avrebbe senso studiare i dialetti in classe. «E poi quali? Il lombardo non esiste. Dovremo insegnare il bergamasco, il piacentino, il milanese? Il torinese o il biellese o il langarolo? I dialetti sono moltissimi ed è la nostra grande ricchezza. In dialetto si possono scrivere poesie, c’è un’ampia tradizione da Raffaello Baldini a Zanzotto, ma non per questo possiamo fare a meno dell’italiano», commenta il professore emerito dell’università di Torino, autore di molti saggi, di un dizionario di linguistica e filologia e ora dell’italiano che resta (Einaudi), un appassionato viaggio nella lingua come organismo vivo, in continuo cambiamento. Un libro di ricerca, ricchissimo di informazioni, che trasmette l’emozione della scoperta di parole nuove ma anche di perle ormai desuete. Si scopre così che tantissime espressioni dialettali innervano già l’italiano, che nel corso dei secoli ha mutuato termini da una pluralità di lingue antiche. Non solo dal latino. I prestiti dal latino liturgico vanno scomparendo in una società che oggi è sempre più secolarizzata, come ha documentato Beccaria in libri come Sicuterat, il latino di chi non lo sa e dedicati a santi, demoni e folletti. Molti sono i termini venuti dal greco antico e di uso quotidiano. «L’italiano attuale deve molto al greco» sostiene Antonelli. «Secondo il dizionario di Tullio De Mauro più del 2 % delle parole italiane hanno un etimo greco, non solo termini specialistici, ma anche parole di uso comune come atmosfera, entusiasmo, fase, sintomo ecc.». Ancor più interessante è scoprire la quantità di termini arabi che l’italiano ha assorbito, passando attraverso il dialetto veneziano e quello siciliano. A questo tema Beccaria dedica una parte del suo nuovo libro. Solo per citare un esempio: zecchino nasce dalla Zecca veneziana dal 1540. E zecca è un arabismo. «L’importanza dell’arabo è stata enorme nella nostra storia. Anche se oggi, purtroppo, il mondo musulmano ci offre parole legate ai conflitti, alla guerra, al Jihad ma non è sempre stato così», dice Beccaria a Left. «L’arabo nel medioevo, e anche in seguito, ci ha dato una quantità enorme di parole. Trasformarono la Sicilia in un giardino d’Europa. Lo stesso fecero in Andalusia. Parole come arancio, zucchero carciofo, albicocca, limone sono arabe. E tante vengono dall’ambito della scienza, dell’astronomia, all’algebra ecc. I latini e i greci non avevano una parola e un concetto per indicare lo zero, il nulla, il vuoto. L’uso dello zero nell’espressione dei numeri viene dagli arabi. Ci hanno veramente arricchito di parole e di cultura». «C’è una originaria vicinanza fra la cultura araba e la nostra lingua continua a recarne traccia», aggiunge Antonelli. Prima di parlare di scontro fra culture, dovremmo avere consapevolezza di quanto noi gli dobbiamo anche in termini linguistici». Basta camminare nella parte più antica di Palermo per notare nomi di strade scritti in arabo ed ebraico. Ma si possono vedere anche interni di palazzi, come la misteriosa sala blu, decorati con calligrafie arabe. Per il linguista rivelatori sono gli antichi nomi delle strade che spesso indicano nomi o lavori scomparsi. Anche i graffiti, le scritte sui muri, di cui Pompei era piena, sono tracce preziose, al pari dei testi letterari. Come insegna Beccaria che ne fa uno strumento affascinante di ricerca, insieme a canti anarchici e della resistenza, filastrocche trasmesse di generazione in generazione. La tradizione orale permette di capire molto di come è mutato l’italiano soprattutto in anni più vicini a noi. Più rare e fortunose sono le scoperte di documenti antichi. Ma a volte sono straordinarie come quella avvenuta qualche anno fa nell’archivio di Stato di Roma grazie al linguista Pietro Trifone. Nel borgo di Collevecchio, Bellezze Ursini si manteneva facendo la domestica e la guaritrice, un’attività “mal vista” dalla Chiesa. Nel 1527 fu accusata di stregoneria e torturata. Stremata, scrisse una confessione autografa. Che non servì a niente. Prima di finire sul rogo, preferì suicidarsi. Quelle sue otto paginette ci dicono molto di un italiano popolare allora ancora in fieri, racconta Giuseppe Antonelli. «Ci dicono che nella campagna romana ci poteva essere, agli inizi del ‘500, una donna, una popolana, che sapeva scrivere». Colpisce anche la trascrizione ufficiale che ne fece il notaio Luca Antonio, normalizzando il linguaggio della donna per farle dire ciò che ci si sarebbe aspettati da una “strega”. «Quel modo di tradurre la grammatica di Bellezze in quella del potere mette bene in luce il confronto/scontro tra due mondi sociali e culturali di cui la lingua è al tempo stesso spia e strumento. Emerge la lotta, poi durata secoli, con la lingua ufficiale da parte di persone che invece venivano da situazioni socioculturali meno avvantaggiate», approfondisce Antonelli. Quel 1527, l’anno del sacco di Roma «fu anche un momento di svolta per l’italiano». Nonostante il dominio della Chiesa e il latino liturgico, il volgare si presentava come una lingua fluida, duttile, rivendicata da artisti come Leonardo che si definiva con orgoglio «omo sanza lettere», snobbando i latinisti tromboni. Ma proprio mentre si diffondeva un volgare vivo e popolare (fra romanzi, leggende e grammatiche) nel 1525 Pietro Bembo pubblicò Le prose della volgar lingua. «L’umanista veneziano fu rigidissimo nel prescrivere forme riconducibili al modello di Petrarca e di Boccaccio». Così se Dante e il fiorino, ovvero la potenza economica dei mercanti toscani, «avevano contribuito alla diffusione del fiorentino come lingua di prestigio, tutto questo fu formalizzato dall’umanista veneziano», risponde Antonelli alla nostra domanda sulla discussa egemonia del fiorentino. «Nel 1525 Bembo indicò come modello per la lingua letteraria che oggi chiamiamo italiano quello usato da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia». Quanto a Dante, «Bembo lo teneva un po’ fuori, giudicava il suo fiorentino troppo plebeo e concreto. Da studioso che amava le lingue morte come il latino, Bembo scelse una lingua che all’epoca era già estinta da due secoli». Dando origine così a una lingua letteraria, «basata sugli eccellenti scrittori» protetta dai puristi, anche quelli di fede giacobina, e deprecata da Mazzini che non sopportava di rivestire il pensiero «della lingua de’ morti e d’uno stile pedantesco». Del tutto nuova fu la posizione di Leopardi, al quale – seppur da differenti punti di vista- entrambi gli studiosi che abbiamo interpellato dedicano uno spazio di rilievo nei loro libri. «Leopardi era un amante della tradizione letteraria italiana, era un grande conoscitore della letteratura delle origini, ma non era un purista», spiega Antonelli. «Aveva un’idea della lingua come qualcosa di vivo, ne ammetteva la libertà. Mentre in tanti lottavano contro i francesismi lui li chiamava europeismi. E li considerava, come i grecismi, un patrimonio comune alle varie lingue d’Europa». Anche per liberare il poeta di Recanati da una mitizzazione che lo allontana dai lettori, Giuseppe Antonelli ha scritto il saggio Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014). «L’autore delle Operette morali era un raffinato, un fine conoscitore della nostra lingua, sapeva usare registri e toni diversi, passando dalla poesia ai saggi, alle lettere. Quando scriveva agli amici per sfogarsi di un amore non corrisposto o di un insuccesso letterario si lasciava andare. Era capace di passare dal sublime a uno stile concreto, a seconda dell’interlocutore. Tutto questo – ribadisce Antonelli – può avvenire solo si conosce profondamente la lingua, le sfumature le differenze di registro, di costrutto». Ad incipit di Un italiano vero cita, non a caso, un passo dello Zibaldone: «La libertà nella lingua- scriveva Giacomo Leopardi – dee venire dalla perfetta scienza e non dall’ignoranza». Come poeta Leopardi sceglieva le parole per il suo no, ma usando la parola scienza sembrava alludere anche di una scelta legata a una ricerca di conoscenza. «Interessante è ciò che emerge studiando le minute di Leopardi e osservando le varianti» commenta Beccaria con sguardo da filologo. «Nel libro parlo di Giorgio Caproni e di altri autori ma Leopardi è il principe dei poeti. Studiando le “sudate carte”, gli scartafacci, emerge il suo lavorio continuo, e ci permette di vedere la direzione che voleva prendere», commenta Gian Luigi Beccaria, che nel libro, per esempio, pone l’accento su cambiamenti come il passaggio da «infinito spazio», quasi una citazione galileiana, a «infiniti spazi». «Al singolare Leopardi preferisce un plurale, perché è più “astratto”. È un poeta che cerca il vago e il concreto insieme, riuscendo a conciliare le due cose. Ha un dono particolare: saper orchestrare la sua partitura, i suoni delle vocali, i rimandi, le assonanze interne, le consonanze, c’è una musica interna. È come un musicista che cerca l’intonazione».
Italiano lingua morta. In partenza per l’America, Renzi fa tappa a Firenze per difendere e rilanciare la lingua italiana. In dieci minuti di discorso riesce ad elogiare contemporaneamente la lingua di Dante e la globalizzazione, sua mortale nemica, scrive Alessio Sani il 19 ottobre 2016 su "L'Intellettuale Dissidente". Ci sono cose che è difficile credere di poter vedere nell’arco di una vita, eppure una di queste è davanti agli occhi di tutti noi: il Pd è riuscito a partorire un premier nazional-popolare. Matteo Renzi infatti, prima di imbarcarsi per l’ultima cena di Stato obamiana, ha fatto tappa nella sua Firenze per inaugurare il convegno “Gli Stati Generali della Lingua Italiana nel mondo”, due giorni di incontri e studi sullo stato di salute della nostra lingua. Dietro al buon Matteo, nella splendida cornice di Palazzo Vecchio, campeggiava il titolo del convegno: “Italiano lingua viva”. Solitamente, quando si sente il bisogno di riaffermare ciò che fino a ieri si considerava un’ovvietà è bene porsi qualche domanda. In questo caso se l’italiano non sia piuttosto, nonostante gli sforzi retorici del premier e degli altri relatori, una lingua ormai morta o, perlomeno, prossima alla dipartita. L’ultra-fiorentinismo del governo si scorda che l’italiano nasce in Sicilia. Lo stesso Renzi, fiorentino doc, uno che col volgare ci sa fare, è probabilmente uno dei sintomi del grave stato di debilitazione di cui soffre la lingua di Dante. Nei dieci minuti in cui ha tenuto il palco, scherzandoci sopra, il premier ha infilato un paio di anglicismi. Il più grottesco è stato prontamente ripreso da un quotidiano sempre in prima linea in queste cose, Repubblica, che ha titolato: - Lingua italiana, Renzi: “Serve una gigantesca scommessa sul made in Italy”-. Qualcosa, onestamente, laggiù da qualche parte, non ha retto alla forza dell’ossimoro ed ha cominciato a rotolare. Queste sono tuttavia piccolezze. Si può scusare un quotidiano d’impronta estremista (chiaramente liberal), un po’ meno chi ha la faccia tosta di parlare di difesa dell’italiano e poi chiama un documento ufficiale dello Stato “Jobs Act”, quando fino a ieri era il parlamento inglese ad arrogarsi il diritto di scrivere leggi nella propria lingua madre. Miracoli della globalizzazione. Proprio il grande nemico di questi tempi, l’omogeneizzazione economia e dunque culturale del pianeta per interposto libero mercato, rende subito evidente il paradosso del Renzi-pensiero versione Palazzo Vecchio. In politica, perlomeno se si vuol provare a farla seriamente, sarebbe opportuno dotarsi di una ferrea coerenza logica, se non di prassi almeno di pensiero. Quando vengono partorite dal medesimo cervello, le varie idee ed opinioni che riguardano gli innumerevoli argomenti che sfiorano la categoria del politico dovrebbero potersi concatenare l’una all’altra, logicamente, fino a chiudere il cerchio. Avere un pensiero organico purtroppo però è molto difficile e spesso non paga. Generalmente è più facile inseguire consensi colpendo a casaccio, sparando fotogrammi di presunta attività neuronale qua e là in un balenar di telecamere. Così Renzi ha deciso di dar prova della buona formazione liceale di chi gli scrive i testi, scherzando su Dante e referendum, facendo sua una battaglia che potrebbe impressionare positivamente le casalinghe di Voghera superstiti. Eppure quei dieci minuti di palco sono stati un concentrato di anacronismi. Affastellando luoghi comuni in un processo di contaminazione materialista di un discorso prevalentemente culturale, il Premier si è doluto dell’incapacità italiana di sfruttare il fascino, anche linguistico, dei nostri stereotipi positivi artistico-estetici per esportare di più. Questo il succo: l’italiano e l’Italia hanno ancora appeal, siamo la patria del bello, non facciamoci fregare da chi chiama parmesan il parmigiano tarocco e rilanciamo, attraverso la nostra immagine all’estero, i nostri settori di punta. Tutto questo, chiaramente, all’interno del campo di gioco predefinito: la globalizzazione neoliberista. Eppure alcune riflessioni sorgono spontanee. Da un punto di vista strettamente linguistico “parmesan” è un successo: abbiamo esportato un nuovo termine dopo “pizza”, anche se gli incassi non vengono in Italia. O dovremmo forse incazzarci con qualunque non italiano che chiami “pizzeria” il suo ristorante di Nuova Delhi? Nell’ottica di fondo del Premier, l’Italiano diventerebbe la lingua globale della moda e dell’agro-alimentare, anglicizzato e storpiato, ma non sarebbe certo più vivo. La contraddizione profonda infatti è nell’ambivalenza intima del convegno e del premier: difendere l’Italiano e la globalizzazione contemporaneamente è impossibile. Ad un certo punto Renzi dà la sua personalissima definizione di globalizzazione, unita ad una dichiarazione d’intenti: “cornice culturale internazionale in cui l’Italia sia nelle condizioni di essere elemento di attrazione, […] di richiamo, […] di bellezza”. Ecco, forse qualcuno dovrebbe far notare al premier che la globalizzazione non è inter-nazionale, quello era il mondo pre-seconda guerra mondiale, in parte anche post fino alla caduta del muro di Berlino. La globalizzazione è sovra-nazionale, dunque non prevede le nazioni. Vediamo di fare un paragone semplice. Qualcuno disse che la storia si ripete sempre due volte, la seconda in farsa. Non è così semplice, ma è vero che spesso sono esistiti micro-cosmi in grado di anticipare dinamiche e fenomeni che si sarebbero poi ripetuti simili su scala più ampia. Uno ce l’abbiamo in casa. Quando i nostri avi fecero l’Italia erano alquanto stufi della precedente “cornice culturale internazionale”, quella sì tale, cioè la difficile convivenza tra staterelli di piccola dimensione e ancor minore potenza. Così, al di là delle belle speranze federaliste di Cattaneo o del Gioberti, fecero una micro-globalizzazione intramoenia e la chiamarono Italia. Le piccole realtà territoriali e dunque culturali precedenti piano piano scomparvero. I dialetti rimasero fino all’avvento della scolarizzazione di massa e della televisione. Oggi sopravvivono nelle nostre riserve indiane, nello Strapaese dei borghi di montagna, al Sud, in qualche nicchia ben protetta, ma per quanto ancora? Il declino è innegabile, da lingue vivissime sono ormai diventati fantasmi di un passato lontano. Qualcosa di simile, si può prevedere, avverrà all’italiano perché non di ordine tra nazioni si tratta, ma dell’uccisione delle medesime e dunque della loro espressione massima, la lingua. Una seconda contraddizione evidente nel discorso del premier è quella giustamente esposta da Bartezzaghi sul Tirreno: “Una lingua è tanto più forte quante più sono le cose che si possono dire solo in quella lingua, e che in quella lingua sono nate: vestiti, brevetti industriali, libri, musiche, canzoni, film, pietanze. Più cose nascono in italiano, più l’italiano verrà adottato come lingua d’affezione all’estero.” Il secondo numero del Bestiario intitolato “Italianity” (illustrazione di Mario Damiano) raccontava ai lettori come il governo ha trasformato l’identità italiana in un brand, snaturandola completamente. In soldoni: una lingua è viva quando è espressione di una società curiosa, attiva, intraprendente, insomma vitale. Quando ha il proprio baricentro all’interno di sé stessa e può guardare al mondo, quando inventa e crea, invece di assorbire solamente. Dal momento in cui decreti una battaglia di retroguardia, stai difendendo chi è prossimo al trapasso. E l’Italia di oggi è sull’orlo del baratro. Forse un’altra Italia, o più propriamente qualcosa d’altro, di più o meno simile, rinasceranno in questo lembo di terra che si inabissa nel Mediterraneo, ma non sarà più ciò che oggi conosciamo con tale nome. Per tornare al parmigiano, ha senso fare gli schizzinosi quando ormai i casari sono tutti immigrati indiani perché gli autoctoni o non sono nati o hanno preferito andare a far kebab a Londra? Se non altro il lascito della tradizione, il nome, si è trasmesso, visto che perfino i tarocchi cinesi lo utilizzano storpiato. Ma quella tradizione da cui è nato è morente e, soprattutto, non è stata sostituita da una qualche innovazione. Non possiamo fermarci ad un formaggio lodato già da Plinio e lamentarci per una questione di brevetti tardo-imperiali. Non sarà il parmigiano a salvare l’italiano quando praticamente la totalità della produzione letteraria accademica è in lingua inglese. Non lo salveranno neanche le cinquantaquattro app per insegnarlo ai cinesi, così che possano scrivere parmigiano giusto, se nelle nostre università teniamo interi corsi in inglese. Abbiamo donato al mondo il lascito di praticamente tutta la terminologia musicale classica. Quanta musica di qualità produciamo oggi? Quante serie televisive? Quanti film di spessore, quanti romanzi? Se guardiamo alla sfida del presente invece, all’informatica, lo scenario è ancora più tetro. Possiamo discutere su quanto abbia senso la battaglia, ugualmente di retroguardia, giocata da spagnoli e francesi tra un ratòn ed un ordinateur, ma almeno loro ci hanno provato ad appropriarsi di quei concetti, noi no. Figuriamoci proporne uno nuovo, quando migliaia di giovani ben formati scappano ogni anno verso la Silicon Valley. Qualcuno dovrebbe dire a Renzi che là non si parla la lingua di Dante. Non produciamo più concetti originali e non potrebbe essere altrimenti. Già tentennanti nell’identità (perché quando si parla di lingua fondamentalmente si entra anche nel campo delle identità collettive) non abbiamo retto l’urto proprio con “la grande opportunità” (citazione dello stesso discorso del premier) della globalizzazione. Assaltati da telefilm e soap-opera, rigorosamente tradotte per carità, ma certamente non nostre; invasi da prodotti, più o meno tecnologici, la cui origine non si trova certo tra il Resegone e il lago di Como; seguaci di volta in volta della moda orientale od americana di turno, dallo yoga al pilates, abbiamo perduto noi stessi prima ancora della nostra lingua. Non è con le battaglie di retroguardia, difendendo il passato, che i nostri nipoti saranno ancora in grado di leggere la Divina Commedia. Per essere lingua viva, l’Italiano ha bisogno dell’Italia. Peccato che sia scomparsa, un pezzetto a Londra, uno a New York, uno chissà dove. Quando Amerigo Vespucci nomò l’America, per interposto cartografo tedesco, l’Italia politica era lungi da farsi, ma la società italiana era ancora ben vitale, era ancora il centro di sé stessa. Oggi è una nave alla deriva, in gran tempesta, con Renzi come nocchiere.
No, la lingua italiana non è sessista: ci sono il maschile e il femminile. Cominciate a usarli. Le petizioni (a scopi promozionali) lanciate per modificare regole grammaticali non hanno senso. Piuttosto utilizziamo parole come assessora o sindaca. Anche se ci sembrano "brutte". Segnalateci nei commenti gli usi impropri della lingua con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 20 febbraio 2017 su "L'Espresso".
In italiano, le parole sono maschili o femminili. Non è sessismo, è che la nostra lingua è strutturata così. Il nostro “papà” latino aveva anche il genere neutro, che indicava solitamente gli oggetti e talvolta i concetti astratti. In effetti, se ci pensate, è illogico che gli oggetti in italiano siano considerati maschi o femmine. Non c'è alcun reale motivo per cui il pane sia maschio ma la pagnotta sia femmina, e lo stesso si può dire per il tavolo e la scrivania. Fatto sta che, nel gran bailamme dei secoli bui e delle invasioni barbariche, il genere neutro si è perso, come la toga e il latino, e la lingua parlata in seguito, cioè quello che poi è diventato il nostro italiano, non ha conservato il genere neutro. Mai, in nessun caso. Il fatto che non esista un genere neutro non trasforma automaticamente l'italiano in una lingua sessista, o poco adatta alla modernità. Se alcune parole erano un tempo solo maschili, perché, per esempio, indicavano mestieri svolti unicamente da uomini, la nostra lingua ha in sé già anche le regole per creare dei femminili. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso. Per esempio tutti i nomi che finiscono per -o al maschile, al femminile fanno regolarmente la desinenza femminile in -a. Quindi, per tornare su un argomento che negli ultimi mesi ha infervorato le folle, il femminile di sindaco è regolarmente sindaca, di avvocato è avvocata, di ministro è ministra, esattamente come il femminile di maestro è maestra e di segretario è segretaria. Anche i nomi che fanno il singolare maschile in -e fanno il singolare femminile in -a. Nessuno si è mai scandalizzato perché da infermiere è venuto fuori infermiera, quindi mi sfugge il dramma di chi non ammette assessora. Alcuni lamentano che assessora, ministra e sindaca sarebbero “brutti”. Ma la lingua non ragiona per criteri estetici, ed è anche piuttosto curioso che poi chi non vuole usare sindaca magari usi normalmente ottimizzare, randomizzare, input e altri termini che proprio meravigliosamente musicali non sono. In realtà ministra, sindaca o altri nomi femminili non sono nemmeno particolarmente brutti, solo che non siamo abituati a sentirli usare e ci sembrano strani. Ma la lingua delle nostre fisime, per fortuna, se ne frega. Se allora si dice sindaca obbiettano alcuni, dovrei dire anche piloto? No. Pilota è già maschile. Esistono infatti in italiano (come esistevano in latino e in greco e in talune lingue germaniche) anche dei nomi maschili che hanno la desinenza in -a. Poeta e pilota non sono e non sono mai stati femminili, ma dei maschili regolarissimi. Quindi non ha senso pretendere di dire piloto per indicare un pilota maschio. È già maschio di suo. Essendo termini in -a semmai è più facile volgerli al femminile, perché restano invariati. Si dice il pilota (maschio) e la pilota (femmina) quando chi conduce un mezzo è una gentile signora. La sentinella e la guardia vanno bene per entrambi, ed indicano qualcuno che, maschio o femmina, sta di vedetta (che copre maschio e femmina). Entrambi probabilmente fanno la guerra, altro termine femminile anche se per secoli è stata fatta quasi sempre da soli maschi. Per lo stesso motivo Andrea in italiano è un nome maschile anche se termina in -a (come Enea, Elia, Luca). Negli ultimi anni ci sono anche fanciulle che vengono chiamate Andrea, ma per influsso del tedesco, dove Andrea è un nome femminile (e il maschile è Andreas). Il problema del maschile e del femminile che rischiano di essere sessisti (è infatti antipatico che una donna debba fare il “sindaco” solo al maschile, come se non fosse concepibile che questa carica sia affidata ad una signora) si riscontra però solo nei nomi di cariche e professioni. Non ha senso dire che chiamare la scrivania così è sessismo perché è un femminile. Il genere degli oggetti è stato infatti attribuito loro in maniera arbitraria. La padella è femminile, ma il paiolo è maschile, la penna è femminile ma il pennarello e l'evidenziatore sono maschili. Stesso ragionamento vale per i termini astratti: amore è maschile ma bellezza è femminile, come virtù e scienza.
La campagna commerciale per introdurre il neutro. Non è discriminatorio usare amore come termine al maschile, anche perché amore copre tutta una serie di possibilità: può essere amore fra un uomo e una donna, fra due donne, fra due uomini, fra madre e figlio, padre e figlia, genitori e figli, e chi più ne ha più ne metta. Non c'è quindi nulla di discriminante, così come la bellezza copre bellezza femminile e maschile, la scienza è fatta da scienziati e scienziate, la virtù può essere praticata da chiunque. In nessun caso si può proporre, per legge o con una petizione, di inventare in italiano un fantomatico “genere neutro”. Non esiste. Non sapremmo nemmeno come inventarlo. La nostra lingua non lo prevede e di certo non si può imporre per decreto. Per altro, non si capisce nemmeno chi dovrebbe imporre questo uso: il Governo? Il Parlamento? I generi e nemmeno le parole si possono imporre per decreto. Nascono e poi si diffondono, la gente li usa o non li usa e non c'è nulla che possa cambiare questo fatto. Gli istituti come l'Accademia della Crusca, al massimo, dopo un po', possono certificare la diffusione e l'uso di determinate parole o frasi o espressioni idiomatiche, ma non certo costringere la gente a servirsene. Quindi sì, l'italiano è una lingua strutturata con parole che sono o maschili o femminili. Questo non ci obbliga però a costruire una società italiana sessista, in cui maschi e femmine abbiano dei ruoli predeterminati. Quando ci servono parole nuove per indicare professioni svolte da maschi e femmine, semplicemente si inventano o si volgono quelle che già abbiamo al femminile o al maschile. Non è neppure necessario costruire a tavolino un genere, il neutro, che è stato eliminato dall'evoluzione naturale della nostra lingua, e riesumarlo artificialmente non avrebbe gran senso. Usiamo la grammatica che abbiamo già. Funziona benissimo anche per affrontare le sfide del mondo moderno.
Per piacere, impariamo a usare la virgola. La punteggiatura non è un gesto casuale che si sparpaglia come petali di rosa: serve eccome. E se usata male può addirittura cambiare il senso delle frasi. Con risultati imprevedibili. Seconda pillola di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 febbraio 2017 su "L'Espresso". Fra i misteri italiani, la punteggiatura se la gioca alla pari con i grandi enigmi della Storia repubblicana, e qualche volta li batte. Per la maggioranza delle persone risulta più semplice cercare di risolvere il problema degli intrecci Stato-Mafia che capire dove diavolo vada messa la virgola in una frase. I più optano per una soluzione casuale, cioè seminano i segni di punteggiatura come petali di rose: dove cascano, cascano e amen. In realtà la punteggiatura è in parte così difficile da capire perché entro certi limiti è soggettiva. Il suo compito è infatti rendere il flusso dei pensieri dell'autore e spiegare a chi li vede scritti con che ritmo vadano letti. Siccome il ritmo che voglio dare alle mie frasi è personale, anche la punteggiatura in parte lo è. Alcune regole però ci sono, e vanno il più possibile rispettate. La prima è che la punteggiatura ci vuole. I flussi di coscienza che si spandono per pagine e pagine è meglio lasciarli a Joyce, o limitarli alle pagine di narrativa, e anche lì vanno usati con maestria e moderazione. Se non siete Joyce e non state scrivendo l’Ulisse, ma una semplice lettera di reclamo al Sindaco perché vi spostino da davanti casa un cassonetto della spazzatura, per piacere, usate i punti e le virgole. Lo scrivente vi sarà grato e magari sposterà il cassonetto davvero. La virgola serve ad indicare che leggendo si deve fare una piccola pausa fra un pezzo della frase e l'altro. Dice al lettore dove prendere fiato, quindi ogni tanto mettetene una, se non volete sulla coscienza un lettore morto di apnea. La virgola si usa di regola quando faccio una lista: Sono andato al mercato e ho comprato pane, latte, zucchero. Se la lista la state facendo su un post it da lasciare attaccato alla porta del frigo, lì è concesso saltare le virgole. Se mettere le virgole anche nei post it attaccati al frigo, siete probabilmente un Accademico della Crusca. Altro caso in cui è obbligatorio usare la virgola è dopo il nome di qualcuno che viene chiamato o evocato: Mario, passami il sale! Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? In questo caso Mario e Dio non sono il soggetto della frase, ma un complemento di vocazione, che indica il nome della persona chiamata (vocare in latino significa chiamare, appunto), e siccome dopo il nome viene fatta una pausa (Mario || passami il sale!) la virgola la segnala. Non si deve mai, mai, mai (ho già detto mai? Lo ripeto: mai!) usare la virgola per separare invece il soggetto dal suo verbo o il verbo dal suo complemento oggetto. Se scrivete frasi come: Mario, va a scuola o Dio ha creato, il mondo l'Accademico della Crusca di cui parlavamo sopra (quello che mette le virgole anche nei post it) viene a casa vostra di persona per bacchettarvi le dita. Le virgole sono anche usate per separare le frasi all'interno del periodo. Di regola andrebbero messe prima di una coordinata avversativa (quelle frasi che iniziano con ma, tuttavia, però): Ti ho cercato a casa, ma non c'eri. Non ho finito ancora il libro, tuttavia le pagine lette mi piacciono. Sono molto stanco, però voglio andare al cinema lo stesso. Le virgole possono anche essere usate in coppia, come le parentesi, per indicare una frase che in teoria può essere tolta dal testo senza che questo soffra particolarmente. Queste frasi si chiamano incisi: Questo, come vedi, è lo stato dei fatti. Questa casa, se proprio lo vuoi sapere, sarà messa in vendita presto. Non è questo, a mio modesto avviso, il modo di parlare a tua madre. Le virgole, anche se non sembra, sono piccole ma sensibili. Non abbandonatele in mezzo ai periodi e non lasciatele da sole a vagare per le vostre frasi. Si possono vendicare in maniere terribili e impreviste. La frase: Vengo a mangiare, nonna! vi dipinge come premuroso nipote che va a visitare una parente anziana. La stessa frase senza virgola: Vengo a mangiare nonna! vi indica invece come un pericoloso cannibale epigono di Hannibal Lecter. Quindi occhio alle virgole, se non volete passare per sterminatori di vecchiette.
No, non possiamo mandare in pensione il punto e virgola. È spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 marzo 2017 su "L'Espresso". Uno spettro si aggira per l'Europa. Ok, magari per l'Europa no, ma per le pagine della letteratura europea e mondiale sì. È il punto e virgola. Il punto e virgola è spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso. Molti pensano che la punteggiatura sia un segno grafico, invece va pensata più come una notazione musicale. Come sullo spartito ci sono note e pause, perché nella musica è necessario che i ci siano dei momenti di silenzio, anche quando si scrive i punti, le virgole e gli altri segni di punteggiatura servono a segnalare le pause. Ora, mettiamola così: il punto è una pausa lunga. Se è un punto-e-basta, quello che mettiamo alla fine di un paragrafo o di un capitolo, diciamo che dopo di lui contiamo fino a quattro prima di ricominciare a leggere. Il punto che invece separa le frasi nel mezzo di un paragrafo dovrebbe essere giusto giusto un pochino più breve, quindi diciamo che dopo di lui contiamo fino a tre. La virgola vale uno, perché è solo una piccola pausa fra due parole o frasi. Il nostro punto e virgola sta in mezzo. In pratica è più lungo di una virgola ma più breve di un punto. Al contrario di molti altri segni di punteggiatura, l'uso del punto e virgola è abbastanza personale. In realtà si può scrivere una intera vita senza sentire il bisogno di usarlo mai. Un gran “puntevirgolista” era Alessandro Manzoni: nei Promessi Sposi si incappa in punti e virgola come se piovessero, tutti messi ovviamente in maniera meravigliosa. Agli amanti della punteggiatura, diciamolo, i Promessi Sposi regalano vere e proprie estasi di goduria. Nell'italiano più recente i periodi lunghi non godono di grandi fortune, e quindi il povero punto e virgola non ha più il successo di un tempo, tanto che molti ne pronosticano l'estinzione. Restano due casi in cui è obbligatorio usarlo. Il primo caso è quello in cui scrivo un elenco puntato di cose da fare. In quel caso, alla fine di ogni voce dell'elenco devo mettere un punto e virgola, e solo all'ultima voce, quando concludo l'elenco, devo mettere il punto.
Esempio: Domani devo:
comprare il latte;
ritirare le camicie in lavanderia;
scrivere il pezzo per l'Espresso.
L'altro caso in cui il punto e virgola è assolutamente necessario è quando voglio fare l'emoticon che fa l'occhiolino, ovvero questa qua: ;) Ora capite bene che, almeno per preservare l'emoticon, il punto e virgola non può e non deve essere mandato in pensione.
... a cosa servono i puntini di sospensione. Sono solo tre. Non due, non cento. E hanno una funzione ben precisa: quella di sospendere il racconto. Ma in troppi li usano a sproposito, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 27 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono una specie di epidemia. Un morbo che si diffonde e attacca anche chi pensavi ne fosse immune. Diplomati, laureati, gente che ha passato anni e anni nelle aule scolastiche e quindi dovrebbe avere ben chiari i fondamentali per scrivere un testo. Invece no: riempiono i loro scritti di puntini di sospensione al posto di punti o virgole. I puntini di sospensione, in italiano, si usano quando si vuole lasciare intendere che una lista o un discorso continuano, o meglio potrebbero ancora continuare a lungo, ma l'autore prova un moto di pietà nei confronti dell'uditorio, e mette quindi i puntini per indicare che lascia il resto all'immaginazione del lettore. Ho comprato ieri pane, latte, verdure, carne, yogurt... e qua pietosamente si tace sulle altre decine di cose che sono finite nel nostro carrello dopo la consueta gita al supermercato. Altra funzione dei puntini di sospensione è appunto sospendere il racconto tenendo il lettore sul filo. Sono una specie di cartello “to be continued” che viene lasciato alla fine di una frase, di un periodo, o magari anche di un racconto o di un capitolo di romanzo per far intendere al lettore che si tratta di un finale aperto, che qualcosa potrebbe ancora succedere se voltasse la pagina, o che comunque la faccenda non è finita e può riservare ancora sorprese. “Eh, se ne potrebbero ancora dire di cose...” Ecco, questi sono i casi in cui si è autorizzati a usare i puntini di sospensione. Invece l'Italia è invasa da una marea di puntini di sospensione incomprensibili. Anzi, ci sono proprio delle tipologie specifiche di seminatori di puntini:
Il puntinatore avaro. I puntini di sospensione sono rigorosamente tre. Ma lui ne mette due. Non si è mai capito se il terzo lo abbia perso in giro o lo nasconda in casa per affrontare momenti di emergenza in cui si trovi senza un punto-a-capo;
Il puntinatore prodigo. Ne mette quattro, o anche cinque, o sei, o una fila intera, tanto che quando leggi non capisci se abbia messo volontariamente i puntini o il tasto gli si sia bloccato mentre scriveva, e lui sia rimasto lì ad urlare in preda al panico, chiamando in soccorso qualche tipo di polizia grammaticale;
Il puntinatore compulsivo. I suoi testi sono semplicemente una scusa per seminare puntini. Li usa per tutto, tanto che abolisce qualsiasi altro segno di punteggiatura. Non esistono per lui più virgole, punti, due punti. Esiste solo un mare di puntini in cui lui naufraga, ma soprattutto fa naufragare il lettore. Senza salvagente.
Se vi riconoscete in qualcuna di queste tre tipologie, tranquilli. Si può smettere. Basta pronunciare a voce alta per un ragionevole numero di giorni: “I puntini sono tre e non si usano al posto del resto della punteggiatura”. È una specie di mantra. Attenzione: perché funzioni va ripetuto ancora, ancora e ancora...
L’avventurosa storia del piuttosto (e del piuttosto che). Pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 3 aprile 2017 su "L'Espresso". La storia del piuttosto in italiano è una di quelle curiose vicende che ricordano le biografie di certi fanciulli nati bene che con il tempo cambiano strada, forse si fanno traviare dalle compagnie e finiscono in brutti giri. Infatti il nobile piuttosto, oggi, si trova ficcato in frasi bislacche e viene totalmente travisato nel suo significato preciso. "Piuttosto" in italiano è un avverbio di antica tradizione. È figlio di “più”, di cui rappresenta un rafforzativo, e di “tosto” - cioè presto, veloce - e nel senso originale significava quindi “più velocemente”, “più presto”. Nel corso di qualche secolo si è allargato nell’uso, fino ad indicare “più facilmente”, “più spesso”, “più volentieri” e anche genericamente “molto/molto di più”, come nei casi delle frasi: è piuttosto tardi; viene piuttosto spesso. Siccome è un tipo socievole, piuttosto ha stretto negli anni una fruttuosa amicizia con il che, e i due hanno formato un duo, il piuttosto che. Il piuttosto che serve ad indicare una preferenza fra due cose: piuttosto che uscire, preferisco rimanere sdraiato sul divano; piuttosto che mangiare quella roba, salto il pasto. Il piuttosto ha anche una lunga storia di frequentazione con la o disgiuntiva e specie nelle frasi interrogative i due stanno spesso assieme: Vuoi questo o piuttosto quello? Il pasticcio succede quando nel linguaggio comune si mettono assieme e si frullano le due cose. Ormai da qualche anno c’è gente convinta, soprattutto nel Nord Italia, che il piuttosto che sia una variante della semplice o disgiuntiva o di oppure. Nascono allora frasi assolutamente bislacche, come per esempio: vuoi parlare con la mamma piuttosto che con il papà? Perché discriminare i neri piuttosto che gli zingari? Ecco, ragioniamoci su queste due frasi: scritte così sembra che introducano in qualche modo un criterio di preferenza: nella prima il povero papà sembra considerato inferiore alla mamma (e sì, vabbè, siamo in un paese di mammoni, ma via, non è carino!); la seconda pare quasi una levata di scudi razzista che invita a discriminare tutti allo stesso modo, che diamine!
Quindi ricapitoliamo: il piuttosto che non va usato come sostitutivo di o e di oppure. Ha un significato diverso: indica una preferenza fra due scelte, non una semplice alternativa. Del resto, pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli.
Qual è il problema con il qual è? A "qual" non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo: risparmiamo inchiostro, e anche una brutta figura, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 17 aprile 2017 su "L'Espresso". Qual è il problema? Be’, il problema alle volte è proprio il qual è. Che in Italiano si scrive così, cioè senza apostrofo, e non Qual’è come spesso ormai si vede. State sbuffando? Non fate finta di niente, vi ho sentito. E vi capisco pure. Ma come, direte voi, prima ci fanno una capa tanta che bisogna mettere gli apostrofi e adesso su qual è se ce lo mettiamo ci facciamo la figura degli zotici? Ma che è, un complotto, una congiura? Nessun complotto, e nemmeno la prova che le regole grammaticali sono pensate da una manica di sadici schizzati. Se vi ricordate quello che abbiamo spiegato quando si è parlato degli apostrofi, l’apostrofo si mette quando la vocale, davanti a un’altra vocale, si va a fare un giro ma poi ritorna. Ecco, non è il caso di qual è. Qui il qual è proprio una parola a sè, che si scrive senza la vocale alla fine. Qual viene usato anche davanti a parole che non iniziano per vocale. Si può dire infatti sia qual è sia qual buon vento, e questa è la prova che a qual non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo. In italiano esiste qual come esiste anche tal, alcun, nessun, un. Queste parole nascono per un fenomeno che si chiama troncamento, e come per l’elisione, il fenomeno accade per facilitare la lettura. Ma diversamente dall’elisione, il troncamento accade anche davanti a parole che cominciano per consonante. Noi usiamo tantissimi troncamenti quando parliamo. Diciamo un buon uomo, un bel tipo, o cantiamo a squarciagola Nessun dorma. Qual è un troncamento, esattamente come buon, bel e nessun. Quindi, con buona pace di Saviano (che in un articolo scatenò un vespaio perché scrisse qual’è) e persino di Pirandello (anche lui qualche qual’è lo ha disseminato in giro) qual è si scrive senza apostrofo. Una volta tanto, risparmiamo inchiostro evitando l’apostrofo. E anche una brutta figura.
L'apostrofo, un promemoria per il lettore. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 24 aprile 2017 su "L'Espresso". Avete presente quando andate in un negozio, trovate la porta chiusa e sulla vetrina il post con su scritto: “Torno subito”? Bene, l’apostrofo in italiano funziona nello stesso modo. Quando una lettera, o meglio, una vocale, se ne va a prendere un caffè, siccome è una lettera educata, lascia un piccolo promemoria al lettore: “Guarda, sono uscita un attimo, ma non ti preoccupare, appena posso mi ritrovi qui.” Se quando scrivete vi dimenticate gli apostrofi il vostro povero lettore resta perplesso. È smarrito: non sa se deve restare lì ad aspettare o la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Peggio di una puntata di Chi l’ha visto, insomma. Quando la vocale se ne va per un po’ ma poi ritorna, il fenomeno si chiama elisione. Di solito le vocali spariscono temporaneamente per motivi ben precisi e in casi ben determinati: non è che vi piantano in asso senza un perché. Tanto per cominciare, le vocali se ne vanno solo quando sono alla fine della parola e dopo di loro c’è una parola che comincia anch’essa per vocale. Si può dire sull’altalena ma non nell’giardino, l’insalata ma non l’bistecca. Questo perché l’elisione è un fenomeno nato per facilitare la pronuncia e la lettura delle parole. Si può anche dire sulla altalena, per carità, ma il nostro orecchio un po' si schifa, e quindi mettiamo l’apostrofo per chiarire che quelle due lettere “a” non vanno in realtà pronunciate e ne resta una sola, quella di altalena. La "a" di sulla si prende una pausa e va a fare un giretto per i fatti suoi, ché ogni tanto un po’ di libertà è una mano santa pure per le lettere dell’alfabeto. I casi in cui le vocali si possono concedere una boccata d’aria sono:
Con gli articoli determinativi lo e la: l’albero e l’agenda, e anche in tutti i casi in cui lo e la formano preposizione articolata dell’albero, nell’agenda, all’artista. Attenzione, però: l’articolo la perde la sua a solo al singolare. Posso dire l’agenzia, ma non l’agenzie. Lì devo scrivere le agenzie, le industrie. Per il lo il problema del plurale nemmeno si pone, perché al plurale lo fa gli, perciò in ogni caso non si elide;
L’aggettivo bello ci tiene a essere pronunciato bene, quindi di fronte a vocale vuole suonare al meglio e perde la o. Si scrive infatti bell’affare, bell’uomo;
Anche con santo e santa c’è elisione. Si scrive infatti Sant’Agostino e Sant’Agnese. Con l’apostrofo, mi raccomando, oppure i santi che cominciano per vocale si arrabbiano come se gli aveste tolto l’aureola;
Con l’avverbio di luogo ci davanti alle voci del verbo essere: c’è, c’erano, c’era. Attenzione, anche qua lo potete fare solo quando il ci è un avverbio di luogo (ci era equivale a era qui). Quando invece si tratta del pronome personale complemento ci (come in ci ama, ci ha invitato), che quindi vuol dire a noi, non potete elidere mai. Del resto c’ama non si può sentire: vi fareste odiare subito. Inoltre il ci non può essere eliso davanti alla acca. C’ho non si può scrivere. La regola infatti dice che il ci si elide solo con le vocali. La acca è una vocale? No. Quindi c’ho, c’hanno non si scrive, o l’Accademico della Crusca vi mena con l’apostrofo stesso a mo’ di scudiscio. In alcuni modi di dire e frasi fatte come tutt’al più, quant’altro, senz’altro, nient’affatto, d’ora in poi, quand’anche, d’altra parte e d’altronde. Sì, d’altronde si scrive con l’apostrofo e non dal tronde, non esistendo la parola “tronde” in italiano. Voi resterete magari stupiti che esista invece la parola altronde. Eh, invece esiste, anche se viene usata esclusivamente, in pratica, in questa locuzione. Alle volte la lingua sembra bizzarra assai.
Non si possono elidere invece le vocali finali quando li e le sono pronomi personali: le aspetto, li interpello. E se mai vi venisse in mente, no, non si possono elidere mai le vocali finali degli avverbi di luogo lì e là, perché si possono togliere, elidere e far sparire solo le vocali non accentate. Quelle accentate devono restare dove sono, perché l’accento segna il punto dove la voce si appoggia, se glielo togliete la voce sbarella e casca tutto. In tutti gli altri casi in cui avete una parola che finisce per vocale e una che inizia per vocale sta a voi decidere. Potete scrivere anch’egli o anche egli, lo ascoltò o l’ascoltò, un’arancia o una arancia. È una questione di scelta stilistica, o anche di come vi gira al momento. L’importante è che non dimentichiate di mettere l’apostrofo nei casi in cui è obbligatorio, o il vostro povero lettore è destinato a restare lì chiedendosi se la vocale tornerà, se si è persa, se mai la rivedremo. Il che, per carità, può generare una certa suspense, ma non è il caso di scatenare il panico a vuoto, nemmeno se state scrivendo un thriller.
Ci vuole un po' di attenzione a scrivere “po'”. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. E sarebbe meglio, davvero, non scriverlo con l'accento. Anche quando è l'opzione imposta dal cellulare, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 2 maggio 2017 su "L'Espresso". In Italiano ci sono due po. Uno è il fiume, e quando vi riferite a lui siete pregati di ricordavi due cose: si scrive con la maiuscola, perché è nome proprio (il Po) e non vi va messo sopra accento, perché è una parola monosillaba. Gli accenti in italiano segnalano la vocale su cui la voce si appoggia, ma Po di vocale ne ha una sola, per cui segnarci sopra l’accento è inutile. Il nome Po deriva dal latino Padus, antico nome del fiume, e per questo la pianura che attraversa si chiama Padana. L’altro po italiano è po’, scritto con l’apostrofo, che significa poco. Deriva dal latino paucus, che in italiano si è trasformato in poco e poi in po’. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Tecnicamente po’ è un troncamento, per giunta di una intera sillaba, cioè il -co finale. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. Se nei casi comuni l’apostrofo è un cartellino con su scritto “torno subito” e segnala una vocale solo temporaneamente sparita, nel caso del po’ l’apostrofo è più una lapide alla memoria. C’era un tempo una sillaba, ma non c’è più: una prece. Si può scrivere pò, con l’accento? Negli ultimi tempi lo si vede spesso, soprattutto perché il correttore ortografico di cellulari e computer sembra essersi convinto che quella è la grafia corretta. Per farlo rinsavire bisogna andare a smanettare nelle impostazioni del vocabolario interno al telefonino, operazione che richiede un minimo di competenze tecniche che non tutti hanno. Per questo capita di riceve messaggini da coltissimi amici con dentro scritto pò con l’accento, e immaginare la loro disperazione per questo errore imposto loro da un programma di scrittura automatico. Si può, non si può scrivere pò con l’accento? No. sarebbe proprio meglio di no. Magari fra qualche anno ci arrenderemo e accetteremo pò con l’accento, che comunque è un controsenso. Po’ inteso come “poco” è un troncamento: l’apostrofo non gli serve ma nemmeno l’accento, perché è anche un monosillabo, quindi la voce non ha bisogno di sapere dove appoggiarsi, dato che può stare solo sulla vocale o. Per ora quindi resistiamo, sia al T9 che al pò accentato. Resistiamo e intanto impariamo come smanettare le impostazioni del cellulare. Con un piccolo sforzo, si può costringere il maledetto a scrivere po’ con l’apostrofo, credetemi.
Che rebus quel "ci", l'avverbio bistrattato. E' un avverbio di luogo e serve ad indicare dove si svolge l'azione. Ma spesso lo confondiamo con il "ci" che significa noi/a noi. Tutti i trucchi per vederci più chiaro, scrive Mariangela Galateo l'8 maggio 2017 “L’Espresso”. Pochi lo riconoscono, anche se le frasi che facciamo con lui ogni giorno sono centinaia. Ma 'ci', ovvero l’avverbio di luogo che indica “qui, in questo posto”, è una delle parole più bistrattate del vocabolario. La maggioranza delle persone, quando analizza una frase come “C’è posto a tavola?” o “C’è qualcosa che manca?” tende a considerare il povero ci come se facesse parte del verbo, oppure a confonderlo con il suo omografo 'ci' pronome personale atono, quello che vuol dire “a noi”. C’è/ci sono sono invece due frasi con un avverbio di luogo: c’è significa “è in questo posto”, “sta qui”. Il suo compito accanto al verbo essere è molto preciso: indica il luogo dove l’azione si svolge. Tra l’altro segnala in modo inequivocabile che in questo caso il verbo essere svolge la funzione di predicato verbale e non nominale, come invece gli capita quasi sempre. C’è significa infatti “si trova”, e pertanto in questo caso il verbo essere descrive una azione, ovvero è sostituibile con il verbo “stare”. Il ci deriva probabilmente da un latino alto medievale hicce, a sua volta derivato dall’avverbio di stato in luogo latino hic. Il ci avverbio di luogo si usa con i verbi che indicano il rimanere o il raggiungere un determinato luogo, come stare (ci sta), andare (ci andiamo), venire (ci vieni?). Non va invece confuso con il ci che significa “noi/ a noi”. Ci guardiamo negli occhi significa infatti che io e te /noi ci guardiamo reciprocamente negli occhi, e non indica nessun luogo; allo stesso modo Ci spostiamo da casa al lavoro indica che spostiamo noi stessi, ci portano da mangiare significa che portano da mangiare a noi. Nella frase Noi ci siamo, invece, è chiaro che sostituire il ci con un ulteriore “noi” non avrebbe senso. Il segreto per riconoscere i due ci è quindi provare a sostituire il ci con un noi/a noi. Se la frase ha ancora senso, è pronome, se invece risulta incomprensibile si tratta di un avverbio. Il povero ci ve ne sarà molto grato. Passare l’esistenza ad essere confuso con qualcos’altro è difficile persino per un avverbio: c’è di che perdere l’autostima.
Quel dove in ogni dove. Viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Lo si usa ormai in ogni dove. E non sempre nel posto giusto dove metterlo. Stiamo parlando del dove, che in italiano a volte può sostituire il relativo “in cui”. Quando, appunto, questo “in cui” indica un luogo. Se dico per esempio “il luogo in cui mi trovo ora è bello” posso tranquillamente trasformare la frase in “il luogo dove mi trovo ora è bello”. Il problema è che il dove viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”. Abbiamo così frasi bislacche come “il giorno dove ti ho incontrato” o “il momento dove parli”. Ragioniamo un attimo prima di scrivere. Dove indica sempre un luogo. E un momento, un giorno non sono luoghi, nemmeno figurati. Sono determinazioni di tempo, non di spazio. Sono una cosa diversa, indicano il quando, non il dove. Se dico "La borsa dove tengo la cipria" ha un senso, perché indico un luogo dove la cipria viene messa, cioè la borsa. Ma non posso dire “il momento dove mi inciprio il naso”. Non ha senso, e il povero interlocutore resterebbe perplesso non capendo dove vogliate usare il piumino per ritoccare il trucco. Peggio ancora se invece di un “in cui” il dove sostituisce un che. Ha senso dire “il bar che frequento ogni mattina”, non “il bar dove frequento ogni mattina”. Il bar è un luogo, per carità, ma voi frequentate lui, cioè il bar, perché frequentare è un verbo transitivo che vuole dopo di sè un complemento oggetto. Ci vuole quindi un che relativo. Se invece dite “il posto dove bevo il caffè alla mattina è questo bar”, o "il bar dove vado ogni mattina è questo" allora va bene. Anzi, se il caffè è buono, passate l’indirizzo.
Andateci piano con "dunque" e "cioè". Oggi sono sorpassati. Se li usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 22 maggio 2017 su "L'Espresso". Non si comincia mai una frase con il dunque. Dunque, in italiano, è una congiunzione conclusiva. Vuol dire che va usata per concludere un discorso e tirare le fila di qualcosa che è stato detto in precedenza. Sono stata tutto il giorno in piedi dunque sono stanca. Molti invece usano il dunque come un incipit, un modo per iniziare la conversazione quando non si sa che dire: Dunque, mi dicevi? Ma immaginate che, prima, la persona a cui vi rivolgete non abbia detto assolutamente nulla. Vi guarderebbe come un pazzo. Ci sono casi in cui il dunque può essere usato all’inizio della frase. Per esempio quando uno ha parlato per mezz’ora in maniera complicatissima, noi non abbiamo capito un accidenti o molto poco di tutto lo sproloquio e allora, per dispetto, ironicamente sibiliamo: Dunque? In questo caso è un modo per invitarlo in qualche modo a tirare una conclusione e dare un senso comprensibile a quando ha detto. Ma in queste situazioni, appunto, si tratta di un uso ironico, quindi è corretto. Cominciare una frase con il dunque senza che prima ci sia nulla non ha invece alcuna logica. Dunque cosa?
Attenzione va fatta anche all’uso del cioè. Cioè serve a spiegare qualcosa che si è detto in precedenza: faccio il social media manager, cioè curo gli account social dell’azienda. In anni passati, soprattutto negli anni ‘70 e ‘80, cioè era invece una specie di riempitivo valido per tutto. Quando non si sapeva cosa dire, ci si ficcava un cioè. Oggi è sorpassato. Se lo usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu. La versione più colta del cioè è stato negli anni ‘90 il diciamo. Veniva schiaffato all’interno di ogni conversazione quando non si sapeva bene come proseguire. Lo usava spessissimo D’Alema. Nella variante diciamocelo era invece il marchio di Ignazio la Russa. Oggi va quindi usato con parsimonia e cautela. Non solo vi data, ma sapete anche a chi vi fa assomigliare. Pensateci e decidete di conseguenza.
"Ci hanno" e "C'hanno": attenti a quei due. Queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Scrive Mariangela Galatea Vaglio il 29 maggio 2017 su "L'Espresso". “Ci ho un caldo oggi che brucio!” È corretta questa frase? E, ampliando il discorso, sono corrette tutte le frasi che usano il verbo averci? In realtà il ci in questo caso è un avverbio di luogo che ormai ha perso il suo significato, e viene usato solo come sottolineatura emotiva. Tutte queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Qui bisogna rispondere con un diplomatico “dipende”. Dipende infatti, e davvero, dal tipo di testo che stiamo scrivendo. Se è un testo serio e formale, no, non è il caso di usarle. Se invece è un testo che in qualche modo si ispira alla lingua parlata o in cui, per esempio, dobbiamo descrivere il modo di parlare di un personaggio non molto colto, allora possono andare bene. Tantissimi sono gli scrittori che hanno usato questo tipo di frase, da Boccaccio a Manzoni, proprio per scrivere dei dialoghi più realistici e meno ingessati. Bisogna comunque fare attenzione a come si scrivono, questi ci, oltre che a quando. Infatti la frase Oggi ci ho proprio caldo è accettabile, mentre oggi c’ho proprio caldo è un pugno su un occhio. Il problema sorge per colpa dell’h che c’è in mezzo. La h in italiano non si pronuncia, ma nello scritto si vede. Se si elide la i finale, la c e la h si trovano a contatto, e il nostro occhio è abituato a leggere le due lettere vicine come un ch che si pronuncia quindi k. Per questo motivo vedere un testo dove sia scritto c’ho per molti è una vera tortura. I linguisti hanno proposto di usare una grafia particolare, cioè cj ho. Ma per ora è un uso limitato solo ad alcuni articoli specialistici e non ha preso piede presso il grande pubblico. Che spesso c’ha altro da fare, e usa l’apostrofo senza curarsi dell’acca. Vinceranno loro? Probabilmente. Per ora conserviamo la i finale e aspettiamo l’evolversi della lingua.
I tranelli dell'acca, quella lettera che c'è e non c'è. E' l'unica muta del nostro alfabeto, e si vendica comparendo nelle forme del verbo avere, praticamente a caso. Ecco come non farsi ingannare, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 14 giugno 2017 su "L'Espresso". Voi pensate la frustrazione. In una lingua come l’italiano, in cui le lettere si pronunciano tutte come sono scritte, lei no, è l’unica che non si sente. Muta. Non stupisce che debba trovare il modo di vendicarsi. E infatti la h in italiano si vendica comparendo nelle forme del verbo avere apparentemente a caso: ho, hai, ha, hanno. Il motivo per cui la h c’è in queste forme è legato alla storia della nostra lingua. Il verbo avere in italiano deriva dal latino habere, che cominciava con l’h. Nel corso dei secoli la h, che appunto non veniva pronunciata, si è persa anche nella forma scritta. È rimasta solo in alcuni casi, perché altrimenti, togliendola, sarebbe difficile capire esattamente cosa viene detto. Se io scrivo a ragione è diverso da ha ragione. È necessario dunque che a preposizione semplice e ha voce del verbo avere si scrivano in maniera differente. La stessa cosa avviene con anno/hanno: una cosa è dire l’anno passato altra dire l’hanno passato. Un vecchio trucco per riconoscere quando ci troviamo di fronte al verbo avere e si deve mettere la h è quello di sostituire nella frase il presente (ho, hai, ha, hanno) con l’imperfetto. Se la frase continua ad avere senso anche all’imperfetto, allora al presente il verbo va scritto con l’acca:
Io ho due calzini -> io avevo due calzini
Io vado a casa-> io andavo avevo a casa
La h è sempre stata fonte di moltissimi errori, proprio perché non si pronuncia e dunque non si sente. All’inizio del secolo fu fatta una proposta per toglierla del tutto, ma siccome restava il problema di distinguere la a preposizione dal verbo avere, si suggerì di scrivere la voce del verbo con un à accentata. Quindi invece di ha/ho/hanno/hai si sarebbe dovuto scrivere à/ò/ànno/ài. Ci si rese però presto conto che così non si risolveva niente, anzi si generava una confusione ancora maggiore. Quindi alla fine si decise di tenere la acca. Continua a rimanere al suo posto e non molla. Tiè.
"Vadi pure", anzi no "facci lei": basta fantozzismi, diamo una mano al congiuntivo. È un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 5 giugno 2017 su "L'Espresso". Lo danno per spacciato da anni, ma come l’araba fenice lui prima o dopo risorge dalle sue ceneri. Il congiuntivo è un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato. Il congiuntivo è il modo che indica una idea, una opinione. Credo che tu sia simpatico (ma mi riservo di verificarlo), ritengo che questa sia una stupidaggine (ma non si sa mai, magari mi sbaglio io ed è una genialata). È un modo educato che non si prende sul serio, lascia aperto uno spiraglio, accetta la possibilità che gli altri abbiano ragione e torto noi. Per questo nel mondo moderno, fatto di grintose certezze, il congiuntivo non ha vita facile. Complice il fatto che in inglese, per esempio, non viene usato spesso, anche in italiano i manager lo usano poco e mal volentieri: «Credo che è così!» tuona il capetto con i suoi sottoposti, e non si discute. Ci sono anche altri usi del congiuntivo che non tutti conoscono. È un modo gentile, ma è capace di sostituirsi all’imperativo nei casi in cui questo modo non ha forme proprie: Andiamo a casa! Prenda ancora una tazza di tè o il berlusconiano Mi consenta! sono in origine forme di congiuntivo. In latino veniva definito congiuntivo esortativo, cioè quello che esprime un invito educato, ma pressante quanto un ordine. Da solo, nelle frasi principali, il congiuntivo viene usato per esprimere un augurio o una speranza: Fosse la volta buona! Magari vincessi alla lotteria! In questo caso si può anche chiamarlo congiuntivo ottativo o desiderativo, in quanto esprime una cosa che si vorrebbe ardentemente. È un modo pieno di sfumature, quindi, che va trattato con i guanti. Ci mette un attimo a farvi fare una pessima figura quando non lo sapete coniugare bene. Vadi, facci sono infatti una forma di congiuntivo non nota alla grammatica ma diffusissima nel mondo reale: il congiuntivo fantozziano.
Tutti i misteri del "che", parolina bifronte. Il "che" in italiano ha due usi principali: congiunzione e pronome relativo. Ecco come distinguerne l'uso, per non attorcigliare i nostri testi in frasi incomprensibili, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 19 giugno 2017 su "L'Espresso". In italiano gli usi principali del che sono due: congiunzione e pronome relativo.
Quando è congiunzione, il che unisce due frasi: Penso che tu sia stanco di tutto questo; Ritieni che sia possibile? Credo che domani pioverà.
Quando è pronome relativo unisce sempre due frasi, ma il che è agganciato ad un nome che si trova nella prima frase e svolge la funzione di soggetto o complemento oggetto nella seconda: tu [che sei alto] mi prendi quel libro dallo scaffale?
Riconoscere i due tipi di che è importante. Aiuta molto ad evitare di fare errori nel dividere le frasi e anche nel comprenderle. Come si riconosce un pronome relativo? Il pronome relativo che si individua perché può sempre essere sostituito con il quale/la quale/i quali/ le quali. Quindi, quando abbiamo un dubbio, basta vedere se nella nostra frase il che può essere sostituito da una di quelle parole.
La donna che hai visto è mia sorella ->la donna la quale hai visto è mia sorella;
I bambini che giocano nel cortile sono sudati ->i bambini i quali giocano nel cortile sono sudati.
Se invece è una congiunzione non può mai essere sostituito con altro. Infatti se scrivo: Penso che tu sia strano non posso formulare la frase dicendo penso il quale sia strano. Non ha senso. Distinguere congiunzioni e pronomi relativi è fondamentale quando faccio l’analisi del periodo e quella logica della frase. Il che pronome relativo che può fare da soggetto e da complemento oggetto nella frase in cui è, mentre la congiunzione non può fare mai da soggetto o da complemento oggetto. Inoltre se la frase è introdotta da un pronome relativo, in analisi del periodo sarà una subordinata relativa, mentre se è introdotta dal che congiunzione potrà essere una subordinata di altro genere (soggettiva, oggettiva, dichiarativa…). Voi direte: ok, si può sopravvivere nella vita anche senza saper distinguere il tipo di subordinate. Sì, è vero. Ma non sempre è detto che si sopravviva bene.
In italiano il che, pronome relativo, ha una particolarità. Si riferisce quasi sempre al nome che gli sta accanto. Una delle cose che spesso rende incomprensibili le frasi è non tenere conto di questo fatto. Se piazzo il che vicino al nome sbagliato, il significato dell’intera frase cambia. Se scrivo per esempio il libro che è sul tavolo è verde a essere verde è la copertina del libro. Se scrivo le stesse parole ma in ordine diverso, cioè il libro è sul tavolo che è verde è la superficie del tavolo ad essere colorata di verde. Quando si scrivono periodi lunghi, è facile commettere errori. Nella nostra testa la frase è chiarissima, ma poi ci impicciamo a scriverla, e il che finisce accanto a qualcosa di diverso da quello che vorremmo. Il consiglio migliore che si può dare in questo caso è: lasciate perdere i periodi lunghi. Se non siete abituati a scrivere (ma alle volte, anche se lo siete) usate frasi brevi e separate dal punto. Meglio ripetere due volte la stessa parola che scrivere una frase incomprensibile. Non è detto che “chi sa scrivere” usi periodi lunghi. Grandi scrittori e giornalisti, come Hemingway o il nostro Enzo Biagi erano famosi per le loro frasi brevissime. Spesso anzi scrivere una frase breve denota maggiore bravura nella sintesi di chi sbrodola per pagine e pagine. Quindi se non siete certi che il pronome relativo si riferisca al termine giusto, spezzate la frase o spiegatevi usando una e: Il libro è sul tavolo ed è un libro verde. Meglio risultare un po’ meno eleganti ma chiari piuttosto che dare al vostro lettore una informazione sbagliata.
Quando la traccia fa rima con figuraccia. ll Miur ha messo una I di troppo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità. Una svista che avrà sollevato i maturandi: se anche all’esame avessero combinato disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale, scrive Mariangela Vaglio il 26 giugno 2017 su “L’Espresso”. Per carità, una svista capita a tutti. Ma quest’anno il Miur ha veramente battuto ogni record, scrivendo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità “TRACCIE”. Le scuse prontamente porte sul sito non hanno cancellato l’imbarazzo. Si tratta di un errore fastidioso, soprattutto per il “luogo” in cui è apparso, e per le circostanze, anche se forse i maturandi si saranno sentiti sollevati. Se anche all’esame combinassero disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale. Tracce, tuttavia, come frecce, al plurale non vuole nessuna i. In effetti però i plurali in -cie e -gie sono particolarmente rognosi da ricordare. In alcune parole italiane, che hanno una i dopo la c, come cielo e cieco, la i si mantiene anche se in realtà non viene più pronunciata da secoli. Per altre che terminano in ci e gi la i rimane solo al singolare ma al plurale scompare. La regola prevede che la i rimanga quando la ci e la gi sono precedute da una vocale, come in ciliegia>ciliegie e camicia>camicie. Il camice, senza la i, non è un plurale, ma un singolare, ed indica il grembiule bianco indossato da medici e farmacisti. Quando ci e gi sono precedute da una consonante, come appunto in traccia, freccia, bertuccia, arancia, treccia, torcia e spiaggia, al plurale la i sparisce. Anche le parole costruite con i suffissi -acce, -ucce fanno il plurale senza la i. Gli utenti che hanno letto lo svarione sul sito ministeriale, infatti, molto probabilmente si sono lasciati scappare parecchie parolacce. Ah, anche figuracce si scrive al plurale senza la i. I tecnici del Ministero sono pregati di segnarselo, semmai servisse in futuro…
ADDIO AL CONGIUNTIVO.
Il congiuntivo speriamo che se la cava, scrive Francesco Durante Martedì 13 Dicembre 2016 su "Il Mattino". Al professor Francesco Sabatini gli piace pensare che la lingua italiana non è una cosa immutabile, e che per difenderla non c’è bisogno di fare gli schizzinosi o di farsi pigliare da «psicodrammi» come la solita difesa del congiuntivo, oppure la lotta contro gli anacoluti, i pleonasmi, le frasi segmentate, contro i pronomi «lui» e «lei» usati anche come soggetti e contro lo «gli» polivalente, usato cioè anche per il plurale e il femminile. Ora io speriamo che lo psicodramma non c’è, anche se l’anacoluto ne parlano tutti male, e se è per questo anche il pleonasmo. Lui, però, gli sembra che non è un vero problema, questo. Dopotutto, è il parlato, la lingua viva degli italiani. Che, fin da quando è nata, la innovano di continuo, gli italiani, e giustamente gli pare che va bene così: l'importante è capirsi e comunicare. Io però, leggendo l'intervista che Sabatini gli ha concesso a Paolo Di Stefano del «Corriere della Sera», mi è venuto qualche dubbio. Leggevo e dicevo tra me e me che sì, tutto sommato il professore le sue ragioni ce le aveva; e del resto anch'io, senza essere mai stato presidente dell'Accademia della Crusca né aver mai scritto un libro come il suo, appena uscito, che si intitola «Lezione di italiano» (Mondadori), ero uno di quelli che queste cose le sosteneva da tempo. Sabatini tuttavia, se proprio devo dirla tutta, ho avuto l'impressione che stava esagerando un poco. Per cui ci ho pensato, e sono arrivato alla conclusione che io, per quanto mi riguarda, al congiuntivo non ci voglio rinunciare. Perché, vedete, non è che possiamo pensare che il congiuntivo è un'invenzione aristocratica che appartiene al passato e fa a cazzotti col presente. Non è che siccome in inglese, in francese e in spagnolo non lo si usa più anche noi italiani si deve fare altrettanto, anzi: proprio perché ce l'abbiamo ancora, credo che è giusto tenercelo stretto, e non dubitare che è un tratto distintivo della nostra identità culturale. Un po' come la prospettiva di Piero della Francesca o la ricetta della mozzarella di bufala, insomma: una di quelle cose che vale la pena di essere tutelata. Per cui adesso, dopo tutta questa sfilza di anacoluti e pleonasmi e altre amenità che ho voluto ficcarci dentro, forse è il caso che a questo articolo ci rimetto mano e almeno i congiuntivi li ripristino. (Comunque, meno male che Sabatini, alla fine dell'intervista, afferma che ci sono cose che perfino un «liberale» come lui non potrebbe mai ammettere nella nostra bella lingua: tra queste, il famigerato «piuttosto che» disgiuntivo al posto di «oppure», o certi spaventosi anglismi del cavolo, tipo «location» o peggio mi sento «endorsare». O, ancora, quello che a me mi piacerebbe chiamare «transitivo alla napoletana», per esempio: «lo telefono» o «la telefono». Anche se devo dire che se lo sento, un costrutto del genere, non mi fa veramente orrore: temo che, anzi, mi fa addirittura un pochino di tenerezza.)
Congiuntivo in calo, nessun dramma. La Crusca: la lingua è natura, si evolve. In libreria «Lezione di italiano» (Mondadori) del linguista e filologo Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca: «La lingua è natura. E si evolve», scrive Paolo Di Stefano l'11 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. «La lingua è dentro di te, tu sei tra le sue braccia». Le parole di Mario Luzi, poste in epigrafe, riassumono bene la prospettiva del nuovo libro di Francesco Sabatini Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso(Mondadori). Quale prospettiva? «La lingua verbale — dice Sabatini — entra in noi naturalmente dalla nascita e diventa lo strumento ineguagliabile per la nostra crescita culturale». Presidente onorario dell’Accademia della Crusca, linguista, filologo, lessicografo, autore, con Vittorio Coletti, di un fortunato Dizionario della lingua italiana, nel tono confidenziale più adatto a una materia che si intende porgere in modo piano attraverso dieci «dialoghi» e altrettanti «inviti», ma senza semplificazioni eccessive, Sabatini espone subito la tesi del libro rivolgendosi a un lettore vicino e curioso: «Sapevi che, quando avevi tre o quattro anni, il tuo cervello aveva già fatto silenziosamente l’“analisi grammaticale” e l’“analisi logica” (come poi si chiamano a scuola) dei discorsi captati dal tuo orecchio?». Sabatini sa come si comunica con i non addetti ai lavori, del resto ogni domenica, a «Unomattina», offre ai telespettatori un «pronto soccorso linguistico» che oltre a dare consigli grammaticali è anche una sorta di percorso storico-culturale. Cominciamo dalla fine (del libro) sgombrando il campo dal buon uso. Ci sono quattro psicodrammi del parlante italiano: «Casi che infiammano gli animi e che a molti tolgono il sonno», li definisce Sabatini. Quali sono? L’eterna questione del congiuntivo, difeso con appelli e impegnate campagne di salvaguardia. Ebbene, il presidente onorario della Crusca invita a una «minore schizzinosità». Nei costrutti indipendenti il congiuntivo resiste, per esempio nella frase: «Sapessi che dolore!». Nelle frasi cosiddette «completive» tende a essere sostituito dall’indicativo: «credevo che stesse» diventa spesso «credevo che stava», ma è un’alternanza presente sin dalle origini della lingua italiana (risale a Dante e anche più indietro). Idem in certe subordinate, tipo: «Se mi chiamavi, venivo ad aiutarti». È la tendenza del parlato: non facciamone un dramma. «In inglese, in spagnolo e in francese il congiuntivo non c’è più — ricorda Sabatini — diciamo che l’alternanza segna una differenza di stile non di correttezza, come per prima disse, sessant’anni fa, una filologa rigorosissima, Franca Ageno». Non c’è da fare drammi neanche sugli anacoluti (li usava già Manzoni), sui pleonasmi (idem), sulle frasi segmentate («A lui, gli piaceva»), sui pronomi quali lui e lei usati come soggetti (dal Duecento fino a Tomasi di Lampedusa sono ricorrenti), sul gli polivalente (inteso anche come plurale e femminile). La storia della lingua aiuta a capire perché certe abitudini, che a orecchio ci appaiono errate, errate non sono. Dunque, rilassiamoci, almeno nelle situazioni informali. «Bisogna rispettare la lingua ma evitando atteggiamenti aristocratici», avverte Sabatini. E se gli chiedi qual è l’italiano migliore con cui abbiamo a che fare oggi, risponde: «Quello degli scienziati, un italiano bello e pacato, come quello di Rubbia per esempio». La fotografia sociolinguistica dell’Italia non è proprio confortante. Sabatini individua tre strati: una fascia popolare (nella quale sono confluiti anche in maggioranza gli immigrati); un livello medio, fatto di professionisti nei più diversi campi, abbastanza sicuri nell’uso dell’italiano, ma spesso portati al tecnicismo fuori contesto; uno strato più alto e consapevole (coloro che occupano posizioni di autonomia: insegnanti, ricercatori, magistrati eccetera). Sono strati che si caratterizzano per il diverso grado di padronanza della lingua con un altrettanto diverso grado di responsabilità linguistica. Perché esiste anche una responsabilità linguistica: si pensi al peso degli insegnanti nell’avvicinarsi ai giovani ma anche alla responsabilità dei personaggi pubblici che parlano in tv e non solo, magari con il loro snobismo, il loro populismo linguistico (quando non è proprio volgarità) e la loro esibita esterofilia. Bisogna imparare a conoscere la lingua per usarla pienamente come fosse un organo del proprio corpo, perché, appunto: la lingua è dentro di te, come diceva Luzi. Il vero proposito di Sabatini non è tanto quello di soffermarsi sul vasto repertorio degli errori o dei dubbi grammaticali o lessicali, ma di rendere chiari due concetti-chiave: la naturalità e la storicità delle lingue. Si tratta dunque di capire come l’evoluzione biologica, che ci ha portati a essere homo sapiens, abbia predisposto nel cervello aree e funzioni che presiedono alla grammatica, quella grammatica che viene formandosi dentro di noi sin dalla nascita: perché la lingua è un sistema di simboli verbali elaborati nelle complicate reti neuronali del nostro cervello, che esegue lo sminuzzamento e la combinazione di unità foniche minime attraverso cui si producono infinite parole e frasi. Un meccanismo stupefacente. Per renderlo più chiaro, Sabatini propone una serie di esperimenti combinatori. Il lettore troverà molte informazioni sorprendenti: «Quella dell’acquisizione (“apprendimento in modo naturale”) della lingua è davvero una fase vulcanica per il nostro cervello, perché nei primi anni di vita (da 1 a 7, dicono gli studiosi) il bambino impara “una parola ogni ora” in cui è sveglio e ascolta il parlare degli adulti. Occorre però almeno un anno di simile assorbimento prima che si attivi anche il meccanismo della produzione delle parole, cioè che l’individuo cominci anche a parlare...». Deve entrare in gioco la particolare meccanica dell’apparato fonatorio e articolatorio, distribuito tra la laringe e le labbra, considerando anche l’azione di mantice svolta dai polmoni, sotto la spinta del diaframma. E qui si apre un nuovo capitolo. Che cosa avviene quando l’homo sapiens, nella sua evoluzione culturale lunga 100 mila anni, inventa la scrittura? «La scrittura — dice Sabatini — è un’invenzione recentissima, risale solo a 5.000 anni fa: ha prodotto uno sconvolgimento che è ancora in corso e che coinvolge il circuito sensoriale e cerebrale visivo, completamente diverso da quello usato per la lingua parlata». Anche la dimensione storica va allargata, secondo Sabatini: «Non possiamo ragionare nel ristretto ambito delle lingue romanze. Bisogna tener conto di come si è arrivati al latino, collettore di civiltà e di culture ridistribuite a tutto l’Occidente, anche quello germanico o slavo. Non si può dimenticare che attraverso il latino medievale l’inglese si è imbottito di parole di derivazione latina. Ebbene, nella scuola bisognerebbe introdurre una visione molto più ampia del latino, considerarne le origini e gli sviluppi». La prima parte del libro, per così dire teorica, precede la sezione delle letture (brani di vario tipo: oltre a Machiavelli, Montale, Ilvo Diamanti, c’è anche qualche pagina tratta da Odissee di Gian Antonio Stella, Rizzoli) che ai livelli più profondi — avverte l’autore — comportano la comprensione dei meccanismi grammaticali. Anche qui l’approccio si avvale di una visione più scientifica: la cosiddetta grammatica «valenziale», sulla base di collaborazioni con la neurologia, arriva a identificare nel verbo il nucleo generativo della costruzione della frase, implicando un nuovo metodo didattico che permette di svolgere in modo più coerente l’analisi logica e distinguendo varie tipologie di testi (rigidi, semirigidi, elastici). Il libro di Sabatini si conclude ironicamente. Una manciata di usi che il linguista, per quanto elastico e niente affatto purista, non vorrebbe mai vedere accolti nell’italiano? Eccoli: il «piuttosto che» disgiuntivo (invece di «oppure»), la formula transitiva «lo o la telefono», gli inqualificabili «endorsement» o «endorsare» per «appoggio» o «appoggiare», l’orribile «location», il terribile «mission». E la punteggiatura usata disastrosamente come è avvenuto in un decreto legislativo emanato dal Governo il 18 aprile scorso.
Scuola di vita. A cura di Carlotta De Leo. Io studentessa dico: giù le mani dal congiuntivo, scrive il 13 dicembre 2016 "Il Corriere della Sera". "Buongiorno, sono una ragazza di 14 anni e frequento la V ginnasio. Credo nell’importanza della cultura, dell’istruzione e quindi anche delle tradizioni. Per questo penso che valga la pena studiare la nostra lingua e le sue radici. Sono rimasta molto sorpresa, e anche un po’ indignata, nel leggere sulla prima pagina del Corriere di oggi che, anche l’Accademia della Crusca consideri poco importante l’utilizzo del congiuntivo. E quindi avalli un uso improprio della grammatica della lingua italiana. Soprattutto non ne comprendo la motivazione. Capisco che venga tollerato l’uso nel linguaggio parlato di alcune espressioni non costruite come la regola grammaticale e la tradizione vorrebbero. Però che l’Accademia delle Crusca, l’istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana possa approvarlo, lo trovo assurdo. Ciò significa andare verso un impoverimento culturale. La nostra lingua è caratterizzata, rispetto a quella anglosassone, dalla complessità e dalla ricchezza di espressioni che non meritano di essere appiattite. Da studentessa del classico, in un tempo in cui questo liceo viene tanto criticato e ci si domanda l’utilità del grande sacrificio che frequentarlo comporta, penso invece che le regole principali del buon parlare e scrivere vadano difese. Forse anche questi piccoli “cedimenti” contribuiscono alla decrescita del nostro Paese. Ludovica Caprotti. Milano".
Il congiuntivo è vivo e ha la pelle dura. Gli allarmi per la scomparsa del modo verbale si susseguono da settant’anni. Gli errori nel suo uso non mancano ma tutti gli indizi confermano che non corre rischi, scrive Giuseppe Antonelli il 13 dicembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. La quarta di copertina di uno degli ultimi libri di Paolo Villaggio, quello intitolato Mi dichi. Prontuario comico della lingua italiana, recitava così: «Il congiuntivo è una cagata pazzesca». Una frase rivelatrice, visto che il congiuntivo sostituisce qui l’originale riferimento alla Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn (nella celebre scena del film Il secondo tragico Fantozzi). Ovvero il congiuntivo come un vecchio classico ormai superato: un arcaico cimelio che la cultura snob e passatista cerca periodicamente di riesumare.
L’estrazione del lutto. Questo è il risultato di una morte annunciata per decenni. Fatto tutt’altro che isolato quando si parla di lingua: stando alla vox populi — anzi — potremmo tranquillamente dire che il congiuntivo è morto, il punto e virgola è morto e anche l’italiano non si sente tanto bene. È quell’atteggiamento irrazionale della psicologia collettiva che potremmo definire «estrazione del lutto». L’irresistibile tendenza a evocare di volta in volta — indipendentemente dalla realtà dei fatti — la morte di tempi, modi, segni d’interpunzione (quando non di interi generi letterari o della letteratura in sé). Anche se si tratta sempre di una morte apparente. Curioso, per contro, che lo stesso riflesso catastrofista non scatti quando davvero qualche istituto linguistico scompare all’orizzonte. Non c’è nessuno, ad esempio, che gridi alla tragedia per la scomparsa ormai irreversibile del trapassato remoto. Nessuno ne piange il trapasso proprio perché in questo caso si tratta a tutti gli effetti di un fossile grammaticale. Nessuno da tempo lo usa più: e allora, inutile piangere sul latte trapassato.
Morto, vivo o congiuntivo. Della presunta morte del punto e virgola, invece, si parla almeno da ottant’anni; di quella del congiuntivo da quasi settanta. «Come in tutti gli esami di concorso — si leggeva nel 1950, in un numero della rivista “Il Ponte” — si constata che la scuola non insegna più la lingua italiana, sì che si scrive sgrammaticato e senza sintassi (c’è tra l’altro nei giovani la morte del congiuntivo)». L’apocalittica profezia è stata condivisa anche da esimi linguisti. Rispondendo a un’inchiesta del 1962 sulla Lingua del Duemila, Giacomo Devoto prevedeva — tra le altre cose — l’imminente scomparsa del congiuntivo. Questa percezione allarmistica continua ininterrottamente fino ai giorni nostri. Una decina d’anni fa, una classe di una scuola media mantovana lanciò con grande successo il Sic («Salviamo il congiuntivo»): un’associazione nata per proteggere quel modo «dai nuovi barbari». Di recente, un cantautore professore — Davide Zilli — ha scritto una canzone che s’intitola Il congiuntivo se ne va («e mentre cambia la grammatica/ ci guarderanno come un vecchio trofeo»).
Mi facci finire. A differenza di quanto è accaduto in francese, in realtà, il congiuntivo in italiano continua a essere usato spesso e volentieri. Anche se non sempre in maniera impeccabile, come ci dice la cronaca politica delle ultime settimane. Dal fantozziano (giustappunto) «mi facci finire» di Alessandro Di Battista al «come vi sareste comportati voi se questi accadimenti avrebbero riguardato altri partiti» di Michela Di Biase fino al più recente «come se presentassi venti esposti contro Renzi, lo iscrivessero al registro degli indagati, poi verrei in questa piazza e urlerei Renzi è indagato» di Luigi Di Maio. Alla fine del 1997, un panettiere di nome Luigi — entusiasta sostenitore del neosenatore Antonio Di Pietro — dichiarava in un’intervista: «Finalmente il partito del popolo ha candidato un uomo del popolo. Uno che sbaglia i congiuntivi come noi». Di strage dei congiuntivi — stavolta per omissione — è stato accusato anche Massimo D’Alema (per frasi come «io ritengo che questa vicenda dimostra che lui è un prepotente») e, in epoca di prima Repubblica, Bettino Craxi («io penso che le nostre possibilità sono limitate»). Commentava Luciano Satta: «Il potere logora i congiuntivi di chi lo detiene». E pensare che nell’ottobre del 1947, in una seduta dell’Assemblea Costituente, uso e significato di un congiuntivo erano stati al centro di un serrato dibattito tra Giuseppe Dossetti, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. «Spero che il gruppo democristiano non pretenderà di farci cambiare la grammatica italiana col peso dei suoi 207 voti», tuonò a un certo punto il segretario comunista.
Abbondandis in abbondandum. Lo stesso Satta, peraltro, in un libro del 1994 intitolato Ma che modo. Usi e abusi del congiuntivo scriveva, a scanso di equivoci: «L’ho detto e ridetto che il congiuntivo è prospero». Un giudizio confermato, dati alla mano, da tutti gli studi successivi basati su diversi insiemi di testi: dai fumetti alle canzoni, dai giornali ai romanzi. Il principale cambiamento rispetto al passato, ci spiegano questi studi, sta nel peso dei fattori che determinano la scelta tra indicativo e congiuntivo. Delle tre funzioni che il congiuntivo ha sempre avuto nella storia dell’italiano (segnalare una frase subordinata, distinguere tra certezza e probabilità, innalzare il livello stilistico) quella che prevale largamente negli ultimi anni è la terza: la funzione stilistica. Il congiuntivo viene percepito come un modo più accurato, fine, elegante. Questo spiega come mai i linguisti si trovino a segnalare sempre più spesso — nelle correzioni fatte dai redattori delle case editrici, ma anche nei discorsi che si sentono per strada o in tv — congiuntivi usati là dove la norma richiederebbe un semplice indicativo. In molti, spinti dall’idea di fare bella figura, cadono in quell’errore che in linguistica si chiama «ipercorrettismo». Come Carlo Sibilia, che in un post di qualche tempo fa su Facebook scriveva: «Meno male che Renzi sia stato fischiato durante il dibattito con il presidente dell’Anpi... Credo che se il Tg1 non abbia detto neanche una parola su quanto è accaduto vuol dire che siamo oltre il regime». O oltre la grammatica. «Abbondandis in abbondandum», come diceva Totò nel dettare a Peppino la famosa lettera per la malafemmina: se no poi «dicono che siamo provinciali, siamo tirati».
Tutti i segreti del congiuntivo inglese (che esiste). Una forma quasi irriconoscibile, ormai presente solo in forme cristallizzate o nel periodo ipotetico. E utilizzata solo in contesti molto formali, scrive LinkPop il 15 Ottobre 2016 su “L’Inkiesta”. Come vi avranno insegnato a scuola, in inglese il congiuntivo non esiste. E come tante altre cose che vi hanno insegnato, anche questa è del tutto sbagliata. Il congiuntivo, il subjunctive, esiste eccome. Lo si usa in varie occasioni (molto rare a dire il vero), dal periodo ipotetico alle esortazioni. Spesso non lo si distingue perché è identico all’indicativo, e per questo si tende (si è teso) a credere che fosse un modo esaurito. La sua forma più semplice è uguale all’infinito, ma senza il to. Come si premurano a far sapere dalle parti di Merriam-Webster con questo video, il congiuntivo si riferisce a cose “contrarie ai fatti” (un modo molto anglosassone per definirle). Esprime dubbi e desideri. E per questo motivo lo si ritrova nel periodo ipotetico quando esprime premesse che non sono realtà. “Se fossi in te, andrei alla festa”. If I were you, I would go to the party. La premessa “Se fossi in te”, cioè If I were you, esprime una non-realtà, una cosa non vera. Non sono te, non lo sarò mai. Per questo non serve l’indicativo, che è il modo dei “fatti”, ma il congiuntivo, che esprime cose “contrarie ai fatti”.
In altri contesti, il congiuntivo non si individua con facilità. Un’eccezione sono le frasi cristallizzate come So be it, o Be it that it may. Be è la forma del congiuntivo (che, si ricorda, coincide con l’infinito ma senza il to) e lo si vede subito. Più arduo invece trovarlo in una frase come It is important that you try to study often: try è congiuntivo o indicativo? Chissà. Solo alla terza persona diventa più chiaro: It is important that he try to study often. Come si vede, è try anziché tries. Non si è di fronte all’errore di qualche sbadato ma alla voluta intenzione di dare alla frase un senso di urgenza e di importanza.
Lo si può trovare dopo verbi come:
to advise (that)
to ask (that)
to command (that)
to demand (that)
to desire (that)
to insist (that)
to propose (that)
to recommend (that)
to request (that)
to suggest (that)
to urge (that)
o espressioni come:
It is best (that)
It is crucial (that)
It is desirable (that)
It is essential (that)
It is imperative (that)
It is important (that)
It is recommended (that)
It is urgent (that)
It is vital (that)
It is a good idea (that)
It is a bad idea (that)
POPULISMO. KITSCH, TRASH E CATTIVO GUSTO.
Kitsch Kitsch Kitsch, hurrah! Tutti ne parlano, nessuno sa bene cos’è. Per definirlo sono state usate diverse categorie. Spesso però non si trova nell’opera ma nello sguardo dello spettatore. Che la trasforma in un feticcio. Come accade con la Gioconda, scrive il 19 settembre 2014 Umberto Eco su "L’Espresso". Del Kitsch tutti parlano ma nessuno sa bene che cos’è, e non per colpa di chi non sa, ma delle infinite analisi e definizioni che sono state date di questo concetto. Leggo ora il bel libro di Andrea Mecacci “Il Kitsch” (Il Mulino, euro 12,50), che consiglio a persone colte, a studenti e (senza offendere nessuno) a molti studiosi. L’autore, esaminando tutta la vasta letteratura in argomento, ci aiuta a capire le vicende del Kitsch, spaziando dal cattivo gusto alla pseudo arte, al camp, a varie forme di post-moderno e al trash. Mi ero occupato di Kitsch agli inizi degli anni Sessanta, in quel mio “Apocalittici e Integrati” di cui alcuni stanno benevolmente celebrando il cinquantenario, ma questo libro mi fa nascere molte nuove idee. Direi che è facile definire Kitsch il gusto degli altri, i nanetti da giardino, i romanzi sentimentali, i castelli di Luigi di Baviera, tutto il gusto del passato, e via dicendo. Ma non credo si debba essere razzisti o esteti. Perché negare a qualcuno il piacere di contemplare Gongolo ed Eolo tra le dalie, o le cose che piacevano tanto a Madame Bovary, «dame perseguitate precipitanti in deliquio in padiglioni solitari… tumulti del cuore, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, barchette al chiaro di luna»? E perché negare a molti di prediligere immagini che suscitano sensazioni sentimentali come le foto dei bambini o i cuccioli in porcellana, anche se Kundera ci ricordava che è naturale pensare come siano belli i bambini che corrono sul prato ma è Kitsch lacrimare pensando «Come è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato»? Uno dei problemi del Kitsch è che è difficile definire un oggetto che sia Kitsch in sé, e si pensi al modo per cui gli oggetti del salotto di nonna Speranza fossero commoventi per Gozzano, Kitsch per i suoi primi lettori, e non lo siano più per il gusto “retro”, “vintage”, o “camp”. Rimarrei fedele a una mia vecchia nozione di Kitsch nell’oggetto per quello che definivo (e Mecacci consente) il boldinismo nell’arte. Boldini dipingeva ricche signore, pagato da loro e dai loro mariti, e le faceva capaci di stimolare effetti non solo sentimentali ma sicuramente carnali, rendendole sensuali e desiderabili, almeno dalla testa alla vita. Sotto la vita era invece uno sfarfallare di pennellate che evocavano la pittura impressionista (e che bravo informale sarebbe stato Boldini…). Così Boldini contrabbandava un quasi-porno con una citazione artistica, un poco come più tardi “Playboy” avrebbe reso accettabili i suoi onestissimi nudi accompagnandoli a testi di autori celebri, che automaticamente diventavano supporti Kitsch. E, sempre parlando di Kitsch nell’oggetto, citerei non gli onesti romanzi o film porno (che vendono esattamente quel che promettono, senza pretendere di fornire emozioni estetiche) ma certamente “Emmanuelle” e “Histoire d’O”. Però nella maggior parte dei casi il Kitsch consiste non nell’oggetto bensì nel nostro sguardo. Facciamo l’esempio principe. La Gioconda è certamente una grande opera d’arte e alcuni (dico solo alcuni) di coloro che vanno al Louvre vogliono ammirarla e goderla come tale. Ma la massa dei turisti, che la vede da molto lontano, e si accalca intorno al quadro in misura preoccupante, in effetti “vede” la Gioconda ma non la “guarda”, tenta forse di fotografarla (mentre potrebbe trovare ottime riproduzioni in Internet, dove si può seguire la pennellata), e calpestandosi l’un l’altro per dire “io l’ho vista”, trascura gli altri immensi capolavori della stessa sala e delle sale accanto. E in tal modo la Gioconda, non per sua colpa, diventa feticcio Kitsch. Del pari è accaduto alla Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, grande quadro, trattato con rispetto dal film che ne racconta la storia, anche se ne dà inizio involontario alla feticizzazione. L’infelice fanciulla, una volta esposta a Bologna, ha attirato delle folle che (solo in gran parte, per fortuna) volevano semplicemente accostarsi al feticcio.
Tra kitsch e trash: il cattivo gusto è l'altra faccia del populismo. In politica e nello spettacolo spopola il cosiddetto “cattivo gusto”, che sembra strettamente connesso con l’avvento dei populismi, e non solo. E che oggi, complici social e nuovi media, sembra l’unica estetica in grado di funzionare a livello globale, scrive Marco Belpoliti il 15 dicembre 2016 su "L'Espresso". Donald trump è kitsch oppure trash? La casa dove vive, la Trump Tower, con i suoi arredi, i mobili, la camera da letto, i ninnoli del salotto, i sanitari, è kitsch o trash? E come sono i suoi vestiti, gli abiti della moglie e del figlio, la tinta dei capelli? E Beppe Grillo come lo si può definire dal punto di vista estetico: kitsch o trash? E il video del giapponese Pikotaro che, a tre anni dal precedente di “Gangnam Style”, sta collezionando milioni di visualizzazioni in tutto il mondo? Trash o pop-kitsch? Che rapporto c’è tra Pikotaro e Trump? Politica e spettacolo uniti nel trash? Per rispondere a questa domande bisognerebbe spiegare in cosa consistono categorie che riguardano il cosiddetto “cattivo gusto”, il quale sembra strettamente connesso con l’avvento dei populismi, e non solo. E che oggi, complici social e nuovi media, sembra l’unica estetica in grado di funzionare a livello globale. Se Hermann Broch, lo scrittore e filosofo austriaco sfuggito al nazismo, spiegava ai suoi attenti studenti di una università americana che l’essenza del kitsch consisteva nello scambio tra una categoria etica e una estetica, oggi si potrebbe davvero dire lo stesso? E che ne è del “camp”, che Tommaso Labranca nel fondamentale “Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash” (Castelvecchi) uscito nel 1994, cartografia della nascente epoca berlusconiana, aveva descritto insieme al kitsch e al trash? Marx sosteneva che nella storia gli eventi si ripetono: la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma forse non è proprio così. Siamo immersi in una farsa, che può evolvere in tragedia, e in tutto questo il gusto sembra avere un ruolo importante, o almeno fungere da indicatore e sintomo. Secondo alcuni la parola kitsch deriverebbe dall’inglese sketch, “schizzo”, ovvero dalla consuetudine che avevano nell’Ottocento i turisti inglesi di comprare quadri e riproduzioni a poco prezzo nei mercatini; per altri invece verrebbe dal verbo tedesco kitschen: “raccogliere fango per strada”, o anche “spacciare mobili nuovi per antichi”, secondo una espressione usata nella Germania meridionale. Un novero di definizioni davvero inconsuete, che ci spingono a chiederci se il kitsch in definitiva sia sempre esistito o se invece sia solo il prodotto della modernità. Le varie minoranze che continuano a credersi privilegiate, anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia. E non si sono rese conto che il trumpismo estetico è già qui, vincente, anche da noi. Nerone che suona la cetra contemplando l’incendio di Roma cosa è? Kitsch? Possibile. Di sicuro lo sviluppo industriale nel corso dell’Ottocento e del Novecento ha trasformato questo fenomeno di nicchia in una esperienza di massa. Abrahm Moles negli anni Settanta ha scritto che tre sono i fenomeni che producono il kitsch alla fine del XIX secolo: la predominanza degli oggetti, il culto della bellezza e il consumismo. Una miscela che fa deflagrare le categorie estetiche tradizionali. Milan Kundera nell’“Insostenibile leggerezza dell’essere” sostiene che questo kitsch è ciò che permette di eliminare dal campo visivo degli uomini tutto ciò che è intollerabile, inaccettabile. Il kitsch non sarebbe altro che la negazione della merda. Lo scrittore ceco parla della «dittatura del cuore» ed espone la teoria della «seconda lacrima»: il sentimento del sentimento che provoca commozione. Una falsa liberazione dagli impicci della vita quotidiana trasferita sul piano del gusto. Nella seconda metà del Novecento il kitsch si è trasformato nella «grammatica culturale del ceto medio», sostiene Andrea Mecacci in “Il kitsch” (il Mulino). È quello che Dwinght McDonald ha chiamato “midcult”, oggi dominante anche in letteratura, per cui, scriveva negli anni Sessanta McDonald, “Il vecchio e il mare” di Hemingway è decisamente kitsch. Umberto Eco e Gillo Dorfles sono stati tra i più acuti studiosi del fenomeno; il primo si è occupato della cultura di massa in “Apocalittici e integrati” (Bompiani), uscito oltre cinquant’anni fa, mentre Dorfles ha pubblicato nel 1968 un libro fondamentale: l’antologia commentata “Il kitsch. Antologia del cattivo gusto” (Mazzotta). Il “cattivo gusto” è diventato un linguaggio estetico autonomo da cui non si può più prescindere. Alla fine degli anni Sessanta, agli albori del postmoderno, perde la sua forma tradizionale, s’ibrida e si trasforma in pop-kitsch. La falsificazione, scrive Mecacci, diviene l’autenticità, il simulacro è l’archetipo e la copia il modello. Non è quello dei castelli di Ludwig in Baviera, e neppure i ristoranti e le stazioni di servizio di Los Angeles o gli alberghi di Las Vegas, o ancora Disneyland. Tutto può essere kitsch. In questo modo diventa un modello culturale. Sorge allora il “neo-kitsch”, come lo definisce Dorfles. All’inizio degli anni Ottanta assurge poi a vero e proprio “metodo di lavoro”; il designer Alessandro Mendini lo chiama “progetto amorale”. Uscito dal limbo piccolo-borghese, dalla definizione limitante di “cattivo gusto”, s’impone attraverso il movimento Memphis di Ettore Sottsass come lo stile estetico del decennio. Lo stesso design Made in Italy dei due decenni precedenti, razionalista e calvinista, evolve verso questa modalità estetica che s’autorizza da sola. La formula la dà Robert Venturi, l’architetto di “Imparare da Las Vegas” (Quodlibet) del 1972: «Il meno è noia». Appare allora il trash che a metà dei Novanta Labranca definisce in modo icastico attraverso esempi tratti dalla televisione e dallo spettacolo. Il diritto alla volgarità diventa nell’epoca berlusconiana un fatto assodato. La neo-televisione ne è il maggior diffusore mediatico. Anticipati dalla celebre battuta di Fantozzi («Per me... La corazzata Potiomkin… è una cagata pazzesca»), gli anni Novanta sono definiti da questa estetica che funge anche da categoria antropologica. A mettere in circolazione il termine è stato Warhol con il film da lui prodotto, “Trash”, girato da Paul Morrissey e interpretato da Joe Dalessandro: nel 1970. Mecacci ricorda anche l’altra straordinaria pellicola del decennio, “Pinks Flamingos” (1972) di John Waters, che però già inclina verso il camp. Labranca ha sintetizzato nel suo volume le cinque caratteristiche del trash: assoluta libertà del proprio gusto, contaminazione, incongruità, massimalismo, ed emulazione fallita. La nuova estetica se ne frega della cultura alta; non si misura più con lei, e usa la categoria della parodia per inglobare l’intero universo culturale tradizionale stravolgendolo. Il trash si sostanzia nell’appariscenza, nel gusto trasversale, nel “dire le cose in faccia”. In questo senso Trump è senza dubbio trash, anche se il gusto estetico che ostenta è piuttosto kitsch. Il trash è senza dubbio contagiato dal kitsch, che sembra possedere una forza estetica e pervasiva superiore. E il camp? Risultato del dandismo ottocentesco, che ha avuto in Oscar Wilde il suo profeta, il camp esprime ungusto che ha pervaso molti aspetti dell’estetica contemporanea. La parola ha un’origine altrettanto incerta. Probabilmente viene dall’italiano “campeggiare”, termine usato per descrivere un attore che esagera sulla scena, che ha un rapporto privilegiato con il pubblico; oppure dal francese “se camper”, termine anche questo teatrale: vanità, eccesso nel presentare se stessi. Il camp appartiene in origine alla cultura gay, come ha spiegato nel 1964 Susan Sontag in “Note sul camp”: «Esprime una sensibilità, che ha la sua forma nell’eccesso, nell’innaturale, nell’artificiale». Si tratta di una forma d’estetismo, si pensi ai film di Almodóvar, che non punta sulla bellezza o il cattivo gusto, come il kitsch, bensì sull’artificio e la stilizzazione. Alberto Arbasino con “La bella di Lodi” ha scritto il romanzo del camp all’italiana e nel contempo ne è stato l’ironico fustigatore: camp al camp.Come spiega Fabio Cleto in “Pop Camp” (Riga, Marcos y Marcos), mentre il kitsch presuppone la negatività dell’oggetto, il camp fa collassare la relazione tra soggetto e oggetto. Trump e Grillo non potrebbero mai essere camp, non solo per evidenti forme di machismo, ma perché il kitsch che praticano contempla sempre un’idea di bellezza, da cui si discosta, rovescia, trasforma, ma alla fine comunque accetta. Il trash ne prescinde, e forse per questo è delle tre realtà estetiche la più fluttuante, la più incerta. Ma cosa è diventato oggi il kitsch? Nel 2012 in una mostra allestita alla Triennale (“Kitsch: oggi il kitsch”, Editrice Compositori), Dorfles ha cercato di delineare in cosa consista oggi questa estetica. In un saggio di quel catalogo Fulvio Carmagnola sostiene che a dominare è oggi la performance, il passaggio dalla “contraffazione” alla “coazione”. I grandi sistemi mediali costringono i fruitori contemporanei nella camicia di forza dell’Arte: tutto è estetico e tutto è contemporaneamente kitsch. A dominare negli ultimi vent’anni è il godimento, una categoria che Immanuel Kant aveva escluso dal piacere estetico, ma che è diventata la forma pervasiva della attuale addiction. Non si desidera più una “cosa”, oggetto o gadget. Fondamentale è il “come” desiderare. Il filosofo Slavoj Žižek sostiene che importa oggi «come godere»; è l’obbligo contemporaneo a godere che ha avuto in Berlusconi uno dei suoi principali aedi. L’oggetto in senso materiale, sostiene Dorfles, non è più il centro del kitsch attuale. Nell’epoca dei social network nell’area del kitsch, come del trash, fratello minore, entrano tutta una serie di performance sentimentali: la sincerità e l’autenticità diventano valori cui conformarsi. La contraffazione si trasforma, scrive Carmagnola, in coazione. Il sentimento evolve in “sentimentalità”, nel sentimento di secondo grado, e il campo estetico è divenuto immateriale, centro propulsivo del sistema produttivo attuale. Senza il kitsch nessuno sviluppo possibile? Ora che Trump è arrivato alla Casa Bianca c’è da rifletterci.
Donald Trump, Melania e quell'estetica che trionfa anche da noi. Le varie minoranze che continuano a credersi privilegiate, anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia. E non si sono rese conto che il trumpismo estetico è già qui, vincente, anche da noi, scrive Natalia Aspesi il 23 novembre 2016 su “L’Espresso". Meno male che il trumpismo estetico e di pensiero già da anni trionfa anche da noi, per quanto inascoltato o ridicolizzato da menti eleganti; figuriamoci adesso. Quindi il trauma che per qualche giorno ha sconvolto il popolo di retaggio democratico, è stato subito sotterrato dal giubilo di chi senza saperlo, dal profondo di una Padania alla riscossa e ora estesa sino alla Sicilia, aveva preceduto le ideologie trumpiste, confermate poco tempo fa da un selfie con un festoso maschio populista milanese di 43 anni e un imbambolato razzista (e adesso presidente designato Usa) miliardario newyorchese di 70 anni. Del resto anche i superstiti di una pericolante ideologia democratica, un paio di giorni dopo i singhiozzi, pur continuando i commentatori più accreditati a sviscerare il fenomeno trumpismo senza badare al totale disinteresse dei trumpisti, hanno subito ripreso ad aggredirsi in puro stile trumpista per il meno epocale degli eventi, quello del Sì o del No, essendo il mondo italiano irrimediabilmente autoreferenziale, e per assurda presunzione, piccolo, sordo e cieco. Abbandonando quindi al fato, ai giovani americani bianchi e neri che adesso, ma non prima, protestano, e agli umoristi, (vedi l’irresistibile hashtag “trumpyourcat” con poveri micini lordati dal celebre ciuffo trumpiano, horror che ha certo contribuito alla sua popolarità), a spicciarsela con un impensabile presidente praticamente del mondo, di cui è piaciuto non solo il programma mortuario soprattutto a chi ne morirà, ma anche il volto tinto di arancione e l’avere avuto, lui così poco fascinoso (a parte i soldi), tre mogli ex bellissime, tutte rifatte, con certe bocche uguali al divano rosso disegnato da Dalí. Del resto è un’ovvietà ricordare che da decenni migliaia di belle italiane non rassegnate, cinquantenni e molto oltre, persino le dalemiane, accompagnano alle bocche artificiali non particolarmente trumpettiane lo sguardo immobile della disperazione. Emozione che manca, assieme a tutte le altre, alla nuova first lady Melania e alle tante Trump, ex mogli, e figlie e nuore, tutte uguali, contentissime di essere quello che sono, comunque belle secondo il canone showgirl, anche da noi il più apprezzato, e soprattutto ricchissime. Qui nasce anche per l’Italia il grande problema del mondo fashion, che per la prima volta ha in parte infranto l’usuale silenzio in politica, e ha preso una cantonata, con qualche grande stilista o industriale del ramo che si è dichiarato prima pro Hillary Clinton, e poi pure dispiaciuto per la sua sconfitta: e la potentissima direttrice di Vogue America, l’eternamente bella e sfingea Anna Wintour, che non solo ha messo in copertina del numero di ottobre una nera, l’attrice Lupita, ma in quella di novembre addirittura Michelle Obama, già apparsa in passato su altre due copertine della rivista di moda e mondanità più venerata al mondo; in più, raccogliendo personalmente fondi per la campagna dell’aspirante presidentessa democratica. "Quelle parole, per me, erano offensive e inopportune. Ma mi ha chiesto scusa e l'ho perdonato". Così Melania Trump, moglie del magnate candidato alla Casa Bianca, ha cercato di porre la parola fine alle polemiche che hanno investito il marito dopo la diffusione di un video sessista. "Ero sorpresa", ha aggiunto, "perchè questo non è l'uomo che conosco". Chi si aspettava, data la grossolanità del marito, che Melania si vestisse d’oro e gemme, è rimasto fregato: perché la Nuova Prima Signora è stata una modella, arrivata dalla Slovenia a Milano poi a New York, dove si è sistemata con quel facoltoso marito e le è rimasto un gusto alta moda oggi in vita soprattutto per la diffusione tra ricchi russi, kazaki e cinesi. E per esempio all’investitura a presidente del babbo del suo decenne figlio sbadigliante Barron, indossava un abito lungo bianco semplicissimo di Ralph Lauren, molto amato anche da noi, comprato in boutique senza il di solito indispensabile intervento dello stilista: il quale per tutta la campagna elettorale aveva abbigliato Hillary, incastrandola in tailleur da nonna briosa che hanno accentuato, punendola, la sua immagine establishment. Comunque la buona e indifferente Melania, truccata e pettinata come tutte le ultraquarantenni anche italiane aggrappate al loro freddo fascino come a una professione, si è già vestita anche Gucci, anche Fendi, insomma come le pare; e come le coetanee italiane che se lo possono permettere, ma che se democratiche, tolgono l’etichetta, assicurando di abbigliarsi solo a 50 euro al pezzo. Oltre ai tanti epocali Perché che gli esperti hanno scoperto dopo, e non prima della vittoria di Trump, ce ne sono anche alcuni fino ad ora trascurati perché terra-terra e quindi indecifrabili alle élite politico-culturali; eppure possibili anche da noi, dove alcuni similtrumpettisti raccolgono sempre più adepti, nello sconcerto dei più raffinati pensatori sempre in tivù o sul web, e mai, come ha scritto su Repubblica Paolo Rumiz, in tram. Le varie minoranze che si credevano e continuano a credersi privilegiate anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia: non solo nata dalla paura e dalla crisi economica e dalla rivoluzione tecnologica, ma anche dal formarsi di un nuovo sogno rivoluzionario, rappresentato anche per noi dal nuovo presidente americano. Infatti. Trump non paga le tasse come tutti vorrebbero poter fare; Trump non è solo ricco, ma esibisce la sua ricchezza più dello stesso nostro finto ricco Briatore; Trump non si vergogna di avere i rubinetti similoro nei bagni del suo enorme aereo privato; Trump ha a New York il più orribile immenso appartamento che incubo umano possa realizzare e che pure aleggia nel desiderante immaginario popolare, una finta Versailles ma tutta d’oro, marmo e cristalli e colonne corinzio-barocche, finti Renoir, finte poltrone Luigi XIV; fontane zampillanti nei tanti saloni, persino un pianoforte a coda bianco tipo Liberace. Trump risdogana (da noi già fatto) gli anziani boriosi che se ne stavano nascosti nei loro investimenti fruttuosi; libera la pancia senza la corazza del doppiopetto, le cravatte lucide lunghe oltre l’addome, il berretto da baseball a teatro; rende eroico chi non ha mai letto un libro, pugnala al cuore i vegani e i pazzi per il sushi, fa apparire squallide le collezioni sofisticate di arte concettuale, inutili gli autentici mobili Bauhaus. E già furoreggia il mercato del Fasto per tutti, a prezzi scontati: offerte da “Sogno”‚ o da “Favola” o di “Classe” o da “Mille e una Notte” e sempre Esclusive; ogni cosa Luxury, dallo “streetwear” all’“influencer strategy”. Abbiamo avuto la Milano da bere negli anni Ottanta, quando le uniche donne ammesse alle ovazioni erano le top model, super belle giganti mai viste prima e infatti velocemente accasate con miliardari o potenti di ogni genere; poi si sa che anche da noi mezza Italia ha più volte votato un riccone in età anche lui tinto di arancione e con drammi piliferi meno disinvolti: che però rispetto alla paura che suscita il tanto più robusto e minaccioso Donald, con quella piccola bocca che i nostri nonni avrebbero definito, pardon, “a culo di gallina”, oggi ci appare come un buon uomo di cui ci si dimenticherà presto, comprese le sue immense e brutte proprietà da vacanza in stile Palm Beach, anche se ci ha assuefatto alle leggi ad personam e al Grande Fratello. Però la ricchezza ostentata e quindi improvvisamente raggiunta, a differenza di quella solida, antica e incrollabile vissuta nell’ombra, l’abbiamo sempre presa in giro, e non solo quegli italiani che privi di elicottero privato e di isole personali nel Pacifico, si sentivano protetti e dalla parte giusta perché in possesso di tutto Stendhal e della lampada Arco di Castiglioni. Nel ’46 si rideva con l’Anna Magnani che faceva la ricca borsanerista in “Abbasso la ricchezza”, nel 2012, “Reality” di Garrone volutamente ci rattristò con il matrimonio camorrista e gli sposi in carrozza d’oro che era la pura verità, come si è visto poi con i funerali e i matrimoni Casamonica; con “La grande bellezza” Sorrentino stigmatizzò la Roma della ricchezza fatua e disperata, il settimanale Chi incantò o offese il suo vasto pubblico, con la fotografia di un Natale in casa Berlusconi, in cui giganteggiava una tavola grande come piazza San Pietro, ricoperta di una immensa tovaglia di broccato rosso e vasto vasellame tipo oro. Attualmente su Sky Atlantic Sorrentino per la serie “The young Pope” mostra lussuose feste in opulenti appartamenti romani, con ospiti imbruttiti, invecchiati, spaesati dalla ricchezza: in contrasto si pensa con l’invenzione di un Vaticano di gloriosa sobrietà carica di arte e di vuoti. Insomma con tutto lo spavento che dilaga nel mondo per la nuova America di Trump, probabilmente anche simulato in certi ambienti troppo eleganti per rallegrarsene in pubblico, e tutti i mea culpa di chi riteneva questo diluvio impossibile, e finalmente la scoperta sorprendente che esistono, come ha ricordato Ezio Mauro sull’Espresso , i “forgotten men” e pure le “forgotten women”, quelle che non hanno alcuna fiducia nel potere alle donne perché una volta lì non è detto che si occupino delle altre donne. Il 53% delle donne americane bianche ha votato per Trump: perché promette il cambiamento e non importa quale: la stessa bugia che scorre da noi.
I NOBEL D’ITALIA.
Nobel per la Letteratura, i premiati italiani. Nel giorno dell’assegnazione del Nobel per la Letteratura e della scomparsa di Dario Fo, che lo ricevette nel 1997, ripercorriamo la storia del prestigioso riconoscimento letterario attraverso gli autori italiani ai quali è stato conferito, scrive "Il Corriere della Sera" il 13 ottobre 2016.
1. Giosuè Carducci, 1906. «Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica». Con questa motivazione venne assegnato nel 1906il premio Nobel per la letteratura al poeta Giosuè Carducci, il primo autore italiano a vincere il riconoscimento letterario.
2. Grazie Deledda, 1926. Il 10 dicembre 1926 all’autrice italiana Grazia Deledda, famosa, tra le altre opere, per il romanzo Canne al vento (1913), venne conferito il premio Nobel per la letteratura. Questa la motivazione: «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».
3. Luigi Pirandello, 1934. Drammaturgo, scrittore e poeta, Luigi Pirandello fu insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1934 «per il suo audace e ingegnoso rilancio dell’arte drammaticae scenica». Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l’innovazione del racconto teatrale è considerato tra i maggiori drammaturghi del XX secolo.
4. Salvatore Quasimodo, 1959. Il poeta italiano Salvatore Quasimodo è stato uno degli esponenti di rilievo dell’ermetismo italiano. Si impegnò nella traduzione di liriche dell’età classica, soprattutto quelle greche, ma anche di opere teatrali di Molière e William Shakespeare. Vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1959. La motivazione: «Per la sua poetica liricità con cui ha saputo esprimere le tragiche esperienze umane dei nostri tempi».
5. Eugenio Montale, 1975. «Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni». Con questa motivazione fu assegnato il premio Nobel per la letteratura al poeta italiano Eugenio Montale nel 1975, autore di un importante corpus di opere, in particolare, nel 1925 di Ossi di seppia.
6. Dario Fo, 1997. L’ultimo autore italiano ad ver vinto il Nobel è stato Dario Fo, morto all’età di 90 anni giovedì 13 ottobre. Questa la motivazione dell’Accademia di Svezia: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Era il 1997.
Magari avrete sentito parlare di un certo Dario Fo, il Nobel per la Letteratura, il giornalista Mentana o l’esperto di Divina Commedia Roberto Benigni. Sono esempi di persone famose che non hanno ottenuto la laurea ma raggiunto lo stesso importanti traguardi.
Dario Fo - “Mistero Buffo” è il titolo della sua opera teatrale più famosa, ma anche un attributo che calza bene alla faccia comica, misteriosa e umoristica che ha portato questo saltimbanco moderno a celebrare l’Italia nel mondo grazie al premio Nobel per la Letteratura. All’università non avrà preso la laurea, certo, ma ha guadagnato un riconoscimento forse più gratificante.
Da Salò all'anarchia al Nobel: il grammelot la lingua della sua vita, scrive Angela Azzaro il 14 ottobre 2016 su "Il Dubbio". Ha inventato un idioma nuovo contro il potere e a favore degli ultimi protagonisti del teatro degli anni Sessanta, ha messo in scena le istanze di una generazione. Eclettico, per alcuni anche troppo. Il giorno in cui nel 1997 arriva la notizia che Dario Fo ha vinto il premio Nobel, le facce sono tutte un po' così. Come quelle di oggi davanti al riconoscimento dato a Bob Dylan. Un po' incredule, un po' sdegnate, un po' anche felici. Dario Fo per molti in Italia non era uno scrittore, un vero scrittore, era un attore, poco più di un giullare. Ma invece quel premio non solo era meritato, ma era perfetto per la sua attività di scrittore, di inventore di una lingua - il grammelot - che poi è stata anche la colonna sonora della sua vita variegata, ricca, spuria. Ma che cosa è il grammelot? Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Fo nasce a Sangiano il 24 marzo del 1926, ancora piccolo si trasferisce a Porto Valtravaglia: sono paesini della Lombardia, popolati da pescatori di frodo, da contrabbandieri, da girovaghi. E' da questi personaggi, dalla loro lingua mescolata con la commedia dell'arte, che Fo tira fuori una cosa mai sentita prima, una serie di fonemi inventati ma efficaci: è la nascita del suo stile, della sua poetica, del suo mondo artistico: dissacrante, irriverente, immaginifico. Ancora non è nato Mistero Buffo, ma negli anni 50 Fo è già lì che scalcia, che ci prova, che vuol entrare nel mondo di quel teatro che lo vedrà grande protagonista per tutto il 900. Non è un caso che fin da subito va in scena al Piccolo insieme a un altro grande della scena milanese, Franco Parenti. Sono i primi monologhi, recitati in radio, che prendono il nome di Poer Nano. Il vero incontro, che gli cambierà la vita, deve ancora avvenire. Nella compagnia delle Sorelle Nava, incontra Franca Rame, giovane, brava, bella. Si sposeranno nel 1954 e non si lasceranno fino alla fine. «Sogno sempre Franca - raccontava negli ultimi giorni prima di morire - Ma va sempre via». Lei lo aveva lasciato nel 2013. Negli anni 50, il periodo d'oro sta per iniziare. Ma prima è come se la coppia Fo-Rame debba avere il vero battesimo di fuoco: la censura da parte della Rai. Visti i successi, nel '62 gli viene offerta la conduzione del programma più famoso, il programma per eccellenza, Canzonissima. Alla Rai di Ettore Bernabei non vanno giù i monologhi dei due attori: troppo politici, troppo rivolti ai temi sociali. Provano a mettere bocca su quanto dicono e la coppia, dopo sette puntate, lascia la trasmissione tra le polemiche. Per quindici anni non metteranno più piede a Viale Mazzini, per 15 anni saranno tenuti lontani dal piccolo schermo. Ci torneranno nel 1977 con Il teatro di Dario Fo, ma ormai lui è una star a livello mondiale. La svolta vera è il '68. Il Pci e le case del popolo, che per anni diventano il suo palcoscenico, lasciano il posto alla rivolta, a un teatro che sfascia tutto e che appoggia la protesta o la denuncia come è il caso di Morte accidentale di un anarchico, dedicato al caso Pinelli. Seguono Pum, pum! chi è? la polizia! Oppure Il Fanfani rapito, dove rabbia e satira si mescolano. Si disegna il profilo di un Fo impegnato, dalla parte dei "compagni": insieme a Franca Rame crea il gruppo Nuova scena e il collettivo La Comune, ma è con Soccorso rosso che dà una mano concreta a coloro che hanno problemi con la giustizia come Sofri, Pietrostefani, Bompressi, accusati di aver ucciso Calabresi dal pentito Marino, che diventa anche oggetto di un'altra sferzante commedia. Sono gli anni più forti, sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista politico. Fo è Fo, rappresenta artisticamente una generazione, un modo di vedere il mondo. Un incanto che forse per lui ma anche per il pubblico, non si ripete più. Allora bianco e nero sono netti, è facile scegliere da che parte stare e Dario Fo ha dalla sua la forza di una mimica che sovverte tutto, come voleva fare quella generazione. L'incanto dopo finisce. I decenni successivi sono più complessi, anche politicamente. Dario Fo nel 2005 tenta di diventare sindaco di Milano, ma non ci riesce, pur essendo stato in precedenza consigliere comunale. Ormai la sinistra gli sta stretta, anche se lui fino alla fine continua a dichiararsi tale. La svolta arriva con il Popolo viola prima, poi con il Movimento Cinque stelle. Per molti è un tradimento. E' soprattutto in questa occasione che rispunta la polemica sul suo aver fatto parte, giovanissimo, della Repubblica di Salò. Fo tenta di negare, poi di minimizzare: «Lo ho fatto per coprire mio padre antifascista», disse una volta. Ma è un discorso che non affronta mai volentieri. Fino a quando non trova la nuova casa. Sui Cinque stelle dirà che gli ricordano le case del popolo, che sono il futuro. Diventa un loro nume tutelare. Grillo anche ieri lo ha omaggiato con parole di grande calore: «Resterai sempre con noi». Fo, negli ultimi anni, non ha perso occasione per appoggiare i suoi ragazzi, bacchettando quella sinistra di cui aveva fatto parte. Eppure, per chi ha amato la sua inventiva (qualcuno ha parlato visto l'eclettismo di un Leonardo dei nostri giorni) fa effetto pensarlo dedito a un movimento che sembra non amare la cultura e preferisce solleticare la pancia delle persone. Viene in mente il titolo di una sua commedia - che ricorda anche Fulvio Abbate: il padrone vince perché sa mille parole, l'operaio solo cento. Eppure negli ultimi anni, Fo sembra si sia adattato a chi fa leva sulle cento parole, che non si sforza di inventare una lingua nuova, un ragionamento nuovo. Per fortuna, lui lo ha fatto. E ci lascia le sue opere. La storia dei grandi artisti, non solo nel caso di Fo, ma sempre, va al di là delle piccole o grandi biografie politiche.
È morto Dario Fo. Si è spento a 90 anni. Da qualche giorno era ricoverato in ospedale. Drammaturgo, attore e regista: Nobel nel 1997, scrive Luca Romano, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". Si è spento Dario Fo. Drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore e scenografo. Premio Nobel per la letteratura nel 1997, Fo aveva 90 anni. Con la moglie Franca Rame, per oltre 50 anni, ha rivoluzionato il mondo artistico italiano. Era ricoverato da 12 giorni all’ospedale sacco di Milano. Da sempre affermava di aver vissuto una vita "esageratamente fortunata". Era figlio di un ferroviere e da un paesino del lago Maggiore ha mosso i primi passi nella sua carriera artistica. La sua vita è stata diversa, vissuta su tanti fronti. Prima le esperienza all'Accademia di Brera, poi la guerra e la divisa della Repubblica di Salò. E ancora: l'esperienza in radio con i testi radiofonici con Franco Paraenti e Dyrano al Piccolo di Milano con "Il dito nell'occhio". C'è spazio anche per il cinema con Lo sviato di Carlo Lizzani. Ma è l'incontro con Franca Rame a segnare la sua vita. Compagna per sempre. Colpo di fulmine e matrimonio in Sant'Ambrogio a Milano. Con lei prendono forma Gli Arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, La signora è da buttare. Poi il grande successo di Mistero Buffo nel ‘69, dove Fo riprende a modo suo la lezione dei fabulatori e dei cantastorie. Negli anni '70 un susseguirsi di satire pungenti, sulle quali Dario spandeva a piene mani il suo grammelot, folle assemblaggio di suoni di parlate diverse, nonsense linguistici. Una invenzione narrativa che, insieme con l’imponente corpus drammaturgico, quasi un centinaio di testi teatrali, gli valse nel 1997 il Nobel per la letteratura. Poi la morte della sua Franca nel maggio del 2013. Perde un po' la luce negli occhi. E dopo Franca va via anche l'amico Jannacci. Negli ultimi anni aveva abbracciato la causa grillina diventando amico di Casaleggio, recentemente scomparso. Ora se n'è andato anche lui a 90 anni nel giorno in cui (beffa del destino) verrà assegnato il Nobel per la letteratura 2016.
Addio Dario Fo: "Io, populista e me ne vanto". Il drammaturgo scompare a 90 anni. Riproponiamo qui il suo ultimo intervento per l'Espresso del 13 agosto 2016. In cui difendeva il suo percorso a fianco dei movimenti, contro il potere. C’era da aspettarselo, ma è successo anche questo: mi hanno dato del populista. È accaduto sulle pagine de “l’Espresso” di domenica 21 agosto 2016. L’autore dell’articolo dove tranquillamente mi si affibbia questo termine è Marco Belpoliti. Il mio detrattore insegna Sociologia della letteratura e Letteratura italiana all’Università di Bergamo. Il letterato impiega il termine “populista” nell’accezione negativa in voga da qualche anno in Italia, cioè quella di considerare il populismo una sorta di pretestuoso espediente per imbonire furbescamente una comunità di semplici creduloni facili ad essere gestiti con qualsiasi argomento. Ora mi sembra strano che un docente universitario si sia lasciato andare ad un uso così smaccato di una parola tanto palesemente mistificata. Ma che origine ha in verità questa espressione? Basta andare su una delle tante enciclopedie di prestigio per venire a sapere quanto segue: “populismo” indica un’ideologia caratteristica di movimento politico o artistico che vede nel popolo un modello etico e sociale e il rispetto di ogni individuo che faccia parte di una comunità civile. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere riconosciuto nella rivoluzione francese e ancor prima negli scritti di Jean-Jacques Rousseau. Quel suo primo testo ha inizio con un’aspra critica della civiltà come causa di tutti i mali e delle infelicità della vita di molti uomini, temi che saranno sviluppati dal “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini”. Nel suo libro “Il contratto sociale”, inoltre, Rousseau afferma che «qualunque legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla, non è una legge». Questo stesso tema ha costituito la base del pensiero di Gianroberto Casaleggio fondatore con Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle. Marco Belpoliti se la prende con me per lesa maestà di cosce ministeriali e, punitivo, parte alla ricerca dei miei peccati. Bontà sua riconosce la mia professionalità, ma aggiunge maliziosamente che ho avuto vita facile perché a differenza di altri grandi intellettuali non mi sono mai preso il rischio di agire in solitudine andando contro corrente e prendendo posizioni scomode. Beh, che un giornalista che, è evidente, si schiera come strenuo difensore di chi sta al governo e pone questioni sul coraggio degli altri fa come minimo tenerezza... Che io sappia stare dalla parte del governo di questi tempi non è una posizione molto audace... Comunque secondo Belpoliti me la sono presa comoda. Mentre Sciascia, Pasolini e Sartre hanno avuto il coraggio della solitudine io mi sarei sempre schierato andando sul sicuro, protetto da potenti movimenti di opposizione. Il Belpoliti nella sua concione tace naturalmente dei nostri esordi, miei e di Franca, di rapporti un po’ difficili con il potere, come nell’occasione vissuta da noi due intellettuali fuori regola nel nostro scontro con la Rai. Scontro che terminò con la cacciata per ben quindici anni da ogni programma radiofonico e televisivo per aver denunciato per la prima volta nella storia della Rai gli incidenti sul lavoro che producevano vittime come fosse una guerra. E sempre per la prima volta abbiamo parlato anche di mafia, il tutto nella trasmissione “Canzonissima” dopo sette puntate. Infatti è stato molto comodo per me e per Franca portare nelle case del popolo spettacoli critici con il Pci alla presenza degli stessi dirigenti e subire il conseguente ostracismo della parte più rigida del partito. Come finì era da aspettarcelo, fummo pregati di uscire dalle Case del popolo, poiché la nostra critica era deleteria all’unità del partito. Poi ci fu la stagione in cui la polizia decise di metterci ai polsi le manette e porci in arresto e in galera. E quindi i processi, le bombe a casa e in teatro, la nascita di Soccorso Rosso, l’assistenza ai compagni arrestati, la difesa dei diritti civili, il rapimento e le sevizie a Franca. Certamente facevamo parte di un grande movimento, ma non vedo come si possa affermare che questa partecipazione ci abbia garantito sonni tranquilli. Scrivere una cosa qualsiasi, pur di dare addosso, si può fare... Ma un minimo di aderenza ai fatti forse sarebbe dignitoso. L’autore del libello mette in scena ad un certo punto Jean-Paul Sartre, inserendolo fra gli intellettuali che operavano in solitudine. Si vede benissimo che Marco Belpoliti non ha mai incontrato di persona l’inventore dell’esistenzialismo. Io personalmente, al contrario, ho avuto con Franca questa fortuna. Siamo rimasti in contatto con lui per molto tempo, in quanto avevamo progetti di lavoro da realizzare insieme. La prima volta che ho avuto la fortuna di ascoltarlo fu alla Sorbonne dove teneva una lezione in un’enorme sala traboccante di giovani che bevevano letteralmente le sue parole. Il tema di quella lezione era l’impiego della situazione nel teatro popolare. Che significa “situazione”? è la chiave portante di ogni spettacolo della Commedia dell’arte, chiave strutturale che coinvolse Molière e perfino Shakespeare. Infatti di Giulietta e Romeo ognuno ricorda esattamente la chiave di volta di quel dramma: il fatto che fra i due giovani si cali una parete che dice «Voi non potrete amarvi poiché le vostre famiglie sono in lotta cruenta fra di loro». Ma contro ogni logica ecco i due che scavalcano quelle mura invalicabili e si amano rischiando ad ogni passo la morte. Ma dobbiamo ammettere che senza quel veto tragico il loro sarebbe stato un amore del tutto normale. È il contrasto dell’impossibile che crea la spettacolarità e la commozione e questo grazie alla situazione che a sua volta crea il paradosso, il dramma e il teatro popolare. Ma guarda quante volte la parola “popolo” esce nei discorsi sulla cultura! Quello del populismo è proprio un movimento infinito! Nel dibattito c’era chi prendendo la parola tentava di dimostrare che quella del popolo non fosse cultura, ma piuttosto un’imitazione dell’arte delle classi elevate. Volarono naturalmente, fra i presenti, espressioni piuttosto pesanti, l’una contro l’altra fazione e Sartre ad un certo punto chiese la parola, la ottenne ed esclamò: «Questa sì che è dialettica! Finalmente sento i conservatori indignati, ma privi di argomenti validi. Ecco perché mi piace dialogare con un pubblico eterogeneo e ricco di idee diverse come voi siete. La parola è davvero il mezzo più intelligente che abbia creato l’uomo». E c’è ancora chi chiama solitario l’agire di un intellettuale come Jean-Paul Sartre. E visto che l’articolista scrive di coraggio e di andare controcorrente, potrebbe misurarsi con un inventario degli intellettuali che hanno criticato con l’impeto distruttivo di una piuma, oppositori che non hanno mai perso un giorno in tv e sui giornali importanti, che non hanno mai rischiato neppure un buffetto.
Dario Fo, il conformista. Il Nobel è artista, attivista e provocatore. Come nel caso Boschi. Ma in coerenza con il suo passato: quello di un intellettuale che ha sempre voluto attorno un gruppo. Al contrario di Pasolini, scrive Marco Belpoliti il 23 agosto 2016 su "L'Espresso". Nella pagina di Wikipedia a lui dedicata Dario Fo è definito: “drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo e attivista italiano”. In questa sequenza sono comprese quasi tutte le varie facce dell’artista, cui la cultura italiana deve molto da tanti punti di vista. Non è solo per il Nobel assegnatogli nel 1997 che bisogna essere grati a Fo, per la sua attività di drammaturgo e scrittore, e anche per le altre innumerevoli cose che ha fatto nell’arco della sua lunga vita. A marzo l’autore-attore di “Mistero buffo” ha compiuto novant’anni. La sua ultima uscita è quella di mettere all’asta un suo quadro per finanziare il Movimento 5 Stelle. Si tratta di un dipinto che prende spunto dal discusso disegno che Riccardo Mannelli ha dedicato alla ministra Elena Boschi scosciata; l’opera pittorica di Fo verrà battuta alla manifestazione nazionale grillina a settembre a Palermo. Un dipinto non proprio bellissimo, dal tratto picassiano e dalla simbologia non molto chiara: la doppia figura rappresenta la modella e il pittore-satiro, o più probabilmente esprime la doppia identità della donna-ministra, ritratta mentre accavalla le gambe. Fo pittore non si discute, come quasi nulla della sua opera. Si tratta di un monumento nazionale, non solo della sinistra, ma dell’intero Paese, anche se obtorto collo. Alla fine in lui ci si identifica, con la sua identità complessa che l’ha portato da giovane soldato della fascistissima Repubblica di Salò alla militanza nell’estrema sinistra negli anni Settanta, dopo una lunga e importante attività di commediografo antiborghese, per poi ritrovarlo, dai suoi ottanta in poi, schierato a fianco del movimento di Beppe Grillo. Tra le definizioni che ne dà Wikipedia quella di “attivista politico” è davvero perfetta; marca, non solo quest’ultima stagione della sua presenza pubblica, ma anche l’intera sua attività. Possiamo considerare Dario Fo un militante politico? In una certa misura sì, poiché ha preso parte a manifestazioni, ha firmato appelli e soprattutto ha intessuto la sua opera di autore e commediografo di temi politici. Difficile pensare Fo senza questo aspetto; forse non è neppure giusto. Si tratta infatti di una vena che alimenta il suo lavoro artistico. Ma davanti a un intellettuale - perché Fo è anche questo - viene da chiedersi: che tipo d’intellettuale è? L’Italia, l’Europa in generale, ha avuto negli ultimi settant’anni una serie di esempi eccellenti d’intellettuali-scrittori, e d’intellettuali-artisti. Da Picasso che dipinge Guernica, a Jean Paul Sartre che scende in campo durante il Sessantotto a fianco d egli studenti, per non parlare di autori più vicini a noi come Sciascia con il suo “Contesto”, romanzo con cui trasforma in racconto il “compromesso storico” tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana, con L’affaire Moro e persino con la polemica contro i “professionisti dell’antimafia”; o ancora Pier Paolo Pasolini, che con i suoi “Scritti corsari” denuncia la mutazione antropologica degli italiani e dell’Italia intera, il Paese che diventa tutt’uno con il Nuovo Fascismo dei Consumi. Che differenza c’è tra questi intellettuali-scrittori e il commediografo-attore-pittore Dario Fo? La voce di Wikipedia ripercorre l’intera carriera dell’artista di Sangiano, da Soccorso Rosso al movimento di Grillo, non senza dimenticare il suo inizio come milite repubblichino, a lungo rimosso. Il suo attivismo politico appare sempre segnato da una caratteristica: il populismo. Anche quando sposa cause minoritarie, o presunte tali, quando sembra opporsi al Potere, c’è sempre nel suo stile d’attivista politico un medesimo aspetto: il popolo come riferimento più o meno ideale. Fo appartiene a una parte, che aspira a essere maggioranza. Pur nelle venature utopiche del suo lavoro, emerge la vocazione a essere compreso in un’entità sociale e politica più ampia. Senza la sponda dei movimenti dell’estrema sinistra, ieri, e dei 5 stelle, oggi, Fo non sarebbe l’attivista che scrive commedie, gira film o disegna ministre. Fa parte di un “gruppo”, e a questo si rivolge come se davvero si trattasse del popolo intero. «Cosa aspettate a batterci le mani / a metter le bandiere sul balcone», recita una sua famosa canzone-sigla del 1958, versi emblematici”. La differenza con gli intellettuali-artisti del passato sta tutta qui: Fo non è mai solo. Il dipinto messo all’asta, quasi una boutade, manifesta questa sua volontà d’appartenenza. Sartre che scende in strada con gli studenti e parteggia per i giovani maoisti francesi, o si reca in Germania per esprimere il suo dubbio circa il suicidio dei terroristi della Baader-Meinhof, è un uomo solo. Così Sciascia, con il suo orgoglio di siciliano controcorrente, per non parlare di Pasolini, uomo solo per antonomasia, controcorrente prima di tutto come omosessuale, che non s’identifica neppure con quella che poi verrà chiamata la causa gay: mai parte di un partito o una organizzazione, neppure del Pci a per cui pure dichiara di votare. Di lui si ricorda la firma data come direttore responsabile al giornale di “Lotta continua”, sostegno a quei giovani rivoluzionari contro cui scriveva sulle pagine de il “Corriere della sera” accusandoli di essere estremisti a causa della nevrosi prodotta dalla liberazione sessuale. Fo non è mai solo. I suoi gesti anticonformisti non l’hanno isolato e reso sgradito a tutti. Non ha mai consumato la sua provocazione in perfetta solitudine, com’è probabilmente richiesto agli intellettuali che non hanno né partito né bandiera, nessuna ideologia cui riferirsi, per essere contestatori, provocatori, semplici bastian contrari o anticonformisti. Tutte le vicende dell’ultimo decennio a partire dalle liste a suo nome presentate nelle elezioni di Milano, il sostegno a Grillo, le dichiarazioni e le azioni d’attivista politico raccontano la volontà di una lotta mai solitaria, mai individuale, mai davvero controcorrente. C’è poi un altro aspetto non secondario, legato al suo talento. In Fo prevale la convinzione che, novello Re Mida, tutto quello che tocca si trasformi in oro. Non è così. Il talento non è mai sufficiente a giustificare le prese di posizione dell’attivista politico. Sartre poteva aver torto, Pasolini pure. Questo è il rischio che corrono gli intellettuali. E che spesso pagano caramente. L’attivista Dario Fo è convinto del potere suo tocco magico, e questo si mescola, più o meno bene, con la sua opera, o almeno con quella che ha realizzato negli ultimi trent’anni. Talento e populismo sono, a ben vedere, le sue fonti d’aspirazione, così che gli accade a volte di confonderle tra loro. Un peccato veniale probabilmente. Come il quadro della Boschi che ci auguriamo trovi presto un acquirente tra i 5 stelle.
È morto Dario Fo, eterno giullare: "Se mi capitasse qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare". È scomparso, a 90 anni, 70 dei quali dedicati al teatro, il più importante e famoso artista italiano dei tempi moderni: "Con Franca abbiamo vissuto tre volte più degli altri", scrive Anna Bandettini il 13 ottobre 2016 su "La Repubblica". La notizia è arrivata in mattinata: Dario Fo è morto all'ospedale Sacco di Milano, dove era ricoverato da alcuni giorni per problemi respiratori. Aveva 90 anni. Personalità incontenibile, artista poliedrico, 'giullare' della cultura italiana - amava definirsi lui - Fo era stato attivo fino all'ultimo. Il 20 settembre scorso aveva presentato a Milano il suo ultimo libro, Darwin, dedicato al padre dell'evoluzionismo. In estate, nel Palazzo del Turismo a Cesenatico, il rifugio creativo di Fo e della moglie Franca Rame, aveva esposto dipinti, opere grafiche, bassorilievi, sculture e pupazzi creati dall'artista e accompagnati da testi collegati al suo ultimo libro Darwin. Negli ultimi tempi era diventato impaziente di fare, scrivere, parlare, dipingere. Si ubriacava di impegni, lavorava fino a stordirsi, come volesse bruciare il tempo. Dario Fo ha lasciato la vita con l'energia e la carica con cui l'ha vissuta. "Se mi dovesse capitare qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare", scherzava fino all'ultimo. Aveva 90 anni, a 71 era stato insignito del Premio Nobel, e 70 li aveva passati nel teatro che ha dominato da re, reinventando la satira, la comicità con oltre cento commedie, racconti, romanzi biografici, saggi, e da attore, scrittore, autore di canzoni, ma anche pittore, regista, scenografo, saggista, politico: un talento rinascimentale che ha fatto di Dario Fo il più grande e famoso artista italiano dei tempi moderni. "Con Franca abbiamo vissuto tre volte più degli altri", diceva ripercorrendo una vita straordinaria celebre in ogni parte del pianeta. Eppure tutto era partito da un luogo minuscolo, Sangiano, dove era nato il 24 marzo del 1926, "il paese delle meraviglie", diceva. Effettivamente, insieme a Primo Tronzano e Porto Valtravaglia, dove si era trasferito con la mamma Pina e il papà Felice, capostazione, è uno spicchio di Lombardia, tra il lago Maggiore e la Svizzera, alquanto particolare, dove la cultura popolare ha le forme del teatro. "Giravano contrabbandieri e pescatori, più o meno di frodo - ha raccontato Fo in Il paese dei mezaràt (Feltrinelli), l'autobiografia dei primi sette anni di vita -. Due mestieri per i quali occorre molta fantasia. È a loro che devo la mia vita dopo: riempivano la testa di noi ragazzi di storie, cronaca locale frammista a favole. Da grande ho rubato a man bassa". Anche il grammelot, la lingua inventata di Mistero buffo e altri suoi testi, che ha segnato la nostra storia culturale, viene da lì, dall'incrocio di dialetti locali, neologismi e lingue straniere. Un apprendistato che mette in pratica invadendo di racconti il Bar Giamaica, a Milano, quartiere Brera quando, studente dell'Accademia delle Belle Arti e del Politecnico, conosce i pittori Morlotti, Treccani, Crippa, Trevisani, Peverelli, Cavaliere, Emilio Tadini. Gli anni Cinquanta contano molto per Fo. Lasciata architettura ("prestare il fianco alle speculazioni edilizie non era per me"), nel '51 si propone all'attore Franco Parenti con piccoli monologhi surreali per la radio. Molti di quei pezzi, memori dei fabulatori di Porto Valtravaglia, entrano nel '52 nella raccolta Poer nano, successo radiofonico e l'anno dopo nella farsa Il dito nell'occhio, gran debutto teatrale nientemeno che al Piccolo di Milano sempre con Parenti e Giustino Durano, un testo che rompe le convenzioni della rivista e fa satira di costume. Intanto la sua formazione teatrale prosegue con qualche spettacolo di strada e nei varietà delle Sorelle Nava. Con loro recita anche Franca Rame, figlia di una famiglia di teatranti girovaghi, bellissima, bionda, alta. "Aveva fuori dal teatro le macchine di ricconi che l'aspettavano. Io non ero nessuno, ero uno spilungone tutto orecchie, intimidito dalla sua bellezza e dunque casto. Allora un giorno lei mi prese dalle spalle, mi mise contro un muro e mi baciò. Lì iniziò tutto". Si sposano nel '54, l'anno di Sani da legare, seconda commedia di Fo, sull'Italia dei conflitti politici, e insieme vanno a Roma, dove nel '55 nasce il figlio Jacopo, per tentare la strada del cinema: ma Lo svitato di Carlo Lizzani resterà l'unico suo film, più alcune sceneggiature, tra cui Rosso e nero, Souvenir d'Italie, Rascel fifì. È Franca a spingere per il ritorno al teatro e a Milano dove nel '60 nasce la compagnia Fo-Rame: dalle farse (Ladri, manichini e donne nude), Dario-autore passa alle commedie satiriche ispirate alla tradizione dei comici dell'Arte: Gli arcangeli non giocano a flipper (1959), Chi ruba un piede è fortunato in amore (1961), Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), tutte campioni di incassi, anche perchè il Dario-attore si rivela un talento. "In realtà ero un parvenu, senza diplomi. Franca è stata la mia maestra che mi ha tolto gli impacci, la convenzione, le paure". Inventa una maschera, quella dello svitato, del clown che sarà protagonista anche dei lavori successivi. È grazie a questi successi che la Rai 'democristiana' di Ettore Bernabei, nel '62 affida alla coppia di artisti Canzonissima, lo show del sabato sera abbinato alla lotteria che incolla l'Italia alla tv. Dario e Franca presentano sketch a sfondo sociale, sul malaffare e le morti bianche. I burocrati Rai reagiscono e chiedono il controllo dei testi prima della messa in onda. Dopo sette puntate Fo-Rame sbattono la porta. Il clamore è enorme, ma la Rai calerà su di loro la saracinesca per 15 anni, una censura inaudita. Ricompariranno in tv nel '77 con Il teatro di Dario Fo, registrazioni degli spettacoli ormai applauditi in tutto il mondo (nell'89, poi, Fo venne perfino chiamato nella produzione internazionale I promessi sposi nel ruolo dell'Azzeccagarbugli). Tornando a quel '62, la strada è segnata. Dario Fo e Franca Rame non abbandoneranno più il teatro e l'impegno politico. Nascono Settimo: ruba un po' meno (1964), La colpa è sempre del diavolo (1965); dallo studio dei canti popolari tradizionali, il disco Ci ragiono e canto del 1966, e nel '69 Ci ragiono e canto 2 con Ho visto un re, scritta con l'amico Enzo Jannacci. “In quegli anni Franca e io, capivamo che con le nostre commedie finivamo però per fare da alka seltzer ai borghesi, ridevano di loro stessi e si lavavano le coscienze. Decidemmo allora di andare fuori dai circuiti ufficiali, volevamo un altro pubblico. Era la fine degli anni Sessanta e c'era in giro una bell'aria di risveglio". Il '68 è l'addio ai teatri borghesi per le sale Arci e le case del popolo. Fonda il gruppo Nuova Scena, poi nel '70 il Collettivo La Comune, con cui nel '74 occupa la Palazzina Liberty a Milano che diventerà un centro della contro-informazione politica di quegli anni. La pietra miliare, artisticamente parlando, è Mistero Buffo, il cui primo abbozzo si vede nel '69 in un teatro di La Spezia, che avrà diverse stesure (Dario recitava, Franca trascriveva e correggeva), l'ultima nell'aprile 2016: monologo in grammelot, dove Fo rielabora come non si è mai visto prima, fantasticamente, antiche giullarate, testi popolari e vangeli apocrifi attirando le ire del Vaticano. È un successo planetario. Intanto la contestazione e la stagione delle stragi, lo convincono che il teatro deve essere specchio di quello che succede nel paese: Morte accidentale di un anarchico (1970), Non si paga, non si paga (1974), Pum, pum! chi è? la polizia! (1972), Il Fanfani rapito (1975) cambiano di sera in sera sulla cronaca. Fo rompe con il Pci, si avvicina alla sinistra exraparlamentare, con Franca fonda “Soccorso Rosso” per sostenere detenuti politici: Pietro Valpreda, poi gli ex di Lotta Continua, Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, accusati dell'omicidio Calabresi dal pentito Leonardo Marino, oggetto di satira nel '98 in Marino libero! Marino è innocente! Sono anni pieni. Di "casini, dolori, violenze, sgombri, bombe nei teatri, la casa incendiata, nessuno che voleva più affittarcene a Milano, 40 processi. Noi mandavano sempre il copione per il visto di censura, ma era la pantomima a farli arrabbiare. Capitava che mimando un personaggio io lo trasformassi in un Andreotti. In una tournée raccoglievo anche 260 denunce". Nel '73 l'arresto di Fo a Sassari per resistenza a pubblico ufficiale durante la replica di Guerra di popolo in Cile fa clamore, ma ancora di più il rapimento e lo stupro a Franca Rame per opera dei fascisti ma, come verrà fuori, con la connivenza di organi dello Stato. L'orribile violenza non li zittisce. Per Fo si aprono anche le porte della Scala che nel '78 produce tra mille polemiche il suo Histoire du soldat da Stravinskij, prima di una lunga serie di regie liriche. Piovono inviti dall'estero e ottiene la solidarietà perfino di Arthur Miller e Martin Scorsese quando nell'80 gli Usa gli negano il visto. La celebrità mondiale culmina nel '97 col Nobel per la Letteratura (già nel '75 era entrato nella lista), ma rinfocola vecchie diatribe sul suo passato di repubblichino di Salò. “Non l'ho mai negato – spiegherà -. Mi sono arruolato volontario per non destare sospetti sull'attività antifascista di mio padre”. Dopo il '95, quando un ictus rischia di renderlo cieco, Fo rallenta l'attività teatrale (ma pure realizza alcuni cult: Lu santo jullare Francesco nel 1999, Ubu rois, Ubu bas e L'Anomalo Bicefalo negli anni Duemila, sulle vicende giudiziarie di Berlusconi) per quella letteraria e pittorica (le biografie di artisti da Leonardo a Mantegna, romanzi come La figlia del Papa, Un uomo bruciato vivo, fino agli ultimi Razza di zingaro e Darwin), cui si intreccia l'impegno politico diretto, di consigliere comunale a Milano nel 2006 e negli ultimi tempi il sostegno ai 5 stelle. Il 29 maggio 2013 segna il "più grande dolore della mia vita. Franca Rame se n'è andata tra le mie braccia". Al funerale, stringerà il cuore di una folla immensa, urlando un disperato "Ciaooooo". Di Franca negli ultimi anni dirà che la sentiva, sentiva la sua presenza e il suo aiuto. E a chi gli chiedeva se questo era il segno di una sua conversione al soprannaturale, ironico e lucido rispondeva: "Io credo nella logica. Ma una volta di là, spero di essere sorpreso".
Morte Dario Fo, la reazione di Brunetta e Salvini. Il capogruppo azzurro Brunetta: "Con me Fo fu razzista". Il leader del Carroccio: "Per lui i leghisti erano ignoranti e razzisti", scrive Franco Grilli, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". "Quando muore una persona, ovviamente, cordoglio. Però, nessuna ipocrisia. Dario Fo non mi era mai piaciuto, l’ho considerato sempre un uomo violentemente di parte, un uomo che violentemente ha diviso il Paese". È l’attacco che arriva da Renato Brunetta, da Radio Anch’io su Radio Uno. "Ricordo a tutti - prosegue il capogruppo FI alla Camera - le polemiche che ci furono quando gli venne assegnato il Nobel. Nessuna ipocrisia, io non sono un ipocrita. Nei miei confronti si è espresso in maniera razzista, facendo riferimento - rammenta - alla mia altezza, per esempio. E questo lo dico con grande amarezza e con grande dolore". "Penso che un premio Nobel, un grande uomo come viene descritto non doveva far polemiche con avversari politici usando questi strumenti o questi schemi mentali. Io dico - conclude - pace all’anima sua, onore a Dario Fo che è morto, perchè sono diverso da lui e sono diverso dalla sua cultura". E sulla morte di Fo si è espresso anche Matteo Salvini con un post polemico su Facebook: "È morto Dario Fo, bravo artista, una preghiera. Per lui io e i leghisti eravamo razzisti, egoisti, ignoranti? Vabbè, acqua passata, non porto rancore, doppia preghiera".
Dario Fo insulta Salvini: "Sfrutta gli ignoranti". Lui: "Sei un poveretto". Botta e risposta tra il premio Nobel per la letteratura e il leader della Lega, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 19/11/2015, su "Il Giornale". Dario Fo insulta Salvini e i leghisti. Intervistato ieri da Radio Cusano Campusm il premio Nobel ha definito Salvini "un uomo dal cinismo assoluto, che non guarda in faccia niente e nessuno". "Fa impressione - aggiunge Fo - perché poi fa ben gioco tra i semplici, tra quelli senza cultura e senza conoscenza, che lo seguono sulla via della paura, dello spavento". Lo scrittore ha poi continuato: "Per Salvini l’importante è battere il tamburo del nemico, senza distinguere tra terroristi e disperati che non riescono più a vivere o addirittura a sopravvivere e che sono costretti a fuggire dalle proprie terre. Non ha nel suo modo di esprimersi e nel suo giudizio l’intelligenza del valutare i valori delle cose. E’ un personaggio che non riesco a tenere in considerazione neanche per dieci minuti". Poi ha aggiunto: "Salvini gioca malamente sul vuoto di conoscenza. Chi fa il politico dovrebbe avere una chiarezza morale e profonda e non giocare sul falso e sull’ipocrisia". "Questa è gente - conclude - che usa qualsiasi chiave per ubriacare e sconvolgere gente che non ha conoscenza. Tutti quelli che ora vogliono strumentalizzare quanto accaduto a Parigi giocano sull’ignoranza delle persone". La risposta del leader del Carroccio non si è fatta attendere. "Buona giornata Amici - ha scritto su Facebook - Dario Fo ha detto 'Salvini è un cinico e viene seguito da ignoranti'. Quindi, buona giornata a tutti noi ignoranti! Che poveretto...".
Dario Fo contro Benigni: "Si adatta in base a ciò che può ricavare". "Per Roberto Benigni ho avuto sempre un grosso affetto e stima, ma ultimamente si è messo in una condizione di non poterlo più seguire", scrive Mario Valenza, Giovedì 18/02/2016, su "Il Giornale". "Per Roberto Benigni ho avuto sempre un grosso affetto e stima, ma ultimamente si è messo in una condizione di non poterlo più seguire". A parlare è Dario Fo, nel corso della prima puntata della nuova edizione di Reputescion. "Lui dice e stradice concetti che poi brucia, contamina, ti mette in imbarazzo. Conoscendolo dall’origine è molto cambiato. Annulla quello che fatto per anni. Si adatta al meglio da ciò che può ricavare da un atteggiamento o una definizione politica o sociale”. E adesso dunque è guerra. Se prima i due erano alleati sulle stesse sponde ora a quanto pare non se le mandano a dire. L'intervento del Premio Nobel Dario Fo ospite della prima puntata della nuova edizione di Reputescion, il programma condotto da Andrea Scanzi in onda questa sera su La3 di fatto farà discutere. Benigni per il momento non ha risposto alle accuse di Fo. Ma di certo non si aspettava un colpo così basso...
«Bella ciao» e bandiere rosse per l'addio a Franca Rame, scrive Elena Gaiardoni, Venerdì 31/05/2013, su "Il Giornale". Ma le rose sono bianche. La bara è chiusa nel foyer del Piccolo Teatro; sul coperchio una fotografia di Franca Rame anche per ricordare che il marito, Dario Fo, la conobbe prima in foto e poi di persona; la corona di Giorgio Napolitano rosseggia di anturium rosa e rubino. Il drappo sulla bara è color sangue come la vita terrena, ma le rose sono bianche, come candidi sono i gelsomini e le calle adagiate ai piedi della bara, quasi come le tuniche lavate ancora dalle donne sul Santo Sepolcro. Un tempo riservata al funerale dei bambini quale emblema d'innocenza, oggi la rosa bianca appare sempre di più nei tributi a persone defunte non in giovane età. La morte ci rende tutti bambine e bambini? Dovrebbe. Solo un'immagine religiosa nella camera ardente, il gonfalone di Mediolanum, e poi i poster di Arlecchino, il servo che cucì il suo costume con pezze di tutti i colori, perché il coraggio femminile deve essere pieno di sfumature come un arcobaleno per arrivare a raggiungere un solo diritto per le donne: il diritto d'essere bianche come rose. Per ottenere dieci, una donna deve chiedere mille, sosteneva Virginia Woolf; Franca Rame è appartenuta al tempo in cui se una voce femminile non gridava fino al rossore non era ascoltata. Dopo aver gridato, ora anche lei sta in silenzio, riposa, perché la morte emette un unico suono per tutti. E' lei la grande eguagliatrice e da questo punto di vista è la forza politica estrema, bianca. «Stamattina non ci sarà un'orazione funebre ma un commiato» ha detto Dario Fo, marito di Franca Rame, e nel morire prima di lui, Franca ci ha fatto un dono: poter dire che Dario Fo è marito di Franca Rame e non Franca Rame moglie di Dario Fo. Tra un mese verrà aperto il testamento dell'attrice. Raffaella Carrà, Carla Fracci, Milly Moratti, donne dal nome noto in mezzo a donne sconosciute che lasciano un biglietto. Poche lacrime. Forse stamattina in corteo canteranno la canzone che Franca Rame avrebbe voluto cantassero le donne, «Bella ciao», dimostrando coerenza fino alla fine, anche se vale la pena ricordare l'immagine che un drammaturgo come Bertold Brecht diede della coerenza: «Solo il mio somarello di peluche sul comodino dice sempre sì». Nella camera ardente bambine e nonne sono mute come i burattini e le marionette quando l'attore che le anima non c'è più. E chi è nella morte l'attore che ci dà ancora voce? Oggi alle 11 allo Strehler un addio laico a una donna a cui non si può non riconoscere un'indole da «eroe», nell'antico termine della parola: chi agisce nell'impeto del cuore. Ci ha stupito l'assenza di un simbolo sacro, visto che proprio Dario Fo ha scritto il libro, «Gesù e le donne», riconoscendo a Cristo il coraggio di non aver condannato nessuna donna, ma di averci salvate tutte anche dalla più piccola pietra. In questo è stato l'Unico e l'Unica vera voce oltre la marionetta della morte.
Il Nobel a Dario Fo, nel ’97, fu letto da molti come uno scherzo da comunisti svedesi: per avere il massimo riconoscimento letterario - usa dire dalle nostre parti, con sospetto - conta l’impegno politico. Come dimenticare Dario Fo, che in piena disfatta si arruolò nella Repubblica Sociale e combatté per il suo Duce, fino all’ultimo, nelle brigate di Tradate contro i partigiani. Da “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.
DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.
Nella sua lunga carriera, uno dei bersagli prediletti di Dario Fo è stato Silvio Berlusconi: osteggiato e contestato sin dal momento della discesa in campo, come se gli altri fossero diversi. Dai Comunisti ai grillini.
Dario Fo e Franca Rame, un fascicolo di polizia lungo 50 anni. Per più di mezzo secolo le questure italiane hanno aggiornato il dossier annotando spostamenti e amicizie. Siamo andati a leggere quelle carte, scrive Massimo Pisa il 18 ottobre 2016 su “La Repubblica”. "Caro Lorenzo, ti prego di voler disporre la redazione di una biografia, il più possibile dettagliata, sul noto comico Dario Fo, anche dal punto di vista politico (ad esempio, la asserita appartenenza alla R.S.I.). La richiesta perviene dall'alto e mi permetto, quindi, di raccomandarti un lavoro che sia fatto presto e bene". Lo scandalo a "Canzonissima" è deflagrato da meno di un mese, alla cacciata di Dario Fo e Franca Rame sono seguite due interrogazioni parlamentari (Davide Lajolo del Pci, Oreste Lizzadri e Luciano Paolicchi del Psi) e al Viminale sono in fibrillazione. Il 21 dicembre 1962 il capo della Divisione Affari Riservati, Efisio Ortona, scrive al questore di Milano Lorenzo Calabrese. Quelle informazioni sono preziose, servono ad arginare la tempesta. Il giorno di Santo Stefano il solerte questore ("Le notizie sono state raccolte e selezionate con scrupolosa attenzione") spedisce quattro pagine di riservata. Le origini, gli studi, i successi in teatro. Poi la polpa: "Il Fo, nel 1944, aderì alla r.s.i., arruolandosi volontario in una formazione di cc.nn. di stanza a Borgomanero (Novara), aggregata al battaglione paracadutisti "Folgore"". La notizia resterà inedita per altri due anni. "È noto l'orientamento comunista - prosegue il documento - si orienta verso la corrente di sinistra del P.s.i. Non consta, però, che aderisca a tale partito". Da Dario a Franca. "La Rame risulta decisamente orientata verso il P.c.i., al pari di tutti i membri della sua famiglia originaria". Chiosa finale: "Sia il Fo che la Rame serbano regolare condotta e sono immuni da precedenti penali". Per più di cinquant'anni le questure e le prefetture di mezza Italia hanno aggiornato i loro fascicoli e quelli del Ministero dell'Interno sul Maestro. Schedato, controllato, "attenzionato" come voleva il gergo poliziesco dell'epoca. Siamo andati a leggere quelle carte inedite, conservate negli archivi. E, a consultarle, si legge una storia in controluce di Fo, vista attraverso le lenti di uno Stato occhiuto. Già dal 19 febbraio 1960, quando un appunto della questura di Firenze annota che "ha partecipato a una manifestazione indetta da un Circolo culturale controllato dal partito comunista". Nelle schede che la polizia gli dedica, Fo "ha terrore della "macchinizzazione" e di qualsiasi oggetto meccanico e la sua formazione politica subì, per colpa della moglie accesa comunista, una spinta verso la corrente carrista del partito". Tiene mostre di quadri con "scarso successo a causa, soprattutto, del valore artistico dei quadri esposti". Compra una pistola - è già il 1975 - "Flobert marca Franchi calibro 4,5 mediante esibizione del passaporto". Fa teatro e militanza, e i fascicoli si gonfiano. Ha già fondato da due anni "La Comune", la compagnia con cui poi occuperà la palazzina Liberty a Milano, quando al Viminale arriva una riservata del questore di La Spezia Ferrante, datata 3 ottobre '72. "I noti attori Dario Fò (sic) e Franca Rame hanno trascorso un periodo di ferie estive a Vernazza", insieme a "una quindicina di giovani capelloni", cioè i loro attori, che "per il loro abbigliamento trasandato hanno suscitato un certo malcontento tra la popolazione". Ma c'è di più: la polizia scopre che da Vernazza "la Rame ha spedito a più riprese una serie di vaglia telegrafici ad estremisti ristretti in varie carceri". Tra i destinatari ci sono il brigatista Umberto Farioli, Augusto Viel della XXII Ottobre, Sante Notarnicola della banda Cavallero. È l'inizio del filone di indagini sul "Soccorso Rosso", la rete di assistenza legale ed economica ai detenuti politici della sinistra extraparlamentare. Il primo a voler vederci chiaro è il sostituto procuratore genovese Mario Sossi, la polemica con Fo finirà con accuse reciproche e un processo per diffamazione sospeso durante il sequestro del magistrato da parte delle Br. Intanto indaga Milano, e il 6 settembre 1973 al Viminale arriva una riservata del questore di Milano Allitto: sta nascendo il Comitato unitario del Soccorso Rosso e "i coniugi Franca Rame e Dario Fo - scrive - a quanto si è appreso sarebbero i promotori dell'iniziativa". Le relazioni pericolose della coppia vengono vivisezionate. Fo, scrive il 14 giugno 1974 il questore di Pisa, viene "incluso nel noto elenco ministeriale di extraparlamentari di sinistra che operano eversivamente in direzione delle carceri". Il numero di telefono del gran giullare circola parecchio. È nell'agenda di Petra Krause, arrestata in Svizzera nel 1975 ("il più importante e al tempo stesso inafferrabile ufficiale di collegamento del terrorismo continentale ed extracontinentale", la definirà nel 2001 la relazione finale della Commissione Stragi), di militanti dell'Autonomia Operaia, di appartenenti all'Olp arrestati ad Alessandria, di brigatisti rossi marchigiani coinvolti nel rapimento di Roberto Peci. Le polizie di mezza Italia si affannano a cercare la pistola fumante a conferma di quel vecchio appunto del Sid (fonte "Anna Bolena", nome in codice dell'impresario Enrico Rovelli, datato 1974), che voleva Dario Fo come "grande vecchio" delle Br, ma non la trovano mai. Nemmeno quando, il 29 gennaio 1980, il Maestro smarrisce un foglio manoscritto a quadretti dentro una cabina telefonica della stazione di Cesenatico. Il vicequestore di Forlì, Della Rocca, telegrafa immediatamente al Viminale il contenuto: "Cara Franca, mi è stato chiesto di farti un'ambasciata per Tino Cortiana e Maria Tirinnanzi (militanti Fcc, ndr) detenuti a Novara, che chiedono l'aiuto di Soccorso Rosso. Si farà una riunione venerdì sera al Circolo Turati a Milano". Ci va un brigadiere, e non trova nessuno: "Si presume - scrive - che non è stata svolta nessuna riunione". Ci prova allora il Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza a seguire la pista dei soldi ai detenuti, cercandone la provenienza. Tra il 29 aprile e il 28 luglio 1980, le Fiamme gialle producono tre relazioni classificate "riservatissimo" sugli introiti di Fo, Rame, di Nanni Ricordi e dei loro compagni della "Comune": ne elencano gli incassi degli spettacoli, le spettanze Siae e Rai, le "possidenze immobiliari". Gli anni Ottanta e Novanta glaciano la febbre rivoluzionaria ed eversiva e le notizie su Fo da spedire al Viminale si diradano. Eccolo nell'83 polemizzare con gli Usa che gli negano il visto, e nell'87 a riproporre al Teatro CristalloMorte accidentale di un anarchico: "Hanno assistito 800 persone - annota la Digos - per lo più giovani gravitanti nella nuova sinistra. Esplicita è stata la critica al sindaco Paolo Pillitteri, definito "uomo bicicletta"". Nel 1993, il nome di Fo è ancora in un elenco di "aderenti alla sinistra extraparlamentare di Milano e provincia". Partecipa a manifestazioni per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, viene invitato al Leoncavallo, sfila contro il Cpt di via Corelli. Poi tramonta anche la stagione dei "disobbedienti". L'ultimo appunto è del 2006, una formalità per la presentazione delle Liste Fo alle comunali milanesi del 2006 e del 2011. Il Maestro non fa più paura.
Dario Fo e la passione politica: dalla "nuova sinistra" ai Cinque Stelle. Fondò il Soccorso Rosso insieme a Franca Rame, sostenne i movimenti extraparlamentari degli anni '70 e poi aderì al M5S. Le provocazioni di un personaggio mai banale, anche quando si parlava di politica, scrive Matteo Pucciarelli il 13 ottobre 2016 su "La Repubblica". A un certo punto, quando Dario Fo si invaghì dei Cinque Stelle, in parecchi tornarono a ricordargli con sospetta insistenza del suo passato remoto - era un ragazzino - nella Repubblica di Salò. Quasi una sorta di vendetta per il "tradimento": dopo una vita di militanza a sinistra, quella dei movimenti della "nuova sinistra" del post '68, l'adesione al movimento di Beppe Grillo risultava incomprensibile a molti. Non a lui: "Nei grillini ho rivisto un po’ i tempi in cui facevo il teatro alla Case del Popolo - spiegò a MicroMega - Il Pci per certe cose era bellissimo, mi sembrava quasi di esserci tornato. Gli attivisti del movimento sono i figli e i nipoti di quella gente lì, non sono tanti ma sono i migliori su piazza". Erano quattro anni fa, l'ondata del M5S non era ancora arrivata ma lui aveva ormai deciso di stare dalla loro parte. Il movimento, giovane e snobbato dagli intellettuali, trovò nel premio Nobel il proprio vate, una sorta di grande vecchio capace di investirli di una legittimità non solo politica ma anche culturale. Non a caso sia Gianroberto Casaleggio che lo stesso Grillo finirono per "adottarlo", cosicché a capo del M5S ormai si era instaurata una sorta di trinità. I due fondatori gestivano la parte pratico-politica, Fo fiancheggiava con la piena libertà di parola e di provocazione concessa ad un artista. Insieme hanno scritto anche un libro: Il grillo canta sempre al tramonto (Chiarelettere), saggio che provava a spiegare la genesi dei Cinque Stelle. Nei casi più spinosi Fo veniva regolarmente consultato, spesso anche solo come gesto di rispetto nei suoi confronti. Lui ricambiava salendo sul palco, quando necessario, durante le campagne elettorali; oppure, come poche settimane fa, dipingendo un quadro (la pittura, altra sua grande passione) e regalandolo al movimento. Su un punto Fo insisteva molto: lui continuava a reputarsi di sinistra. Era lo stesso di sempre, diceva di sé: cioè quello che si esibiva insieme a Franca Rame nelle università occupate con il suo collettivo teatrale La Comune; che fondò il Soccorso Rosso, nato per fornire assistenza legale e monitoraggio delle condizioni dei militanti della sinistra extraparlamentare nelle carceri italiane; che faceva spettacoli per i ragazzi dei centri sociali come il Leoncavallo. Adesso però, parlando dei suoi vecchi compagni, era impietoso: "Alcuni di loro mi fanno un po’ tristezza. Non hanno capito che il mondo sta cambiando, i ragazzi non li capiscono. Sembrano un’altra razza". Si rendeva conto insomma che la vena protestataria e antisistema stava ormai andando da un'altra parte. Rinfacciava al Pd di aver perso i valori che animavano il Pci. "A chiunque appare evidente che c'è in corso una campagna contro il M5S - disse nel gennaio scorso - Ma come può fare il Pd a ergersi a moralizzatore con tutti gli scandali in cui è coinvolto e dappertutto? Ma stiamo scherzando? Qui non è la pagliuzza e la trave, qui c'è l'ira di dio nell'occhio...". Di sicuro incardinarlo su un binario non è mai stato semplice. Nel 2005 si candidò anche alle primarie del centrosinistra a Milano, perse contro il prefetto Bruno Ferrante; lo sostenevano Milly Moratti, Rifondazione comunista e un gruppo chiamato "Gli amici di Beppe Grillo", un M5S in provetta. Nella scorsa primavera fu determinante nel bocciare la candidatura a sindaco sempre di Milano di Patrizia Bedori (M5S) né disse mai se alla fine avrebbe votato i pentastellati oppure Basilio Rizzo, candidato della sinistra radicale e suo antico sodale. Al ballottaggio tra Beppe Sala e Stefano Parisi la butto lì: "Quasi quasi...". Sì, votare il centrodestra. Per punire la sinistra che non fa più la sinistra, si infervorava. Come sempre: spiazzante. Nel salotto di casa sua - un normalissimo appartamento su Porta Romana - sono appese decine di maschere di teatro. Ne andava fiero e per lui erano un po' il senso della vita: a volte serve indossare un'altra faccia, ma dietro bisogna conservare sempre se stessi. E infatti le motivazioni del premio Nobel del 1997, pure quelle, le teneva in bella mostra nella stessa stanza: "Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi".
Duomo occupato dai comunisti. La Rai s'inginocchia. Pugni chiusi e Bella Ciao davanti al simbolo del cattolicesimo. E lo show va in diretta tv, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 16/10/2016, su "Il Giornale". «E sempre allegri bisogna stare/ che il nostro pianger fa male al re/ fa male al ricco e al cardinale/ diventan tristi se noi piangiam». Non si poteva piangere, ma non si poteva neppure ridere, ieri mattina, in una Milano devastata dall'acqua, al funerale di Dario Fo, insieme festa laica e festival letterario, tra politici e scrittori, cerimonia musicale e parlante, pittoresca, commovente, grottesca e contraddittoria, per ricordare e dire «Ciaooo Dario!» al più contraddittorio giullare e premio Nobel della storia italiana. Che festa è stata. E che Italia, che è. Solo l'Italia conosce così tanti atei che vedono le chiese come simboli del potere religioso, tranne quando se ne possono usare le piazze per i loro funerali. Solo l'Italia caccia la brigata Ebraica dal corteo del XXV Aprile e intona Bella ciao alle esequie di un ex repubblichino. Solo in Italia la Tv di Stato fa saltare tutti i programmi radio e video per omaggiare uno che ha ospitato, e poi censurato, e poi cacciato, e poi re-invitato...Erano tutti invitati ieri ai funerali di Dario Fo. E sono arrivati in migliaia. Si parte da un teatro - perché i simboli sono importanti -, lo Strehler, e si arriva in piazza Duomo, con la bara sul sagrato, posizionata perché i simboli hanno significati nascosti davanti al portone di una Cattedrale in cui Fo non ha mai voluto spiritualmente entrare, a sinistra della Galleria Vittorio Emanuele, monumento di quella borghesia che Fo, da perfetto borghese qual era, ha sempre detestato, e a destra di Palazzo Reale che, in quanto sede di re, ha sempre contestato. Tranne quelli di Svezia. La festa e la farsa iniziano alle 11. Si esce dalla Camera ardente. Dentro è rimasta solo la famiglia e pochi intimi: attorno al feretro Jacopo Fo, con lo sciarpone rosso, Gad Lerner e Stefano Benni, che portano la bara a spalla fino all'auto blu. «Siete pronti? Camminiamo tutti allo stesso passo. Andiamo». Si va. Tutti allo stesso passo: da Foro Bonaparte al Duomo, Cont duluri e cont lamenti. In testa, il sindaco di Milano Sala, quello di Torino Appendino, quello di Roma Raggi «Tieni duro, sindaco! Sono un attivista del Movimento. Ho conosciuto un tuo assessore alla marcia Perugia-Assisi... Posso fare un selfie?». E lei: «Andiamo avanti». Si va avanti, tutti in marcia, verso largo Cairoli. Primo applauso. Poi parte la marcia funebre, suona la «Banda degli ottoni a scoppio». Ma non è una musica funebre, anzi. Clownesca e felliniana. La vita è teatro. La morte spettacolo. Ci sono due ragazze col naso finto. Cameramen e fotografi. Un clochard col trolley. Assessori. Gente comune. Quelli dell'Anpi con la bandiera. Zum zum, pam pam. Rosamunda... Pifferi, bombette e k-way. Si imbocca via Dante che diluvia. Turisti, shopping e dehors. Jacopo Fo è rimasto indietro. E grida: «Andate avanti». A Cordusio parte un tema zigano di Goran Bregovic. Si canticchia, qualche orchestrale balla. Zara è quasi vuoto, via Orefici strapiena. Una ragazza continua imperterrita a soffiare bolle di sapone. La vita va via in un soffio. Anche un funerale. Siamo già in piazza Duomo. L'odiata Mondadori del satrapo Berlusconi, sotto i portici, ha allestito tutte e cinque le vetrine con le insegne «Ciao Dario». Parte un altro applauso. Siamo quasi al sagrato. Ci sono i militanti che salutano. Un cagnasso randagio inzuppato di pioggia. Un paio di carrozzelle, un sciancat instorpiat... Sono tutti fan di Fo. E tutti porasi fiol de Deo. Sul sagrato non c'è Dio, e neppure un pretazzo. C'è un gazebo bianco. I necrofori dell'impresa San Siro depongono la bara in mezzo a due gendarmi, con i pennacchi e con le armi. Quanta bella gente. Davanti alla bara la piazza è strapiena di ombrelli e cartelli: «Io non sono un moderato». Dietro la bara c'è la famiglia, lo stato maggiore dei Cinque stelle Di Battista in cappotto blu, Di Maio e Casaleggio junior, Beppe Grillo in piumino. Roberto Vecchioni, a bassa voce, a un amico, dice: «C'è Saviano...». Saviano è appoggiato, indolente, a un sostegno del gazebo, poi lo chiamano davanti. «Fatti vedere». La gente vuole vedere. Grida: «Chiudete gli ombrelli!». Non si può. La cerimonia, sotto il diluvio, è officiata da Carlo Petrini e Jacopo Fo. Ag stait pù in d'la pel d'la contentesa. Non stanno più nella pelle dalla contentezza di dire a tutti che bisogna ridere ed essere felici. «Oggi andate a casa e mangiate, ridete e se potete fate l'amore. È quello che avrebbe fatto lui», dice di lui l'amico Carlo Petrini. Narra aneddoti privati e ricordi pubblici. Poi, da scaltro gastronomo, il patron di Slowfood tira fuori dalla coppola la metafora enologica: «Tenere fuori la politica dall'arte di Fo sarebbe come fare un buon vino senza uva». Dopo, inizia la sbronza ideologica. È l'orgoglio ritrovato di chiamarsi (ancora) «compagne e compagni». Tocca a Jacopo Fo parlare alle compagne e ai compagni. È interrotto dagli applausi e dalla commozione. Parla da figlio, e tutto gli è dovuto e perdonato. «Noi siamo un po' animisti. Non è che uno muore veramente, dài... Si fa per dire». La piazza ride e piange. E ridendo piangendo si evoca, e par di sentirla da lontano, «Stringimi forte i polsi/ dentro le mani tue» che Dario Fo scrisse per Franca Rame. Fu la sigla di Canzonissima, anno 1962. Stretti i polsi, si liberano i pugni. E Jacopo Fo ringrazia tutti, a favore di piazza e di telecamera, col pugno chiuso alzato: «Grazie compagni». Eh bon, tacabanda! E la banda attacca. «O partigiano, portami via. O bella, ciao! Bella, ciao! Bella, ciao, ciao, ciao!». «Ciao, ciao». «Come stai?!». «Ah, sei venuto anche tu...». «Hai visto quanta bella gente». «Che bella festa...». La festa è finita. Reinizia la vita. È mezzogiorno e mezzo. C'è Lella Costa che ride con Vecchioni. C'è Travaglio con già la sigaretta in mano. C'è l'archistar Boeri. C'è Renato Pozzetto che non ha voglia di ridere. C'è Grillo che parla con tutti. E c'è Dario Fo, nella bara, lì vicino quanti paradossi ti è toccato vivere e vedere oggi - che non ascolta più nessuno.
Bufera sulla diretta Rai: 75 minuti di delirio rosso pagati col canone. Palinsesti stravolti e speciale del Tg1 per il rito. La celebrazione della tv di Stato irrita i social, scrive Paolo Bracalini, Domenica 16/10/2016, su "Il Giornale". Se cinquantacinque anni fa era stato allontanato dalla Rai democristiana, la Rai renziana ha riparato tutti i torti dando ai funerali di Dario Fo lo spazio dovuto ad un padre della Patria, ad un eroe nazionale, ad un genio universalmente amato (anche se la figura di Fo divide diametralmente gli italiani). La Chiesa non voleva i funerali atei. Palinsesti stravolti da RaiUno a RaiScuola con speciali sull'attore, pezzi d'archivio, interviste, omaggi di ogni tipo. E poi ben tre dirette sui funerali a Milano, una di RaiNews24 (guidata da Antonio Di Bella, una carriera in quota Ds e poi Pd), l'altra di Radio1 («Filo diretto GR1 - Addio a Dario Fo»), e poi dalle 11.50 per la bellezza di 75 minuti lo speciale del Tg1 «L'ultimo saluto a Dario Fo» sulla rete ammiraglia della tv di Stato, con la telecronaca della cerimonia in piazza Duomo. A condurre la quirinalista del Tg1, Simona Sala. Più che una telecronaca una telecelebrazione, tanto che sui social arrivano le proteste («Perché devo pagare il canone Rai per guardare i funerali di Dario Fo?», «Continua il delirio anticlericale di Dario Fo sulla Rai, mai tanto soddisfatto del mancato pagamento canone»). I toni della diretta del Tg1 non alleviano i telespettatori che non hanno mai amato l'attore, anche per la sua militanza politica di parte, dalla sinistra comunista a Grillo e Casaleggio: «Un grande, un genio, qualcuno che ha dato qualcosa a ognuno di noi. Oggi è un lutto ma mai così allegro, festoso, proprio come voleva lui» si scioglie l'inviata Rai. Dopo l'intervento di Carlin Petrini sulla inscindibilità tra arte e militanza («Pensare a lui senza politica è come pensare ad un buon vino senza l'uva») la telecronaca del Tg1 torna a commuoversi: «Tantissime le sollecitazioni da Petrini, amici da sessant'anni insieme militanti comunisti contro tutte le povertà. Una vita passata in una militanza civile che non si può separare dal suo fare arte». Dopo la cerimonia attaccano i tromboni della «Banda degli ottoni a scoppio» (una banda musical-politica, «suoniamo da trent'anni al fianco dei lavoratori»), e la Rai educa ancora il popolo sulla corretta lettura delle immagini: «La banda ha accompagnato tutta la vita di Dario Fo, è una banda popolare, sono canti di lotta, politici ma anche allegri. Arte e passione politica sono inscindibili. È un funerale paradossale, perché si sentono parole, ideali e valori che non si sentivano da tantissimo tempo, e tutto accade sul sagrato del Duomo, un paradosso totale che avrebbe divertito tantissimo Dario. Solo lui poteva far sventolare bandiere rosse e far cantare Bella ciao sul sagrato del Duomo. Vedremo adesso cosa farà Milano, perché il sindaco Sala ha ammesso che la città ha ricevuto da Fo più di quello che gli ha dato», intima la cronista Rai. Le telecamere inquadrano le sindache grilline Appendino e Raggi insieme a Casaleggio jr, numero due del M5S con cui Fo si era schierato ufficialmente, chiudendone la campagna elettorale nel 2013. Altro aspetto controverso di Fo, che però non disturba minimamente la telecelebrazione Rai, anzi: «Dario Fo era l'anima di sinistra del M5S, aveva molto sofferto la morte di Casaleggio, lo considerava un genio creativo. Di Maio ha definito Fo un uomo capolavoro, una definizione che si può condividere». Poi, nei buchi della diretta, l'inevitabile intervista a Saviano su Fo, un'altra d'archivio, un'altra ancora a Lella Costa, mai un'ombra di nota dissonante. «Una giornata di pioggia e di gioia, un premio Nobel, ricordiamo, dato a chi dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi» assicura la tv di Stato con i dirigenti nominati dal Pd.
Cara sinistra, il vero Nobel lo ha vinto Caprotti, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 15/10/2016, su "Il Giornale". Tutti pazzi per Dario Fo. Il sindaco pd di Milano Giuseppe Sala al quale il giullare aveva negato, schifato, il suo voto proclama una giornata di lutto cittadino. Il cardinale Scola nulla ha da eccepire sul fatto che oggi i funerali laici del giullare più anticlericale della storia si celebrino sul sagrato del Duomo. Alla cerimonia parteciperanno, accomunati nel dolore, i leader della sinistra freschi di insulti del defunto e Beppe Grillo, ultimo approdo del re dei voltagabbana, già rastrellatore di partigiani quando da giovane portava la camicia nera, e cantore ufficiale dell'omicidio del commissario Calabresi. Potenza del Nobel, potenza dell'ipocrisia o, forse, solo potenza della morte che tutto cancella. A Milano ieri più d'uno ha invocato Fo «santo subito», fioccano proposte di intitolargli strade, piazze, non si esclude il monumento. E pensare che solo pochi giorni fa in consiglio comunale la sinistra si è spaccata sulla mozione che chiedeva che Milano ricordasse in qualche modo Bernardo Caprotti, mister Esselunga, morto anche lui a 90 anni a cui il Nobel l'aveva assegnato il libero mercato: sette miliardi di fatturato all'anno, ventiduemila dipendenti in servizio, prestigio internazionale. Ma aveva un difetto imperdonabile: non era mai stato di sinistra, non aveva mai fatto un girotondo contro Berlusconi né contro la casta della politica. Non solo, immagino, per convinzione, ma perché, lavorando più di dodici ore al giorno, non ne avrebbe avuto il tempo. La sua missione era creare sviluppo e benessere, due concetti sui quali Milano ha costruito la sua storia e la sua fortuna. Certo, Milano è stata anche la città di Verdi, che ha adottato Arturo Toscanini. Anche loro uomini d'arte, come Fo. Ma il primo è un cofondatore della patria, il secondo preferì l'esilio al mischiarsi con il padrone di allora, tale Benito Mussolini. Più di recente, a Milano, tale Giorgio Strehler il teatro lo rifondò stupendo il mondo intero. Non sta a me dare pagelle a geni e premi Nobel, ma vedere Dario Fo entrare in questo pantheon mi fa un certo effetto. Per quello che è stato e per chi ce lo porta: quella sinistra che solo pochi giorni fa non ha voluto dare gli onori dovuti a Bernardo Caprotti che l'arte della libertà l'ha messa in pratica, non calpestata, insultata e derisa come se tutto fosse, a prescindere, «Mistero buffo».
Quando Dario Fo firmò la condanna del commissario Calabresi. Sotto la lettera pubblicata da L'Espresso contro il commissario Calabresi anche la firma di Dario Fo, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". C'è una firma che macchia, indelebilmente, la figura di Dario Fo. La firma posta in calce alla lettere aperta pubblicata il 13 giugno 1971 da L'Espresso che accusava, ingiustamente, Luigi Calabresi di essere il "responsabile" della morte di Giuseppe Pinelli, l'anarchico accusato della strage di Piazza Fontana a Milano e precipitato dalla finestra della questura. Quella lettera fu definita da più parti, anche da alcuni firmatari, come l'appoggio ideologico ai mandati e agli assassini che poi uccisero il commissario: Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. Giampaolo Pansa scrisse chiaramente che la lettera du "un avallo al successivo assassinio di Calabresi". Molti anni dopo Dario Fo disse che anche Calabresi fu in realtà una vittima, senza però mai rinnegare in pieno la firma a quella lettera. In un'intervista, sempre a L'Espresso, del 2012, Fo disse che il commissario fu un "capro espiatorio", una "vittima sacrificale di chi ha prima ordito le stragi e poi insabbiato le indagini". Ma non un passo indietro sulla firma, che invece molti hanno ritrattato: "Certo - disse quattro anni fa Dario Fo - perché ora si sa quello che è avvenuto dopo. Ma non dimentichiamoci che cosa sono stati quei tre anni e i successivi. Stragi spaventose. Una macchina del potere che ha affondato nella menzogna tutti i processi. La buffonaggine di continuare ad additare gli anarchici come colpevoli quando ormai l'accusa era smontata, scoppiata. Le aggressioni, contro di noi mettevano continuamente bombe a teatro. E le violenze". La versione di Dario Fo è stata fino alla sua morte quella di un tempo, quando mise in opera "Morte accidentale di un anarchico", dedicata proprio al caso Pinelli. "Sono stato tra i primi a dire che Calabresi non aveva avuto che un ruolo marginale nella vicenda di Pinelli. Dissi pubblicamente che chi aveva ucciso Calabresi poteva essere soltanto qualcuno che aveva interesse a chiudere il processo Pinelli. Calabresi, in quella stanza della Questura, c' era entrato soltanto un paio di volte. Poi il commissario venne ucciso: e da allora troppi dimenticano o fingono di dimenticare che non pochi avevano interesse a chiudere il caso Pinelli, e che uno dei modi per chiuderlo era quello di eliminare Calabresi. Altro che Lotta continua". Tra le posizioni del premio Nobel, infatti, anche la strenua difesa dei responsabili (accertati da una sentenza) della morte del commissario.
Quando il "giullare" disse sì all'odio contro Calabresi. Fo firmò il manifestò che sancì la condanna a morte del commissario. Per 20 anni lo ha sempre rivendicato, scrive Stefano Zurlo, Sabato 15/10/2016, su "Il Giornale". Le parole, tutte le parole, hanno un loro peso. E devono essere collocate sulla bilancia della storia. Scrive Leonardo Marino, il killer del commissario Luigi Calabresi: «Il nostro compito era di uccidere Calabresi per vendicare la morte del compagno anarchico Giuseppe Pinelli che tutti gli intellettuali italiani, a cominciare da Dario Fo e dai più famosi giornalisti, definivano vittima di Calabresi, gettato dalla finestra di Calabresi». L' autobiografia di Marino, l'operaio di Lotta continua chiamato a far parte del commando di morte, non ha avuto grande fortuna. E quella citazione è solo una goccia nel diluvio delle celebrazioni che stanno accompagnando la dipartita del premio Nobel. Ma riconoscere il talento non vuol dire annegare nella retorica lacrimevole le responsabilità e gli errori commessi. E però quella frase di Marino la dice lunga sul clima che si respirava all'inizio degli anni settanta in Italia. La bussola della cultura era impazzita e segnava solo una direzione: contro lo Stato, contro la polizia, contro chi faceva il proprio dovere cercando di fermare la follia estremista. Il 12 dicembre 1969 c'era stata piazza Fontana e nelle ore successive Pinelli fu fermato e interrogato. Poi, dopo ore e ore, precipitò dalla finestra della questura. Probabilmente fu tenuto lì, in quelle stanze, oltre i termine di legge, ma il Paese era sconvolto. E un magistrato progressista, Gerardo D' Ambrosio, scagionò completamente il mostro che era solo un uomo in divisa. Non importa. Calabresi diventò per tutti l'assassino del povero Pinelli e fu bersagliato da un linciaggio senza fine. Dario Fo, anche se può sembrare sconveniente parlarne oggi, ci mise del suo. E Marino cita proprio lui per raccontare il mare in cui nuotava l'odio incontenibile di Lotta continua. Intendiamoci, il celeberrimo manifesto che buttava la croce addosso al Povero poliziotto, lasciato solo da uno Stato pavido e sbrindellato, fu firmato non da qualche esaltato che sognava o scimmiottava la Rivoluzione in salsa italiana, ma da una sterminata legione di padri della patria, intellettuali, giornalisti, storici, accademici. Senza avere alcun elemento in mano, senza prove e nemmeno indizi, solo a colpi di pregiudizi, falsità e menzogne, 757 personalità firmarono quella lettera vergognosa, pubblicata dall'Espresso nel giugno del 71. Non si può dunque attribuire solo a Fo quel che fu il pensiero dominante, politicamente correttissimo dell'epoca. Chi aveva un nome e un pizzico di prestigio da spendere puntò il dito accusatore contro quel disgraziato in uniforme che si era trovato a dover indirizzare le indagini su una strage senza precedenti. Che fa da spartiacque alla nostra storia. Fu un atto d'accusa corale e dunque ancora più sconvolgente perché l'intellighenzia tutta, tolti Giampaolo Pansa che non volle unirsi a quella lenzuolata e pochi altri, isolò quel commissario, poi puntualmente riabilitato come capita nel nostro Paese quando il vento gira. Questo scenario non deve portare naturalmente a una semplificazione della successiva tragedia: fu Lotta continua e solo Lotta continua ad ammazzare Calabresi, eliminato da Ovidio Bompressi sotto casa, in via Cherubini, la mattina del 17 maggio 1972. Quel che colpisce è che 16 anni dopo, nel 1988, quando Marino portò la sua crisi di coscienza fino al pentimento e alla confessione, quando insomma furono arrestati Adriano Sofri e Giorgio Piestrostefani, il più accanito nell'attaccare Marino fu ancora una volta il giullare ormai prossimo al Nobel. Fo definì Marino sobriamente un «coglioncione» e scrisse inseguito un testo, «Marino libero! Marino è innocente!», in cui enumerava le 120 bugie del pentito. Balle presunte, molto presunte perché il processo, pur fra colpi di scena, si chiuse con la condanna degli imputati. Ma nessuno o quasi, nemmeno Fo che si sappia, ha chinato il capo e ammesso eccessi e sbagli dai risvolti drammatici. Quel pentito, che aveva portato sulle spalle la solitudine del rimorso, fu trattato fino alla fine come un appestato. Da tutti ma non dalla vedova del poliziotto, Gemma Calabresi che compone la postfazione di quel libro. Un gesto straordinario e coraggiosissimo, quel che è mancato ai nostri bardi e poeti per troppo tempo.
La morte di Dario Fo e l'oblio di Mario Calabresi, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo” il 15 Ottobre 2016. Caro direttore, due premesse: massimo e sincero rispetto di fronte alla morte di Dario Fo. Massimo e sincero rispetto di fronte al dolore di Mario Calabresi, della sua famiglia, e alla memoria di suo padre, il commissario Luigi. Però, ne converrai, talvolta non possiamo controllare i dubbi, gli interrogativi, che finiscono per annodarsi nella nostra mente. Il mio, da ieri, è questo: se fossi stato io il figlio di Luigi Calabresi, da direttore di Repubblica, come avrei trattato la notizia della morte di Dario Fo Artista contemporaneo fondamentale, Premio Nobel certo, ma anche tra gli untori di quel clima di odio che portò all'assassinio di mio padre nel '72? Cosa avrei fatto di quel manifesto, firmato da lui assieme ad altri quasi 800 intellettuali che rafforzò, di fatto, la condanna a morte contro mio padre emessa da tempo dall'universo sovversivo di sinistra? Cosa avrei fatto della rappresentazione di quel dottor Cavalcioni, poliziotto di Morte accidentale di un anarchico, che, per spaventare i sospettati li metteva pericolanti sul davanzale alludendo all'accusa mossa contro mio padre nella morte di Pinelli? Avrei scritto un editoriale ai miei lettori che forse, anzi quasi certamente, se lo aspettavano? Prima di scriverti queste righe ci ho pensato e ripensato, ho sfogliato avanti e a ritroso le pagine di Repubblica di ieri. Proprio quella Repubblica che vantava tra le sue firme prestigiose Adriano Sofri - condannato per il delitto del Commissario - che con eleganza preferì non scrivere più una riga dopo il passaggio del testimone da Ezio Mauro al figlio del poliziotto ucciso. Di Fo e dell’infame appello all’Espresso non v’è che un cenno in un pezzo sull’impegno politico del Premio Nobel. Ho letto poi l’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, che invece apre il pezzo ricordando le sue litigate con Dario Fo e Franca Rame proprio sul commissario Calabresi. Su Repubblica, invece bisogna andare nelle pagine interne. Sfido, a mio rischio e pericolo, la soglia del buonsenso che dovrebbe impedire di stuzzicare le corde del dolore altrui e mi chiedo se, in fin dei conti, non sia stata persa un’occasione per affermare la verità. Perché Mario Calabresi non è semplicemente una vittima, che con dignità pulsa dolore e memoria (su questo ha scritto un bellissimo libro) di una vita mozzata con violenza della figura paterna. Ma è testimonianza storica di una barbarie, di quando il crimine, spacciato per rivoluzione, si abbatteva su esistenze (Luigi Calabresi aveva appena trentaquattro anni), famiglie, spargendo lacrime ed asciugando il futuro di bambini e ragazzi (come Mario Calabresi, ma anche come Benedetta Tobagi) che la mattina vedevano uscire un padre per poi non poterlo riabbracciare più. In questo bailamme di orrore condannato dalla storia, soffiava sul fuoco una classe intellettuale che, invece di orientare una generazione perduta verso il rispetto della vita, si era fatta trascinare da quell'orgia di condanne a morte emesse per afflato ideologico, ferocissimi tribunali morali pronti ad dar sentenza per categoria e per sospetto. Non oso immaginare quale possa essere stato lo sgomento della famiglia Calabresi nei mesi precedenti l'assassinio, quando il nome di Luigi, marito e padre, compariva scritto sui muri con auspicio di morte, quando arrivavano a casa telefonate anonime, quando i giornali dell'estrema sinistra, Lotta Continua su tutti, tamburellavano fomentando una caccia all'uomo che poi si risolse come sappiamo. Non oso immaginarlo, ma ieri, forse era opportuno che l'avessi immaginato, leggendolo, proprio nel tratteggio della figura di Dario Fo. Del racconto di tutto questo c'è ancora bisogno, per i lettori, per le giovani generazioni, per chi rinnega oppure facilmente dimentica. Se Mario Calabresi avesse fatto prevalere la testimonianza umana al decoroso silenzio probabilmente avrebbe mandato il caffè di traverso a tanti benpensanti, ma sicuramente avrebbe fatto il bene di chi ha sete di verità e di conoscenza. E avrebbe dato consolo di tutti noi che le agiografie vogliamo leggerle solo dei Santi. E neanche di tutti.
Nella sua lunga carriera, uno dei bersagli prediletti di Dario Fo è stato Silvio Berlusconi: osteggiato e contestato sin dal momento della discesa in campo, come se gli altri fossero diversi. Dai Comunisti ai grillini.
Dario Fo e le parole di troppo degli altri. Dario Fo se n’è andato come Abramo, sazio di giorni, la sua impronta l'ha deposita; Jacopo: rendiamo grazia! Scrive lunedì 17 ottobre 2016 Domenico Barrilà su “L’Indro”. Tutti gli esseri viventi in transito da questa terra vorrebbero lasciare un’impronta, possibilmente positiva, di sé. Essere ricordati, andarsene con la consolante sensazione di essere stati notati, registrati dai sensori dei propri simili. Chi ebbe la fortuna di riuscire nell’impresa dovrebbe esserne lieto e ringraziare, la sorte, il suo proprio talento o entrambe le cose. Anche chi fu vicino a costoro dovrebbe comportarsi di conseguenza, evitando le recriminazioni e aspettando, pazienti, il diradarsi delle emozioni, cosicché che la vita possa compilare, con la calma necessaria, le proprie pagelle. Queste, mi parrebbe intuitivo, non rientrano nelle competenze del parentado stretto e forse neppure dei discendenti. Proprio perché credo fermamente nella premessa, rifletto sulle doglianze del figlio di Dario Fo, Jacopo. Sarà stato a causa delle condizioni d’animo del momento, ma gli è scappato persino un affanculo. Non sono tra i tanti, conosciuti e sconosciuti, destinatari dell’esternazione, mi piaceva l’artista, mi ricordava Jacques Tati e altri personaggi geniali dello spettacolo, che potevano comunicarti tutto con le semplici espressioni del viso e con le posture. Si lamenta, Jacopo, di coloro che in vita ostracizzarono il padre e che ora lo omaggiano. Mi domando dove sarebbe la novità. Sappiamo che la folla è mutevole, ma è anche vero che se l’oggetto di tali giravolte è un uomo che scava nelle emozioni, toccando universi di enorme delicatezza, a cominciare dal sentimento religioso, gli ondeggiamenti sono leciti. Salvo quelli ideologici e opportunistici. Il privilegio di pensare e di dissentire genera opposte reazioni, se usi l’accetta, come l’uomo del Mistero Buffo faceva d’abitudine, dividi il mondo in maniera netta, qualcuno starà di qua, tanti staranno di là. È fatale. Poi, posti di fronte alla morte, i pensieri possono affinarsi e tanti correggeranno i propri giudizi. Ingenuo illudersi che a battaglie di minoranza possano corrispondere numeri da maggioranza. Si sta da una parte e non ci si lagna, se si è convinti delle proprie ragioni, poi si dà tempo alla gente perché capisca. Del resto i personaggi complessi sono difficili da metabolizzare. Nel caso specifico, alla fine, i conti sono tornati, c’è stato persino un premio Nobel, una popolarità sempre ragguardevole e un’autorevolezza che consentiva all’artista di ricevere richieste di pareri sulla situazione sociale e politica. Dice Jacopo che i suoi genitori non piegarono mai la testa, capisco cosa intende, ma loro saranno ricordati mentre altri uomini coraggiosi, meno esposti e infinitamente più sfortunati, sono passati e passeranno nel silenzio. Dario Fo la sua impronta la deposita, si congeda avendo concluso il proprio lavoro, la propria missione, fu ascoltato fino all’ultimo istante. Più di questo è difficile ottenere, in una sola vita. Forzare la mano non è opportuno, non aiuta a meditare, a costruirsi un giudizio autonomo, figlio del tempo e della saggezza. È vero, tra coloro che omaggiano in questo giorni ci saranno convertiti delle ultime ore, è il diritto alla mutazione, del resto l’evoluzione della specie è ancora in atto. Un diritto di cui il premio Nobel si avvalse in abbondanza, cadendo talvolta in qualche eccesso di soggettività. Alla fine approda a esiti opposti a quelli dell’origine, lasciando la ‘parte sbagliata’ e sbucando esattamente da quella opposta, come succede quando cadi in un buco nero. Lui non si sottrasse al cambiamento, la stessa possibilità dovrebbe essere pacificamente accordata anche a chi lo osservò nella sua parabola, e magari all’inizio provò risentimento o non comprese. Chi omaggia va lasciato omaggiare evitando di fare gli schizzinosi, il percorso netto non è di questo mondo, neppure per gli eroi, Dario Fo incluso, figuriamoci per i poveracci. E già che ci siamo smettiamola pure di sfanculare, nelle circostanze del lutto, semmai baciamo la terra, fu generosa con padre e figlio. Dario Fo se n’è andato come Abramo, sazio di giorni. Fossi un prete direi ‘rendiamo grazia’. Non voglio fare accostamenti irriverenti, ma chissà quanti dei nostri padri se ne sono andati lasciando le cose a metà, magari dopo una vita senza tentennamenti. Il mio non era dalla parte sbagliata, combatté in Africa, giovanissimo fu catturato e recluso alle Orcadi. Sopravvisse il tempo necessario per farsi uccidere dalla superficialità di un medico, dopo un banalissimo intervento, aveva 48 anni, circa la metà di quelli dell’artista. Noi non ce la prendemmo con il chirurgo, e neppure con altri, non sapevamo nemmeno di avere dei diritti. Lui non visse quanto Abramo, certo non era un personaggio pubblico, ma proprio qui è l’inghippo. Coloro che lo diventano sono una stretta minoranza, gli altri camminano in quella stretta linea di confine che sta a cavallo tra le tenebre e la luce, troppi finiscono la vita senza essere percepiti, senza affiorare, senza potere esercitare diritto di parola. Portatori però di «quei capolavori di discrezione che punteggiano l’esistenza di tanti individui senza notorietà, i quali ci fanno sperare che la pratica degli effetti speciali, opportuna nelle pellicole cinematografiche, non finirà per invadere anche spazi che, per loro natura, amano i sussurri o meglio ancora i silenzi». Se anche Jacopo si sente ateo come il padre, e non crede di avere debiti verso il soprannaturale, in questo concorderemmo, ringrazi comunque per come sono andate le cose, lo faccia con chi gli pare, ma ringrazi qualcuno. Morire dalla parte giusta quando si iniziò da quella sbagliata, drasticamente sbagliata, non capita tutti i giorni, ma è uno dei miracoli di cui noi uomini siamo artefici, perché cambiamo incessantemente, e ci è dato di farlo anche in prossimità della fine. Valse per Dario Fo, valga per ciascuno di noi, anche per chi si è unito al cordoglio solo a telecamere accese.
Ecco cosa scriveva Montanelli su Fo. Indro Montanelli ha più volte espresso la sua opinione su Dario Fo mettendola nero su bianco sulle colonne del Corriere della Sera e del Giornale, scrive Domenico Ferrara, Venerdì 14/10/2016, su "Il Giornale". Lo apprezzava più nelle vesti di attore che in quelle di oratore. Indro Montanelli ha più volte espresso la sua opinione su Dario Fo mettendola nero su bianco sulle colonne del Corriere della Sera e del Giornale. Nel 1962, quando scoppiò il caso Canzonissima, Montanelli, pur elogiando Fo definendolo un “valentissimo attore”, non si capacitava del fatto che “mentre negli altri paesi dell'occidente si discute di Mercato Comune, di Europa e della necessità di restituire al nostro vecchio continente una sua autonomia e dignità e dei mezzi che si debbono adottare per raggiungere questo risultato, in Italia gli argomenti del giorno e le grandi preoccupazioni di tutti sono Dario Fo, Franca Rame e la televisione”. Quando invece assegnarono il Nobel al giullare, in prima pagina sul Giornale, Montanelli espresse tutto il suo stupore riservando stoccate e parole caustiche. Era il 10 ottobre del 1997 e il giornalista vergava: “Il Nobel a Dario Fo mi riempie di tripudio. Per due motivi. Uno, strettamente personale, è la speranza che questa assegnazione guarisca finalmente della sua nobelmania il mio vecchio amico e degnissimo poeta Mario Luzi che da decenni si sentiva vedovo di quel premio e non riusciva a darsene pace. Spero che se la dia ora, vedendo a chi tocca. Il secondo motivo, più consistente, e che si riallaccia al tema di questo modesto articolo, riguarda il nostro rapporto con l'Europa. Dalle notizie di agenzia che affluiscono sui tavoli di redazione, risulta che l'Europa è rimasta senza parole alla notizia della crisi italiana e si sta chiedendo se sia il caso di accogliere nel suo Sinedrio politico ed economico un paese che, dopo aver fatto di tutto per esservi ammesso, rischia di vanificare tutto il suo sforzo aprendo una crisi senza capo né coda. Giusto. Ma un'Europa che sul piano culturale accoglie nel suo Gotha un Fo, che titolo ha a respingere la patria sul piano economico e politico?”. Qualche giorno prima, precisamente il 2 ottobre dello stesso anno, sulla Domenica del Corriere Montanelli scriveva: “Di Fo ho sempre detestato quello che diceva, ma lui era perfino simpatico. Mi dicono che la moglie sia la sua infuocatrice, la sua anima cattiva. Se fosse così, peccato, una donna bella dovrebbe infuocare ben altro”. Lo scritto rappresentava quasi una precisazione dopo le "lodi" tessute da Montanelli nei confronti di Fo per la sua difesa del Tricolore nella manifestazione antisecessione svoltasi a Milano. Il giornalista, da buon vanesio qual era, si era scoperto fino a un certo punto e aveva scritto: “Non mi sento imbarazzato da questa mia improvvisa e imprevista (anche da me) simpatia. Ad essere imbarazzato sarei io, se lui me la ricambiasse”. Per ritrovare il Montanelli caustico basta ripescare un altro scritto: “Dario Fo, poeta di corte dell'ultrasinistra, flagella nella sua ultima fatica teatrale il senatore Amintore Fanfani, responsabile di ogni nequizia passata, presente e futura. I sarcasmi più grevi hanno però come bersaglio il metraggio del notabile democristiano che, come tutti sanno, non è quello di un granatiere. Toulouse-Lautrec, che per gli stessi motivi dovette per tutta la vita subire analoghe canzonature, disse una volta, giocando sulla lunghezza del suo doppio casato: «Ho la statura del mio nome». Non sappiamo se questo discorso si possa applicare a Fanfani. Certo, si applica a Fo”.
Occupazioni, fabbriche e Cina Una comicità votata alla "causa". Attore e mimo di grande talento scelse però l'apostolato politico. Oscillando sempre tra il popolaresco e l'erudito, scrive "Il Giornale" il 14/10/2016. Pubblichiamo l'articolo di Mario Cervi (1921-2015), fondatore e direttore de il Giornale scritto quando fu assegnato il Nobel a Dario Fo. Il pezzo era entrato a far parte di un progetto editoriale che l'indimenticabile Cervi non poté condurre a termine a causa della malattia. "Ignoro in quale preciso momento Dario Fo, attore e mimo di straordinario talento, abbia sentito nascere e crescere in sé un'irresistibile voglia d'apostolato politico. Certo è che negli anni della contestazione Fo è stato, per il movimento studentesco e per i gruppuscoli della sinistra movimentista, un punto di riferimento essenziale. Bisogna ricordare, per capire il ruolo e l'importanza di Fo, cosa fosse la Milano di quegli anni. Era una metropoli che aveva abdicato alle sue tradizioni; che aveva consegnato le sue strade e le sue piazze ai cortei violenti del sabato; che aveva rinunciato a difendere la sua università dalla presa di possesso dei katanghesi di Mario Capanna. Era una Milano intimorita e avvilita: e anche, in molti salotti, affascinata dalla violenza fisica e dalla violenza verbale. A questo quadro che per i più, anche se venivano definiti «maggioranza silenziosa», era desolante, e che per una minoranza elitaria e snobistica era ricco di fermenti intellettuali, Dario Fo aveva dato l'apporto della sua capacità d'invenzione e di satira. La sua creatività allucinata e favolistica veniva utilizzata per la «causa». Il «poer nano» delle sue prime recite si trasfigurava in personaggi ambiziosi. Fo affermava e ripeteva di voler recitare per il popolo, anche se riesce difficile credere che il popolo - quello che s'appassionava e s'appassiona alle trasmissioni nazional-popolari della Rai e che evita il teatro come la peste - spasimasse per i testi di Fo. A volte ingegnosi a volte pretenziosi, oscillanti tra il popolaresco e l'erudito. Testi nei quali ancor più dei contenuti aveva valore il «messaggio», inequivocabile. Ha scritto Capanna nei suo Formidabili quegli anni: «Tra i benpensanti (1969, ndr) si leva lo scandalo degli artisti del living theatre che a un certo punto recitano completamente nudi sulla scena. Dario Fo, Franca Rame e la loro comune teatrale vanno di città in città in un crescendo di geniali sberleffi ai padroni e al loro potere. Sono i più applauditi interpreti delle lotte e delle speranze». Fo, l'uomo che aveva vestito in gioventù l'uniforme della Repubblica di Salò, anelava oltretutto al riscatto, probabilmente, con i suoi slanci populisti. La strage di piazza Fontana, che fu per più di una ragione una svolta nella vita italiana, lo fu anche per il corso artistico-politico di Fo. Piuttosto che alla strage bisogna anzi riferirsi alla morte dell'anarchico Pinelli. Fo abbracciò subito, con irruenza - e ben sapendo quanto le sue prese di posizione pesassero - le tesi che Pinelli fosse finito nel cortile della questura di Milano perché afferrato e scagliato nel vuoto dal bieco commissario Calabresi. L'attore aveva sottoscritto - in buona compagnia, le firme erano 800 - un documento in cui Calabresi veniva qualificato come commissario «torturatore» e come «responsabile della fine di Pinelli». Ma non si limitò a questo. Imbastì uno spettacolo (Morte accidentale di un anarchico) in cui Calabresi era «il dottor Cavalcioni» che costringeva appunto gli interrogati a mettersi in bilico su una finestra. I critici, incluso quello dell'Avvenire, andarono in estasi. E molti anni dopo Giovanni Raboni sentenziò sul Corriere della sera: «Uno spettacolo mirante soprattutto a mettere in evidenza, e in ridicolo, le molte contraddizioni e inverosimiglianze della versione prodotta dalla polizia e accreditata dalla magistratura». Qualcuno fu così convinto delle contraddizioni e delle inverosimiglianze (nonché della loro intollerabilità) che, lo sapete, ammazzo Calabresi. Divenuto guru acclamato della sinistra, Fo occupò nel 1974 una palazzina Liberty pressoché abbandonata e ne fece il suo quartier generale milanese, e il luogo deputato delle sue recite, oltre che dei riti contestativi. Franca Rame, che insieme con il marito si prodigava per aiutare i carcerati (in particolare quelli accusati di reati politici) impegnandosi a fondo nel «Soccorso rosso» svolgeva anche un'azione femminista di tutto rispetto. Sulla quale Indro Montanelli ebbe a pronunciarsi il 14 marzo 1975 (Festa della donna) in maniera decisa. «Leggo la sua lettera - scrisse a una lettrice dalle colonne del Giornale - proprio nel momento in cui la cronaca della città in cui vivo e lavoro registra le scalmanate e poco edificanti esibizioni delle suffragette rosse, incolonnate per le vie del centro di Milano nel giorno cosiddetto della Festa della donna. La manifestazione, con il solito corredo di violenze e di abusi, si e conclusa dentro e fuori la palazzina Liberty con una specie di rito pop ispirato alla libertà sessuale, officiante quel grande sacerdote del progressismo d'avanspettacolo che si chiama Dario Fo. Queste feste popolari la dicono lunga sulla situazione morale del Paese. La civilissima Milano è diventata, mi consenta l'espressione, una città di tolleranza». Ma ci voleva altro che la rampogna montanelliana - allora, intendiamoci - per spegnere le fiammate d'entusiasmo barricadero di Fo, il quale per un certo tempo si pose sotto la protezione ufficiale del Pci e andò girovagando, con le sue opere tra camere del lavoro e fabbriche. Ma poi la sintonia s'interruppe e Fo, che aveva esaltato in una commedia gli «espropri proletari», compì un lungo viaggio nella Cina della «rivoluzione culturale»: ossia delle repressioni, delle vessazioni, dei crimini orrendi. Ne tornò entusiasta. Non è il caso di infierire: tanti altri Maestri incapparono in analoghi infortuni. Di quella Cina insanguinata e sanguinaria Fo diede una descrizione giulebbosa e deamicisianamente ammirata. Fosse andato invece in Svezia, chissà quanti sberleffi avrebbe dedicato al perbenismo nordico e grigio di quella società. In compenso gli svedesi - che soffrono di noia, non di isterismi estremistici, e dunque ammirano gli eccessi - l'hanno solennemente premiato. Milano può tranquillamente applaudire, a sua volta: i cortei degli autonomi e del movimento studentesco sono acqua passata, e se qualcuno ne tenta una replica, si tratta piuttosto di una parodia. La dinamite politica è stata disinnescata. Ben venuto fu dunque per Fo il Nobel, che con la dinamite ha qualcosa a che fare.
Fo, una storia arci-italiana Quando il ribellismo fa rima con conformismo. Fustigatore della borghesia, ne divenne l'idolo Una commedia degli equivoci finita col Nobel, scrive Stenio Solinas, Venerdì 14/10/2016, su "Il Giornale". Come antidoto a una rivoluzione che non arrivava mai e a uno Stato borghese che non si decideva a tirare le cuoia, negli anni Settanta si andava a vedere Dario Fo. Gli spettacoli di solito erano in periferia, una fabbrica occupata o dismessa, una Camera del lavoro, un centro sociale, una cooperativa, un tendone I titoli erano a volte chilometrici, Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e grandi, L'operaio conosce solo 300 parole il padrone 1000 per questo lui è il padrone, altre sintetici, Fedayn, Il Fanfani rapito, ma lunghi o corti che fossero sul palcoscenico succedeva sempre la stessa cosa: gli attori correvano, i tamburi rullavano, c'erano bandiere e marce e canti, smorfie e sberleffi, volti stralunati, concitazione. Anche il pubblico era identico. Tante barbe, clarks e eskimo in quello maschile, zoccoli olandesi, gonnellone, borse di tolfa e capelli crespi per quello femminile. Dieci anni prima, Fo era stato il beniamino della piccola e media borghesia milanese dei teatri di centro, Comica finale, Gli arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è sfortunato in amore, un Feydeau alla meneghina che ancora non si era reincarnato in un Brecht alla cassoeula, e dieci anni dopo lo era dei loro figli e questo passaggio di consegne era in fondo un modo simbolico per uccidere il padre, in platea come sulla scena. Ancora un decennio e i componenti della prima si sarebbero limitati fisicamente a prenderne il posto, negli uffici pubblici, in banca, in azienda, l'eterno ribellismo italiano che fa rima con il conformismo e permette di vivere al potere facendo finta di essere all'opposizione Quanto al giullare della borghesia divenuto poi teatrante irregolare e militante, ad attenderlo ci sarà addirittura il Nobel per la letteratura e insomma, «a caval donato non si guarda in bocca», come già aveva detto Emilio Cecchi quando la scelta era caduta su Quasimodo. Al netto del talento, quella di Dario Fo è una storia arci-italiana. A diciott'anni è un «ragazzo di Salò», a trentacinque gli affidano Canzonissima alla televisione di Stato, a quaranta vuole radere al suolo lo Stato borghese, a cinquanta è di nuovo alla televisione di Stato con Mistero buffo, «opera in cui un giullare contemporaneo si è posto senza riserve al servizio del popolo per esprimerne i bisogni di autonomia dalla cultura borghese con le sue diverse varianti dal fascismo al revisionismo. Un intervento sul fronte culturale che assolve al suo compito di strumento per la ricomposizione ideologica e politica del proletariato in lotta per il comunismo». Esemplare, è il caso di dire. In questo curioso intreccio c'è la filigrana di un carattere. Nelle note biografiche descritte negli anni caldi della contestazione, di Salò naturalmente non c'è traccia e quella di Dario Fo è «una famiglia proletaria di tradizioni democratiche e antifasciste». Il padre è ferroviere, poi capo stazione, e probabilmente il Regime per tutto il Ventennio gli pagherà lo stipendio senza accorgersi che sotto la camicia nera ce n'è una rossa Quanto al figlio, che alla Rai comincerà a collaborare già nel 1952, la sfortunata esperienza di Canzonissima, censura e licenziamento, viene presentata come «una lezione pratica sulla natura profondamente reazionaria dello Stato e dei suoi strumenti di oppressione e controllo delle masse popolari», e il suo teatro borghese rivisto come «teatro sempre più politico dove la cultura popolare è individuata nel presente del movimento reale della lotta di classe». Più semplicemente, Fo era entrato in rotta di collisione con quello stesso potere di cui faceva parte, si era illuso di poter fare la contestazione con l'appoggio dei carabinieri A suo onore va detto che ne accettò e ne pagò le conseguenze, ma la estremizzazione del suo teatro, demagogico, retorico, chiassoso e logorroico, se da un lato rispecchiava il suo nuovo ed esacerbato estremismo politico, era dall'altro funzionale alla ricerca di un pubblico alternativo a quello tradizionale ormai precluso. «Da artista amico del popolo ad artista al servizio del movimento rivoluzionario proletario, giullare del popolo in mezzo al popolo, nei quartieri, nelle fabbriche occupate, nelle piazze, nei mercati coperti, nelle scuole» recitano le note cronologiche a Mistero buffo del 1974. Ora, solo in Italia si è verificato il curioso fatto della sovversione fatta con la connivenza e/o l'indifferenza dell'ordine costituito e gli anni Settanta in Italia sono stati proprio questo, una gigantesca commedia degli equivoci dove si strillava di voler abbattere il potere e si ristrillava se poi il potere non ci stava a farsi abbattere, un'opera dei pupi spesso e volentieri sanguinosa, politicamente parlando, ma, intellettualmente parlando, sempre opera dei pupi: nessun artista moriva di fame per le sue idee «rivoluzionarie», nessun artista finiva in galera per le sue idee «rivoluzionarie» e per ogni porta che si chiudeva ce n'era un'altra pronta ad aprirsi come camera di compensazione. Il giuoco delle parti avrebbe detto Pirandello, premio Nobel come Fo. Appunto.
Così la Fallaci sbugiardò Fo: "Fascista prima nero, poi rosso". La giornalista in una intervista a Panorama: "Quelli come lui hanno torturato mio padre", scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 14/10/2016, su "Il Giornale". Tra Oriana Fallaci e Dario Fo non correva buon sangue. Negli anni si scambiarono diverse accuse, il primo barricato su posizioni no-global, la seconda sempre controcorrente. Alla scrittrice fiorentina non piaceva «come giullare» e come autore «l'ho sempre bocciato». Inoltre fu lei a denunciarne il facile conformismo: «fascista nero» durante il Ventennio e «fascista rosso» quando essere di sinistra andava di moda. La scintilla che fece scattare l'astio tra i due fu l'accusa che la moglie del drammaturgo rivolse alla Fallaci di fronte alla massa di no-global che nel 2002 invasero Firenze. In un articolo sul Corriere della Sera, Oriana aveva invitato suoi concittadini a dissociarsi dagli antagonisti violenti. Franca Rame e il premio Nobel dal palco la definirono una «terrorista». Nell'archivio storico di Panorama è possibile recuperare alcuni passaggi di una intervista alla scrittrice, raccolti in un lungo articolo dal titolo Oriana Fallaci risponde. «Franca Rame - le fece notare Riccardo Mazzoni - le ha dato della terrorista». «Già - rispose la giornalista - Dinanzi alla Basilica di Santa Croce, dal palcoscenico del comizio che ha aperto l'oceanico raduno. Sicché, quando la sua discepola cioè quella delle caricature è andata alla Fortezza da Basso con l'elmetto in testa, molti bravi-ragazzi l'hanno scambiata per me. Si son messi a ulularle Lercia terrorista, lercia terrorista. Del resto il marito della summenzionata ha detto che a Firenze io volevo i carri armati». La Fallaci disse di provare «disprezzo» per i coniugi Fo e «una specie di pena, perché v'era un che di penoso in quei due vecchi che per piacere ai giovani radunati in piazza si sgolavano e si sbracciavano sul palcoscenico montato dinanzi a Santa Croce». In loro non vedeva dignità, mancanza di cui trovò conferma quando scoprì che Fo vestì la camicia nera della Rsi. «Sono rimasta sorpresa - disse - io che parlo sempre di fascisti rossi e di fascisti neri. Io che non mi sorprendo mai di nulla e non batto ciglio se vengo a sapere che prima d'essere un fascista rosso uno è stato un fascista nero, prima d'essere un fascista nero uno è stato un fascista rosso. E mentre lo fissavo sorpresa ho rivisto mio padre che nel 1944 venne torturato proprio da quelli della Repubblica di Salò. M'è calata una nebbia sugli occhi e mi sono chiesta come avrebbe reagito mio padre a vedere sua figlia oltraggiata e calunniata in pubblico da uno che era appartenuto alla Repubblica di Salò. Da un camerata di quelli che lo avevano fracassato di botte, bruciacchiato con le scariche elettriche e le sigarette, reso quasi completamente sdentato. Irriconoscibile. Talmente irriconoscibile che, quando ci fu permesso di vederlo e andammo a visitarlo nel carcere di via Ghibellina, credetti che si trattasse d'uno sconosciuto. Confusa rimasi lì a pensare chi è quest'uomo, chi è quest'uomo e lui mormorò tutto avvilito: Oriana, non mi saluti nemmeno?. L'ho rivisto in quelle condizioni, sì e mi son detta: Povero babbo. Meno male che non li ascolti, non soffri. Meno male che sei morto».
Ecco cosa pensava la Fallaci del "penoso" Dario Fo: "Senza dignità". La scrittrice fiorentina Oriana Fallaci dedicò alcune righe a Dario Fo e sua moglie: "A parte il disprezzo, intende dire? Una specie di pena. Perché v'era un che di penoso in quei due vecchi", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". Anche Oriana Fallaci disse la sua su Dario Fo. Tra i due non correva buon sangue, è evidente: si scambiarono diverse accuse, il primo barricato su posizioni no-global, la seconda sempre controcorrente. Dario Fo e la moglie attaccarono duramente la scrittrice, in quegli anni calunniata per le sue idee non in linea col pensiero unico della sinistra. La Fallaci nel 2002 si era schierata contro una manifestazione dei no-global prevista a Firenze, occasione che sarebbe potuta trasformarsi in un secondo G8 di Genova. In un articolo sul Corriere della Sera la scrittrice fiorentina aveva invitato suoi concittadini a protestare pacificamente e ad addobbare a lutto la città. Dal palco della manifestazione Franca Rame, moglie di Fo, definì la Fallaci una "terrorista". La giornalista in tutta risposta scrisse ne "La forza della Ragione" che "fui esposta al pubblico oltraggio. Istigato, questo, da un vecchio giullare della Repubblica di Salò. Cioè da un fascista rosso che prima d'essere fascista rosso era stato fascista nero quindi alleato dei nazisti che nel 1934, a Berlino, bruciavano i libri degli avversari". Un duro affondo che ripercorreva la famosa controversia sull'arruolamento di Dario Fo nella R.S.I.. Non solo. In diverse interviste e numerosi testi Oriana tornò a parlare dei coniugi Fo. Sull'archivio storico di Panorama è possibile recuperarne alcuni passaggi raccolti in un lungo articolo dal titolo "Oriana Fallaci risponde". "Franca Rame - gli fece notare Riccardo Mazzoni - Le ha dato della terrorista". "Già - rispose la Fallaci - Dinanzi alla Basilica di Santa Croce, dal palcoscenico del comizio che ha aperto l'oceanico raduno. Sicché, quando la sua discepola cioè quella delle caricature è andata alla Fortezza da Basso con l'elmetto in testa, molti bravi-ragazzi l'hanno scambiata per me. Si son messi a ulularle "Lercia terrorista, lercia terrorista". Del resto il marito della summenzionata ha detto che a Firenze io volevo i carri armati". Poi il giornalista domandò: "Mi chiedo che cosa provasse a guardarli". E la Fallaci, dura e diretta, disse: "A parte il disprezzo, intende dire? Una specie di pena. Perché v'era un che di penoso in quei due vecchi che per piacere ai giovani radunati in piazza si sgolavano e si sbracciavano sul palcoscenico montato dinanzi a Santa Croce, quindi dinanzi al porticato che un tempo immetteva al Sacrario dei Caduti Fascisti. In loro non vedevo dignità, ecco. A un certo punto l'amico che con me li guardava alla tv ha sussurrato: "Ma lo sai che lui militava nella Repubblica di Salò?". Non lo sapevo, no. Come essere umano non mi ha mai interessato. Come giullare, non m'è mai piaciuto. Come autore l'ho sempre bocciato, e la sua biografia non mi ha mai incuriosito. Così sono rimasta sorpresa, io che parlo sempre di fascisti rossi e di fascisti neri. Io che non mi sorprendo mai di nulla e non batto ciglio se vengo a sapere che prima d'essere un fascista rosso uno è stato un fascista nero, prima d'essere un fascista nero uno è stato un fascista rosso. E mentre lo fissavo sorpresa ho rivisto mio padre che nel 1944 venne torturato proprio da quelli della Repubblica di Salò. M'è calata una nebbia sugli occhi e mi sono chiesta come avrebbe reagito mio padre a vedere sua figlia oltraggiata e calunniata in pubblico da uno che era appartenuto alla Repubblica di Salò. Da un camerata di quelli che lo avevano fracassato di botte, bruciacchiato con le scariche elettriche e le sigarette, reso quasi completamente sdentato. Irriconoscibile. Talmente irriconoscibile che, quando ci fu permesso di vederlo e andammo a visitarlo nel carcere di via Ghibellina, credetti che si trattasse d'uno sconosciuto. Confusa rimasi lì a pensare – chi è quest'uomo, chi è quest'uomo – e lui mormorò tutto avvilito: "Oriana, non mi saluti nemmeno?". L'ho rivisto in quelle condizioni, sì e mi son detta: 'Povero babbo. Meno male che non li ascolti, non soffri. Meno male che sei morto'".
Moralisti, guru, no global Ecco i nemici di Oriana. La giornalista, dopo «La Rabbia e l'Orgoglio» fino alla morte, fu attaccata da sinistra radicale e radical chic. Le sue idee si sono prese la rivincita, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 16/03/2016, su "Il Giornale". Nel 2002 esce L'islam castiga Oriana Fallaci. Lettera a una vecchia mai cresciuta (Edizioni Alethes) di Adel Smith, presidente dell'Unione musulmani d'Italia, «il primo ed unico partito religioso-politico musulmano in Europa». Si tratta di una risposta a La Rabbia e l'Orgoglio. Secondo l'autore, le parole della Fallaci sono «turpi vaniloqui di poveri squilibrati, di etilisti all'ultimo stadio». Meglio ancora: «Oltraggi che, di norma, più che scoprirli in un libro, si odono ai mercati generali. Spesso sotto i ponti. A volte negli ospedali psichiatrici o, piuttosto, sui marciapiedi delle strade illuminate dai falò accesi da quelle tante ospiti (prevalentemente atee o cristiane) dei Paesi dell'est, che cercano di scaldarsi e farsi notare durante il loro servizio notturno». Insomma, tanto per fugare ogni dubbio, il linguaggio usato «dalle peripatetiche». Naturalmente la Fallaci è subito accusata di volgarità. Adel Smith sarà quindi misurato? Giudicate voi stessi: «Preparati a una forte e giusta punizione: essere messa a nudo. Denudata. Spogliata. Non del tuo abbigliamento come, forse, avresti desiderato (e dico desiderato visto che di te vien detto che hai l'utero nel cervello). Non mi interessa. Ma denudata della tua forza, di quella tua tenue forza che trai dalle tue spregevoli menzogne. Sto per smascherarti. Preparati! Sto per infliggerti una punizione. Te lo meriti, eccome. Donna! Brutta o bella che tu sia, preparati dunque adesso al castigo umano: quello divino, ben più abbondante e doloroso, lo avrai dopo, a suo tempo. Questa è una promessa». Può sembrare incredibile ma in questo caso è la realtà a superare la fantasia: Adel Smith riuscì a diventare un personaggio mediatico, ospite nei principali talk show. A fine dicembre 2001, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti traduce in termini pop le idee dei primi accusatori della Fallaci. Nell'album Il Quinto mondo, è contenuto il brano Salvami. Da una parte il G8 di Genova, visto da una prospettiva no global: «Villaggi di fango contro grandi città», «mercato mondiale e mercato rionale»; dall'altra l'attentato alle Torri Gemelle, in particolare la polemica seguita a La Rabbia e L'Orgoglio. Un paio di versi sono rivolti alla Fallaci: «La giornalista scrittrice che ama la guerra/ perché le ricorda quando era giovane e bella». C'è da chiedersi se Jovanotti, epitome canora del politicamente corretto, avrebbe scritto le stesse cose di un uomo, riducendone le idee a un fatto biografico e soprattutto anagrafico. Volgarità a parte, il cantante ripropone lo stereotipo della Fallaci guerrafondaia. Tiziano Terzani, nell'introduzione a Lettere contro la guerra (Longanesi) troverà Salvami molto «poetica». Nella successiva polemica di Oriana contro il Social Forum organizzato dai no global a Firenze, salta fuori Sabina Guzzanti con un'imitazione della Fallaci elmetto in testa. La comica travalica e irride il cancro della giornalista. Questa la risposta, affidata a Panorama: «Giovanotta, essendo una persona civile io le auguro che il cancro non le venga mai. Così non ha bisogno di quell'esperienza per capire che sul cancro non si può scherzare. Quanto alla guerra che lei ha visto soltanto al cinematografo, per odiarla non ho certo bisogno del suo presunto pacifismo. Infatti la conosco fin da ragazzina quando insieme ai miei genitori combattevo per dare a lei e ai suoi compari la libertà di cui vi approfittate». Ancora: «E nessun giullare che mi bercia addosso in piazza, nessun lanzichenecco che imbratta la mia fotografia in TV, nessun'oca crudele che mi impersona con l'elmetto in testa e deride la mia malattia, nessun corteo di cialtroni che marciano levando cartelli su cui è scritto Oriana puttana o Fallaci guerrafondaia riuscirà mai a intimorirmi, a zittirmi» (La Forza della Ragione). Ma cos'era successo? Nel novembre 2002 è in programma a Firenze il Social Forum Europeo. È il punto d'incontro delle associazioni contrarie al neoliberismo, la galassia genericamente definita «no global». Analoghi raduni sono finiti male: scontri con le forze dell'ordine, città devastate, perfino morti e feriti. Tutti hanno in mente Genova, il G8, il tentativo di forzare la zona rossa interdetta ai manifestanti, gli anarchici violenti del Black Bloc, le cariche della celere, la macelleria messicana della scuola Diaz, piazza Alimonda, Carlo Giuliani. Firenze non sembra il luogo adatto per ospitare l'evento previsto alla Fortezza da Basso. I cortei possono raggiungere facilmente il centro storico. E incidenti nella culla del Rinascimento potrebbero causare danni irreparabili al patrimonio artistico, la prima ricchezza, oltre che l'anima, della città toscana. Il 6 novembre, sul Corriere della Sera, la Fallaci invita i suoi concittadini a una serrata generale in occasione del Social Forum: «Chiudete i ristoranti, i bar, i mercati. Chiudete i teatri, i cinema, le farmacie». Nonostante le minacce di alcune frange, Oriana si dice sicura che nessuno oserà imbrattare o devastare o attaccare. Ma anche l'intimidazione è violenza, e con l'intimidazione il Social Forum ha ottenuto la Fortezza da Basso. Ora bisognerà difenderla, insieme col resto di Firenze, da eventuali no global desiderosi di menare le mani. Il dissenso della Fallaci è legato soprattutto a motivi ideologici. La scrittrice se la prende con i «falsi rivoluzionari, i figli di papà, che vivendo alle spalle dei genitori o di chi li finanzia osano cianciare di povertà. Di ingiustizia. I presunti pacifisti, le false colombe, che la pace la invocano facendo la guerra e la esigono da una parte sola. Cioè dalla parte degli americani e basta». Il comitato di redazione del Corriere della Sera entra in fibrillazione. Avrebbe voluto fosse chiaro, dalla titolazione e dall'impaginazione, che la Fallaci non rappresenta la linea del giornale di via Solferino. Il fiorentino Tiziano Terzani rilascia un'intervista a la Repubblica, pubblicata il 7 novembre, nella quale per l'ennesima volta accantona la raggiunta serenità spirituale per buttarsi nella feroce polemica personale: «Il caso Fallaci non è più politico, ideologico o morale. A mio parere è un caso clinico». «Per una che un anno fa ci aveva promesso di stare zitta, mi pare che blateri anche troppo» aggiunge Terzani convinto che non si possa «gratuitamente invitare i concittadini all'odio».
PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".
I pantaloni bassi? Un segnale "sessuale" (o forse no). Si dice che l'uso dei pantaloni bassi derivi dalle carceri americane. Vero, ma per un motivo diverso, scrive Federico Baglioni, Redattore Today, il 18 dicembre del 2015. Da dove nasce la moda dei pantaloni bassi? Dalle carceri americane. Molti siti riportano questa frase: "questa tendenza è nata nelle carceri americane, i prigionieri disposti a fare sesso con altri prigionieri si inventarono questo segnale. Chi girava con i pantaloni sotto il sedere era disposto a farsi penetrare da altri detenuti." Come spiega Bufale Un Tanto Al Chilo, la sua origine sono effettivamente le carceri, ma il motivo non ha nulla a che vedere con la disponibilità sessuale. Il motivo di questa "moda" è essenzialmente che in molti stati è vietato l'uso della cintura per evitare che possa venire usata come arma, sia per far male agli altri, sia per tentare il suicidio. Dunque una "leggenda a fin di bene", nel senso che sono in molti a non condividere affatto questo modo di portare i pantaloni. Uno di questi è lo stesso Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ha peraltro aggiunto che vietare, tramite leggi, la pratica di indossare i pantaloni ribassati sarebbero una perdita di tempo.
Jeans a culo scoperto: trovarci un perché… ma senza bufale! Scrive Gaia Conventi il 10 dicembre 2011. E finché è un bimbominkia con movenze da orango e mutanda 012 di fuori, puoi anche farci una risata – piccolo sfigato, magari inciampi e ho la fortuna d’avere pronta la macchina fotografica –, ma è quando il tale a culo scoperto ha passato i trenta che ti chiedi se sta mostrando il culo perché non può mostrare le palle. Sveglia, signori, passata la trentina – mia e vostra – è meglio parlarci chiaro: le donne a culo di fuori sembrano otarie volgarotte in cerca di una fuggevole palpata, gli uomini… o signore benedetto, gli uomini fanno proprio ridere. Finché siete ragazzini, si può ancora sperare che i vostri genitori vi mettano di fronte a uno specchio a figura intera, ma se siete abbondantemente maggiorenni… dai, su, mollate la pezza! Ma non era questo che volevo raccontarvi, ché di mode orrende ne sono passate sotto i ponti, ma almeno le spalline imbottite non ci facevano mostrare niente – ma niente, eh? nemmeno il collo, sembravamo tartarughe ninja – e per fortuna sono morte e sepolte, come immagino finirà anche la moda della mutanda al vento. Volevo invece farvi notare che, a volte, per smontare una cazzata – il jeans trucido – si pensa bene di biasimarla con una cazzata maggiore, detta anche bufala, ma cazzata rende meglio. Questa arriva direttamente da facebook, e recita (copia-incolla fedele): Per tutti coloro che pensano sia bello passeggiare con i pantaloni sotto al culo, LEGGETE la seguente spiegazione: questa tendenza è nata nelle carceri, negli Stati Uniti ‘dove i prigionieri che erano disposti a fare sesso con altri prigionieri avevano bisogno di creare un segnale che sarebbe passato inosservato da parte delle guardie così da non subire conseguenze, quindi mostrando parzialmente il loro sedere, dimostravano che erano disponibili ad essere penetrati da altri detenuti. Ora, a me ‘sto fatto del detenuto a pronta fregola fa un po’ sorridere, immagino che le carceri americane non abbondino di gentlemen che richiedono appuntamenti galanti esclusivamente agli interessati. Tocca quindi farsi un giro nei meandri di internet per sconfessare questa cacchiata, lo faccio volentieri, state tranquilli La moda della braga abbondante e del culo scoperto, secondo la rete e il buonsenso, ha avuto origine in diverse maniere: dai rapper e dal loro bisogno d’abiti comodi, dal ghetto e dall’impossibilità familiare di acquistare “capi su misura” per i diversi figli della nidiata (il jeans va bene a te e poi passa a tuo fratello, e poche storie!), ma anche dal non poter portare – e qui sì siamo arrivati alle prigioni – una cintura per tenere su i pantaloni. Le cinture in carcere non sono ammesse, ma voi già lo sapete visto che, come me, vi siete pappati centinaia di telefilm made in USA. Qualcuno si azzarda anche a dire che non è possibile avere taglie diversificate e quindi ai detenuti tocca fare con quel che passa il governo. Non mi intendo di moda carceraria, ma visto che il governo americano si occupa pure delle mimetiche militari – posso farmi testimone del fatto che quelle le trovate dalla XS in poi, lo dico perché ho comprato surplus militare per anni –, non vedo perché non debba metterci lo stesso impegno anche nei pigiamini a strisce. Quindi, mi sento di dire a tutti i bimbiminkia in ascolto che il jeans a culo panoramico non li rende preda del primo galeotto che passa, li rende soltanto ridicoli.
La vera storia dei "pantaloni calati", scrive Postato, scrive Ileana Corte l'8 maggio 2013. Quante volte vi è capitato di vedere ragazzi anche molto giovani, con questi jeans calati (baggy) a volte così tanto che non solo si vedono totalmente le mutande sotto ma a volte perfino il fondo schiena??!!!! Vogliamo parlare di come camminano? che sembra che dopo un lauto pranzo, abbiamo cercato disperati un bagno senza aver avuto fortuna e quello sia il macabro risultato del problema intestinale? Vogliamo parlare del fatto che vadano fieri di girare in questo modo e che addirittura a volte mentre camminano se li abbassano di più (metti caso che non si vede la marca dei boxer)?!!!! Ottenendo questo effetto di culo inesistente, visto che la piega naturale dei pantaloni rimane ad altezza coscia e sembrano dei mezzi nani deficienti? Che se si fermassero un attimo a riflettere con l'ultimo neurone rimasto, e poi chiudo qui e passo alla vera storia dei pantaloni calati, è NOTO le donne tra le prime cose che guardano statisticamente è il fondo schiena. Quindi........secondo loro, fanno colpo con questo triste jeans pronto per defecare? Se non lo avete capito ve lo dico io: NO. ALLE DONNE QUESTO JEANS NON PIACE!!!! Diciamo che l'effetto è lo stesso che a voi fanno le famose scarpe ballerine che usano certe donne: Antisesso, anti tutto direi! Ma approfondiremo in altra occasione questa cosa. Passiamo alla vera storia di questo uso (non posso chiamarla moda, sarebbe come bestemmiare): La verità pare che arrivi dall'America, in particolare sembra che il tutto nasca nelle carceri e non certamente come moda. In prigione non si possono usare le cinture e quindi può capitare che la tuta arancione che devono indossare i carcerati, possa allentarsi sui fianchi. Pare anche tutto questo abbia portato alcuni detenuti ad abbassare volutamente i calzoni per indicare la disponibilità a fare sesso, creandone quindi un chiaro segnale per gli altri, ma senza che questo fosse notato dalle guardie carcerarie per evitare qualsiasi ritorsione. Ora: se questa ultima parte sia una leggenda metropolitana non lo so, ma tutto può essere al giorno d'oggi. In un secondo momento i rapper americani, per stringere solidarietà con i detenuti, hanno cominciato ad usare i pantaloni calati e da li ne è nata una moda nel mondo hip pop, tra gli skater etc. Stile chiamato Sagging (anche se io ci vedo poco di saggio, ehehe). Dopo aver letto questa cosa non sono più riuscita a guardare la gente con indosso questi baggy o pantaloni calati, senza ridere. Ogni volta penso a questa storia e mi domando se la gente prima di fare qualcosa legga, si informi o se faccia come le "pecore" con la regola del: basta seguire la prima e viaaaaaa! hahaahahah si ho la certezza che sia così.....è tipico della mentalità italiana, abituata a seguire la prima persona davanti e fare quello che fa lei. Lo noti nelle interminabili code al casello, quando ci sono 5 porte automatiche e tutti fanno la fila nella prima che tu sia in posta, ad un evento etc, lo vedi nella politica potrei citarne altre mille.
FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.
Si è fatto con Cristo…, figuriamoci con i poveri cristi.
“E quando fu sera, egli si mise a tavola con i dodici; e, mentre mangiavano, disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". Ed essi si rattristarono grandemente, e ciascuno di loro prese a dirgli: "Sono io quello, Signore?". Ed egli, rispondendo, disse: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto mi tradirà. Il Figlio dell'uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell'uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato". E Giuda, colui che lo avrebbe tradito, prese a dire: "Maestro, sono io quello?". Egli gli disse: "Tu l'hai detto!". Matteo 26
La predizione di Gesù. Quando, nell’imminenza dell’arresto, Gesù preannuncia il prossimo sbandarsi delle pecore rimaste prive del pastore (nonché, occorre pur dirlo, la propria successiva risurrezione), Pietro insorge esclamando: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Al che Gesù: “In verità ti dico che questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Ma Pietro insiste: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. E l’evangelista aggiunge che “similmente dissero anche tutti gli altri discepoli”. Abbiamo citato da Matteo (26, 33-35); la versione di Marco differisce solo in un particolare: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (14, 30). Sensibilmente diversa invece la versione di Luca (22, 31-34), che inizia con il preannuncio del ritorno di Simon Pietro al suo ruolo di guida dopo la defezione: “Simone, Simone, ecco, Satana vi ha reclamato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede. E tu, una volta ritornato, corrobora i tuoi fratelli”. Replica Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Al che Gesù ribatte come sappiamo: “Ti dico, Pietro, non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi”. Quanto al quarto vangelo, anche in esso figura, in forma un poco diversa, il botta e risposta tra Pietro e Gesù: "Pietro disse: ‘Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! Rispose Gesù: ‘Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte’" (Gv 13, 37-38). Rispetto ai Sinottici, manca, in questo passo, il preannunzio della diserzione di tutti i discepoli senza eccezione alcuna. Ciò è comprensibile se si pensa che il quarto evangelista afferma in seguito la presenza del discepolo prediletto ai piedi della croce. Con dubbia coerenza, però, il concetto della diserzione generalizzata viene espresso tre capitoli più avanti: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Dopo l’arresto di Gesù, già si è visto, le cose vanno in effetti come egli aveva preannunziato: tutti i discepoli si sbandano e fuggono.
Fenomenologia della negazione, scrive Salvo Vitale il 2 maggio 2016 su "Telejato" nelle fasi dello sandalo che ha investito Pino Maniaci. QUANDO IL GIUDIZIO CAMBIA, L’AMORE DIVENTA ODIO, L’AMICIZIA INIMICIZIA, IL RISPETTO DISPREZZO. Se si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. E’ più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che mi faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità o il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, o, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il pingpong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti. In quest’ultimo caso, poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, amarezze, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura. Tipico, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”, non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicchè la “dottrina dell’amore” diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era un “lagnusu”, non voleva lavorare, era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Garibaldi era uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza” , che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche era uno che è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse, ecc. Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni : se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD, è al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all’universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili. La “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così si conclude che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc. I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone. Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, “i grillini”, “i musulmani”, “persino i “Lions… “, tanto per mettere insieme cose di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e tutte le altre sono sbagliate. Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell’amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternitè”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi (gli “errori giovanili”) e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il “taglio” non è necessario trasformarlo in “omicidio”, passare attraverso la soppressione dell’amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l’amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere “insieme” sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti. Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, il cui traguardo è il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, dove ci si riconosce come “compagni”.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.
La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.
Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure degli eccidi di Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia inclusi i 600,000 Vandeani, uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà e della superiorità anticlericale ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica
Streghe e Inquisizione: la verità storica oltre i luoghi comuni, di Bartolo Salone. Quando si parla di caccia alle streghe, nell’immaginario collettivo è immediato l’accostamento all’Inquisizione cattolica. Centinaia di migliaia, anzi milioni di donne sarebbero state sterminate per colpa di quell’esecrabile Istituzione, che certa storiografia liberal ci ha abituati a vedere come un covo di fanatici e integralisti religiosi assetati di sangue. Ma sono andate veramente così le cose? La ricerca storica, di recente, ha ribaltato questa prospettiva, dimostrando la falsità di una delle più diffuse “leggende nere” anticattoliche. Possiamo definire la stregoneria come quell’insieme di pratiche che una persona, in particolare relazione col Maligno, possa esercitare per nuocere ai suoi simili (secondo la credenza popolare). Benché si parli sovente di streghe e di caccia alle stesse, in realtà – come risulta dai documenti storici – la persecuzione riguardò, seppur in misura più ridotta, anche gli uomini e, in qualche raro caso, perfino i bambini. Contro un diffuso luogo comune di stampo femminista, va dunque rilevato come la “caccia” non era rivolta al sesso femminile in quanto tale, nascendo invece da una più generale ossessione per il diabolico. Ossessione – e qui va sfatato un altro luogo comune – sorta non nella Cristianità medievale, bensì nell’Europa moderna, proprio in quella osannata Europa della Riforma e del Rinascimento. Se nel Medioevo la credenza nella stregoneria non attecchì presso il popolo si deve proprio alla Chiesa cattolica, la quale, in numerosi Concili dal VI al XIII secolo (si pensi al Concilio di Praga del 563 o di Lione dell’840, fino ad arrivare ai Concili di Rouen e di Parigi, rispettivamente celebrati nel 1189 e nel 1212), condannò come superstiziosa idolatria la credenza che esistessero persone capaci di esercitare la magia nera in forza dei loro rapporti con il diavolo. A partire dalla fine del XIII secolo, le credenze stregonesche, per ragioni storiche che in questa sede non è possibile riepilogare, si fanno sempre più diffuse sia presso il popolo che presso alcuni ecclesiastici ed uomini di cultura. Sul piano dogmatico la posizione ufficiale della Chiesa sulla stregoneria (formulata nei predetti Concili) non muta, tuttavia muta la risposta al fenomeno: streghe e stregoni, proprio perché contravvengono agli insegnamenti della Chiesa e al divieto di esercitare le arti magiche, vengono considerati alla stregua degli eretici, e pertanto la competenza giurisdizionale, nei Paesi cattolici, viene sottratta ai tribunali civili e assegnata ai tribunali inquisitoriali. Secondo una certa vulgata (sostenuta con forza da intellettuali “liberal” e da romanzieri asciutti di storia alla Dan Brown) questo avrebbe segnato l’inizio di una vera e propria mattanza, che nell’arco di tre secoli avrebbe portato al rogo non migliaia, ma addirittura milioni di donne (tutte ascrivibili, manco a dirlo, al fanatismo e alla misoginia propri del mondo cattolico). Fin qui la “leggenda”. La verità è però ben diversa e per rendercene conto basterà riferirsi ad alcuni dati tratti dall’opera più completa ed aggiornata di cui ad oggi si dispone in tema di stregoneria e di caccia alle streghe: si tratta della “Enciclopedia della stregoneria, la Tradizione occidentale” edita nel 2007 dalla Abc-Clio e curata dallo storico anglosassone Richard Golden, per un totale di ben 752 voci, compilate da 172 studiosi di 28 diverse nazionalità. Innanzitutto, facciamo attenzione alla periodizzazione e alla “geografia” del fenomeno: la cosiddetta “caccia alle streghe” (ma, come visto, non mancarono anche roghi di stregoni) va dal 1450 al 1750 (siamo dunque in piena età moderna, non nel “buio” Medioevo) e interessò un po’ tutti i Paesi europei, sia cattolici che protestanti. Quante le persone giustiziate per stregoneria? Centinaia di migliaia o milioni, come ci ripetono alcuni? Ebbene, la cifra “vera” si aggira tra le 30.000 e le 50.000 unità, da “spalmare” nel corso di tre secoli: una cifra considerevole, ma comunque irrisoria se paragonata ai milioni di morti delle grandi rivoluzioni e guerre dell’800 e delle stragi del ‘900, e in ogni caso non tale da giustificare la definizione di “genocidio” né tantomeno di “olocausto”. Un fenomeno prevalentemente cattolico, dovuto alla furia dei tribunali inquisitoriali? Anche questa è una falsità bell’e buona. Infatti nei Paesi che avevano l’Inquisizione, le “streghe” giustiziate furono soltanto 310 (precisamente, 300 in Italia e Spagna e soltanto 10 in Portogallo), a cui si aggiungono (per rimanere in ambito cattolico) i 600 casi della Francia e i 4 dell’Irlanda. La grande massa (tra le 15.000 e le 25.000 vittime) è concentrata in Germania, mentre la piccola Svizzera contribuì al massacro con 3.000, la Scandinavia con 2.000 e la Scozia con 1.000. Si ha quindi conferma che la mattanza fu concentrata soprattutto nei Paesi luterani, calvinisti, anglicani o in quei piccoli Stati tedeschi che non avevano l’Inquisizione cattolica. Dunque, l’Inquisizione costituì non un incentivo (come a lungo ci è stato fatto credere), bensì un freno (e molto efficace) contro la persecuzione delle “streghe”. Le ragioni ci sono spiegate dallo storico Richard Golden in questo modo: “Nelle terre dove regnava la legge dell’Inquisizione cattolica vi furono meno vittime rispetto ad altre regioni d’Europa. Questo si deve al fatto che le tre Inquisizioni applicavano regole omogenee ovunque, avevano propri tribunali composti da giudici con nozioni basilari di diritto e applicavano la legge seguendo canoni universali, rispondendo a un unico potere. In Germania, invece, dove si ebbe il numero più alto di streghe uccise, la realtà era opposta: ognuno degli oltre trecento principati e staterelli aveva un sovrano con un suo tribunale che applicava la legge a piacimento e di conseguenza i pericoli per le presunte streghe aumentavano. I tribunali laici del nord e del centro dell’Europa condannarono a morte molte più streghe di quanto fecero quelli dell’Inquisizione cattolica romana, che facevano maggiore attenzione al rispetto di garanzie legali e di conseguenza limitavano il ricorso alla tortura”. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che da cattolici realmente maturi e amanti della verità dovremmo imparare ad andare oltre certi luoghi comuni e a guardare con più serenità ed obiettività al nostro passato. E non solo per un dovere di carità verso quanti ci hanno preceduto nella fede, ma anche per saper rispondere a ragion veduta a quanti vorrebbero farci vergognare della nostra fede presentandoci una visione parziale e in molti casi deformata della storia della Chiesa. Introduzione Floriana Castro testo seguente tratto da appuntiitaliani.com
L’eresia, la propaganda e la leggenda della chiesa assassina. La Santa Inquisizione, scrive il 29 agosto 2015 antimassoneria. Sicuramente alcuni lettori al semplice suono della parola “medioevo” avranno già davanti scenari cupi e tenebrosi di cumuli di cadaveri ammassati sui carri nel periodo della peste bubbonica o i roghi della chiesa assassina! Quando parliamo di Inquisizione è proprio il caso di dire: basta la parola. Basta pronunciare il termine Inquisizione ed ecco che noi cattolici restiamo senza parole, ammutoliti. Beh, la chiesa non è più come quella di una volta, oggi i papi non fanno altro che inchinarsi e chiedere perdono davanti a chi ha perseguitato impenitentemente la Chiesa di Cristo. Oggi i papi prendono le distanze dalla tenacia con la quale i loro predecessori hanno difeso l’etica cristiana. Suppliche di perdono che tra l’altro non vengono nemmeno accettate -come nel caso dei valdesi-, che si scissero dalla Chiesa rifiutando la sottomissione alle autorità episcopali ed in seguito combatterono ferocemente la Chiesa Cattolica, anche con la violenza: Essi si diedero alla rapina, al saccheggio, alle stragi di cattolici, a violenze gratuite di ogni genere nel corso dei secoli. Fino a poco più di cent’anni fa misero a punto vari attentati con lo scopo di assassinare San Giovanni Bosco. Invano il vescovo Bellesmaius li richiamò all’ordine. Il papa Lucio III finì per condannarli, nel concilio di Verona e nella Bolla Ad abolendam, del 4 novembre 1184. In seguito i valdesi si organizzarono come setta separata dalla Chiesa. Dallo scisma passarono presto all’eresia. Molto più tardi, verso il 1533, adottarono le principali dottrine della Riforma protestante: Fu questo ad attirare su di essi le repressioni legali sotto Francesco I. Essi furono allora, per ordine del Parlamento di Aix-en-Provence, le vittime di una tremenda spedizione punitiva, durante la quale vi furono migliaia di morti (le cifre variano fra 800 e 4.000 per 22 villaggi distrutti). Oggi i Valdesi si dichiarano ecumenici e desiderosi di collaborare nella Chiesa targata “Vaticano II” dopo aver chiarito alcuni punti teologici con Bergoglio, ricordiamo i punti teologici sulla quale si basano i valdesi: matrimoni gay, sostegno a movimenti LGBT, contraccezione, aborto, eutanasia, testamento biologico (i cui registri, in diverse città, sono gestiti proprio dai valdesi). Chiudiamo la parentesi dei valdesi; andiamo al cuore del problema: cosa ha fatto la chiesa per difendere la sua dottrina nel passato? Davvero gli scenari erano quelli descritti nel libro “Il nome della rosa” di Umberto Eco? E’ vero che tante povere donne innocenti venivano date al rogo solo per tenere un gatto nero in casa? “Come è possibile che la Chiesa cattolica sia stata capace di istituire i tribunali dell’Inquisizione?” domandano e ci ricordano i laicisti e gli avversari della Chiesa. E noi, spesso, non sappiamo che cosa rispondere. Anzi, molti cattolici spesso per ignoranza accusano i cristiani del passato, chiedendo scusa alle presunte vittime. Scusa? Ma conoscete la Santa Inquisizione?
COSA FU L’INQUISIZIONE? L’inquisizione è l’argomento privilegiato dai signori della sovversione per denigrare la storia della Chiesa e con questo pretesto anche la fede cattolica. La Santa Inquisizione fu istituita da Papa Gregorio IX nel 1232, per reprimere eresie, sacrilegi, stregonerie e gravi delitti. Quando ci si trovava davanti a delitti gravi e gli accusati non si pentivano, erano consegnati all’autorità civile, che li castigava secondo la legge. Ovviamente bisogna giudicare le cose secondo la mentalità dell’epoca. In Europa erano tutti obbligati a seguire la religione del re, secondo il principio “CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO” (di chi è la regione, dello stesso è la religione) per cui un delitto nel campo religioso (eresia) era considerato come attentato contro lo Stato, che interveniva con tutto il peso della legge. Ad accendere i roghi furono prima la gente comune e poi le autorità, tanto che la Chiesa dovette intervenire per avocare a sé il problema. Cioè: in tema di religione solo la Chiesa ha la competenza necessaria nonché la misericordia occorrente affinché sul rogo non ci finisca qualche sprovveduto. Perciò creò l’Inquisizione, un tribunale di esperti teologi con tanto di garanzie che accertava che l'“eretico” fosse veramente tale e non un poveraccio tratto all’eresia da ignoranza. Se l’imputato persisteva nelle sue “idee”, la Chiesa non poteva fare più nulla per lui e passava la mano all’autorità civile. Pertanto, servirsi di questo fatto per attaccare il cattolicesimo e la sua dottrina è storicamente scorretto. Ricordate quanti cristiani furono dati in pasto ai leoni? quanti cristiani furono decapitati ai tempi della Roma pagana? Come mai nessuno ricorda le vittime cristiane sacrificate in nome della “libertà, uguaglianza e fraternità”? E le vittime cristiane durante gli anni 30 in Spagna? e le vittime causate dal Comunismo in Russia e in tutti i paesi comunisti? E i cattolici martirizzati ai tempi dell’istituzione dell’Anglicanesimo in Inghilterra, come si può dimenticare ciò? Anche perchè stiamo parlando di ben 70.000 martiri uccisi per impiccagione e squartamento che avveniva prima della morte per soffocamento,- Beh, a me non sembra corretto non ricordare mai nemmeno le vittime causate dall’inquisizione protestante, numero assai superiore di quella Spagnola. Non c’è obiettività…mi sembra ovvio che il bersaglio da colpire è sempre la chiesa cattolica e la sua dottrina. E' abitudine citare il processo e l’atto di abiura di Galileo Galilei, sospettato di eresia. Il conflitto che egli stava affrontando contro una parte della Chiesa riguardava l’interpretazione di Galileo verso alcuni passi biblici che sostengono l’immobilità della terra e del movimento del sole distorti a favore dell’eliocentrismo. Consideriamo che la Chiesa prima delle prese di posizioni di Galileo era stata favorevole all’ “ipotesi copernicana”. Si evita di chiarire che dopo il processo Galileo non finì sul rogo, ma fu trasferito presso l’arcivescovo di Siena, dopo pochi mesi gli fu concesso di trasferirsi presso la sua abitazione. Pochi conoscono il “segreto” del processo alla quale fu sottoposto Galileo. Proprio di questo “caso” parla il libro “Lezioni da Galileo” recentemente pubblicato da APRA in italiano, scritto dal celebre storico della scienza Stanley Jaki (scomparso nel 2009). Jaki ha smontato diverse leggende, chiarendo che la Chiesa non era affatto interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé e che non lo temeva affatto. Anche perché, come abbiamo scritto, già quattro secoli prima di lui san Tommaso d’Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Inoltre, diversi pontefici, come Leone X e Clemente VII, si mostrarono aperti alle tesi del sacerdote cattolico Copernico (nessun “caso Copernico”, infatti), tanto che nell’Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana (e lo stesso Galilei ne era consapevole). Nel 1533 papa Clemente VII, affascinato dall’eliocentrismo, chiese, ad esempio, a Johann Widmanstadt di tenergli una lezione privata sulle teorie di Copernico nei Giardini Vaticani. L’opposizione all’eliocentrismo venne invece in modo compatto dal mondo protestante, tanto che Lutero scrisse di Copernico: «Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica». Ancora oggi i protestanti hanno grossi problemi con il mondo scientifico (creazionismo Vs evoluzione) a causa della mancanza di interpretazione della Bibbia. La critica a Galileo da parte della Chiesa fu basata invece dalla mancanza di prove sufficienti a favore dell’eliocentrismo e dunque sulla sua inopportuna presentazione come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. Galilei, inoltre, utilizzò come unica prova l’argomento dell’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare (e avevano ragione loro, non certo lo scienziato pisano). Tuttavia molti ecclesiastici erano d’accordo con Galilei, come ha perfettamente spiegato lo storico ateo Tim O’Neill, «tutta la vicenda non era basata su “scienza vs religione”, come recita la favola della fantasia popolare.
QUANTE VITTIME FECE L’INQUISIZIONE? Nell’immaginario popolare si pensa che i tribunali dell’Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell’inquisitore finivano al rogo. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica. Innanzitutto, ricordiamo che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo. Fu l’imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l’impero – e lui era la massima autorità dell’impero e poteva farlo, allora, – l’eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. Dunque, è vero che quando il tribunale dell’Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, nè era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza. Detto questo, entriamo un po’ nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L’esame dei dati ci indica che i tribunali dell’Inquisizione furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l’esempio di Bernardo Gui, che ha esercitato con una certa severità l’ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l’elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci – 9 pellegrinaggi – 143 servizi in Terra Santa – 307 imprigionamenti – 17 imprigionamenti platonici contro defunti – 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti – 69 esumazioni – 40 sentenze in contumacia – 2 esposizioni alla berlina – 2 riduzioni allo stato laicale – 1 esilio – 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato – 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati. Soltanto l’ 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell’Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: “La valutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari”. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’ inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell’immaginario popolare. Nei documenti inquisitoriali, abbiamo incontrato condanne alla prigione “perpetua e irremissibile”. Ma attenti a non farsi ingannare da certi modi di esprimersi del tempo. Abbiamo condanne al “carcere perpetuo per anni uno”. Solitamente “perpetuo” vuoi dire 5 anni, “irremissibile” vuoi dire 8 anni. La pena dell’ergastolo non era prevista.
CHI ERANO QUESTI CITTADINI CHE L’IMMAGINARIO VUOLE ESSERE STATI PERSEGUITATI PER LE LORO IDEE RAZIONALI? QUALI ERANO QUESTE IDEE? Ora, diciamo subito una cosa molto scomoda e fuori moda: non si deve pensare come è abbastanza diffuso nell’immaginario popolare che i condannati fossero pacifici cittadini adibiti a pratiche religiose del tutto innocue e le donne delle pie sante devote accusate ingiustamente senza alcuna prova, non e’ affatto la verità! essi erano in realtà colpevoli di praticare stregoneria e omicidi rituali, basti pensare a quante donne improvvisate ”ostetriche” compivano aborti fino alle ultime settimane di gravidanza per poi sacrificare i resti delle povere creaturine in rituali satanici. Gli eretici spesso costituivano un autentico pericolo per la pace sociale. Pensiamo ai Catari. Condannavano il matrimonio, la famiglia e la procreazione. Per i Catari non bisognava comunicare la vita, ma distruggere la famiglia, in poche parole: distruggere l’intera società medievale, lottavano anche con violenza contro la Chiesa. Negavano il valore del corpo, che consideravano prigione dell’anima. Questa soffre e si può liberare solo sopprimendo il corpo. Talvolta praticavano il suicidio e istigavano a compierlo, causavano rivolte e caos. I catari erano potenti e privi di scrupoli. L’autorità civile non intendeva permettere che, a furia di vietare la procreazione, l’umanità si estinguesse (tra l’altro, i catari proibivano il giuramento, che era la base della società feudale). Ben pochi sanno tutto questo. I settari sorvegliano attentamente e si affrettano ad intervenire perciò onde soffocare ogni timido accenno (non oseremmo mai parlare di restaurazione cattolica dopo il Vaticano II) di rievocazione della grandezza dell’Europa medioevale: la Leggenda Nera dei secoli caliginosi e bui deve essere mantenuta e un torrente di anatemi è scagliato ogniqualvolta si cerchi di metterla in discussione. Eloquente in proposito un articolo comparso nel maggio 1990 sul New York Times – testata giornalistica di proprietà della ricchissima famiglia ebraica dei Sulzberger – a firma di Dominique Moisi, vicedirettore dell’IFRI, l’Istituto per gli Affari Internazionali francese, intitolato: “Uno spettro ossessiona l’Europa: il suo passato”. Vi si dice: “Disgraziatamente (ora che l’Est si è liberato), nell’ombra esiste un’altra Europa, dominata da uno spirito di ritorno alle sue cattive inclinazioni di un tempo, nei richiami alle nere tentazioni della xenofobia, del razzismo e dello sciovinismo”. “[…] Noi non dovremmo sognare di ricostruire un’Europa cristiana sulle ceneri del mondo comunista o nei limiti di un certo capitalismo. L’Europa che Giovanni Paolo II desidera è quella nella quale la maggioranza degli Europei non si troverà molto a suo agio. La Chiesa – che storicamente è responsabile dell’antisemitismo – non saprà offrire soluzioni a una nuova Europa; soltanto i valori umanisti e le istituzioni democratiche sapranno farlo. O altrimenti il muro di Berlino sarà caduto invano”. Non esiste, né può esistere, una società che non si basi su un corpus strutturato di idee (chiamateli, se volete, valori, princìpi, religione civile) e che non lo difenda se vuole continuare a sussistere, ieri come oggi (basti pensare alle leggi sull’omofobia). (Il corriere della sera equipara l’ISIS ai roghi dell’Inquisizione). Eh si, che fortuna che abbiamo, i tempi sono cambiati, adesso non siamo più nel medioevo. Oggi paghiamo il 50 per cento dei nostri introiti ai prestatori di capitale, mentre nel medioevo il cittadino doveva solo la decima alla Chiesa o al feudatario. Oggi si può liberamente bestemmiare senza vergogna, si può ostentare con orgoglio il peccato, e si possono esigere diritti per i suoi perpetratori; si possono aprire pagine blasfeme su Facebook (in linea con i termini della community) create appositamente affinchè ognuno scriva la propria bestemmia sulla pagina; si possono tranquillamente ammazzare i propri figli nel ventre materno con la benedizione delle istituzioni e i soldi dei contribuenti; si può tranquillamente essere iniziati al satanismo comodamente da casa; ci si può arruolare tra i miliziani dell’ Isis con dei semplici click davanti ad un computer… Un uomo senza radici, infatti, privo di riferimenti, senza terra, senza uno scopo di vita diverso dal piacere e dall’accumulo di beni materiali fine a se stesso, è esattamente il prototipo ricercato dai mondialisti, docile burattino massificato, le cui pretese non travalicano il benessere biologico e la cui visione del mondo – solo a prima vista ampia, essendo egli una specie di apolide senza tradizioni. Che fortuna che abbiamo noi ad essere nati in una società così moderna ecumenica e progressista!
ELOGIO DEL PLAGIO. CHI, COME, E PERCHÉ IL “COPIA E INCOLLA” È LA BASE – NASCOSTA – DELLA LETTERATURA. Di Luigi Mascheroni del 29 agosto 2014. Pubblichiamo, in anteprima, il capitolo introduttivo del saggio che Luigi Mascheroni sta scrivendo sul plagio letterario e giornalistico, e che sarà pubblicato nella primavera del prossimo anno. Il titolo non è ancora definito. Si tratta di un work in progess. L’autore chiede a chiunque voglia aiutarlo consigli, indicazioni, suggerimenti. Nel 1988 David Foster Wallace, considerato oggi uno degli scrittori più originali della nostra epoca, sta per pubblicare il suo secondo libro, La ragazza dai capelli strani, una raccolta di racconti tra i quali ne figura uno, destinato a diventare leggendario, intitolato La mia apparizione. Parla del potere dei media (e della televisione in particolare, di cui lo scrittore americano era dipendente forse più dell’alcol e della marjuana) che nella società dello spettacolo arrivano a colonizzare ogni aspetto dell’esistenza umana, fino ai nostri pensieri più intimi. La fonte diretta dell’ “ispirazione” della storia di David Foster Wallace è una puntata del popolare programma Late Night with David Letterman nella quale è ospite l’attrice Susan Saint James. Poco prima dell’uscita in volume, il racconto viene concesso, come lancio, a Playboy. Ma mentre sta per andare in stampa, un editor della rivista, una sera, per puro caso, s’imbatte proprio in una replica di quella puntata e riconosce nelle parole dell’attrice alcuni brandelli dei dialoghi presenti nel racconto. Allarmato, avverte subito l’editor di Wallace e l’ufficio legale della propria redazione. Ormai è troppo tardi per modificare il testo e La mia apparizione esce comunque sul numero di giugno del 1988 di Playboy. Ma, ormai dubbiosa della reale originalità del talento creativo dello scrittore, la casa editrice che avrebbe dovuto pubblicare la raccolta, Viking Penguin, si tira indietro. E Alice Turner, l’editor di David Foster Wallace, furiosa, scrive una lettera di fuoco al suo pupillo in cui lo avverte che la sua reputazione è in pericolo: gli scrittori americani che si macchiano di plagio non vengono mai perdonati. Ma proprio il fatto che David Foster Wallace non sia mai stato dimenticato, tanto meno dopo il suicidio, dimostra che Alice Turner, editor eccellente ma troppo rigorosa, si sbagliava. Non solo l’autore di Infinite Jest è (rimasto) immortale nonostante il suo plagio (ammesso che lo si possa reputare tale: chiunque di noi considererebbe tutto ciò pura e legittima ispirazione). Ma addirittura ha contagiato e influenzato molti altri scrittori. In un lungo reportage letterario, da San Francisco a Los Angeles, “per scoprire quanto manca David Foster Wallace”, Paolo Giordano, devoto all’autore-culto americano, confessa che “I libri mi spingono a scrivere come lui. Con una forza di attrazione plagiatoria che nessun altro autore ha mai più esercitato su di me”. Dice proprio così: “una forza di attrazione plagiatoria”. Certo, David Foster Wallace era ed è un genio fuori dagli schemi, e non fa testo. Ma rimane il fatto che moltissimi scrittori s’ispirano alla realtà, o addirittura la copiano. Si nutrono – e nutrono le proprie pagine – di brani, dialoghi, momenti di vita, “pezzi” di idee: tutti altrui. E non potrebbero farne a meno. La scrittura creativa vive di ispirazioni e imitazioni. Qualcuno deve averlo pur detto – e anche scritto da qualche parte – che la letteratura è tutto un inseguirsi, un mimetizzarsi, un cercarsi, un compenetrarsi, un fondersi, un assimilarsi e, infine, un citarsi. Appunto. E non per questo le “nuove” opere appaiono meno originali. Anzi: ri-creando, re-inventando, ri-scrivendo, ri-plasmando parole e pensieri (di chi ci ha preceduti) la realtà spesso appare migliore, e la narrazione ci guadagna. Anche quando – addirittura – un’opera letteraria s’ispira – o emula, o riscrive, o copia, o plagia – le pagine di un altro narratore. Il poeta catalano, nato a Barcellona nel 1945, Pere Gimferrer, in un breve saggio dal titolo I segreti del plagio, cita due scrittori originali e misteriosi. Il primo è lo spagnolo Josep Pla i Casadevall (1897-1981), il quale a proposito dei libri italiani di Stendhal sosteneva fossero “puro e semplice plagio: gli aneddoti che contengono sono un meraviglioso plagio. Ho sempre sostenuto che la buona letteratura è un plagio”; e il secondo è Isidore Lucien Ducasse, noto al mondo come Conte di Lautréamont (1846-1870), metà uruguaiano metà francese, che prima di morire, giovanissimo, lasciò alcune Poésies epigrammatiche e sarcastiche, di fatto paradossali aforismi in prosa, il più impressionante dei quali recita: “Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Il plagio cattura la frase d’un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta”. Sintetizza Pere Gimferrer: “Il plagio è la chiave di volta della letteratura e, al tempo stesso, il suo massimo mistero. Il plagio d’argomenti è ancora poco importante: Fedra, Medea, Antigone, sono archetipi mitici, morali, non aneddoti. Ma il plagio dei dettagli letterali, dei dati, delle espressioni, ci turba di più, perché è, certamente, la base della grande letteratura. Si potrebbe dire che la cattiva letteratura è semplicemente un cattivo plagio, un plagio non riuscito. E la buona letteratura? La buona letteratura, io credo, ha scoperto l’essenza del buon plagio. Il quale, essendo buono, già non è più plagio. Il buon plagio sa che il materiale letterario esistente è parte della porzione di realtà alla portata dello scrittore”. Come dimostra la storia di tutte le letterature e la cronaca di ogni giorno, tutti rubano. Senza copiare, i giornali non uscirebbero. E senza plagio, la letteratura sarebbe più povera. Anche il più originale degli autori – (in)consciamente – ruba frasi, idee, trame, contesti, personaggi, versi, battute. La letteratura è furto. E come diceva Voltaire, uno che in materia la sapeva lunga, “Tra tutti i crimini il plagio è il meno pericoloso per la società”. Anzi, l’intera società è un furto. Gli scrittori si ispirano, i giornalisti copiano (anche se dicono di usare “ritagli d’archivio”), i saggisti ri-copiano (spesso interi paragrafi di Wikipedia), gli artisti citano, gli architetti rifanno, i musicisti orecchiano, i comici riprendono, gli sceneggiatori adattano (testi “originali”), gli autori televisivi ri-adattano (i format), i pubblicitari mixano (idee degli altri), i politici fotocopiano (tesi e programmi altrui). Si fa man bassa dell’immaginario condiviso, si riscrive ciò che non si ricorda di aver letto, si ripete ciò che non ci si ricorda più di aver udito, si riproduce – con varianti – ciò che non ci si ricorda di aver già visto. Si ripete ciò che senza accorgerci si è appena ritwittato. Disponiamo dell’altrui come se fosse nostro. E infatti è nostro. Anche se non ci appartiene. Anche su un capolavoro assoluto come Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, un romanzo che ha ispirato intere generazioni di scrittori, sono state ventilate illazioni in merito alla non originalità della storia. Ma, come rispose Fernanda Pivano, che conosceva benissimo sia l’autore che il romanzo, “Il libro fu scritto nel 1951, ma una prima versione della storia si trova in un racconto del ’36. Si sa che all’origine c’è un resoconto orale di un amico di Hemingway, Carlos Gutierrez, ma questo fa parte del metodo di lavoro dello scrittore: a partire dalla cronaca, da personaggi, da fatti reali, per costruire romanzi a tesi”. Si deve sempre partire da qualcosa. Che non è mai nostro. Charles Nodier (1780-1844), novelliere molto famoso nella propria epoca e grande bibliofilo (e egli stesso squisito plagiatore: un suo racconto deriva quasi integralmente dalla “Decima giornata” del celebre Manoscritto trovato a Saragozza di Jean Potocki), autore nel 1812 di una curiosa inchiesta (era figlio di un magistrato…) sui “Crimini letterari” dove si occupa, tra le altre cose, di falsi, citazioni, allusioni, appropriazioni e plagi, di fatto sostiene l’idea che la Repubblica delle Lettere è fatta soprattutto di criminali, perché anche il più originale degli autori ruba. Certo, occorre misura, come in tutte le cose. “Quando si saccheggia un autore moderno – suggerisce Nodier – prudenza vuole che si nasconda il bottino. Ma guai al plagiario se è troppo grande la sproporzione tra quel che ruba e ciò a cui lo incolla”. Insomma, se William Shakespeare rubacchiava (eccome se rubacchiava) nel sacco dei poeti suoi contemporanei, e il risultato sono le sue opere immortali, è la Letteratura che ci guadagna. Ma se un oscuro scribacchino si appropria delle parole di un classico per appiccicarle al proprio romanzetto, a perderci sono entrambi. Poi, c’è chi ne fa una semplice questione linguistica, considerando l’ “appropriazione” da un autore straniero più un’utilità sociale, al pari della traduzione, che un furto. Perciò il poeta barocco Giambattista Marino (1569-1625), il quale di citazioni, allusioni, pastiche e plagi ne sapeva parecchio (era il primo ad ammettere candidamente di leggere le opere altrui “col rampino”), non aveva difficoltà a sostenere che “prendere dai connazionali è fare bottino, ma prendere dagli stranieri è fare conquiste”. Scrivere è anche ri-scrivere, è omaggiare la tradizione. Se serve, anche assassinarla. In fondo, faceva notare qualcuno, scrivere è un’arte combinatoria fra 22 modestissime lettere dell’alfabeto. E come sosteneva Jorge Luis Borges dentro quel pugno di simboli ci sono tutti i libri, passati, presenti e futuri. Le figure, le trame e le situazioni narrative sono migliaia di migliaia, ma una volta inventate emigrano da un inconscio all’altro e riaffiorano qua e là, con minime varianti. “La musica orecchiabile, proprio perché tale, assomiglia a qualche cosa già scritta, già proposta alla gente. Se non fosse stata udita non avrebbe successo”, disse una volta il maestro Ennio Morricone. E la stessa cosa lo si può sostenere per la narrativa, e non solo per quella più “pop”, di consumo, di genere. I poemi epici, le favole antiche, i grandi classici, le saghe: tutte storie già “orecchiate”, già udite, già sedimentate nel ricordo (inconscio) dei popoli, e dei loro bardi. Da Omero a Virgilio, da Virgilio a Dante, dai tragici greci a Racine e Corneille, non escludendo (anzi!) Shakespeare, le medesime “storie” sono state raccontate infinite volte, senza mai tradire le attese del pubblico. A fare la differenza, non è mai stato il “cosa” si racconta, ma il “come”. Questione di stile.
Qualsiasi artista o creativo o intellettuale trae ispirazione da opere altrui. Dagli antichi ai post-postmoderni, passando per la nota querelle accademica dell’imitazione letteraria degli ‘antichi’ da parte dei ‘moderni’ (pratica che un tempo veniva considerata una vera e propria scuola di scrittura e idee), è una lunga storia di calchi, prestiti, saccheggi, imitazioni, scippi, cover, citazioni, echi, allusioni, appropriazioni, similitudini, analogie, coincidenze, omaggi, campionature, somiglianze, contaminazioni, debiti, cloni, furti, cut-up, copia-e-incolla. Come hanno scritto: “Il plagio è un’arte, non un delitto”. La letteratura non può farne a meno, il giornalismo ne ha fatto la propria essenza, la Rete – “un’enorme cava a cielo aperto di materiali da plagiare” – lo ha universalizzato, sottraendolo a qualsiasi giurisdizione. Dall’italiano plagio al francese plagiat, dall’inglese plagiarism al tedesco plagiat: siamo tutti pirati di parole. Dagli autori classici alla narrativa di consumo fino ai bestseller, tutti in qualche modo “copiano”: alcuni in maniera elegante, altri con dolo, altri ancora applicando il furto con destrezza. Ma è davvero un crimine? “Il plagio è la base di tutte le letterature – disse Jean Giraudoux (1882-1944) – eccetto la prima, che ci è sconosciuta”. Mentre Federico Fellini, che sul tema era molto à la page (ne sanno qualcosa i cinefili), diceva: “I veri geni copiano”. La storia della letteratura, o meglio, della creatività umana, mostra un continuo ed esteso processo di riscrittura, commistione, ricombinazione, ovverosia di plagio nelle sue infinite sfumature. E’ una lunga battaglia. Da una parte legislatori, autorità ed enti che amministrano il copyright, “diritto d’autore”, e si battono per tutelare e difendere da furti e abusi la “proprietà intellettuale”. Dall’altra i “pirati” del copyleft, i paladini dell’open source, della libera circolazione e del ri-uso delle idee, che quella “proprietà” contestano e assaltano, in nome della “libertà di copiare”. Come scrive un membro del collettivo anti-copyright Wu Ming: “Per decine di millenni la civiltà umana ha fatto a meno del copyright (…). Se fosse esistita la proprietà intellettuale, l’umanità non avrebbe conosciuto l’epopea di Gilgamesh, il Mahabharata e il Ramayana, l’Iliade e l’Odissea, il Popol Vuh, la Bibbia e il Corano, le leggende del Graal e del ciclo arturiano, l’Orlando Innamorato e l’Orlando Furioso, Gargantua e Pantagruel, tutti felicissimi esiti di un esteso processo di commistione e ricombinazione, riscrittura e trasformazione, insomma di plagio, nonché di libera diffusione e performance dal vivo (senza l’interferenza degli ispettori Siae)”. E così, mentre ogni giorno e ogni notte, milioni di persone combattono la loro battaglia per la libertà contro gli occhiuti vigilantes dei governi e delle corporation dell’entertainment, scaricando, riproducendo, distribuendo, condividendo, masterizzando, in un processo continuo di erosione dei confini tra originale e copia, tra intuizioni semioriginali e imitazioni smaccate, finisce che inevitabilmente, più o meno (il)legalmente, tutti copiano tutto, in tutti i campi dello scibile. Nella letteratura (si iniziò nel mondo greco e romano, si continua con i bestseller digitali), nella poesia (dai Nobel come Eugenio Montale ai poetastri della domenica a corto di illuminazioni), nel giornalismo (dal leggendario Jayson Blair al nostro Roberto Saviano), nella saggistica (dalla storia alla scienza, dalla filosofia alla teologia, spesso succhiando dalla Rete intere frasi, paragrafi, capitoli, conclusioni, spesso senza citare), nel cinema (ormai in crisi creativa e che si affida sempre di più a film tratti dai libri: quasi una duplicazione narrativa), nel teatro (a partire dal gigante Bertolt Brecht) e nei testi comici (il caso di Daniele Luttazzi, il quale ri-faceva battute di colleghi americani, travolto dalla furia iconoclasta di Internet, a Maurizio Crozza che ha rubato con disinvoltura battute da Twitter), nei fumetti (il caso del disegnatore della Panini Comics Giuseppe Ferrario, autore delle tavole de Le Cronache del Mondo emerso tratto dalla saga di Licia Troisi, sospeso dall’azienda perché replicava personaggi, pose, sfondi, panorami del maestro di manga e anime Hayao Miyazaki), nei serial e nei format televisivi (dalla serie culto New Girl a Ballando sotto le stelle), nella musica (l’ultimo caso, eclatante, è quello di Sergio Endrigo che post mortem si è visto riconoscere dal compositore Luis Bacalov la co-paternità della colonna sonora del film Il postino, Oscar nel 1996; ma si calcola che le cause di plagio musicale pendenti negli uffici giudiziari italiani siano non meno di tremila), nell’arte (dove il “citazionismo” è esso stesso un’arte, e dove da Andy Warhol in poi la “riproducibiltà” – o plagio d’autore- di cui si lamentava Walter Benjamin è arrivata a livelli imprevisti). E poi nella moda (la Maison Chanel, accusata di aver copiato un modello da una ditta appaltatrice, nel 2012 fu condannata dal tribunale di Parigi a pagare un risarcimento di 200mila euro), nell’architettura (quanti edifici fotocopia, anche firmati da archi-star), nelle tesi di laurea (tanti studenti, spesso futuri politici), nella pubblicità (il gruppo dolciario Ferrero che per il manifesto del Kinder Bueno nel 2013 copiò l’autoritratto di una liceale di Pavia diventato la locandina della manifestazione Scienza Under 18), insomma ovunque ci sia da lavorare con le idee (altrui). Ispirarsi a modelli preesistenti, nell’arte e in letteratura, è inevitabile. Chiunque scriva o crei, finisce per rubare qualcosa a qualcun altro. Siamo immersi in un universo culturale, in una marmellata di parole, suoni e immagini, che assimiliamo, modifichiamo e riproponiamo a un ritmo sempre più frenetico e in dosi sempre più massicce (e la Rete offre una proliferazione esponenziale di materiale da plagiare) credendo nuovo e originale ciò che ha già una (lunga) storia. “La letteratura si nutre di calchi e imitazioni. Dagli antichi ai postmoderni, i plagi appaiono frequentissimi – ha scritto Giovanni Mariotti, che tempo fa beccò un verso di Umberto Saba rubato a un poesia di Jean Cocteau -. E tuttavia si potrebbe anche sostenere, con buoni argomenti, che nessuno ha mai plagiato nessuno, perché plagiare è impossibile. Passando da un autore a un altro, un segmento di testo, un’immagine, un motivo mutano timbro, colore, significato. Il riverbero del contesto li rende cangianti”. Insomma, quando è “ripresa” e non mero “copia-e-incolla”, il plagio è un “illecito di serie B”. Ma – ci si chiede – dove finisce l’ispirazione, l’imitazione creativa, l’omaggio, la cover, la “reiterazione” consapevole o meno di modelli (tutti atti artistici sempre esistiti e impossibili da eliminare del tutto); e dove inizia il furto vero e proprio? Dove finisce la creatività e dove inizia il saccheggio ideologico? Il concetto di “plagio”, sul quale si accapigliano avvocati, giudici e copywtiter resta oggi molto vago, attorno al quale aleggia una vasta zona grigia. Dove non è compito di questo libro addentrarsi. Non saremo noi a provare una definizione culturale e/o giuridica di plagio (reato per il quale le condanne peraltro si contano sulle dita di una mano). Né saremo noi a giudicare quando e come un romanzo è banalmente e illegalmente la copia di un altro, e quando è una accettabile ispirazione, o una colta citazione. Lasciamo la difficile impresa a critici e giuristi. Noi ci limiteremo a raccontare i casi più eclatanti, divertenti, curiosi e tragici di libri che sono entrati a vario titolo in quell’area indefinita e sfumata chiamata “plagio”. Per dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che la letteratura vive, e prolifera, di parole già dette. E già lette. Letteratura, cinema, arte, giornalismo. Nessuno può prescindere dal plagio (e dall’auto-plagio: quanti Venerati Maestri, da Claudio Magris a Pietro Citati, riciclano i propri pezzi a giornali differenti, o allo stesso giornale in tempi diversi?). La creatività non è un’illuminazione che viene dal nulla, ma si nutre di “ispirazioni” e imitazioni. Del resto, inventare deriva dal latino “invenire”, che significa immaginare, ma anche trovare. Di solito qualcosa “perso” da altri… E spesso chi copia ottiene successi creativi superiori al (presunto) originale, con effetti e cortocircuiti sorprendenti… Tre curiosi esempi, molto indicativi. Quentin Tarantino è stato accusato di aver copiato molte scene del celeberrimo Le Iene (1992) dal molto meno noto (anzi, in Occidente quasi sconosciuto) City on Fire (1987) film degli esordi del regista Ringo Lam, poi diventato famoso negli Stati Uniti: il triello finale (che c’è già nel cinema di Sergio Leone…), la rapina andata male, un uomo torturato da un membro della banda; molte delle sequenze in cui è presente Mr. White sono state direttamente spostate dal titolo cinese e trasferite in Le Iene. In pratica, è come se Tarantino avesse copiato l’ultima parte di City on Fire per creare però un film autonomo e americano al cento per cento. In risposta alle accuse di plagio, Tarantino – il cui genio cinefilo ha partorito schiere di emuli votati al copia-incolla – disse: “I grandi artisti non copiano: rubano”, plagiando a sua volta una frase del compositore Igor’ Strainskij. Il secondo esempio. La filosofia che è alla base di Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano, la storica antologia di Gino&Michele che debuttò nei Tascabili Einaudi nel 1991, per fare poi la fortuna della Baldini&Castoldi, è l’esaltazione del frammento editoriale e del “furto culturale”, che gli autori stessi sintetizzano con la più celebre fra le citazioni sul plagio, ovvero “Se copi da uno è plagio, se copi da molti è ricerca”. Il libro, un mosaico di pensieri e di battute (di altri), divenne un fenomeno di culto. Copiatissimo. Il terzo esempio. Il saggio del 2013 di Fabio Macaluso E Mozart finì in una fossa comune (sottotitolo: “Vizi e virtù del copyright”) contiene una prefazione di Aldo Grasso in cui il celebre critico televisivo “copia” da un proprio precedente scritto del 2010, dove parlava delle gag copiate dal comico Daniele Luttazzi… Non solo. Il testo di Aldo Grasso fu “rubato” anni prima, inserendolo come prefazione di un pamphlet underground di cui si sono perse le tracce. Ma che (sembra) iniziava così: “Alzi la mano chi non ha mai copiato!”. Appunto.
GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.
Si propone di seguito un articolo dandogli immeritato spazio, sebbene l’autore pecchi d’ignoranza, omettendo per dolo o per colpa il riferimento al dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Notissimo sul web con oltre cento titoli di opere tematiche e territoriali di inchiesta e denuncia di sociologia storica. Insomma il re degli "intellettuali scorretti".
Giovani, bravi e arrabbiati. Ecco gli intellettuali "scorretti". Ci sono i conservatori, gli antimoderni, i reazionari... Sono editori e agitatori culturali. Oltre la destra e la sinistra. Ma non progressisti, scrive Luigi Iannone, Martedì 30/08/2016, su “Il Giornale. Studenti e neo laureati, tanti sotto i 30 anni. Detestano le categorie destra-sinistra ma mostrano particolare avversione per i progressisti. Sono tanti questi intellettuali in erba. Agitatori culturali che dominano la Rete e si raccontano come realtà vive e non riserve indiane. Eccone alcuni profili.
ANARCO-CONSERVATORI Sebastiano Caputo e Lorenzo Vitelli dirigono L'Intellettuale dissidente: «Un progetto nato a costo zero. Sostenuti esclusivamente dal contributo dei lettori attraverso donazioni e acquisto dei libri della nostra casa editrice Proudhon. Non abbiamo entrate pubblicitarie, finanziamenti privati o fondi pubblici. Peraltro il lettore medio appartiene a quella fascia di età che va dai 18 ai 30 anni. Questo perché abbiamo dato una rappresentanza culturale ed editoriale ai nostri coetanei con circoli su tutto il territorio». Ma non si definiscono rottamatori: «Rifiutiamo il giovanilismo. Siamo anarchici-conservatori». Tra le novità dei prossimi mesi un'antologia di testi sulle élite di Gramsci, Pareto, Mosca e Michels, e la ripubblicazione di Filosofia della miseria di Proudhon. Ad ottobre andrà in rete una piattaforma su sport e costume.
ANTICONFORMISTI «Pubblichiamo di tutto senza guardare in faccia nessuno. Non abbiamo preclusioni. E presentiamo i nostri volumi ovunque ci invitino». Sono le parole di Alessandro Amorese, quarantenne con base a Massa, in Toscana e deus ex machina di Eclettica, casa editrice nata nel 2009. Anche qui, quasi tutti trentenni i responsabili delle collane con una trasversalità che si assapora già nei titoli: una biografia di Beppe Niccolai, un saggio su Marcuse, uno su Bruno Leoni e scritti di Giuseppe Solaro (segretario provinciale del Partito Fascista Repubblicano di Torino).
ANTIMODERNI Si muovono su due fronti le truppe di Andrea Scarabelli. Con la rivista Antares, adottata da Bietti nel 2011, e di cui è direttore responsabile Gianfranco De Turris. Redattori giovanissimi che hanno già prodotto pregevoli fascicoli su Tolkien, Lovecraft, Disney, sulla fantascienza o sugli economisti eretici mentre sono in preparazione numeri su Bukowski e su Borges. E con la collana «L'Archeometro» che pubblica quattro libri l'anno con un progetto del tutto organico a quello della rivista. Nomi altisonanti: Pound, Cioran, Bradbury, Eliade, Meyrink. E poi contemporanei come Stenio Solinas, Luca Gallesi o Riccardo Paradisi. «L'intento spiega Scarabelli - è quello di riunire le articolate realtà della cultura alternativa. Vogliamo ospitare le voci critiche nei confronti di un mondo, quello moderno, osannato dai progressisti e deprecato dai conservatori. Una terza via, insomma. Da un punto di vista politico, siamo indipendenti: le categorie destra e sinistra per noi sono esaurite».
COMUNITARISTI Quelli de Il Talebano si definiscono comunitaristi: «La maggioranza dice il direttore Fabrizio Fratus - proviene dal mondo identitario che si rifà alla Destra anti-sistema e alla Lega Nord. Molti militano nel M5S e diversi provengono da esperienze di sinistra antagonista. Noi siamo per la Patria (e non per la nazione), per l'economia dell'autoconsumo, per l'autodeterminazione dei popoli. Siamo contro il sistema delle democrazie parlamentari e privilegiamo un modello elitario basandoci sul pensiero di Vilfredo Pareto in un contesto di piccole comunità». Un giornale che non nasconde anche una strategia politica: «Vogliamo seminare le nostre idee spiega Vincenzo Sofo - tramite la rete di 1000 patrie, organizzazione composta da 17 realtà politiche su tutto il territorio».
CONSERVATORI E INDIPENDENTI Francesco Giubilei è il più giovane editore d'Italia. Suddivide le sue fatiche tra due marchi: Giubilei Regnani che ha un taglio generalista anche se con particolare attenzione alle tematiche «non conformi» (ultimo testo pubblicato L'altro Msi di Annalisa Terranova) e Idrovolante edizioni (diretto da Roberto Alfatti Appettiti e Daniele Dell'Orco) che si occupa anche di riscoperte come Marinetti o Corridoni. Proprietario della libreria Cultora a Roma, a settembre farà partire Il Conservatore, quotidiano dai propositi chiari sin dal nome. Abbiamo lettori spiega Giubilei intellettualmente curiosi che vanno oltre il cosiddetto pensiero dominante».
FEDERALISTI E OLIVETTIANI «In economia intento di destatalizzazione ma armonizzato da un disegno comunitario in stile olivettiano e avverso alla finanziarizzazione. In politica confederalisti. In cultura spiritualisti nella traccia goethiana. Critica all'euro e ricerca per soluzioni istituzionali diverse». Sono questi alcuni punti de La Confederazione italiana, rivista online che si definisce federalista e olivettiana. Finanziata da contributors e lettori, organizza seminari sui temi dell'economia, del federalismo e della tripartizione dell'organismo sociale nel senso inteso da Gerges Dumezil. Direttore è Geminello Alvi, ma coordina tutto Riccardo Paradisi, già redattore di Liberal e l'Indipendente.
PATRIOTTICI Michele De Feudis, direttore di Barbadillo, non la prende alla larga: «Tante nostre firme hanno curato romanzi, saggi di approfondimento e pubblicazioni scientifiche. L'obiettivo prioritario è rendere visibile la presenza di un filone culturale patriottico e sovranista, propedeutico a fornire sollecitazioni a una futura classe dirigente con aspirazioni di governo e non di marginalità». Ma anche in questo caso, risalta la tipicità dei lettori: «Giovani dai 18 ai 30 anni, un pubblico di eretici over 35. Tanti accademici, molti attenti alla politica internazionale».
REAZIONARI Marco Solfanelli si definisce «refrattario». Poi aggiunge, «reazionario-refrattario». A capo di una storica casa editrice di destra ereditata dal padre Marino, ora si apre a giovani autori e a temi di diversi orientamenti. Marco oltre a curare presentazioni e convegni, partecipa a fiere librarie anche nelle realtà di provincia e rivela di essersi arreso alla «modernità» grazie ai social-network e a un call center per fidelizzare i propri clienti.
SOVRANISTI Età media 30 anni. Dieci redattori ma con i collaboratori si arriva a 50. A dirigere Il primato Nazionale è Adriano Scianca: «Siamo sovranisti, antiglobalisti, ostili alla sinistra culturale, alla destra economica e al centro politico. Vogliamo valorizzare le eccellenze dell'Italia e dell'Europa, evidenziandone il primato spirituale. Ecco perché subiamo attacchi quasi quotidiani da parte di hacker democratici».
Bud Spencer contro i media di regime: “In Italia parlano di te solo se sei comunista o frocio”, scrive Alvise Losi su Libero Quotidiano il 30 giugno 2016 il giorno del funerale di Carlo Pedersoli (Napoli, 31 ottobre 1929 - Roma. 27 giugno 2016). Bud prima era stato sempre riservato. Anche se il suo pensiero aveva avuto modo di esprimerlo in diverse occasioni, come a una conferenza, quando a un ragazzo che rivendicava di essere ateo rispondeva con intelligenza: «Non esiste al mondo un uomo o una donna che non abbia bisogno di credere in qualche cosa: tu credi che Dio non esista, quindi credi in qualche cosa». Altro che sganassoni e frasi da contrabbandiere perdigiorno: Bud era ben diverso dai personaggi dei suoi film. «È il signore che vi manda», gli dice fiducioso il mormone Tobia in Lo chiamavano Trinità. «No, passavamo di qui per caso», risponde sincero nei panni di Bambino. Niente di più lontano da quello che Bud pensava. «Ho bisogno di credere perché, nonostante il mio peso, mi sento piccolo di fronte a quello che c’ è intorno a me. Se non credo sono fregato». E in un’intervista aveva persino scherzato sulla sua scomparsa. «Quando il Padreterno mi chiamerà voglio vedere che succede, e se non succede niente allora mi incazzo». E lo avrebbe fatto a modo suo naturalmente. Ma il Bud che tanti hanno amato e amano era lo stesso che a volte si lasciava andare a frasi al limite del politicamente corretto. A chi gli chiedeva come mai la critica italiana lo celebrasse poco, a differenza di quanto accadeva in altri Paesi, l’ormai 80enne Pedersoli diceva «forse perché non sono né gay né trans e ho la stessa moglie da cinquant’ anni». Pensiero che aveva anche ribadito per spiegare come mai la sua biografia Altrimenti mi arrabbio fosse un best seller in Germania, ma un mezzo flop in Italia. «Qui parlano di te solo se sei frocio o comunista», sottolineava, senza paura di essere criticato. «Intendiamoci, non ho niente contro i gay. Quello che fa la persona che ho davanti in camera da letto non sono affari miei. Quando ci parlo, il pensiero delle sue abitudini sessuali non mi sfiora neanche lontanamente. Siamo liberi, puoi fare tutto quello che vuoi». Non a caso amava ricordare, da napoletano verace, che la sua regola di vita fosse «Futtetenne». E nessuno ha interpretato nella vita quella finta indifferenza, quella capacità di ridere sempre sulle cose, quel «vivi e lascia vivere» con la stessa grandezza di Bud.
L'ultimo sfregio contro Bud Spencer. Perché lo hanno pure insultato, scrive di Francesco Specchia il 30 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Non so, onestamente, se il vecchio Bud - il dio burbero dei nostri piccoli affetti - li avrebbe presi a sganassoni, come fece, negli anni 60, con quell' incauto indio Yanomami che sbarrava la strada alla sua asfaltatrice nel cuore dell'Amazzonia, O se, invece, avrebbe fischiettato Futtetenne, «Fregatene», il brano-guida del suo primo disco che fu anche la sua weltanschauung, il rumore di fondo d' una vita arruffata. Non so. Non so se come avrebbe reagito il gentile Carlo Pedersoli/Bud Spencer all'idiozia invincibile che ieri emergeva dal profilo Facebook del sedicente «Osservatorio antifascista». Da dove, alla scoperta che alle Regionali del 2005 Bud si candidò per Forza Italia (non era mai stato di sinistra in vita sua...) è scattato un commento: «Fino a pochi minuti fa noi di Osservatorio Antifascista piangevamo le morte di Bud Spencer, ora non più», seguito dallo sdrucito manifesto elettorale di Bud. Seguito, a sua volta, da commento di tal Marco Bonini: «Bene, una testa di cazzo di meno al mondo». Frasi stridenti, urticanti, inutilmente cattive. Frasi pronunciate, tra l'altro, proprio nel giorno in cui, dinnanzi alla bara del gigante buono in Campidoglio, il mondo intero piangeva. E fiumane di fan continuavano ad accalcarsi, a posare fiori, pizzini di disarmante affetto, perfino una scatola di fagioli che diventava una citazione metafilmica, riferita a un titolo culto dello stesso Spencer, Anche gli angeli mangiano fagioli col compianto Giuliano Gemma. Naturalmente, nel giro di dieci minuti della pubblicazione del post suddetto, altre centinaia, ne hanno seppellito la vergogna. Attacchi a raffica, in quadrata falange contro, l'«Osservatorio»: roba che varia dal compassionevole («un campione dello sport, e non solo, che ha fatto divertire e ridere generazioni di italiani, una persona che chi l'ha conosciuto ha speso solo parole positive nei suoi confronti. Siete voi la feccia della società italiana, ripeto vergognatevi!»); all' istintivo («Pensa che merde che siete per la morte di qualcuno esultate»); al creativo («Per quanto miserabili, sarete ricordati altrimenti il vostro passaggio sulla terra avrebbe lasciato lo stesso segno di una scoreggia»); perfino allo storico («Almeno lo avreste provato il fascismo.... avreste una giustificazione che innanzi alla morte di Bud Spencer altresì c' entra come nella briscola l' asso di picche quando comanda bastoni.... ecco cosa vi provocano le canne!!!!»). Naturalmente il tutto veniva condito dalla rettifiche di postatori «di sinistra e antifascista vera» che si dissociava; e di sostenitori di destra -diciamo- accesa che non lesinavano epiteti ineleganti, «Zecche, zecche comuniste, zecche maledette dovete bruciare...». Il commento più originale spetta a chi, invocando la morte come il confine rispettoso dei vivi, chiosava: «Se una persona viene giudicata solo da un cartellone elettorale, fa capire quanto chi lo giudica sia di basso spessore culturale. Tipica affermazione di oscuri personaggi sinistrorsi mono-neuronici. Quel neurone è più solo della particella di sodio dell'acqua Lete». Ecco. Quel riferimento alla pubblicità dell'acqua Lete -di sicuro- avrebbe strappato il sorriso al vecchio galantuomo napoletano abbracciato da passione planetaria. Da Russel Crowe a tre generazioni di divi hollywoodiani, dal governo tedesco alle istituzioni iraniane, dai fan giapponesi e coreani, all' America delle grandi praterie: moltissimi hanno listato a lutto un brandello della loro giornata. I siti Internet d' Italia hanno triplicato il loro traffico alla notizia della morte di questo cartone animato vivente, a metà fra Golia e i fratelli Grimm. Le notizie della Brexit e l'attentato ad Istanbul, per dire, sono apparsi assai meno appealing. Ora, si potrà obbiettare che, in genere, le intemperanze di quattro imbecilli possono, al massimo, essere derubricate a «provocazione». E forse è vero. Ciò non toglie che l'eccesso d' ideologia -in questo caso a sinistra- rimane l'aggravante di un popolo spesso in ritardo con la storia. Il solito discorso: l'arte dovrebbe travalicare la faziosità politica, e la morte dovrebbe invocare la pietas. «Da cattolico, provo curiosità, la curiosità di sbirciare "oltre" come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona», aveva detto Bud qualche anno fa. Non so davvero come il suo stupore infantile avrebbe reagito a tutto questo...
Leonardo Sciascia (1921-1989). L’intransigenza di Leonardo Sciascia. «Scrivo solo per fare politica». «A ciascuno il suo». Il libro divenne un film diretto da Elio Petri con Gian Maria Volontè, scrive Felice Cavallaro il 7 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Bisogna scartabellare fra i cimeli del Museo del cinema di Torino per immergersi nel carteggio fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri, il regista che portò sul grande schermo A ciascuno il suo, il secondo giallo dello scrittore di Racalmuto dopo Il giorno della civetta. Contesti analoghi per raccontare già a metà degli anni Sessanta i disastri della corruzione e della mafia. Con un omicidio passionale trasformato in paravento per celare un mix di forze occulte impastate di mafia e omertà. Un intrigo «politico», nel solco di una vocazione enunciata fra le lettere della media-biblioteca piemontese. Materia prima per Petri, stupito dall’intransigenza di Sciascia nel carteggio analizzato da uno studioso universitario, Gabriele Rigola, autore di un saggio sulla rivista di studi sciasciani «Todomodo». Severa intransigenza espressa da Sciascia, dopo una intervista di Petri al «Popolo», nella lettera dell’8 settembre 1966, a ridosso delle riprese, contrariato dalla sbandierata scelta del regista di non fare un film «politico». E lui, il maestro di Regalpetra, con aria di rimprovero: «Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia...». Immediata la replica di Petri, appena arrivato a Cefalù per le prime scene del film con Gian Maria Volontè, protagonista della storia ispirata dall’assassinio del commissario di polizia Cataldo Tandoj, caduto sei anni prima ad Agrigento. Romanzo che ruota attorno alla traduzione dal latino di «unicuique suum», frase stampata sulla lettera minatoria introdotta come reperto di indagine sin dalle prime pagine del racconto. E del film. Inquietante missiva composta con vocali e consonanti ritagliate da una copia de «L’Osservatore Romano». Petri legge e risponde ai colpi di fioretto. Si smusserà infine l’equivoco, ma intanto la replica è a prima vista stizzita: «Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, i notabili, “L’Osservatore Romano”, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un’opera sulla cui materia di ricerca, prevalga — incomba — una tesi politica, che in questo senso è propagandistica». E sempre più incisivo: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico». La stima era fuori discussione e Sciascia faceva precedere quel rimprovero da una convinzione: «Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso un film che non avrà niente a che fare col racconto...». Considerazione confermata dopo aver visto il film, il 10 marzo 1967: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare che non c’è stato alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un’altra cosa». Emerge dal dialogo a distanza un’idea del rapporto e della libertà rivendicata per la scrittura di un libro e di un copione, convinto di «dover lasciare all’autore del film ogni possibile libertà, ma evitando accuratamente di diventarne complice». Puntualizzazioni taglienti. Sfumate tre mesi dopo nei progetti che lo scrittore anticipa parlando di un tema che troveremo ne Il contesto, da Francesco Rosi tradotto nel 1971 in Cadaveri eccellenti. Ma quattro anni prima Sciascia lo confida a Petri: «Caro Elio, sono quasi tentato di buttare giù, come soggetto, la mia storia dell’uomo che ammazza i giudici...». E Petri, allora trentottenne, si dannava: «Così è il cinema. Mi viene un grande sconforto se penso che a 50 o 60 anni mi troverò a dover affrontare sempre i medesimi problemi. Come si fa a convincere un produttore che una storia è bella, se non dopo averla realizzata?». Dieci anni dopo, sempre con Volontè, avrebbe trasferito sullo schermo Todo modo, ma intanto Petri si godeva i successi targati «unicuique suum». Inquietante collage sull’omicidio connesso a un mondo politico di funzionari corrotti e poteri forti, nel microcosmo di un paese siciliano, laboratorio di analisi politica e metafora proposta al Paese con la tecnica del giallo. Ma chi si aspetta un giallo in cui il detective incastra l’assassino resterà deluso. Perché a indagare è il professore d’italiano e latino Paolo Laurana armato con gli strumenti del sapere e della ragione, rifiutando assuefazione e tolleranza al delitto, al malaffare, alla connivenza di un intero paese. E il pessimismo sciasciano si specchia nel più bieco cinismo. Non a caso sul professore, ormai vicino alla verità e per questo ucciso, echeggerà l’arrogante epitaffio di uno dei personaggi, «un cretino». Come se connivenza e convivenza fossero intelligenza. Un contrasto per porre davanti all’opzione fra Bene e Male, il lettore e il cittadino. A cominciare dallo stesso Petri che nel carteggio non ha dubbi: «Nella scelta di un personaggio si parte sempre — e comunque — da un processo di identificazione: riderai, se ti dico che io mi sento un poco come Laurana?». Quesito capace di cancellare ogni equivoco, pur lasciando a ciascuno il suo.
Sciascia si misura con il Vangelo. Gli esercizi spirituali del potere. In «Todo modo», pubblicato nel 1974, la decadenza della classe dirigente, ma anche una riflessione profonda sulla natura del messaggio cristiano, scrive Carlo Vulpio il 14 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Succede, ai grandi. E succede con precisione aritmetica a quei grandi che diventano dei classici quando ancora sono in vita. Com’è accaduto a Leonardo Sciascia, che con il passare degli anni, e soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel 1989, non si è mai più liberato della pletora di sciasciani (e passi) e di sciascisti (e qui, le cose si complicano, perché dall’esegesi all’arte divinatoria il passo è breve), che spesso gli hanno fatto dire cose che non ha detto e non si sono invece accorti di quelle che ha detto, e a volte ha pure ripetuto con insistenza. Prendiamo Todo modo, per esempio. Pier Paolo Pasolini disse che questo è il miglior romanzo di Sciascia. E in effetti lo è. Non perché lo abbia detto Pasolini, ma perché chi abbia frequentato Sciascia sine ira ac studio non può che ritrovarsi a dare lo stesso giudizio. Tutti i libri di Sciascia sono magnifici per i temi che trattano e per come vengono trattati: il bene e il male, la libertà e il potere, la legge e la giustizia, l’uomo e Dio, l’apparenza e la realtà, la verità e la menzogna, la mafia e l’antimafia, il dubbio e il dogma, l’individuo e lo Stato, ma Todo modo li contiene tutti, e dopo quarantadue anni (fu pubblicato da Einaudi nel 1974) ha la stessa freschezza, non perché sia «attuale» — questo schiacciamento sulla «attualità» rischia anzi di tradursi in una diminuzione —, ma perché parla alla nostra coscienza, alla nostra intelligenza, alla nostra natura miserabile di uomini con la forza di un «classico», cioè di un’opera originale, imprescindibile, valida sempre, quasi un canone, da poter quindi essere persino imitabile, ma unica, irripetibile. Todo modo è la locuzione iniziale della massima di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti — Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina, «Qualunque mezzo per cercare e trovare la volontà divina» — ed è lo scopo dichiarato o quanto meno apparente di don Gaetano, il prete protagonista del romanzo, che guida gli esercizi spirituali di alti esponenti della classe dirigente del Paese riuniti in un albergo-eremo siciliano. Nel quale tutto accade, compresi tre omicidi, anch’essi apparentemente senza colpevoli, fuorché l’elevazione spirituale dei partecipanti, descritti come «figli di puttana» costretti da don Gaetano a recitare il Rosario andando su e giù in fila. Sono ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali, «quella che si suole chiamare classe dirigente e che in concreto cosa dirigeva? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro». Il potere come dominio, certo, quel «cummannari è megghiu ca futtiri» («comandare è meglio che scopare»), proverbio siciliano di portata universale che Sciascia cita in altre sue opere, ma anche il potere come trappola per gli stessi suoi detentori, che esercitandolo se ne inebriano, fino a non riuscire più a farne a meno, come tossicodipendenti. Quando, due anni dopo l’uscita del libro di Sciascia, Elio Petri ne trasse il film omonimo, tutti concordarono che era del personale politico democristiano degli anni Settanta che si narrava, perché allora la Dc era il partito-Stato, mentre tutti gli altri, più o meno, se non potevano andare assolti, erano estranei a questa microfisica del potere tutta democristiano-cattolica. Vero. Ma anche sbagliato. E infatti il film di Petri, per quanto ben fatto, non è all’altezza del Todo modo Sciascia, perché schiaccia un classico sull’attualità del momento e ne depotenzia la universalità. Perché universale è il messaggio cristiano e il discorso sul cristianesimo, e dunque sull’uomo e sul suo rapporto con i suoi simili e con Dio, che pervade il romanzo. Sia quando questo discorso ricorre ai paradossi: «I preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, si deve più ai preti cattivi che ai buoni»; sia quando approfondisce la riflessione sul cristianesimo che crede, sbagliando, «che Cristo abbia voluto fermare il male», mentre, scrive Sciascia, Gesù Cristo ha rovesciato questo convincimento, poiché «nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Delitto, dolore, morte». Delitto, dolore, morte non sono soltanto rubriche del codice penale — di cui anche in Todo modo, come in altri romanzi, si occupa un magistrato supponente e mediocre —, ma sono anche gli effetti di quel «maneggiare e modellare come cera» la coscienza altrui, come fa don Gaetano, e come fa, appena ne abbia la opportunità, chiunque eserciti una qualsiasi forma di potere. Tanto negli anni del partito-Stato, quanto (e forse anche peggio) nell’era del web «libero», anzi a «democrazia diretta», che per i suoi «esercizi spirituali» non ha nemmeno bisogno di organizzare incontri in qualche appartato albergo-eremo. Come uscirne? Sciascia, ancora una volta, gioca con le parole, rovescia i concetti, ribalta il senso comune. E invita, anzi istiga il lettore a fare altrettanto. Cummannari? E se invece fosse la libertà la parola chiave? «La libertà è megghiu ca futtiri»: non suona meglio, non è persino più efficace? Dice Giovanni nel suo Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma se rovesciamo anche queste parole non otteniamo: «La libertà vi farà veri»? Può anche darsi che non basti. Ma in Todo modo, quando accade che prevalga la libertà, nemmeno don Gaetano può farci niente.
Sciascia e quello sguardo profetico. Lo scrittore che inaugurò un genere. L’autore aprì gli occhi della letteratura su guasti di società e politica e ne rivelò vizi segreti e pubbliche immoralità. Il «Corriere» lo celebra con un’iniziativa editoriale, scrive Felice Cavallaro il 25 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ricorre spesso un aggettivo quando si discute di Leonardo Sciascia. E succede anche ad Andrea Camilleri di usarlo per dire che il suo amico nato, come lui, a due passi dalla Girgenti di Luigi Pirandello era «profetico». Basta scorrere anche solo i titoli dei libri, in gran parte scritti nella sua casa di campagna, in Contrada Noce, fra le vigne, i pini e i mandorli di Racalmuto, per cogliere questa straordinaria capacità di prevedere con grande anticipo gli sviluppi spesso devastanti della società italiana. Questo manca a Camilleri: «Sciascia aveva la capacità di intervenire costantemente sui nodi della società italiana, non solo sulla politica. Acuto nel prevedere, interpretare, anticipare. I suoi romanzi sono lì. Io, quando ne ho bisogno, spesso, me li rileggo. Mi manca però la risposta di Sciascia alle domande di oggi». Una risposta talvolta ignorata in passato. E i libri da leggere o rileggere stanno lì, a provarlo. L’Italia scopre Tangentopoli nel 1992 ma Sciascia aveva messo tutti in guardia dalla mala politica parlandone trent’anni prima con L’onorevole, descrivendo compromessi e arricchimento di un deputato, con sorpresa della sua stessa moglie. Affresco della corruzione negli anni Sessanta, oggi decantati come gli anni del boom. Un allarme inascoltato. Lo Stato capisce nel 1982, con il sacrificio di Pio La Torre, seguito da quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, che bisogna mettere le mani nei portafogli dei mafiosi, ma con Il giorno della civetta, vent’anni prima, Sciascia suggeriva la via da battere, quella di assegni, flussi finanziari, banche. Ed è così per una vasta produzione che resta attualissima, al di là di ogni odiosa polemica talvolta riproposta sui cosiddetti «professionisti dell’antimafia», materia oggi sulla bocca di tanti, delusi da false icone frettolosamente pompate anche dai media. È il tema dell’impostura analizzato nel romanzo che ha per protagonista l’Abate Vella, il cappellano dei Cavalieri di Malta, un fanfarone artefice della grande menzogna che, però, osserva con diffidente pessimismo Sciascia, talvolta si mostra più forte della verità. Un suggerimento a essere guardinghi. Come fu lui davanti ai voltagabbana del dopoguerra. Come provò ad anticipare per quanto rischiava di avvenire perfino nel pianeta antimafia, quando erano inimmaginabili le scivolate di tanti falsi eroi del Bene. Tema di forti contrasti con posizioni spesso osteggiate. Come accadde per la difesa di Enzo Tortora e per la necessità di trattare la liberazione di Aldo Moro. Tormentate pagine vissute da Sciascia anche da deputato del Partito radicale, dopo una brevissima esperienza di consigliere comunale eletto a Palermo nelle file del Partito comunista italiano. Aggrappato sempre alla ragione come religione di riferimento. Anche contro la fanatica caricatura della religione trasformata in strumento di potere, di oppressione. Illustrata da Sciascia in Morte dell’inquisitore. La storia di Fra Diego La Matina, frate a Racalmuto, il presunto eretico che, recluso nelle segrete, riesce a uccidere con in suoi ferri l’inquisitore durante l’interrogatorio o, meglio, durante la tortura. Le maggiori intuizioni anticipatrici restano quelle descritte nei libri a sfondo politico. A cominciare da Il contesto, un apologo della travagliata situazione italiana all’inizio degli anni Settanta quando l’ispettore Rogas, davanti a subbugli di «gruppuscoli» e delitti in quantità, scopre l’immaginario (ma non troppo) «partito rivoluzionario» essere tessera bene inserita nel sistema o sistema esso stesso. Come Sciascia con implacabile ironia lascia sussurrare al vicesegretario: «Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione...». Un affronto per politici e intellettuali allora organici o contigui a Sinistra e movimenti extraparlamentari, tutti pronti a scagliarsi contro l’eretico Sciascia. Una prova per lui, visto che si apriva con Il contesto la stagione più sperimentale e innovativa della sua attività, quella di Todo modo e Candido, della Scomparsa di Majorana e L’affaire Moro, di Nero su nero o Cruciverba, come osserva Paolo Squillacioti, lo studioso che cura per Adelphi l’opera completa di Sciascia, sulla scia del curatore delle opere in Francia, Claude Ambroise, e del biografo del «Maestro di Regalpetra», Matteo Collura. Se Il contesto può essere considerato una impietosa radiografia del Pci quando era tempo di intellettuali organici, l’altra chirurgica zoomata di Sciascia sugli intrighi politici del mondo democristiano è Toto modo. Lo scrittore affonda il bisturi fra i vizi di dirigenti politici, banchieri, prelati e industriali, tutti all’opera fra le varie correnti di partito. Un affresco su lobby, logge e parrocchie che rende attualissima la lettura dell’autore delle Parrocchie di Regalpetra, il testo pubblicato sessant’anni fa dopo un carteggio con Vito Laterza, proprio in questi giorni in mostra a Racalmuto, nella Fondazione che Sciascia avrebbe voluto intitolare a Fra Diego, l’eretico.
Sciascia, lo sguardo sulla Sicilia: un rigore lucido ed eretico. A chi vuole narrare la mafia, l’autore ha lasciato soprattutto un metodo di lavoro. Ma la lezione più grande è un’altra: solo la finzione letteraria restituisce la verità, scrive Alfio Sciacca il 28 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sosteneva Leonardo Sciascia: «Lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia il piacere di vivere. Anche quando rappresenta cose terribili». Tutto semplice, apparentemente. Se non fosse che nel far «vivere la verità» il maestro di Regalpetra ha finito per trasformarsi in una sorta di «cattivo maestro». Come lo sono quanti svelano cose autentiche, che spesso sono laceranti. Generazioni di siciliani sono cresciute leggendo i libri di Sciascia, in un continuo gioco di specchi in cui sentirsi, allo stesso tempo, registi, attori e comparse delle sue trame. E molti ne hanno tratto anche lezioni di impegno civile da trasferire nella vita e nel lavoro. La prima: essere testimoni del proprio tempo, perché in ogni piccola Regalpetra si può scoprire il mondo. C’è poi la straordinaria capacità di lettura del fenomeno mafioso in una terra che negli anni Sessanta ne negava ancora l’esistenza e l’intuizione del salto di qualità che stava compiendo nel passaggio dalla campagna alla città. Anticipo di quella «mafia imprenditrice» che è la forma più corrosiva assunta da Cosa Nostra. A chi in qualche modo si è trovato a raccontare la Sicilia e, di conseguenza, a scrivere di mafia, Sciascia ha offerto soprattutto un metodo di lavoro: indagare sempre in modo asciutto e senza forzature ideologiche. Non a caso le parole che più si ricordano de Il giorno della Civetta sono pronunciate da un mafioso, don Mariano Arena, con la sua classificazione dell’universo umano in «uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà». Curiosità e attenzione che non è certo fascinazione o cedimento morale. Approccio che non è mai piaciuto a certi «professionisti dell’antimafia», ossessionati da un manicheismo di maniera se non di comodo. C’è infine (ed è veramente tanto) il rigore della narrazione, la cura dei dettagli, i dialoghi e le ambientazioni che sono vere e proprie sceneggiature. Tutti insostituibili strumenti di lavoro. Ma quando ci si illude di aver in mano quello che serve per decifrare la Sicilia si scopre, forse, la più lacerante delle lezioni lasciate da Sciascia. E prima di lui da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa. In Sicilia c’è una sola arma che ti permette veramente di inchiodare i colpevoli e di rendere giustizia alle vittime. E non è la cronaca, l’inchiesta o l’indagine sul campo, ma il romanzo e la costruzione apparentemente di fantasia. Solo la finzione letteraria restituisce verità palesi che invece evaporano quando si pensa di averle afferrate. In Sicilia giornalisti, ricercatori, poliziotti, magistrati (ognuno nel loro campo) a un certo punto sperimentano la strana sensazione di perdersi. Per la semplice ragione che mettere in fila i fatti non sempre porta alla verità. E anzi, troppo spesso, la verità ufficiale è autentica impostura. Forse questo intendeva Sciascia per far «vivere la verità». E così si torna ai suoi libri. L’unico modo per dar pace ai tanti professor Laurana (A ciascuno il suo) che inseguono la verità tra complici e collusi morendo da «cretino». O rendere giustizia a chi come l’avvocato Di Blasi (Il Consiglio d’Egitto) ha la colpa di aver scoperto l’impostura dell’abate Vella e che per questo finisce decapitato. Perché spesso l’impostura è sistema. «Se in Sicilia la cultura non fosse impostura — dice Di Blasi —. Se non fosse strumento in mano al potere baronale e quindi continua finzione e falsificazione della realtà e della storia, l’avventura dell’Abate Vella sarebbe impossibile». Non ci sono colpevoli anche tra potenti e prelati nell’eremo di Zafer (Todo Modo) e chi indaga finisce per sentirsi più colpevole dei colpevoli. Mentre dunque Sciascia rende «semplice ciò che è complesso», grazie al registro del racconto, a molti siciliani lascia il senso di frustrazione in una terra che, ancora oggi, stenta a distinguere tra vittime e i carnefici e non ha certo risolto i suoi problemi anche dopo aver mandato in galera migliaia di mafiosi. E non occorre andare oltre lo scenario siciliano (Il Contesto, Il caso Majorana) per aggiungere inquietudine a inquietudine. Per questo Sciascia ha finito per trasformarsi in un fantastico tormento che spesso ci fa essere sagaci conversatori da salotto, incapaci però di incidere sulla devastazione che affligge la Sicilia. Tormento che forse ha sperimentato lo stesso Sciascia quando si è cimentato con la politica o l’attività pubblicistica. Una trappola che non perdona. In fondo cos’è la polemica sui «professionisti dell’antimafia»? Con decenni di anticipo Sciascia denuncia una verità scandalosa: l’antimafia usata come strumento di potere e carriera. Ma per dare sostanza all’analisi è costretto a fare un nome, quello di Paolo Borsellino. Un dettaglio veramente diabolico che (nonostante tutti i chiarimenti) sarebbe sufficiente per mandare al rogo l’eretico che vede in anticipo la luce accecante della verità.
Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).
Sciascia: «Scrivo solo per fare politica», scrive il “Il Giornale”, venerdì 05/02/2016. Due modi di intendere l'arte. E anche due modi di intendere la politica. Fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri la stima correva spedita in entrambe le direzioni, ma con prospettive senza dubbio differenti. Il dato emerge dalla pubblicazione, sulla rivista di studi sciasciani Todomodo (Olschki editore), dell'epistolario fra lo scrittore di Racalmuto e il regista romano. Siamo fra il 1966 e il '67 e il tema del confronto è il film A ciascuno il suo, tratto dall'omonimo romanzo. «Ho fiducia - scrive Sciascia l'8 settembre '66 - che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto. Il mio personale rammarico (che tu hai già avvertito e dichiarato: e mi riferisco all'intervista pubblicata sul Popolo) riguarda soprattutto la tua intenzione di non fare un film politico. Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia». Due giorni dopo, ecco la risposta di Petri: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico. Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, Rosello, i notabili, l'Osservatore Romano, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un'opera sulla cui materia di ricerca, prevalga - incomba - una tesi politica, che in questo senso, è propagandistica». Sciascia comprende ma non si adegua, il 2 ottobre successivo: «Nel mio atteggiamento nei tuoi riguardi non c'è stata altra ragione che quella dell'autore di un libro che ritiene di dover lasciare all'autore del film ogni possibile libertà ma evitando accuratamente di diventarne complice». Il 22 febbraio '67 uscì il film di Petri, e il 10 marzo Sciascia resta sulle proprie posizioni: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare, in tutta sincerità, che non c'è stato tra noi alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un'altra cosa». Dieci anni dopo, un altro film di Petri tratto da un libro di Sciascia parrà a tutti decisamente più politico (in senso sciasciano) del primo: Todo modo. Anche questa volta con nel cast Gian Maria Volonté, il più grande attore «politico» d'Italia.
Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale. L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei "saggi sparsi" rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano, scrive Piero Melati il 4 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro. Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo». Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) va a pubblicare. Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo».
Sciascia le illusioni di un impolitico. Mai comunista, ma sempre vicino e litigioso con il Pci. Un libro di Emanuele Macaluso. Lo scrittore Leonardo Sciascia in un ritratto di Paolo Galetto, scrive Marcello Sorgi il 12/10/2010 su “La Stampa”. Leonardo Sciascia è diventato un classico, e tutte le sfaccettature della sua complessa personalità artistica, letteraria, intellettuale, sono state ormai sviscerate. Mancava, invece, un’analisi dello Sciascia politico, non solo della sua breve esperienza parlamentare alla Camera con i radicali nel periodo 1979-’83, ma dell’aspetto propriamente e politicamente incisivo della sua opera, in rapporto alla sinistra italiana e in particolare al Pci. A questa lacuna viene ora a porre rimedio il libro di Emanuele Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti (pagg. 160, Feltrinelli), in libreria da domani. Con una tesi che farà nuovamente discutere, a vent’anni dalla scomparsa di uno scrittore già molto discusso in vita. Basandosi sull’amicizia, la conoscenza e la conterraneità durate per quasi mezzo secolo, Macaluso, a lungo dirigente di primo piano del Pci siciliano e di quello nazionale, formula infatti la tesi che Sciascia, pur animato da sincera passione civile, fosse in realtà un impolitico. E che in questa chiave si possano spiegare anche le molte illusioni, e le troppe e repentine delusioni, a cui andò incontro. Sciascia non fu mai comunista, ma nella Caltanissetta della gioventù fu amico di molti comunisti, tra cui lo stesso Macaluso, e portato, come antifascista, ad approssimarsi al Pci. Un Pci che immaginava risolutamente all’opposizione, e nella Sicilia in cui l’alleanza tra mafia e Dc era palpabile, dichiaratamente anti-democristiano. Per lui «potere» e «delitto» erano due entità inscindibili, e in particolare il potere «senza ragioni ideologiche e volto ad assimilare, a degradare e a corrompere perfino le forze che gli si oppongono o che gli si dovrebbero opporre». Una visione così pessimistica, all’inizio degli Anni Settanta, è al centro del Contesto, uno tra i suoi più famosi romanzi, che lo portò diritto in collisione con il Pci. Sciascia aveva intuito, in anticipo sul Berlinguer del «compromesso storico», che la collaborazione con le forze di governo avrebbe portato la sinistra a una degenerazione dei propri valori e dei propri comportamenti. In realtà Sciascia aveva cominciato a prendere le distanze dal partito ancora prima, alla fine dei Cinquanta, ai tempi della famosa «Operazione Milazzo» con cui i comunisti siciliani, alleandosi perfino con il Msi, avevano mandato all’opposizione la Dc. Sul Corriere della Sera era arrivato a definire «di impronta mafiosa» il governo milazzista voluto proprio da Macaluso, che in quegli anni dirigeva il Pci siciliano. Qui salta agli occhi la prima contraddizione dello scrittore, che non nascondeva affatto questo aspetto del suo carattere (volle per sé un curioso epitaffio: «contraddisse e si contraddisse»). Se Sciascia era davvero, e prima di tutto, contrario alla Dc, come non si stancava di ripetere, perché attaccò il Pci l’unica volta che era riuscito a mandarla all’opposizione, e invece, pur restando critico, si schierò con i comunisti al momento del «compromesso»? L’adesione militante (pur senza tessera) dello scrittore alla campagna elettorale del 1975, solo poco tempo dopo le stroncature subite dai giornali e dalla cultura comunista al Contesto, resta inspiegabile per Macaluso, contrario all’accordo con i democristiani soprattutto in Sicilia, dove significava venire a patti con la parte più confinante con la mafia. Eppure, in quell’ambito, Sciascia si muove senza remore: «A chi mi conosce personalmente o attraverso quello che scrivo, appare chiaro che non potevo trovarmi altrove - dice nel discorso che annuncia la candidatura al Consiglio comunale di Palermo, ma rivela la consapevolezza che molti possano non aspettarsela -. Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci più che da altri partiti, dimostra che io sono più vicino al Pci che a qualsiasi altro partito». È lo stesso Sciascia che s’è battuto fino ad allora contro le debolezze e le acquiescenze del Pci, che in una famosa polemica con Giorgio Amendola, poi rinnovata con Ugo La Malfa, ha attribuito ai comunisti parte della responsabilità dell’avanzata del Msi e della rinascita di una cultura di destra nel 1972. Ancora, lo stesso Sciascia che aveva criticato i dirigenti comunisti degli Anni Cinquanta, responsabili della svolta milazzista, adesso scopre i «giovani dirigenti» che stanno per allearsi con la Dc paramafiosa di Gioia e di Lima. Ma conoscendone l’integrità morale e l’assoluta buona fede, Macaluso ricorda di aver pronosticato breve durata per quel fragile coinvolgimento, di averne pure parlato con Berlinguer, per metterlo in guardia da una rottura che quando avverrà, di lì a poco, sarà clamorosa. Oltre alla noia delle sedute notturne del Consiglio comunale e all’isolamento che avverte tra i politici di professione, Sciascia, infatti, a un certo punto, si sente usato e preso in giro. Ne verrà un risentimento inesauribile. E un incidente piuttosto imbarazzante tra il segretario comunista e lo scrittore, intanto approdato alla Camera con i radicali. In un pranzo a tre con Renato Guttuso, Berlinguer accennò alla possibilità che le Brigate Rosse, durante il caso Moro, avessero potuto godere di appoggi logistici da parte della Cecoslovacchia. Sciascia utilizzò questa confidenza in Parlamento, nella commissione d’inchiesta sul sequestro. Berlinguer querelò lo scrittore, che a sua volta lo controquerelò, ma fu smentito da Guttuso, schieratosi per disciplina con il leader del partito. Così, oltre al rapporto con il Pci, si ruppe anche l’amicizia tra due grandi siciliani. Gli ultimi anni di Sciascia sono quelli delle famose polemiche sul processo alle Br di Torino, in cui lo scrittore si schierò a favore dei cittadini che si rifiutavano di fare i giurati popolari, condividendone il senso di sfiducia nello Stato, e sui «professionisti dell’Antimafia». Sciascia subì nuovi durissimi attacchi non solo da sinistra, ma dalla parte più militante dei giornalisti, degli intellettuali e della società civile, nonché dai Comitati Antimafia, da cui il Pci non volle mai prendere le distanze per difenderlo. Macaluso descrive un partito ingessato dalla necessità di «non delegittimare la magistratura» e Natta, il successore di Berlinguer, incapace di sviluppare una sua posizione autonoma sui lati oscuri e sugli eccessi del pentitismo. Il racconto della solitudine di Sciascia negli ultimi giorni della sua vita è toccante, come quello dell’addio tra i due vecchi amici. Ma adesso che sono passati vent’anni - conclude l’autore - perché la sinistra non prova a riscoprire Sciascia, sottraendolo all’ingiusta appropriazione che ne sta consumando la destra?
Leonardo Sciascia, nel 1963 denunciava il cretino di sinistra, scrive il 27 maggio 2009 Iacolare Francesco Saverio. Il grande scrittore siciliano, Leonardo Sciascia, nel 1963 scopriva il verificarsi di un evento senza precedenti: l’ascesi del cretino di sinistra. Fino a quell’epoca, i cretini erano solo di destra.Il grande Leonardo Sciascia diceva: “i cretini di sinistra sono molto più pericolosi di quelli di destra perché alla loro imbecillità si aggiunge il fanatismo per il potere e il disprezzo per il governo”. Sono trascorsi 45 anni e un intellettuale del calibro del prof. Gianfranco Pasquino, molto apprezzato dalla sinistra che conta ha dichiarato:” Alla sinistra riesce bene tenersi stretto il potere”. Accusa il PD di ricusare ogni forma di cambiamento perché quella attuale garantisce, comunque, di conservare il potere che possiede. Pronostica che le prossime elezioni amministrative di maggio di Bologna saranno vinte dal centro destra. Siamo di fronte ad un apparato di mostruosità privo della più elementare forma di dignità. Infatti, la Finocchiaro si dichiara disponibile per la segreteria al posto dell’inutile Veltroni. D’Alema ha la sua televisione e crede di essere il padrone del partito, non sopporta di stare nell’ombra come tale, preferisce il ruolo della prima donna. L’anima comunista non è mai morta nel cretino di sinistra, aveva ragione Leonardo Sciascia. Il momento drammatico di crisi, che offende milioni di italiani nella dignità sociale, è una questione che non appartiene alla sinistra. Essa è sempre contro a prescindere perché non ha cultura di governo, ma solo di potere. In un ‘Italia che vive momenti drammatici di caduta etica e morale, ove l’economia è stata ridotta a squallida operazione finanziaria, priva di produzione reale, solo ricchezza virtuale, la sinistra invece di proporre vie di soluzioni condivise, armata dall’eterno odio, contro chi governa propone lo sciopero generale senza consultare la base, non solo, ma contro la volontà di tutti i sindacati. Questa becera sinistra non è la vera sinistra, questa predica ancora l’odio di classe, nonostante i suoi dirigenti possiedano panfili come Ulisse II e casa a New York. Bravi, Veltroni e D’Alema. Il cretino di sinistra vuole avere sempre ragione. Egli è di una superiorità intellettuale indiscutibile perché ignora l’altro, anzi lo disprezza. La sinistra ha sempre conquistato il potere con l’infallibile arte di fottere il suo interlocutore. Il popolo è sempre stato il paravento sociologico dietro il quale nascondersi compiendo poi le nefandezze del potere. Una sinistra senza dignità che nega perfino il pentimento e la conversione del fondatore del comunismo, che alla fine dei suoi giorni, illuminato dalla Grazia, ha chiesto la presenza di un sacerdote per chiedere il Viatico per l’ultimo viaggio. Questa negazione rappresenta lo sbando totale del cretino di sinistra che abita tra noi. Uno sbandamento provato dall’occupazione delle istituzione che detiene come potere, incapace di governare. I poveri cattolici si sono fatti fagocitare dall’illusione di ciò che non esiste, non si sono ancora resi conto che i loro compagni di viaggio non potranno mai diventare democratici, essi sono privi della cultura dell’alterità, quella cultura che ti permette di riconoscere il volto di chi ti guarda, come il volto del fratello che cerca aiuto. La nostra sinistra non conosce il fratello, conosce il compagno, perché nega l’esistenza del Padre. Oggi cosa resta della sinistra? La squallida ipocrisia di sempre, l’odio per chi non pensa con le loro aberranti categorie mentali, il limite del confronto di chi pensa al di sopra degli schemi, in modo particolare il terrore e la paura con la Trascendenza perché incapaci di un atto di umiltà come quello di Gramsci. L’odio di D’Alema nei confronti di Veltroni è stato evidenziato da E. Scalfari, il quale ha detto che sta lavorando per denigrare il segretario Veltroni. L’amico di merenda di D’Alema, Latorre, accusa Veltroni di praticare una politica fallimentare. Povera sinistra, ma quale sinistra? Quella degli “utili idioti”, una formula inventata da Lenin, ripetuta da Stalin, Gramsci, Togliatti per indicare coloro che dinanzi alla storia hanno firmato un’adesione contraffatta di una stupida disponibilità nel nome del potere. Certo non bisogna cretinizzare tutta la sinistra. Vi sono uomini di grande dignità e intelligenza, questi non vanno confusi con gli attuali qua qua ra qua in cerca del potere. Questi uomini che hanno a cuore la salvaguardia della dignità dei nuovi poveri bisogna rivolgere l’appello di cercare insieme nuove soluzioni possibili per il bene di tutti i bisognosi. Purtroppo la “sensibilità “della ricchezza non incontrerà mai l’ascolto della dignità del povero. Continuare a parlare, oggi, di destra e di sinistra è una grave offesa alle intelligenze a dimensioni planetarie .Noi abbiamo un ferito grave assalito dai briganti sulla strada di Gerico, dobbiamo aspettare il samaritano ,oppure tutti vogliamo essere dei samaritani. Francesco Saverio Iacolare.
Da quello di Sciascia a quello su Twitter, genealogia del cretino moderno, scrive di Guido Vitiello il 19 Novembre 2012 su “Il Foglio”. Non ci sono più i cretini di una volta. Leonardo Sciascia li ricordava quasi con rimpianto: quei bei cretini genuini, integrali, come il pane di casa, come l’olio e il vino dei contadini. La loro scomparsa seguì a breve giro quella delle lucciole, e chissà che tra i due fenomeni non ci sia un nesso misterioso. Poi venne l’epoca della sofisticazione, per gli alimenti come per gli imbecilli: “E’ ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino”, annotava sconsolato in “Nero su nero”. A rendere possibile questa confusione incresciosa, a intorbidare le acque era stata l’improvvisa disponibilità di gerghi intimidatori dietro cui far marciare le banalità più indifese. Sciascia sceglie una data convenzionale, il 1963, anno in cui comincia l’ascesa, a sinistra, di un tipo nuovo di cretino, il cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare”. Si annunciava la stagione d’oro del cretino dialettico, operaista, maoista, strutturalista, althusseriano, insomma il cretino a cui Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini avrebbero eretto il monumento del “Piccolo sinistrese illustrato”. Sciascia era persuaso che il più insidioso mascheramento della stupidità fosse la complicazione non necessaria, l’arzigogolo, e scelse per metafora il berretto di Charles Bovary: Flaubert impiega mezza pagina a descriverne la fattura assai composita, per concluderne che in fin dei conti somigliava alla faccia di un imbecille. Altri tempi, altri cretini. Oggi quel tipo lì lo riconosci a vista, i gerghi non gli fanno più da scudo, anzi ne segnalano a colpo d’occhio la cretinaggine, irraggiandola in ogni direzione come l’evangelica lampada sul moggio. Certo, vanta ancora le sue glorie mondane, scrive i suoi trattati, assiepa i suoi vaniloqui, fonda le sue rivistine, raduna attorno a sé i suoi circoletti (pur predicando, magari, di “moltitudini”), ma tutto sommato è facile impedirgli di nuocere. Sono altri, quelli da cui dobbiamo guardarci. Oggi il cretino, a destra come a sinistra, sembra aver ritrovato la sua originaria semplicità e una perversa concisione. Ma attenzione a non confondersi, è una semplicità contraffatta, una sofisticazione di secondo grado: è il segno che la specie si è evoluta per sfuggire agli artigli dei suoi predatori. Il cretino di buon senso è come quelle mele rosse rosse che per evocare un Eden perduto si servono di tutte le diavolerie della chimica. Ti guarda in faccia e ti dice, che so, “la cultura è un bene comune, come l’aria”, e tu temporeggi dietro un mezzo ghigno contratto, e ti sembra così candido che sei quasi sul punto di assentire, di sciogliere la mandibola e ricambiargli il sorriso, e devi aggrapparti con tutte le forze all’albero maestro del tuo intelletto per non soccombere all’incantesimo e capire che sì, probabilmente hai davanti a te un imbecille. E non è il solo da cui stare in guardia, il cretino di buon senso. Se al tempo di Sciascia la strategia per mimetizzarsi era la blaterazione fantascientifica, la proliferazione cancerosa dei gerghi, la zecca sempre aperta delle parole che coniano altre parole, oggi il cretino si rintana nelle forme brevi. Ecco, sarebbe da prendere quel dibattito soporifero tanto caro ai giornali – “Twitter ci rende stupidi?” – e capovolgerne l’assunto: Twitter ci rende intelligenti. C’è in questo qualcosa di prodigioso, e di terrificante: ci sono cretini certificati, abituali, della cui cretinaggine abbiamo prove da riempirci un dossier, che nel giro breve di quei centoquaranta caratteri riescono non si sa come, per un istante, a ricordarci Karl Kraus, Oscar Wilde, o male che vada Giulio Andreotti. Possibile? L’aforisma, il Witz, che un tempo era un’arma formidabile contro la stupidità di tutte le maniere, è diventata il nuovo rifugio degli imbecilli, la freccia più velenosa nella loro faretra. Eppure non c’è granché da fare. Già che la stupidità ci assalta a tradimento, e senza logica, ne consegue, suggeriva Carlo Cipolla nel suo trattatello sul tema, che “anche quando si acquista consapevolezza dell’attacco, non si riesce a organizzare una difesa razionale, perché l’attacco, in se stesso, è sprovvisto di una qualsiasi struttura razionale”. Il meglio che possiamo fare è metterlo nero su nero. Guido Vitiello
L’oblio su Sciascia politico. Non soltanto i rapporti contrastati col Pci, né la sua elezione con i Radicali. Lo scrittore siciliano divise l’establishment con le domande su giustizia e potere, scrive Gianfranco Spadaccia, già segretario, deputato e senatore del Partito radicale, il10 Luglio 2014 su “Il Foglio”. Pubblichiamo stralci della prefazione di Gianfranco Spadaccia a “La memoria di Sciascia”, collezione di saggi e articoli dello scrittore messicano Federico Campbell (1941-2014), appena pubblicata in Italia da Ipermedium Libri. A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita a una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il Pci o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato Radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura. E’ strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’Enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondanti scrittori e anche a se stesso. E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere a offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni 60 ne “Le Parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’Inquisitore”, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni 70 e dei primi anni 80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche delle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore”. Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni Ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il “primo” Sciascia del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa. Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al Pci magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”. Sciascia, che non amava la parola “intellettuale” a cui preferì sempre quella di letterato o di uomo di lettere, non fu mai, neppure nel periodo di vicinanza al Pci siciliano, intellettuale “impegnato” e tanto meno “organico”. L’unico impegno che concepì, fu nei confronti delle proprie convinzioni e della propria coscienza. Campbell ricorda che, per questo, ebbe come riferimenti Gide che, da comunista, si impegnò nella condanna di Stalin e dello stalinismo e Bernanos che, da cattolico, combatté il sostegno offerto al generale Franco da parte della chiesa cattolica nella guerra civile spagnola. La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della “Controversia liparitana” ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del Pci e degli intellettuali più vicini al Pci, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni 80 gli stessi princìpi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia. Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista e anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle. E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo una grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le Br, ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”). La seconda rottura fu provocata da un articolo sul Corriere della Sera in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei Radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti Radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate rosse e al fatto che nei primi anni Sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere a occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri princìpi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere. Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’onorevole Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle Br, impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della Dc quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle Br quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Urso, che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.
***
(…) Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. (…) Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. (…) Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora – Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente”. (…) Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità. (…)
Alberto Moravia: «L’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza». Un estratto della lettera uscita nella raccolta (Bompiani) "Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto", che nel 1927 lo scrittore mandò al filosofo Andrea Caffi sulla figura dell’intellettuale e il valore dell’esperienza, scrive “L’Espresso” il 4 febbraio 2016. Il filosofo Andrea Caffi, sodale di Chiaromonte, antifascista - «un uomo di valore, erudito e fantasioso», come lo definì lo stesso Moravia - stimola la riflessione dello scrittore, impegnato nella stesura de Gli indifferenti. Caffi vent’anni più grande è un esempio, per Moravia, e sarà non a caso uno dei pochi a leggere in anteprima l’ultima opera. Della figura dell’intellettuale, del valore dell’esperienza, scrive Moravia in questa lettera (qui in estratto) del 1927, pubblicata da Bompiani nella raccolta Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto – Lettere 1926-1940, da poco in libreria e presentata (venerdì 5 febbraio, a Roma al teatro Argentina) da Dacia Maraini. «Sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale», scrive Moravia, raccontando «la aridità e la mediocrità della vita di Roma». Lo spaventano «l’intellettualismo e gli intellettuali». «Finora in Italia (l’Italia moderna)», scrive, «non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica». «Anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio», continua, salvo poi interrompere così l’analisi: «Lei», scrive a Caffi, «mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare - ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza».
Solda, 1 agosto 1927. Mio caro Caffi (...)Quello che Lei dice su me e sul mio avvenire è molto lusinghiero e certo non potrebbe esser più giusto quel che Lei dice sulla maggiore importanza della vita invece che del lavoro – le sue parole vengono a confermare un concetto che fino a poco tempo fa avevo idolatrizzato e che ora, forse per la aridità e la mediocrità della vita di Roma cominciava a vacillare – del resto per dimostrarLe quanto l’idea della vita e della sua vastità mi sia accetta le dirò che poco tempo fa avevo deciso di abbandonare dopo la pubblicazione del mio romanzo la letteratura e di dedicarmi a qualche occupazione meno artistica – quello soprattutto che mi spaventava era l’intellettualismo e gli intellettuali – finora in Italia (l’Italia moderna) non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica – questo è un grande pericolo: la mia più grande ambizione è non di essere un uomo qualunque ma forse un uomo che nonostante la sua possibile intelligenza non frammetta tra sé e le cose la lente dell’intellettualismo – Come vivere io ancora non so – e certo, finché non avrò qualche scopo più alto che me stesso, quei sacrifici e quelle rinunce di cui Lei mi parla non serviranno a nulla altro se non a far del posto per altre verità – e debbo anche dirle che fino a poco tempo fa il mio più alto ideale umano era l’uomo forte sanguigno e consapevole di Shakespeare o se vogliamo di Balzac – l’uomo completo con tutti i vizi e tutte le virtù – tutto il mio sistema di vita era appoggiato su questo ideale per questo ideale ho fatto diverse e non tutte pure esperienze e perciò quel che a Lei forse era sembrato generosità, non era qualche volta che consapevole e mal intenzionato esperimento – e debbo anche dire che in me c’è ancora una buona dose di irritazione, il resto di una rabbia durata 19 anni – e poi ci sono tante altre cose, le più non belle – anzi posso dire che l’unica cosa che ho di buono è la consapevolezza di questi miei detti difetti – ho visto spesso parecchie persone burlarsi o biasimare senza parerlo le mie vanità e io lo sapevo e le esageravo. Ad ogni modo per ora la questione è di vivere cioè di fare esperienze: certo ora non penso più come due anni fa che l’esperienza sia tutto – ma ne riconosco il valore materiale e documentario... e poi tutte queste sono parole – io ho davanti a me tutte le questioni più dure di conoscenza umana e di elevazione morale e dietro di me solamente qualche piccola vittoria sul tempo e qualche piccolo esperimento – soltanto ecco, tutto è chiaro avanzo e non mi riesce di vedere altra via che quella seguita da tutte le ambizioni – la più grande precarietà è in ogni mia azione – vivo alla giornata e una volta alla settimana almeno sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale – anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio – è terribile non avere alcun appetito, non esser feroce – sentirsi avvolti da una mediocre ovatta – e certo nulla è più ripugnante che certe mie debolezze femminili direi quasi masochiste. Lei mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare – ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza – e se certi sacrifici non fossero sacrifici ma solamente agevoli distacchi? Lei mi dica delle sue condizioni e di quel che conta di fare – e poi dica anche che cosa intende per “singolarità addirittura brutali” che io svilupperei se non rinunciassi alla vanità terrene – e questo sia detto senza alcuna ironia. Arrivederci per oggi. Una stretta affettuosa di mano. Alberto Pincherle. Copyright Bompiani 2015
“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.
Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.
L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.
CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.
Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.
Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.
Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.
"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.
Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.
Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.
Perché la battaglia contro la mafia è prima di tutto culturale. Affrontare la realtà anche se non ci piace. Così si combattono le cosche. Ma c’è chi preferisce non guardare. E critica romanzi, film e serie tv come "Gomorra" e "Romanzo criminale". Il libro "Il contrario della paura" di Franco Roberti spiega come affrontare quotidianamente terrorismo e mafie, scrive il 28 giugno 2016 “L’Espresso”. Proponiamo alcuni stralci del libro “Il contrario della paura” di Franco Roberti. Nel volume, pubblicato da Mondadori e scritto con Giuliano Foschini, il procuratore nazionale antimafia spiega come affrontare, anche nei comportamenti quotidiani, il terrorismo e le mafie. Tempo fa mi è capitato, sfogliando un giornale, di leggere di una strana patologia della psiche, che colpisce principalmente le donne. Si chiama «sindrome di Grimilde», come la strega della favola di Biancaneve: le signore che non si piacciono, spesso a causa di alcune, anche piccole, imperfezioni del proprio corpo, preferiscono non guardarsi allo specchio per non essere messe di fronte alla realtà. Uno strumento di difesa, evidentemente, che però impedisce una possibile risoluzione del problema: se non ti guardi, non sai. E se non sai, non puoi prendere le contromisure necessarie per apparire, anche soltanto a te stesso, migliore. La «sindrome di Grimilde», però, non colpisce purtroppo soltanto gli uomini e le donne che non si piacciono. Alle volte, di questa patologia si ammalano anche le istituzioni. Che sottovalutano il fenomeno, non capendo che l’associazione mafiosa non è soltanto un delitto contro l’ordine pubblico, ma il più grave delitto contro la democrazia. (…) Il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata da parte dello Stato, dei poteri pubblici, ha sempre avuto nel nostro paese una gestione emergenziale. E soltanto quando le organizzazioni mafiose sparavano, uccidevano e creavano pericoli per l’ordine pubblico, lo Stato sembrava accorgersi della loro esistenza e interveniva. Come? Intensificando l’azione repressiva. Se invece per un po’ tutto taceva, se le mafie prosperavano in silenzio, se facevano affari e intrecciavano rapporti con la politica e con l’economia, le si trattava come se non esistessero. (…) Passata l’indignazione del momento, passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Lo Stato sembra non partire mai all’attacco, non prende mai l’iniziativa. Risponde sempre con provvedimenti tampone. E questo è possibile proprio per via della «sindrome di Grimilde». Allontanarsi dallo specchio è una maniera per scansare il problema. E raccontarsi una bugia: come se quelle pallottole, quelle stragi, quell’attentato alla libertà di ciascuno di noi, fossero un effetto straordinario. Una malattia rara, quasi misteriosa. E non una patologia sistemica, che abbassa le difese immunitarie, e che ti rende ogni giorno vulnerabile. Invece, è così: le mafie sono un elemento costitutivo, una componente endemica della società meridionale. E oggi esiste il rischio concreto che in breve tempo possano diventare presto un elemento strutturale, una parte del tessuto sociale anche di altre regioni. Non riconoscerlo significa non curarsi. Non ammetterlo significa aiutare la malattia, essere in qualche maniera complici involontari di chi ci vuole uccidere. Se non guardiamo in faccia la realtà, se continuiamo con i negazionismi ipocriti, paralizzanti, subdoli, faremo il gioco delle mafie che scommettono tutto su Grimilde per infiltrarsi nelle pubbliche amministrazioni e creare quel sistema alternativo al sistema dello Stato e dei poteri pubblici locali. Non guardarsi allo specchio significa non riconoscere che non possono bastare le norme penali a contrastare la criminalità organizzata, ma che occorre intervenire anche sulle cause sociali del loro sviluppo. (…) La questione è molto delicata. Per questo chiedo a tutti di fare la propria parte: alle associazioni di categoria di offrire la massima assistenza a chi denuncia, e di essere durissimi, invece, con chi paga il pizzo in silenzio. Chiedo alla politica rigide norme sugli appalti pubblici: a Bari, in Sicilia, persino a Milano, ci sono stati casi di pizzo chiesto su lavori effettuati dalle pubbliche amministrazioni. Inaccettabile. Per chiedere questi sforzi, però, è necessario che lo Stato faccia la sua parte. I rapporti sociali funzionano, come funzionano le istituzioni, quando si fondano sulla fiducia. Il concetto di fiducia è fondamentale: se c’è funziona tutto. Fiducia significa affidamento e l’affidamento comporta, inevitabilmente, anche un controllo dei comportamenti. Fiducia è verità (…) Io credo molto al ruolo della verità. Ecco perché, per esempio, mi sono molto interessato al dibattito sorto attorno a opere come “Gomorra” e “Romanzo criminale”. Parlo anzitutto dei libri - che hanno avuto un enorme successo di pubblico e di critica - ma anche dei film e delle serie tv che hanno ispirato. In comune hanno la caratteristica di essere ambiziosi prodotti italiani. Di essere fatti con grande cura e attenzione: moderni, forti, scritti e girati benissimo. E di occuparsi, chiaramente, entrambi di fenomeni criminali, mafiosi. Ma ad accomunarli è anche la circostanza di aver suscitato, oltre a un grande successo di pubblico, grandi polemiche. Mi ha colpito, per esempio, che molti sindaci campani si siano rifiutati di far girare alcune puntate della seconda stagione di “Gomorra” nelle loro città. «Non è una buona pubblicità» hanno dichiarato. E poi ancora, la solita teoria: «Noi non siamo soltanto quello», «In televisione dovremmo andare per le nostre bellezze, per le nostre risorse, e non sempre per la malavita» eccetera eccetera. Capisco la reazione, ma allo stesso tempo penso che si tratti di una posizione sbagliata. Per questo non la giustifico. Non è “Gomorra” che porta i ragazzi a delinquere. È troppo facile pensare che il problema sia “Gomorra”. Il problema è la criminalità che non viene ancora sconfitta. Il problema è lo spaccio per strada, la politica corrotta, il problema è il commerciante che paga il pizzo. “Gomorra”, essendo un prodotto eccellente, non fa altro che rappresentare benissimo quello che succede: lo ha fatto prima nel libro di Roberto Saviano, poi nel film di Matteo Garrone e ora nelle serie di Sky. È un altro pezzo della «sindrome di Grimilde»: non vogliamo guardarci allo specchio? Non vogliamo che in televisione venga rappresentato, seppure con qualche esagerazione romanzesca, ciò a cui noi tutti assistiamo ogni giorno, spesso nell’indifferenza più assoluta? Bisogna avere paura della realtà? Abbiamo paura di noi stessi? “Gomorra”, così come in parte “Romanzo criminale”, fornisce un contributo di conoscenza reale del problema. E fa più paura proprio per questo: perché non è soltanto lo spara-spara. È anche la famiglia Savastano che sbarca a Milano e osserva i grattacieli nuovi, luccicanti. «Genny, è tutto nostro» dice la madre al figlio in una battuta bruciante, evidentemente semplicistica, ma che contiene tutto. Dire: «Ci fate una cattiva pubblicità» fa molto meno male che ammettere che è vero, purtroppo. Magari non sarà tutto, ma molto di quello che ci è attorno appartiene a loro. Palazzi, bar, ristoranti, negozi. (...) Non si può accusare gli intellettuali di raccontare la verità. Non si può chiedere a nessuno di chiudere gli occhi: perché anche se si prova a nasconderla, la realtà continua a esistere. Certo, rispetto a questi prodotti sarebbe importante esercitare un giudizio critico. E per farlo, in questo caso, servono i maestri. È necessario investire sulla cultura dei diritti. È necessario spiegare con parole chiare, e mi pare che questo lo facciano persino le fiction, che a seguire quei modelli si finisce sempre male, sempre in un’unica maniera: o al cimitero o in carcere. Non ci sono altre possibilità.
Intellettuali e politica, Paolo Di Paolo il 19 aprile 2016 su "L'Espresso: l'impegno di Zerocalcare e il silenzio degli altri. Agli intellettuali non interessa più quello che succede nel mondo e nella politica. Sono diventati prudenti fino al conformismo. Con pochissime eccezioni. E un fumettista che fa meglio di loro. Lui, a un certo punto, ci scherza su: «Però contate che ’sto libro magari finisce in mano a gente che di solito non mi legge e che è cascata nella trappola dell’argomento impegnato». Ma in “Kobane Calling”, appena pubblicato da Bao Publishing, prima ancora che l’argomento, conta lo sguardo: raccontando un suo doppio viaggio nel Kurdistan siriano (e perciò, come lui scrive, di qualcosa «che va oltre gli strettissimi cazzi miei»), il fumettista Zerocalcare chiama in causa l’ignoranza, i pregiudizi degli «sciacalli nostrani» (li disegna: Borghezio, Gasparri) e di tutti noi. La distanza e l’indifferenza che impediscono a quella «cosa che conosci benissimo. Che ti porti sempre dietro. Il cuore. Non uno qualsiasi. Il tuo - con i suoi bozzi, le sue cicatrici, le sue toppe» di battere per Kobane. Come tutti i suoi precedenti e come quel piccolo capolavoro che è “Dimentica il mio nome”, “Kobane Calling” fa ridere e fa piangere, senza ricattare mai chi legge; l’autore è antiretorico, smitizza sé stesso («Avoja a lavora’ su me stesso. Io sto come un cantiere della Metro C»), ma non per questo evita di prendere posizione. E una volta messo piede nella regione autonoma curda del Rojava, invita a guardare «le scelte loro e le nostre»: «Loro c’hanno la guerra in casa. Quella vera, a pochi chilometri. Eppure, anche in mezzo a ’sto macello, cercano sempre di aprire più spazi di partecipazione e di democrazia. Noi strumentalizziamo ogni morto per fare esattamente il contrario. Chiudere quegli spazi sempre di più». Raffigura «buona parte della nostra classe dirigente» dandole i tratti di un maiale che dice: «Facciamo vedere ai terroristi che non modifichiamo il nostro stile di vita per loro. Postiamo tutte foto di noi che ci baciamo in piazza, così vince l’amore la vita la mononucleosi. Intanto, però, mettiamo lo stato d’emergenza. Togliamo Schengen…». Fa uno strano effetto leggere “Kobane Calling” accanto a “Tumulto” di Hans Magnus Enzensberger, appena uscito da Einaudi. Che c’entra un fumettista romano trentenne con uno scrittore tedesco ottantenne? La risposta sta nel titolo del vecchio Enzensberger, nella parola “tumulto”. Il libro raccoglie i suoi diari ritrovati degli anni Sessanta: un viaggio a Leningrado insieme a Sartre, De Beauvoir e Ungaretti, un soggiorno cubano, l’impegno pubblico negli anni del grande tumulto individuale e collettivo. Quelle esperienze, dice Enzensberger, «sono sepolte sotto il mucchio di letame dei media, del materiale d’archivio, dei dibattiti, della schematizzazione da vecchi militanti», ma lui non vuole dimenticare «quanto rumore faceva il tumulto». E d’altra parte, «vecchio mio, sai bene quanto me che il tumulto non finisce mai. Semplicemente ha luogo da qualche altra parte, a Mogadiscio, Damasco, Lagos o Kiev, ovunque abbiamo la fortuna di non vivere. È solo una questione di prospettiva». Già, è solo una questione di prospettiva. Enzensberger non prende sul serio fino in fondo le proprie stesse pose da intellettuale engagé, anzi, interroga il trentenne che è stato, lo provoca: perché eravamo così fissati con la guerra del Vietnam? E d’altra parte, però, lascia intendere che - al netto degli eccessi, di un radicalismo pericolosamente privo di misericordia - essere scrittore, per lui, è stato anche questo. Una questione, sì, di partecipazione. La voglia di capire, di vedere, di prendere posizione, di provocare indignazione, e magari - perché no? - di «sbalordire e far imbestialire la società», senza uccidere nessuno. Abbiamo archiviato con disinvoltura, perfino con sollievo, la stagione della militanza intellettuale. Seguitando a incensare Pasolini a ogni festa comandata, abbiamo convinto noi stessi che bisognava guarire dalla febbre degli interventi a gamba tesa nel dibattito civile, degli appelli, dei j’accuse. Se gli anni del riflusso ci hanno addormentato, quelli successivi ci hanno sorpreso in letargo. E così, è bastato un sorrisetto di scherno per chiudere in cantina i proclami di Sartre e il fumo della sua pipa, Moravia, i suoi sgargianti maglioni girocollo, le sue ossessioni sull’inverno nucleare. Era - ci è parso - perfino caricaturale quel piglio da tribuni salottieri, quell’ansia di mettere firme, di dire la propria: autorizzati da chi? Mentre avanzava l’epoca dell’ironia - su tutto, a tutti i costi - e la parola “intellettuale” entrava nel lessico degli insulti, si consolidava la tesi dello scrittore tenuto a impegnarsi solo scrivendo romanzi. Qualcosa, lungo il ventennio berlusconiano, si è mosso, ma in una sola direzione: Antonio Tabucchi incassava querele da Ferrara e daSchifani, Franco Cordelli da Previti. Poi, più niente. All’uscita dal tunnel, è bastata un’alzata di spalle a liquidare un’intera stagione: nelle pagine di “Il desiderio di essere come tutti”, Francesco Piccolo ha messo in ridicolo l’accanimento e il malumore della sinistra tra il 1994 e il 2011, come un gioco di società tutto sommato inutile. Ha polverizzato con un’esclamazione - «E che sarà mai!» - gli ultimi lampi di conflitto, di tumulto. Il Nobel a Dario Fo, nel ’97, fu letto da molti come uno scherzo da comunisti svedesi: per avere il massimo riconoscimento letterario - usa dire dalle nostre parti, con sospetto - conta l’impegno politico. All’indomani della morte di Tabucchi, un orrendo titolo del “Corriere della Sera” imbrigliava l’inquieto autore di “Sostiene Pereira” nella categoria di «antiberlusconiano che scelse l’esilio». Che tristezza! Curioso che poi, se decidono di intervistare uno come David Grossman, gli chiedono conto della sua insofferenza per Netanyahu. C’è qualcosa che non va in un Paese che rimpiange gli scrittori impegnati del passato, celebra quelli stranieri se prendono posizione, e costringe i propri contemporanei a tacere. Più per paura di essere presi in giro che per eccesso di prudenza. L’argine a ogni slancio politico, buono per tutte le stagioni, è quello usato da un ministro per frenare un intervento di Saviano sul caso Boschi: Saviano parli di mafia, ovvero di ciò che sa. Tradotto: è uno scrittore, si occupi d’altro, non emetta «sentenze senza fondamento». Eppure, quante lacrime di coccodrillo versate sull’«io so» pasoliniano! Peccato che a quell’«io so» facessero seguito un’avversativa e una causale piuttosto eloquenti. Io so ma non ho le prove. Io so perché sono uno scrittore. Quei pochi che ancora azzardano prese di posizione nette - e ovviamente discutibili - come Erri De Luca o Michela Murgia sono spesso guardati con diffidenza. Perché De Lucaparla di Tav? Perché parla di trivelle? Uno scrittore che scelga di dire la propria, non è detto che lo faccia da cittadino più intelligente o più esperto, non necessariamente: da cittadino più attrezzati di parole, semmai, e mosso - si suppone - da autentica passione civile. Riusciamo ancora ad accettarlo? Può prendere cantonate, pronunciare enormi sciocchezze: come tutti. Ma a cosa sarebbe ridotta la storia della letteratura se venisse applicata sistematicamente la categoria di «sentenze senza fondamento»? Buttiamo all’aria tutto Brecht e l’intera opera dell’ultimo premio Nobel, Svetlana Aleksievic? La «guerra contro i cliché», come la chiama Martin Amis, si combatte anche a suon di provocazioni, di frasi grosse, di domande irritanti e radicali. Si combatte anche a furia di iperboli: se Mario Vargas Llosa definisce Donald Trumpun clown, sta esagerando. Ma non è detto che sia inutile. E se gli avversari lo definiscono (negli Stati Uniti, ma anche sull’italianissimo “il Giornale”) «intellettuale che rosica», è segno che comunque ha toccato qualche nervo scoperto. La battaglia contro i conformismi si combatte anche a furia di libri sbagliati, o brutti su un piano estetico: “Sottomissione” diHouellebecq disturba, come ogni sua pagina, ma scuote. D’altra parte, mentre i cugini francesi portano in prima serataBoualem Sansal, autore di “2084”, a parlare di islamismo radicale, noi confiniamo gli scrittori ai talk show promozionali. Il paese di Dante e di Belli è diventato allergico alle invettive. Le accetta solo se hanno valore retroattivo, solo sull’onda del «come eravamo». La Resistenza. Settant’anni fa. Il delitto del Circeo. Quarant’anni fa. Fa impressione ripescare dagli archivi il dialogo infuocato tra Pasolini e Calvino nell’autunno 1975. È il 30 ottobre, Pasolini muore tre giorni dopo. Si rivolge così a Calvino: «Tu dici (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975): «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira». Ma perché questo? Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive... Ma perché questo?». Ripete sei volte lo stesso interrogativo: «Ma perché questo?». Provoca il collega, lo incalza: «Tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia». C’è qualcosa di esemplare - al di là del merito - in questo corpo a corpo tra scrittori, in questa sfida reciproca alla responsabilità, alla discussione. In questo - posso dirlo? - prendere sul serio gli eventi, la realtà. Non c’era niente da ridere. Non c’è niente da ridere. O quantomeno, non c’è solo da ridere. Ve lo immaginate Pasolini che ghigna da un profilo Facebook? Sciascia che fa il battutista brillante su Twitter? Verrebbe da concludere che, se gli scrittori sono stati marginalizzati sulla scena pubblica, un po’ l’hanno voluto. Cercando di competere con Crozza o con Spinoza.it, piantati su un terreno che non è il loro; temendo di apparire “pesanti”, hanno annegato nel cazzeggio qualunque spessore. Qualche eccezione c’è, e di solito non appartiene alla generazione dei padri. A quella dei figli cresciuti, come Alessandro Leogrande, Christian Raimo, Igiaba Scego. Se Nicola Lagioia si occupa con intelligenza del delitto Varani, c’è chi fa la ola, ma non dovrebbe essere una rarità. E poi c’è la generazione dei nonni come Enzensberger, e come il sempre troppo inascoltato Busi. «E allora, che sarà mai», scrive in “L’altra mammella delle vacche amiche”, «se rinunci a un po’ del tuo piccolo dolore per te sostituendolo con il dolore più grande degli altri che vuoi che restino dall’altra parte, quella irraggiungibile dalla tua retina ma non dal tuo cuore, quella invisibile per la comodità della tua vecchia antropologia egocentrica che non vede mai alcun futuro se non il suo presente stretto alle sue sole viscere?». Ecco, ancora il cuore chiamato in causa da Zerocalcare. Il quale, come Busi, si sforza di non somigliare a quelli che nei sondaggi riempiono la percentuale del «non sa, non risponde». Dove siamo tutti? Alle prudenze dei cortigiani e dei reggimicrofono, si sommano i nostri silenzi di simpatici e inoffensivi cantastorie. E nessuno prova più nemmeno a scuotere la cappa di conformismo che ci sta uccidendo.
Intellettuali e politica, Michela Murgia su "L'Espresso il 16 maggio 2016: "Noi, scrittori del reale, in trincea contro i media". Chi interviene sui temi sociali viene ingabbiato in ruoli di comodo da giornali e tv. Il contributo della scrittrice sarda al dibattito lanciato da Paolo Di Paolo. Se esista e chi sia oggi o cosa debba fare l’intellettuale engagé, uno coinvolto col suo tempo, è una domanda frustrante che non mi pongo più da anni, perché la risposta imporrebbe che ci fosse un accordo sui termini di “intellettuale” e di “engagé” che invece a monte non c’è quasi mai. Formalmente tutti coloro che scrivono per essere pubblicati sono engagé, da Zerocalcare che disegna Kobane al calciatore di successo che mette il suo nome sulla sua biografia scritta da un altro. A stabilire che esista l’ingaggio è l’atto stesso di pubblicare, che è sempre politico: quelle parole e quelle immagini occuperanno infatti uno spazio che è contemporaneamente pubblico e finito, cioè di tutti ma non per tutti; per il solo fatto di trovarsi lì - su un dato scaffale fisico o virtuale in un esatto momento storico - quelle narrazioni hanno la possibilità di costruire immaginario collettivo e contemporaneamente stanno distruggendo la possibilità che a fare la stessa cosa siano le parole di un altro, qualcuno che quel posto e quel momento avrebbe potuto occuparlo in vece loro. L’ingaggio per chi pubblica è dunque sempre ineludibile, perché genera conseguenze collettive che prescindono dalla volontà di chi scrivendole si è esposto alla vista di tutti. È certo che le migliaia di copie della biografia del calciatore possano essere valutate molto più influenti socialmente di quanto non lo siano le poche decine vendute dal saggio del sociologo o le poche centinaia diffuse dal romanzo cosiddetto civile. In termini di impatto sull’immaginario, Ibrahimovic è assai più engagé di Zagrebelsky, che ne sia o meno consapevole, ma è su quella consapevolezza che si gioca l’altro termine del discorso: l’intellettuale. Se in ragione dell’impatto pubblico si è sempre engagé anche senza avere contezza delle conseguenze delle proprie parole e dei propri silenzi, è intellettuale solo chi la responsabilità di generare quelle conseguenze se l’assume e la porta, a prescindere dalla sua possibilità di influire. Per quanto il campo a questo punto del discorso si restringa di parecchio, rimane comunque ampissimo. È falso che l’intellettuale impegnato non esista più: è piena l’Italia di uomini e donne intellettuali che scrivono con responsabilità ogni volta che prendono la penna in mano o accendono il computer, e quella consapevolezza la applicano a romanzi e saggi, articoli di giornale e blog, tweet e post su Facebook. Non è l’ingaggio né l’intellettuale a mancare: è lo spazio pubblico che permette alle due cose di presentarsi combinate e generare influenza. Se fermassi per strada un passante appartenente a quella categoria della fantasociologia che è il ceto medio riflessivo e gli chiedessi se conosce le riflessioni degli intellettuali che influenzano quotidianamente me - gente come Evelina Santangelo, Giulia Blasi, Francesco Guglieri, Enza Panebianco o Marco Filoni - di certo mi direbbe che non sa chi siano. Eppure il loro pensiero è tecnicamente pubblico sulla carta o sulla rete e quindi accessibile a chiunque. Ciascuno di noi può fare lo stesso inutile gioco e stendere il suo elenco di intellettuali engagé, ma è improbabile che quelli in comune con il passante possano essere più di tre o quattro; e forse saranno i nomi di coloro che negli ultimi anni hanno potuto far passare il loro pensiero sui media mainstream. È sullo spazio, non sul pensiero né sull’impegno, che si gioca la vera differenza. Chi decide quale platea dare all’intellettuale decide implicitamente anche cosa l’intellettuale può dire e la concessione dello spazio di visibilità è fatta sempre per categorie. Me ne resi conto nella prima decade del 2000, quando scoppiò il tema sociale del precariato; per almeno tre anni gli scrittori che avevano pubblicato romanzi o saggi in merito prima che diventasse scottante furono interpellati dai massmedia solo in quanto “precariologi”. Nel tempo in cui l’ideologia è diventata una parola pornografica, l’eventuale visione complessiva di mondo che poteva esserci dietro alla scelta di Nove, Baiani, Desiati, Baldanzi o Platania di scrivere sulla questione del lavoro non interessava a nessuno di quelli che facevano i palinsesti e organizzavano le pagine dei quotidiani. Poi passò di moda il tema e con esso persero voce anche alcuni di quelli che avevano contribuito a farlo divenire tale: la loro influenza non era infatti stabilita dal peso specifico del loro pensiero ma dalla loro funzionalità al sistema mediatico. Lo stesso meccanismo l’ho rivisto all’opera da quando si è cominciato a parlare di femminicidio per le donne uccise per ragioni di genere: anche in questo caso lo spazio mediatico concesso a chi ne ha ragionato era e resta quello della “femminicidiologia” e viene aperto solo corpore praesenti, quando c’è da riempire la colonna del pensatore accanto alla notizia di cronaca dell’ennesimo assassinio di donna. L’intellettuale, per avere diritto di voce davanti ai grandi megafoni, deve essere letto come “esperto” di qualche aspetto parcellizzato della realtà. Deve avere un tema, quella che si definisce “una sensibilità”, un fronte dentro al quale la sua autorevolezza possa essere allo stesso tempo affermata e limitata. Sulla base di questa categorizzazione lo spazio mediatico miracolosamente gli si aprirà e lo incoronerà, ma se per caso l’intellettuale rivendicasse la responsabilità di una visione più generale, se si azzardasse a spostarsi dal recinto in cui si è deciso che la sua parola possa contare qualcosa, allora il meccanismo che scatterebbe è esattamente opposto: la delegittimazione sarebbe immediata e la perdita di visibilità dietro l’angolo. Chi oggi si è assunto senza vergogna il carico di essere intellettuale sa che il gioco è questo: dover sostenere un corpo a corpo continuo con i media di massa perché il termine engagé non implichi che nell’ingaggio egli sia il soggetto passivo, anziché l’agente del suo pensiero. La sola forma di resistenza che conosco al tentativo di rendere strumentale il pensiero non è rinunciare all’ingaggio di esprimerlo, ma accettarlo a patto di essere contronarrativi rispetto alla funzione che gli altri vorrebbero che assumessi, anche a costo di commettere atti di violenza intellettuale. Se c’è una scaletta che prevede che si possano dire delle cose e non altre, ignorarla o contraddirla è per me un dovere. Se il decoro di regime stabilisce che c’è un patto di concessione strumentale della parola all’intellettuale, romperlo e riscriverlo è il primo gesto politico necessario. La cosa realmente complicata è farlo mantenendo aperta la possibilità di poterlo rifare, fino a quando tutti quelli che pensano che non lo si possa fare senza perdere la parola non si sentiranno a loro volta abbastanza forti da fare altrettanto.
Intellettuali e politica, Valeria Parrella su "L'Espresso del 4 maggio 2016: "La mia voce non va in piazza". L'autrice napoletana interviene nella discussione sull'impegno dei scrittori aperta da Paolo Di Paolo. Ci sono molti modi per dare il proprio contributo. Ma non tutti trovano sui media lo spazio che meriterebbero. Se viviamo è per marciare sulla testa dei re» fa dire Shakespeare a Hotspur nell’“Enrico IV”. È così il Bardo: un intellettuale impegnato, al punto che la sua vis politica, traghettata dentro le opere, sale ancora sui nostri palcoscenici a dirci cosa appartiene all’uomo (quando egli è un Uomo). Tiresia, nell’“Antigone” di Sofocle, mette in guardia Creonte dalla ubris, dalla tracotanza del tiranno di sapere cosa è giusto o meno fare non “per” i cittadini, ma “dei” cittadini, per esempio del loro corpo. Anche Sofocle era dunque un intellettuale engagé e usava lo stesso sistema di Shakespeare: faceva parlare i personaggi. Torno al 400 avanti Cristo e me ne vado a spasso per la letteratura europea - ma ha davvero un tempo e una latitudine, la letteratura? - per ragionare su quello che Paolo Di Paolo ha sostenuto la settimana scorsa su “l’Espresso”, in un articolo vibrante di passione. Ho compreso che dicesse che, in un’epoca in cui i governanti mostrano irresponsabilità, l’intellettuale e lo scrittore debbano ingaggiarsi. È povera la stagione della nazione in cui chi ha voce non la usa per impegnarsi su ciò che accade nel mondo. Mi è parso un articolo preciso per ciò che affermava, ma fuorviante per ciò che ometteva. Procedendo per induzione, da lì venivano fuori dei macrotipi: c’è lo scrittore di primo tipo, quello che ha assunto una voce forte grazie al proprio talento e la utilizza per supportare questioni del mondo esterno, senza includerle nella propria produzione: scrive un appello per, scende in piazza con, va in tv contro (Erri De Luca si diceva, allora io dico Tiziano Scarpa assieme a una dozzina di scrittori del Nordest in Piazza dei Signori a Treviso contro le ordinanze razziste dei sindaci veneti). C’è lo scrittore di secondo tipo: quello che, a volte, poiché una cosa del presente lo indigna particolarmente, lo muove o ne sa di più, ne scrive a parte: fa un reportage su un giornale, scrive un volume in una collana dedicata (Lagioia sul delitto Varani si diceva, allora io dico “Zingari di merda” di Antonio Moresco, Effigie). Blog, Twitter, gruppi di lettura, comunità di fan. Il successo di un libro è sempre più affidato agli "influencer", specialisti del passaparola. Poi c’è lo scrittore di terzo tipo: quello che lascia precipitare il presente nella propria opera (Zerocalcare si diceva, allora io dico Giuseppe Genna). Infine uno scrittore di quarto tipo: quello che scrive così bene che, abbia o meno legami immediati con il presente: un giorno qualunque un lettore qualunque prenderà la sua parola e ne trarrà motivo di lotta per sé e per gli altri (tra i citati da Di Paolo ci si poteva riconoscere Pasolini, i miei esempi sono all’inizio di questo articolo). Però l’esperienza umana è una soltanto, non siamo compartimenti stagni ma persone, e perfino io non sono così sciroccata da pensare che gli intellettuali possano essere categorizzati come periodi ipotetici: e quindi le idee circolano, i flussi di pensiero e i campi semantici che li abitano o forse li regolano, gli interessi e gli amori: si mescolano, o meglio si dice in napoletano “si imbrogliano”. Massimiliano Virgilio è più ingaggiato quando scrive “Porno ogni giorno” (Laterza), per parlare del degrado umano che si consuma alle periferie delle nostre città, o quando va nel penitenziario minorile di Nisida a fare laboratori? Quando scrive un reportage da Scampia su “il Venerdì di Repubblica”, o quando organizza da volontario l’unica festa del libro di Napoli o quando in “Arredo casa e poi mi impicco” (Rizzoli) racconta il baratro esistenziale di un trentenne che è tutti i trentenni? Voglio dire che non credo che il mondo delle lettere si possa spartire tra uno scrittore che se ne frega di quello che accade fuori e si ripara sicuro tra le sue carte, e un altro che si stende sui binari assieme ai disoccupati. Soprattutto perché dietro le proprie carte non si è mai al sicuro. Uno scrittore mentre scrive frigge, e quando esce fuori con un articolo o un libro: rischia. Dal disinteresse al linciaggio. Se non scrive libri pensando alle fette di mercato, alle tasche degli adolescenti, se non ammicca al lettore, se non pensa che da quel libro ci si potrà cavare un film, cioè se è onesto intellettualmente, lo scrittore rischia, e dico: rischia ogni cosa perché dopo, dopo quel libro, dopo tre giorni da quell’articolo non ha più nulla. Diventa quella parola scritta che se ne è andata. Paolo Di Paolo lo sa, che c’è più amore di quello che dichiarava lui nell’articolo della scorsa settimana (è proprio questa la bellezza di quell’articolo: che egli stesso affermando che serve l’ingaggio si ingaggia; annichilendosi nella prima plurale dei “cantastorie”, si chiama all’azione). Erri De Luca e Michela Murgia, portati a giusto esempio come impegnati, hanno una voce calda ed esatta, e hanno anche una voce forte. Avere una voce forte significa potersi far sentire. Ma questo ultimo aspetto non dipende solo da loro: il megafono è un concertato tra tre agenti: il sé, il pubblico (utilizzo il termine nell’accezione latina, «che appartiene a tutto il popolo») e il tramite tra i due: i media. Se i media fanno da cassa di risonanza per le battutine liquidatorie del ministro Boschi ci vuole una voce enorme, come quella di Saviano, per rispondere confidando in eguale risonanza. Gli esempi che qui riprendo da Paolo Di Paolo sono quelli di tre scrittori che l’attenzione se la sono conquistata scrivendo, e va a loro onore, ma non può andare a disdoro degli altri il non riuscire a ottenere la stessa visibilità. Quando Loredana Lipperini, Ermanno Rea e Franco Arminio si candidarono nelle liste di L’altra Europa con Tsipras (non male come impegno anti-renziano), dai palchi dei comizi dicevano della questione meridionale, dei paesaggi offesi e vilipesi, del corpo delle donne. Bisognava ascoltarli. Ma chi ha potuto? Sono bastati gli accorati e pensati richiami di Aldo Masullo e di Maurizio Braucci ad arginare il craxiano appello di Renzi al disingaggio referendario? No. Serviva qualcuno che desse loro uguale spazio. Qualche giorno fa Valerio Magrelli sulle pagine romane de “La Repubblica” ha scritto un pezzo sull’inclusione scolastica. Parlava del presente e non lo faceva in versi, ma in quanti l’hanno letto? I Wu Ming fanno caso a sé proprio per questo e per questo anche vanno ricordati: hanno scelto di non utilizzare parte dei media, di non apparire in tv, e manco in occasioni pubbliche ufficiali, di “apparato”. Fa parte del loro essere impegnati, è proprio dal loro impegno civile che nasce questa forma di protesta: che io credo racconti quanto raramente ci si possa fidare di ciò che è eclatante. Cosa è un gesto forte? Quale quello a cui dare udienza? Vogliono, le televisioni, parlare per tre giorni de “I piccoli maestri” e di tutti gli intellettuali che vi prendono parte (piccoli maestri.wordpress.com)? La stampa vuole fare a gara a chi lancia prima l’itinerario 2016 di “Repubblica nomade” (repubblicanomade.org)? Piuttosto mi pare che ai media interessi l’episodio eccellente, e diano pochissimo credito, seguito e spazio a chi costruisce con pazienza nel tempo. Se non hai una voce amplificata te ne resta una melismatica: quella della letteratura, che è una voce necessariamente lenta. La letteratura non crea instant book, abbisogna di tempo, e quel tempo può durare pure vent’anni, pure cento. Magari ne duri cento, cinquecento, mille: che qualcuno torni a essere “cantastorie” come Sofocle, che si possa venir citati come Harry Percy di Northumberland nell’“Enrico IV”.
Intellettuali e politica, interviene Aldo Nove su "L'Espresso il 09 maggio 2016: "La realtà è annichilita, gli scrittori anche". L'autore di "Woobinda e altre storie senza lieto fine" interviene nella discussione aperta da Paolo Di Paolo. Con una rivendicazione. E un'accusa durissima al tempo presente. Oggetto del contributo di Aldo Nove alla polemica avviata sulle colonne di questo giornale da Paolo Di Paolo, dopo l’encomiabile replica di Valeria Parrella, sarà innanzitutto Aldo Nove. Scrittore che forse Paolo di Paolo non conosce, e che da oltre vent’anni interviene in modo molto diretto, per non dire violento, proprio sulla cosiddetta “realtà” nostra. Così come fecero i cosiddetti “Cannibali”, ultimo fenomeno letterario italiano e che Di Paolo salta a piè pari. Trovo completamente sbagliate le premesse metodologiche e l’assunto, così come falsificato è il quadro generale che Di Paolo evidenzia. Insomma si lamenta di ciò che non c’è perché non vede. Lui. Perché non sa quanto mutabile (e oggi in particolare a una velocità insostenibile) sia la concrezione di quello che Lacan definiva “l’impossibile”, ossia il reale. Dicevo che avrei parlato innanzitutto di me. Con il mio libro d’esordio, “Woobinda e altre storie senza lieto fine”, ho descritto l’Italia che, 20 anni fa, cambiava per sempre. L’ho fatto con nomi e cognomi. Sono stato il primo a scrivere, con “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”, nel 2004, di precariato, con un libro reportage fondato su una selezione di 100 interviste, quando di precariato non parlava nessuno. E ho sempre parlato del presente. Anche quando ho descritto la vita di San Francesco, cercando di dimostrare quanto il XII secolo fosse attraversato da pulsioni sociali innovativi e da millenarismi che oggi ritornano. Nel mio libro in uscita il 12 maggio, “Anteprima mondiale. Woobinda 2016”, torno a fotografare il presente, quello attualissimo del 2016. E lì si parla di Crozza, di Mario Monti, di Is, e di tutto quanto a Paolo di Paolo farà piacere che si parli. Quello che sfugge è quanto sia complesso oggi definire un processo di mutazione antropologica quando ci si adagia in una categoria (mettiamo pure del realismo, del verismo, dell’interventismo o di qualunque altro ismo a piacere si voglia usare per definire “l’impossibile” di cui ho detto sopra). È di un’ingenuità disarmante considerare attuale un romanzo, un racconto, un fumetto, perché parla di Gasparri. Pure, io, come il bravissimo Zerocalcare, lo faccio. Ma non certo attraverso questa sorta di tassonomia del circo politico attuale creo una qualsivoglia forma di valore aggiunto per comprendere cosa sta succedendo. Mancano innanzitutto quelli che un tempo furono i “presidi culturali” in grado di dare della letteratura una lettura subitanea e in grado di valutarne gli orientamenti. L’appiattimento onnicomprensivo è ovvio che appiattisca anche gli scrittori, come del resto appiattisce i critici. In tale “wasteland” editoriale e culturale le strategie che lo scrittore può attuare sono molteplici. Esiste ad esempio un piano mimetico consapevole (e per questo mi autocito, visto che lo uso, come lo usa Niccolò Ammaniti, come lo usano Tiziano Scarpa e Raul Montanari) che esprime la X quale incognita del presente globalizzato a volte attraverso il recupero di uno sguardo diverso (bambino, adolescente) teso a creare proprio uno slittamento di prospettiva che crei un punto di vista altro. Un altrove. È ben difficile raccontare una realtà che più che fluida è ormai completamente evaporata, azzerata la memoria strategicamente gestita nell’ottica del frammento annichilente ogni coscienza (di classe, ma anche di semplice identità: vedi alla voce “Europa”). Sono passati eoni dai tempi di Moravia e Pasolini. La mia generazione è una generazione di scrittori che hanno vissuto la “cattiva magia” di una finanziarizzazione del reale tale da rendere il subprime un elemento costitutivo dell’anima. La truffa domina in un modo che continuiamo a fingere essere gestibile. Ma non lo è. Non lo sono gli anticipi degli scrittori ridotti a un decimo di quanto lo fossero prima della crisi, così come non lo sono le retribuzioni dei giornalisti avventizi che riempiono pagine di giornali piene di lettere subprime. Quelle letterarie comprese. C’è una sorta di etica del risparmio (economico) e del calcolo (al ribasso, economico) che colpisce con una violenza mai vista, dal Dopoguerra a oggi, gli scrittori e gli addetti ai lavori (tranne le pochissime eccezioni che confermano la regola). Giulio Einaudi stipendiava i suoi autori a prescindere da quanto vendevano. Oggi “devi vendere”. Va tutto a bilancio. Prima viene il Pil. Così come l’abbattimento delle contrapposizioni ideologiche non fa altro che lasciarci galleggiare nel mare di finzioni in cui un potere unico quanto acefalo e violento ci impone, fino a che non diventa parte di noi stessi. Insomma, non ci sono anime salve. Tornando a me (l’oggetto principale di questo mio intervento, dicevo) posso propormi il rigore etico della sincerità, non certo quello della realtà e tantomeno della verità proprio per i limiti oggettivi di cui parlavo prima. E siamo in tanti a farlo. Nomi ne ha già fatti Valeria Parrella. E parecchi se ne potrebbero aggiungere. Come quello di Carmen Pellegrino che ha descritto, nel suo splendido “Cade la terra”, una marginalità italiana che letteralmente frana. Case e anime che franano. Adesso. In un presente che crolla. Rialzarlo con un’operazione di camouflage sarebbe fingere che l’apocalisse non si è compiuta, che vent’anni di berlusconismo non ci hanno cambiati del tutto e che nemmeno più sappiamo, oggi 2016, di che nazionalità siamo. Negli anni del renzismo in cui il primo presidente del Consiglio della generazione subprime, non eletto da nessuno e sorretto solo dal suo ego adultolescente (termine coniato da uno dei più acuti scrittori della generazione degli attuali quarantenni, Danilo Masotti: lo conoscete?) pubblica libri che hanno titoli come “Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro”. Ecco: tra De Gasperi e gli U2 non c’è un percorso. C’è un salto quantico. Qualcosa d’impossibile che si è però imposto. Una truffa culturale che chi scrive ritiene più interessante da raccontare della stessa realtà di infimo grado che questa truffa ha generato e ogni giorno rigenera. Da De Gasperi agli U2non c’è nulla. Come il nulla che disperatamente rincorrono i vertici delle (anche qua il plurale è un subprime) case editrici maggiori, alla ricerca della biografia del cuoco dell’istante o delle confessioni dell’amante dell’attore dello scorso momento. Una realtà a rischio di insolvenza come quella che viviamo noi non può che produrre una letteratura (e una critica) a rischio d’insolvenza, caro Di Paolo. Non essere in grado di percepire questo vuole dire non rendersi conto del lavoro pazzesco che in tanti fanno per resistere quel minimo che è oggi concesso. Erano belli i tempi in cui Berlusconi si vantava di essere diventato proprietario della casa editrice storicamente a lui più avversa (l’Einaudi) lasciando ad essa mano libera. È stato così fino a che la mutazione antropologica non si è realizzata del tutto e abbiamo introiettato decenni di “realtà” alterata, fino alla creazione di una classe dirigente più realista del re. Lo scrittore, infine, non è un avatar disceso sulla terra e nemmeno un profeta biblico che maledice a beneficio dei secoli futuri l’insubordinazione di Gerusalemme al Dio dei giusti. Lo scrittore è, come proprio Brecht diceva, figlio del proprio tempo. E proprio lui citando, nella traduzione sarcastica di uno che di linguaggio e ideologia la sapeva lunga, Edoardo Sanguineti: «Scusateci, a noi, per il nostro tempo».
Agli artisti piacciono soltanto i «poveracci» Il triste paternalismo degli intellettuali italiani. Tutto è cambiato, ma siamo ancora inchiodati all'anticapitalismo d'ordinanza, scrive Massimiliano Parente, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale". A pensarci ti viene il magone. Insomma, la cultura italiana sembra un reportage di Michele Santoro, stretta per decenni tra il poverismo democristiano e quello comunista. Con il risultato che la ricchezza, il benessere, l'imprenditoria, la Brianza, sono rigorosamente bistrattate, dipinte come male assoluto. E dunque, oggi, i Virzì con Il capitale umano, un libro di Lagioia di qua e un Saviano accusatore del Nord di là; poca roba, per carità, ma allevati nel brodino dell'anticapitalismo d'ordinanza. E appena li tocchi urlano ancora: fascista! fascista! Come se poi il fascismo c'entrasse qualcosa con la libera imprenditoria. Gli imprenditori? Tutti palazzinari. Mai avuto una cultura alta, della ricchezza, noi, figuriamoci. Se Proust fosse nato in Italia anziché dei Guermantes avrebbe scritto al massimo di Acitrezza, Alla ricerca del pesce perduto, perché la tristezza, ammettiamolo, inizia con il Verismo. Verismo della povera gente, ci mancherebbe. Anche oggi, a rileggere I Malavoglia, così stilisticamente raffinati, mi viene però una depressione, una claustrofobia, una puzza di pesce, una voglia austro-ungarica da schierarmi per dispetto contro il giovane Törless di Musil. O comunque, almeno, di rivalutare D'Annunzio. Così come il cinema, il nostro cinema, inizia con Vittorio De Sica e Ladri di biciclette, neppure ladri di Ferrari, che sfigati. E dopo tredici anni di neorealismo, ecco un balzo in avanti, arriva Pier Paolo Pasolini, con Accattone, un titolo un programma. Eppure c'è poco da ridere, sono i nostri modelli culturali, esportati in tutto il mondo. Nessuno si stupisce, all'estero, se l'Italia va male, abbiamo sempre avuto un gusto estetico per fare pena. Nella moda facciamo meraviglie, ma poi arriva Saviano per raccontarti che gli imprenditori del Nord sfruttano i cinesi negli scantinati del Sud. Poi, appena c'è un fuoriclasse, non so, un Guido Morselli, lo si mette all'angolo, gli si rifiutano i libri, lo si fa morire inedito. Va da sé, mentre Morselli si suicida sparandosi, un poverista come Pasolini diventa un santino, ma non subito, appena lo ammazzano. Con una morte scenografica molto Cristo dei poveri, insanguinato, impolverato, lui che sapeva, lui che denunciava lo Stato e gli imprenditori, lui che ha pagato per tutti, complotto, complotto! Fascisti! Fascisti! Mentre quand'era vivo i compagni gli davano del pedofilo e lo espellevano dal Pci. Del pasolinismo resta una scuola con due o tre mantra: l'editoriale dell'Io so, l'altro editoriale delle lucciole che sono sparite, mentre i romanzi con i ragazzi di vita e gli operai che se lo succhiano al Pratone della Casilina nessuno se li rilegge più, una noia, una noia, che neppure La noia di Moravia. Moravia, altro comunista, però come tutti ben inserito nei salotti giusti. Come oggi la Maraini, ex moglie e firma del Corriere della Sera, però, attenzione, appena comprato da Urbano Cairo, imprenditore del Nord, un piccolo Berlusconi. Cosa non bella. Cosa da guardare con sospetto. Mi ricordo una conversazione tra Flavio Briatore e il magistrato Luigi De Magistris. Il primo vorrebbe mettere dei campi da golf intorno a Pompei (figata), e alberghi extra-lusso, per valorizzare il luogo, per incrementare il turismo di un certo livello; il secondo rimprovera a Briatore di non aver mai lavorato un giorno in vita sua. Perché essere ricchi significa essere ladri, furbi, disonesti, o giù di lì. Intellettualmente parlando, Flavio ci ha fatto la figura del gigante, De Magistris quella dell'intellettuale italiano medio, fosse stato più calvo sarebbe parso quasi Saviano. D'altra parte il vero tabù è un altro, un pensiero che non si può dire. Tipo che il Nord ha creato l'imprenditoria e il Sud ha creato la mafia. Invece, ogni anno, tanti moralismi straccioni, petulanti, paradossali, come quello del filosofo Georgescu-Roegen sulla «decrescita felice», idea geniale, diventare tutti più poveri, solita solfa, subito fatta propria dal Movimento Cinque Stelle, di stronzate non se ne perdono una. Aggiungiamoci la Chiesa, il poverismo di papa Francesco (in realtà molto cristiano, ma che mette in imbarazzo i cristiani di destra: vorremo mica aprire la porta a tutti gli immigrati?), il denaro sterco del demonio, e la minestra è servita, e come da motto italico o la mangi o salti dalla finestra. Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, dell'Elmo di Scipio s'è cinta la testa... anche questa, che marcetta demenziale, giusto a Benigni poteva piacere. Alla fine l'unico vero fratello d'Italia è Alberto Arbasino. Che in Fratelli d'Italia, vero capolavoro della letteratura italiana, dichiara, snobbissimo, fin da pagina uno: «tanto mio papà ha più di un milione di franchi al Credit Suisse». Grandissimo Arbasino, presto attaccato dal solito Pasolini con l'epiteto di «fascista! fascista!».
La casta? La inventò Morselli Per attaccare la sinistra italiana. Quarant'anni fa usciva «Il comunista», romanzo (bocciato dall'intellighenzia) in cui l'autore più sfortunato delle nostre Lettere smascherava la brama di potere del Pci, scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 12/02/2016, su "Il Giornale". Attaccò letterariamente la casta politica, e fu letterariamente ucciso da quella intellettuale. Guido Morselli (1912-73), bolognese per neppure due anni, varesino per il resto della vita, fu il primo - chi lo avrebbe mai detto? - ad attaccare la «casta», nella fattispecie di sinistra, nello specifico «comunista», in un romanzo terribile pubblicato postumo da Adelphi quarant'anni fa, anno di scarsa grazia 1976. Titolo: Il comunista. Per inciso, un libro la cui ultima ristampa data, se non sbagliamo, 2006.Un libro invece fresco di stampa è Guido Morselli, un Gattopardo del Nord (Pietro Macchione editore) che, alludendo nel titolo alle analogie di destino con l'opera di Tomasi di Lampedusa, raccoglie gli atti dei convegni tenuti nei primi sette anni del premio dedicato all'autore «postumo» per antonomasia. Curato da Silvio Raffo e Linda Terziroli, il volume è una miniera di notizie, «letture» e interpretazioni sullo scrittore rimasto inedito in vita e riscoperto come un maestro del nostro secondo '900 post mortem. Molti i contributi interessanti: un «fantastico» Gianfranco de Turris su Morselli e l'immaginario, la super-esperta Valentina Fortichiari su Guido Morselli: sobrietà, nitidezza, discrezione, Giordano Bruno Guerri su Tutto è inutile. Morselli smentisce se stesso, dove si cita una frase profetica dello scrittore, del 1966: «Nessun partito politico è di sinistra, dopo che ha assunto il potere», e un elegante Rinaldo Rinaldi sulla Filosofia dell'abbigliamento nell'opera di Morselli... Ma soprattutto un irriverente Antonio Armano che firma l'intervento intitolato - appunto - Il comunista: quando Morselli parlava della casta dove si ricostruisce il caso del romanzo più politico dello scrittore di Varese (avendolo effettivamente letto e studiato, cosa che non tutti coloro che ne parlano hanno fatto).E forse Il comunista non fu neppure letto, o fu letto troppo bene, da chi lo bocciò. Come Italo Calvino - la storia è stranota - il quale nel 1965 rifiutando la pubblicazione del romanzo da Einaudi, casa editrice di cui era direttore editoriale, scrisse all'autore che «Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo inventare». Insomma, non se ne fece nulla. Però l'anno successivo Rizzoli accettò di pubblicare il libro, arrivando fino alle bozze. Ma cambiò improvvisamente direttore editoriale, e il nuovo arrivato, sicuramente senza aver letto Il comunista, annullò tutti i programmi e il romanzo restò impubblicato (di certo piacque al primo dei due editor, che fece il contratto a Morselli, Giorgio Cesarano, già espulso dal Pci, il quale si uccise nel '75, due anni dopo lo scrittore).Comunque, quello che interessa - a dimostrazione di quanto invece Morselli conoscesse il mondo del comunismo italiano, e sapesse prevederne i destini, meglio di Calvino - è la costruzione del romanzo, la trama profetica e il ritratto psicologico del protagonista: un parlamentare del Pci degli anni Cinquanta diviso tra compagna e amante, dentro un partito laico che però brillava per bigottismo, in una Roma malinconica e trafficona, in un'Italia dove «la gente vive di chiacchiere, si consuma in chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere», perso tra inutili discussioni politiche sui massimi sistemi marxisti e piccole beghe di bottega, oscura. È qui che Morselli chiama quella dei parlamentari comunisti «una casta». Una Chiesa che non ammette né eresie né deviazioni. Un gruppo di potere, da cui il protagonista è deluso e insieme attratto e respinto, all'interno del quale dominano arrivismo, tatticismi, egoismo. Dove le utopie comuniste si schiantano contro i miseri tornaconti individuali. Dove prevalgono, al di là dell'ideologia, gli interessi personali e i compromessi «poltronistici». Ciò che Morselli vide dentro il Pci a metà degli anni Sessanta, quando scrisse Il comunista, è esattamente quello che il Paese avrebbe visto da lì a poco dentro se stesso, e tutta la propria classe politica. Difficile che un romanzo del genere, una staffilata contro la casta comunista togliattiana, potesse essere pubblicato da un editore come Einaudi. La casta intellettuale avrebbe provveduto a stopparlo. Un'ultima considerazione. Alla fine del suo saggio Antonio Armano fa notare che Wikipedia, nella biografia di Guido Morselli, inserisce un commento su Il comunista del tutto infondato: sostiene che lo scrittore non riuscì mai a pubblicare e fu boicottato dall'ambiente editoriale perché il romanzo traccia positivamente la figura di un partigiano e allora la Dc demonizzava i partigiani. «Una vera bestialità - spiega Armano - Se Morselli pagò uno scotto ideologico-letterario fu tutt'al più, come dimostra il romanzo e il commento di Calvino, di non essere uno scrittore etichettabile, tantomeno politicamente, di essere libero, di non appartenere a nessuna parrocchia». Un'ultima antipatica appendice internettiana - Wikipedia casamatta gramsciana - della vecchia egemonia culturale comunista. Morselli, che non rideva mai, avrebbe abbozzato una smorfia.
Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.
“Come sopravvivere al cinema di sinistra”. Razzisti, evasori, ignoranti, arricchiti. Gli italiani di centrodestra ormai sono abituati a vedersi rappresentati così dal cinema di casa nostra. Colpa di un pensiero unico che dal neorealismo ai film impegnati, da Nanni Moretti a Virzì, monopolizza il grande schermo. Questo pamphlet diventa così una guida irriverente per i cinefili non di sinistra, una messa alla berlina dei tic di autori e critici radical chic, la rivendicazione di una verità: i film d’autore incassano poco, quelli che fanno ridere non sono roba da “popolo bue” e chi si ostina a scrivere queste scemenze sta uccidendo il cinema.
Come sopravvivere al cinema di sinistra, scrive Maurizio Acerbi il 10 agosto 2016 su “Il Giornale”. Da oggi, nelle edicole italiane, abbinato a il Giornale, trovate il mio libretto "Come sopravvivere al cinema di sinistra", inserito nella collana Fuori dal Coro. Il pamphlet, che costa 2,50 euro, cerca di rispondere ad alcune domande che si pongono tutti quei cinefili che non si riconoscono nel pensiero unico della sinistra cinematografica: ridere è di destra? Chi non vota a sinistra è come viene dipinto nei film degli autori radical, ovvero razzista, ignorante, evasore e via dicendo? Ma non solo. Ho cercato, usando anche un linguaggio semiserio (è pur sempre un libro estivo), di mettere alla berlina i tic dei registi d’autore e della critica radical chic, cercando di capire come si sia formata questa uniformità di pensiero che monopolizza il grande schermo e che ghettizza chi non si riconosca in esso. Il libro parte con uno scherzoso Manifesto del perfetto regista di sinistra che in 21 punti cerca di tratteggiare, in modo ironico, le caratteristiche comportamentali dell’autore impegnato. Poi, vi elenco i vari capitoli per darvi un’idea del contenuto del libretto di 48 pagine, ovvero: Introduzione: il cinema di sinistra è morto?; L’anatema contro il cinepanettone; La dittatura di cowboy e poliziotti; Se far ridere è di destra; I maestri della sinistra autoreferenziale; Brutti, cattivi, evasori e ignoranti; La solitudine di non essere di sinistra; Il mistero buffo di Checco Zalone; Troppa cultura, sale deserte; Il Democratico conquista l’America; Conclusione. Se qualcuno dei numerosi lettori di questo blog (a proposito, grazie per la fiducia) vorrà leggerlo, mi farà piacere. E magari, potremmo successivamente confrontarci sui temi che ho trattato. Lo scopo principale era lanciare una sorta di SOS, un “ci siamo anche noi non di sinistra”, un “non dimentichiamo che il cinema appartiene a tutti”. Se, in qualche modo, sarò riuscito a far riflettere qualcuno di questi autori sul nostro disagio quotidiano di lavorare in un ambiente chiuso come quello del cinema italiano, la missione sarà compiuta. Almeno, ci ho provato. Buona lettura
Cosa si nasconde dietro la targa Unesco. Il marchio di Patrimonio dell'umanità garantisce fama e soldi. Ma la selezione dei siti è un trionfo di sprechi e burocrazia, scrive Emanuela Fontana, Lunedì 01/08/2016 su “Il Giornale”. L'unico brivido è arrivato dal golpe. E non è stata una suspense piacevole, né prevedibile per la quarantesima assemblea del World Heritage Committee dell'Unesco. Il comitato ogni anno decreta i nuovi siti artistici e naturali da inserire nella lista del Patrimonio mondiale dell'agenzia Onu. Un paio di settimane fa era riunito a Istanbul: mentre il verdetto stava per essere emesso, i carri armati occupavano le strade e Recep Tayyp Erdogan parlava via smartphone da un luogo ignoto. Panico, interruzione dei lavori per una giornata, ma, colpo di Stato a parte, era tutto già scritto: sempre più organismo politico (sono i diplomatici, da qualche anno, a far parte delle delegazioni, non i tecnici), con un budget che destina al lavoro di scelta dei siti e alle riunioni più soldi che all'assistenza internazionale, l'organismo dell'Onu delegato alla tutela della bellezza mondiale decretava i «vincitori» del 2016: ventuno nuovi siti che da ora avranno il marchio Unesco, garanzia di visibilità, turismo e soldi. Soldi che però, almeno per i Paesi occidentali, non arrivano dal World Heritage, che pure li inserisce nel gotha della bellezza universale, ma in gran parte dagli Stati di appartenenza. Mettersi all'occhiello il logo di Patrimonio dell'umanità Unesco è ormai un prezioso richiamo turistico e l'inserimento nella world list è diventato una sorta di vittoria nel Risiko della cultura mondiale, ma in realtà il bilancio del fondo speciale dedicato alla salvaguardia dei luoghi più preziosi dell'umanità rappresenta meno del 5% del budget complessivo dell'organizzazione: circa 30 milioni di dollari contro gli 802 del mastodontico conto economico dell'agenzia dell'Onu, in cui il 45% delle spese, quasi 400 milioni, sono destinate al personale. Dei 30 milioni del fondo 7,8 vengono spesi per la valutazione delle candidature e i meeting, 5,5 milioni per l'assistenza. Rivolti quasi esclusivamente ai Paesi più bisognosi. A ricevere la fetta maggiore dei finanziamenti sono Tanzania, con oltre un milione e trecentomila dollari, Costarica, Ecuador, Brasile, Perù, Egitto e Cina (45 programmi, quasi un milione di dollari). Quanto all'Italia, come la maggior parte delle nazioni europee e gli Stati Uniti, non percepisce fondi dalla speciale riserva che si occupa del patrimonio planetario. L'ultimo versamento al nostro Paese nel capitolo International assistance risale al 1994: 20mila dollari per un corso di formazione. Proprio la Penisola è stata la grande assente nelle nomination 2016, e per di più ha ricevuto una sorta di ammonizione relativa a uno dei suoi gioielli, Venezia, a rischio esclusione dai patrimoni del globo terrestre se non si corre ai ripari (vedi anche l'altro articolo in pagina). Eppure dall'Italia va all'Unesco un fiume di soldi: siamo il secondo contribuente dopo il Giappone con 52 milioni di euro di versamenti complessivi. A questi si aggiungono quelli previsti da una legge italiana, la 77/2006, che dispone il finanziamento di una selezione annuale di progetti presentati dai cinquantuno siti della Penisola riconosciuti come patrimonio dell'umanità. Dal 2011 a oggi, il ministero dei Beni culturali ha versato 11 milioni 82mila euro totali alle località patrimonio Unesco. In vetta alla classifica dei super premiati figurano due siti: «I Longobardi, i luoghi del potere» (un milione di euro in un quinquennio; vedi le tabelle in queste pagine) e Siena con val d'Orcia, San Gimignano e Pienza, dove si è svolto il Festival Unesco delle Terre di Siena (un milione 54mila euro totali, 273mila al festival). Seguono i dipinti rupestri della val Camonica, Mantova con Sabbioneta, e le residenze sabaude. Scendendo nella classifica dei siti maggiormente finanziati si trovano poi Modena (515mila euro), sotto i 500mila euro ci sono Venezia, Matera e Piazza Armerina. Mantova e Sabbioneta hanno avuto quasi il doppio di Assisi (357mila), mentre i trulli se la sono cavata con 324mila euro. A pagare l'onore di ricevere il marchio Unesco è dunque l'Italia. Anche qui, però, la crisi si è fatta sentire. Fino a cinque anni fa gli elenchi dei beneficiari dei fondi per i siti premiati erano lunghi almeno tre pagine. Oggi un paio di righe. Il fiume è diventato un rivolo e per il 2016 nel bilancio dello Stato italiano solo 143mila euro sono stati per il momento assegnati. La maggior parte a «Modena, cattedrale, torre civica e piazza Grande per la riqualificazione del bookshop e della biglietteria» e per «un nuovo ingresso per la Ghirlandina», il resto ad Assisi. Per fare qualche confronto, solo nel 2011 i fondi avevano superato i sei milioni e mezzo. E nel 2012 ci si poteva permettere di versare a Siena 63mila euro per pulire le strade e i vicoli «dagli escrementi dei colombi». O a Monte San Giorgio, confine italo-svizzero, 98mila euro per il progetto «Paleontologi per un giorno». Anche oggi, comunque, e nonostante la stretta finanziaria, entrare nella lista dell'Unesco dà un vantaggio tutt'altro che irrilevante: poter accedere al fondo riservato del ministero dei Beni culturali passando davanti ad altri potenziali rivali. Senza contare i finanziamenti regionali e i progetti dei comitati privati: Venezia ne ha da sola 26. In più c'è la ricaduta in termini di maggiore afflusso turistico. Secondo uno degli ultimi studi, svolto dall'Accademia Aidea su Villa Adriana a Tivoli, Pompei e val Camonica, i maggiori guadagni legati al marchio Unesco sono pari a circa il 30%. Tivoli, per esempio, con oltre 224mila visitatori, avrebbe una spesa turistica riconducibile solo al marchio Unesco di 480mila euro. Pompei addirittura di 9,4 milioni. Perfino in Valcamonica, dove i visitatori sono pochi, circa 44mila, il maggiore incasso ottenuto tramite il «logo» è di 90mila euro. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Un recente studio di Pricewaterhouse Coopers rileva che i siti Unesco del nostro Paese godono di uno scarso ritorno commerciale: sedici volte inferiore a quello dei siti americani (che sono la metà), sette di meno di quello dei beni inglesi e quattro di quello dei francesi. Forse perché grande contribuente dell'Unesco in generale, l'Italia non compare tra i finanziatori volontari dello specifico fondo World Heritage dell'organismo della Nazioni Unite (ci sono Francia e Germania). Il nostro Paese ha ridotto anche i contributi obbligatori a 122mila euro annui (non ancora versati al 30 giugno 2016). Quattro anni fa erano 163mila. Il Giappone ne versa 316mila, l'Inghilterra appena più di noi, la Cina, che ci tallona per numero di siti (50), paga il doppio della Penisola. Sono cifre comunque minime, che non condizionano le scelte dell'organizzazione dell'Onu. A concorrere alla decisione sulla lista dei siti vincitori sono in realtà un insieme di fattori: la dimensione della delegazione, i rapporti sottotraccia che vedono gli ex Paesi del Terzo mondo regolarmente schierati in opposizione all'Europa, la capacità di creare candidature di sistema. Insomma, contano diplomazia e relazioni. Più la politica che la bellezza. Tra versamenti obbligatori e volontari degli Stati e finanziamenti per progetti dedicati, le entrate del World Heritage Fund per il biennio 2014-2015 ammontano a 8,2 milioni. Ma mamma Unesco destina al WHF altri 22 milioni di euro, di cui sei solo per il personale. Ci sono anche contributi privati, come i centomila euro della giapponese Evergeen Digital, che realizza documentari sul patrimonio mondiale in partnership con l'Unesco, o come l'agenzia pubblicitaria, sempre giapponese, Kobi Graphis (altri centomila dollari). In cinque anni il fondo del World Heritage ha perso oltre un milione di contributi volontari. E anche quelli promessi arrivano a rilento: a marzo 2016 le quote versate erano appena il 15%. Come vengono spesi questi soldi? Con tutte le deformazioni tipiche dei bilanci delle pachidermiche agenzie sovranazionali. Solo per l'organizzazione delle riunioni, compreso il meeting annuale (a Istanbul è stata rinnovata la proposta di svolgerlo ogni due anni per risparmiare), si superano i due milioni di spesa. A questi costi «burocratici» si aggiungono quelli per la selezione dei siti candidati: altri 5,74 milioni. Il totale si avvicina agli otto. Una cifra che supera di gran lunga le spese dedicate all'assistenza internazionale, indicate nel bilancio consuntivo in 5,51 milioni per il biennio, di cui meno di un quinto strettamente riservati ai Sites in danger, i siti in pericolo. Due milioni e mezzo vanno a programmi di comunicazione e promozione di partnership. Quanto ai report di controllo sui siti per verificarne la conservazione, si sfiora il milione e quattrocentomila dollari. Le spese maggiori sono insomma assorbite dalla frenetica attività degli ispettori spediti in giro per il mondo. Nel 2015 le uscite per le missioni sui siti candidati alla World List si sono aggirate tra i 20 e i 45mila dollari per ogni singolo dossier. Per il 2017 la valutazione itinerante di 24 nomination richiederà 1,3 milioni. Nel bilancio preventivo è inserito anche un viaggio in Italia: la visita alle «fortificazioni veneziane costruite tra il XV e il XVII secolo», candidatura della Penisola, costerà intorno ai 31mila dollari.
Così Pellizza mise il popolo al centro dell’opera d’arte, scrive Vittorio Sgarbi, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Giuseppe Pellizza da Volpedo, nel 1901, dipinge Il quarto stato, oggi esposto al Museo del Novecento a Milano. In questa tela di grandi dimensioni abbiamo di fronte il popolo italiano, pochi decenni dopo l’Unità d’Italia, raffigurato come un popolo di lavoratori. Un dipinto che non solo apre cronologicamente il ventesimo secolo, ma conclude anche una grande tradizione figurativa che vede l’espressione artistica al servizio di una concezione religiosa nella quale l’uomo è protetto da Dio. Da Giotto in avanti, le pale d’altare si sviluppano verso l’alto, in verticale, perché l’umanità si rivolge al cielo per ricevere protezione. Nella parte superiore sono raffigurati la Madonna, Cristo, i Santi, tutto quello che rappresenta l’aiuto celeste all’uomo. All’inizio del secolo senza Dio, che è ancora il nostro tempo, l’immagine religiosa non è più protagonista della pittura, le avanguardie – Cavaliere azzurro, Cubismo, Futurismo, Dadaismo – sono travolte da un formalismo che è più importante del contenuto. IlQuarto Stato di Pellizza da Volpedo risolve la lunga esperienza delle pale d’altare con un rovesciamento: la pala non è più verticale ma orizzontale. Guardiamo un dipinto che si svolge nel senso della larghezza, in cui l’umanità avanza verso il proprio destino senza la protezione di Dio. Non è detto che Dio non sia presente nella coscienza degli individui, ma è l’umanità a conquistare, attraverso la forza dei lavoratori, quello che le spetta. Conquista nuovi diritti, conquista un salario, e avanza senza che ci sia più nessuno a proteggerla. Questo quadro è lafine di un’epoca e l’inizio di un’epoca nuova. Non è ancora un dipinto d’avanguardia, ma è un’opera in cui l’unico dio che l’uomo ha è se stesso, e il taglio ribaltato, orizzontale invece che verticale, lo testimonia chiaramente. Per di più, quel popolo sembra marciare verso il Palazzo, per entrare e conquistare il potere. «Palazzo» è una parola che Pasolini fu il primo a usare, in un intervento sul Corriere della Sera nel 1975, per indicare il luogo del potere, un termine che ricorda il Palazzo d’Inverno dimora degli zar. La marcia dei lavoratori del Quarto stato è propriamente una conquista di uno spazio del potere da parte del popolo. Fedele a questa lettura, nel 2007 trasportai il dipinto dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, dov’era conservato all’epoca, alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. L’idea di allestimento che avevo prevedeva di eliminare l’altare e appoggiare il quadro direttamente a terra, in maniera tale che chi entrava in quella sala andasse incontro al popolo che andava verso di lui. Si stabiliva un rapporto allo stesso livello tra le persone reali e le persone dipinte. Mettendo il quadro in posizione rialzata si sarebbero visti i personaggi calare. L’allestimento giusto per quel quadro era a terra. L’effetto della collocazione dell’opera in una sala che porta ancora i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era straordinario, perché realizzava l’occupazione del popolo che distrugge i simboli del potere, il soffitto caduto come il cielo infranto. Giuseppe Pellizza da Volpedo, nato nel 1868, studiò all’Accademia di Brera, fu influenzato dalla Scapigliatura e da Daniele Ranzoni; a Bergamo fu allievo di Cesare Tallone e a Firenze (1893-95) frequentò Silvestro Lega e Plinio Nomellini. Interessato al realismo sociale divenne noto con Fienile (esposto a Milano nel 1894), nel quale sperimentò la tecnica divisionista, stimolato da Angelo Morbelli; aderì quindi al Simbolismo, influenzato da Gaetano Previati (Lo specchio della vita, 1895-98). Attento alle problematiche sociali e ispirandosi a Emilio Longoni, dipinse Ambasciatori della fame (1891-92), poi Fiumana (1896), e infine Il cammino dei lavoratori o Quarto stato (1896-1901), di cui sono notevoli anche i bozzetti e i disegni preparatori. Il sole nascente (1904, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) è l’opera nella quale Pellizza apre alle nuove avanguardie e, in particolare, ai futuristi che vedranno in lui un profeta.
Insultare la gente citando Dante Alighieri. Perdere le staffe senza perdere la faccia? Si può. Basta usare offese tratte da testi letterari. Non si diventa sboccati: si fanno citazioni colte, scrive "L'Inkiesta" il 16 Gennaio 2016. Perdere la calma significa, il più delle volte, perdere anche un po’ di dignità. Arrabbiarsi e insultare le altre persone, anche quando si ha ragione, può far cattiva impressione. Il problema è che non si può pretendere che tutti sappiano mantenere, in ogni situazione, una posizione elegante. Si può, però, pretendere che sappiano scegliere insulti eleganti.
La soluzione è semplice: trascegliere parolacce e offese rileggendo i grandi classici della letteratura. Ad esempio, la Divina Commedia di Dante. Un testo colmo (soprattutto nella prima cantica, l’Inferno) di insulti, offese, parolacce. Non bestemmie (eh be’), ma quasi. Ce ne sono per ogni occasione, e per ogni bersaglio. Prima di tutto, non di insulti si parli, ma di “ontoso metro”, cioè motteggio che provoca “onta”, cioè offesa + vergogna. Lo fanno le anime dei dannati (Inferno, VII, 33), ed è necessario che imparino a farlo anche le persone normali. Offendere vuol dire saper colpire, saper provocare vergogna. Per questo, come la Divina Commedia, è una cosa da studiare. Insulto generico: ottimo partire dal lato scatologico, ossia gli escrementi. E definire qualcuno “sterco”, è senza dubbio più di buon gusto. Se poi è uno “sterco che dalli uman privadi parea mosso”, siamo all’apoteosi. Gli “uman privadi” sono le latrine, per cui si capisce bene di che si parla. Si può attualizzare, si può aggirare, ma è, nella sostanza, la stessa (solita) cosa. E funziona sempre. Si può continuare sulla stessa falsariga, e apostrofare l’avversario definendolo “porco in brago” (Inferno, VIII, 50), cioè come un maiale che sta nella melma, nel fango, la lordura della fogna. Adatto per chi non si distingue per le sue abitudini igieniche. Un generico “vituperio de le genti”, cioè “motivo di offesa per le persone”, che il sommo Poeta rivolge a Pisa – si sa che i toscani non si amano molto tra loro – può essere riferito a chiunque. Si riconosce che è un po’ debole, e l’effetto non è garantito: non tutti conoscono la parola “vituperio”. Potrebbero non sentirsi abbastanza insultati e/o offesi. Il metro rischia di non essere abbastanza “ontoso”. Contro le donne, invece, le parole si sprecano. Dante ne ha a bizzeffe. Si può comunque andare su un misterioso “femmina balba”, cioè balbuziente, che appare in sogno a Dante. È un’offesa non tanto perché sia balbuziente, ma per come continua il verso: cioè “ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta / con le man monche, e di colore scialba”. È insomma, una figura che implica l’essere incapace: di parlare, di vedere, di muoversi. Deforme e ripugnante, sta a indicare i vizi che condannano l’uomo. Ma che va bene anche da solo. E poi, per i non esperti, “balba” può sembrare “babba”, che è un insulto leggero più o meno lungo tutta la Penisola. Per chi volesse invece sottolineare i costumi lascivi della donna in questione, può usare “femmina da conio” (Inferno XVIII, 66), espressione più ricercata rispetto a “puttana”. Ma anche “puttana” va bene, purché sia “puttana sciolta”, (Purgatorio, XXXII, 160), cioè “discinta”, “slacciata”, “senza vergogna”. “Puttana sciolta” è forte, aggressivo e violento al punto giusto. E in più è una citazione. Perdere le staffe, insomma, senza perdere l’eleganza.
Espressioni inventate da Dante che usi senza saperlo. La Divina Commedia ha lasciato una grande impronta nella lingua italiana. Anche nei proverbi, scrive "L'Inkiesta" il 7 Dicembre 2014. Come dicono gli inglesi “gli italiani quando parlano dicono poesie”. Esagerano, ma non troppo: il linguaggio comune che si usa tutti i giorni è pieno di modi di dire, frasi fatte che sono, in realtà, citazioni e versicoli rubati alla Divina Commedia. Poesia pura. Mentre si parla, non sempre ci si accorge di usare parole ed espressioni inventate o diffuse da Dante. Un po’ per abitudine, un po’ per ignoranza. E un po’ perché sono insospettabili. Eccone alcune:
Stai fresco. Più o meno viene usata per dire: “Allora finisce male”. E con questo significato non poteva che provenire dalla parte più profonda dell’Inferno, il lago di Cocito, la peggiore. Lì “i peccatori stanno freschi” (Inferno, XXXIII, 117), perché immersi del tutto o quasi (a seconda della gravità del peccato) nel ghiaccio. Da lì in poi si è usato per indicare, per fortuna, situazioni un po’ meno tragiche.
Inurbarsi. Ormai è quasi vocabolo tecnico per urbanisti, storici e architetti, tanto da passare del tutto inosservato. E invece fa parte di quella schiera infinita di neologismi danteschi fatti con prefisso in- e poi -tutto quello che gli passava per la testa. Come “indiarsi”, cioè “diventare dio”; o “inmillarsi”, che significa “moltiplicarsi per migliaia”; e ancora: “ingemmarsi” = “adornarsi luminosamente”; “imparadisare” = “innalzare al Paradiso”. Non vale per “internarsi”, che non c’entra nulla con l’ingresso nei manicomi ma con il “diventare una terna”, cioè una forma di trinità.
Galeotto fu...[inserire elemento a piacere]. Si è del tutto persa la percezione che “galeotto” in origine fosse un nome proprio, per cui si dovrebbe scrivere Galeotto, con la maiuscola. Era la trascrizione dell’originale Galehault (o Galehaut), personaggio che favorì l’amore tra Lancillotto e Ginevra. “Galeotto fu il libro”, (Inferno, V 136), vuol dire che il libro ebbe la stessa funzione di Galeotto: cioè spinse i due amanti, Paolo e Francesca, l’uno nelle braccia dell’altro. Sarebbe anche uno slogan efficace per qualche campagna a favore della lettura, non fosse che, da quel giorno, i due smisero di leggere.
Il gran rifiuto. Se ne è riparlato quando Ratzinger ha deciso di dimettersi da Papa: un nuovo “gran rifiuto”. L’aveva coniata Dante per riferirsi al rifiuto di Celestino V di continuare a fare il Papa dopo solo qualche mese (Inferno, III, 60). Lo fece “per viltà”. Dante era abbastanza arrabbiato con lui: la rinuncia di Celestino V aprì la strada al suo successore, il cardinale Benedetto Caetani, ossia il famigerato Bonifacio VIII. Questo Papa fu il responsabile dell’esilio di Dante da Firenze. Per vendicarsi Dante lo colloca all’inferno addirittura in anticipo rispetto alla morte. L’espressione “gran rifiuto” è entrata nell’uso comune.
Il bel Paese. È l’Italia il “bel Paese là dove il sì suona”, cioè dove si dice “sì” (Inferno, XXXIII, 80). È un passaggio importante: Dante sta maledicendo Pisa, il “vituperio de le genti”, per l’abominevole sorte riservata al conte Ugolino. Invoca allora le isole di Capraia e Gorgona chiedendo di spostarsi verso la costa, chiudere la foce dell’Arno e annegare tutta la città. Bel Paese, sì, ma un filo violento.
Senza infamia e senza lode. Bravo, ma non bravissimo. Bene, ma non benissimo. Non male, ma nemmeno bene. Senza infamia, insomma, ma anche senza lode. L’originale, per la precisione, vuole “senza infamia e senza lodo”, che rima con “odo” e “modo” (Inferno, III, 36). L’espressione, oggi, ha un valore neutro. Per Dante, invece, era una cosa gravissima. Descriveva in questo modo gli ignavi, ossia coloro che avevano vissuto la propria vita senza commettere gravi peccati, ma anche senza schierarsi dalla parte della fede. Li disprezza, tanto che non vuole nemmeno prenderli in considerazione, e a Virgilio fa dire...
...Non ragioniam di loro, ma guarda e passa. Altra espressione idiomatica: gli ignavi proprio non gli piacevano. Guarda, e passa. Una riga e li lasciamo da parte anche noi.
Fa tremar le vene e i polsi. Si usa per indicare qualcosa di molto spaventoso, spesso riferito a compiti molto gravosi e difficili. Siamo all’inizio del poema (Inferno, I, 90) e Dante, dopo aver ritrovato la strada fuori dalla “selva oscura”, incontra nuovi ostacoli. Tre bestie feroci gli si parano davanti impedendogli il cammino. In particolare una lupa, molto pericolosa, che lo spaventa a morte. Per fortuna a salvarlo arriva Virgilio (in sintesi, Dante scappa da una lupa per seguire un fantasma: vabbè'). A lui spiega le ragioni del suo spavento, “la bestia per cu’ io mi volsi”, che gli “fa tremar le vene e i polsi”. Ma non c’è soluzione. La lupa sarebbe rimasta lì fino a quando – dice la profezia – non sarebbe arrivato un veltro, cioè un cane da caccia, ad allontanarla. Anche Berlusconi, nel 2008, la ripeté. Non c’entrava nessuna lupa, ma solo un Veltroni.
Non mi tange. Non mi importa, non mi interessa. Si usa in frasi scherzose. Come al solito, in origine, di scherzoso non c’era niente: “Io son fatta da Dio, sua mercé, tale / che la vostra miseria non mi tange” (Inferno, II, 92): è Beatrice che parla. È appena scesa dal Paradiso (dove si trova vicina a Dio) nel Limbo, per ordinare a Virgilio di andare a salvare Dante. Il poeta latino è incuriosito dalla visita insolita e ne approfitta per farle qualche domanda. Come fa, una come lei, a venire fin quasi all’Inferno e non soffrirne? Semplice: è “resa in modo tale da Dio da non sentire la miseria (cioè la condizione del peccatore)”. Il male non la tocca, o meglio, non la “tange”.
Cosa fatta capo ha. In Dante si trova l’inverso: “Capo ha cosa fatta” (Inferno, XXVIII, 107). Lo pronuncia un povero dannato, Mosca dei Lamberti, che gira per l’inferno con le mani tagliate e il sangue che gli zampilla sulla faccia. Che c’entra l’espressione proverbiale con questa scena alla Tarantino? Secondo la leggenda dell’epoca di Dante, la frase venne pronunciata da Mosca dei Lamberti per indurre la famiglia degli Amidei a vendicarsi di Buondelmonte per un affronto di tipo matrimoniale. Basta titubanze, disse. Lo scontro fu molto grave perché portò, secondo la leggenda, alla sanguinosissima divisione, nella città, tra Guelfi e Ghibellini. E Mosca, causa della divisione, porterà per l’eternità sulle mani i segni della violenza.
Da "Aborro" a "YouPorn", ecco il dizionario sui luoghi comuni. Una carrellata di stupidità che ormai costellano il nostro vivere quotidiano, raccolte dalla A alla Z dallo scrittore Giuseppe Culicchia. Dagli amici (che sono su Facebook) alle citazioni della Fallaci, dal salutismo ai tronisti, un tentativo di glossario del disinganno nazionale, scrive Maurizio Di Fazio il 7 marzo 2016 su “L’Espresso”. Sulle orme nobili di Gustave Flaubert, Giuseppe Culicchia dà alle stampe per Einaudi "Mi sono perso in un luogo comune. Dizionario della nostra stupidità". Una carrellata di frasi fatte, conformismi, ipocrisie, stereotipi e cliché più o meno salottieri e meglio (o peggio) travestiti del nostro tempo; uno stupidario indicizzato agli anni dieci del terzo millennio. Un diario in pubblico che si specchia nel vissuto personale dello scrittore torinese per poi rifrangersi in mille vocaboli dal contenuto sovente tagliente. Mille lemmi "classici", non tag, dalla a alla z, per un tentativo di glossario del disinganno nazionale. Da aborrire ("caratterizza il Mughini") a Youporn ("chi? io? Mai"), il j'accuse dell'autore non risparmia nessun presunto e corrivo abito mentale dell'homo contemporaneus tricolore, a colpi di definizioni secche e inappellabili. Quella che ne viene fuori è una terra ossessionata dall'apparenza (i tronisti, l'eterna adolescenza), dal salutismo (la fobia degli alimenti e degli stili di vita cancerogeni: quando fu introdotta, si pensava che persino la tv a colori provocasse il cancro, ricorda Culicchia), dalla recessione o meglio, dalla fatidica crisi (che può essere di mille tipi, "d’astinenza, matrimoniale, internazionale, occupazionale, economica, dei consumi, dei costumi"). Una penisola dove gli amici veri sono stati sostituiti da quelli di Facebook, e dove è sempre più presente e pesante il ricatto psicologico del terrorismo, con la caccia inconscia all'arabo e la gara a citare Houellebecq e la Fallaci. E i demoni endogeni, o d'importazione evocati dallo scrittore torinese non finiscono qui. Ci sono i delitti in diretta e il tripudio di applausi che puntualmente accompagna le morti eccellenti, fossero anche di boss della mala; le scorciatoie professionali intrise di cinismo, salvo ufficialmente puntare l'indice contro le mafiette e le pastette, ché tanto pecunia non olet e i "sacrifici sono necessari, purché li facciano gli altri"; la moda degli hipster, del bio, dell'eco-compatibilità, delle foto di gatti da condividere in chat, delle partenze intelligenti, del marketing con la tecnica dello stalking, dei lucchetti dell'amore, delle auto in argento metallizzato. E ci sono i cervelli in fuga e l'impoverimento implacabile della middle class; il buco dell'ozono e l'incubo della catastrofe ambientale perennemente in agguato, benché stra-annunciata; i guru del gossip e l'allarme meteo di massa, compulsiamo terrorizzati le previsioni dell'ora dopo anche se dobbiamo scendere sotto casa. E la vita, che si è trasferita sui social network, finanche i tramonti sembrano essere stati inventati per cristallizzarsi lì. È un vocabolario-divertissement sfrontato e pieno di spine questo di Giuseppe Culicchia. A tinte parossistiche: e così gli italiani sarebbero generalmente affetti da mancanza di autoironia (pur millantandone a fiumi), da ignoranza e maleducazione, da un ritrarsi del rispetto, da razzismo strisciante, da inguaribile doppiezza, e da uno spirito di schietta antipolitica fino ad auspicata e avvenuta cooptazione nel sistema, con l'eterno familismo amorale che ne consegue. Vede nero e manicheo, forse troppo lo scrittore, ossessionato a sua volta (tra le tante idiosincrasie catalogate) dai condizionatori d'aria, dal buonismo post-veltroniano, dagli alternativi figli di papà, dai cascami del '68 e dalle conventicole letterarie; e punta il suo binocolo in una direzione sola, in un tempo in cui anche i difetti e le mollezze d'animo si sono omologati su scala globale. Di illimitato, per Culicchia, resterebbe non più il progresso ma "al massimo il numero di sms". Povero e "stupido" Belpaese, punteggiato da ecomostri, archistar e obbrobri architettonici. Povera Italia, piagata dai luoghi comuni e "massimo produttore mondiale di eccellenze italiane". Un dizionario della stupidità, lettera dopo lettera, (non) ti salverà.
Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.
Capolavori, capricci e vanità. Anche illustri scrittori pubblicano a proprie spese. Un saggio mette in fila tutti i libri auto-prodotti. Svevo si pagò tre romanzi. Whitman e Pound le prime poesie. Lewis Carroll la sua "Alice". C'è chi s'impegnò il cappotto e chi chiese soldi a papà, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 11/10/2015, su "Il Giornale". Nessuno può immaginare dove arriverà il self publishing (oggi il 90% dei libri di poesia in Italia è autoprodotto). Ma è certo che ha un grandissimo avvenire dietro le spalle. La storia è piena di casi di successo. Autopubblicate, autopubblicate! Qualcosa resterà. Cosa porta un autore a voler pubblicare ciò che ha scritto - un romanzo, dei racconti, una raccolta di versi - a tutti i costi, costi quel che costi, per veder il proprio nome sulla costa di un volume in bella mostra? Cosa spinge uno scrittore a pubblicare in proprio, pagando direttamente lo stampatore o sostenendo tutte le spese di un editore già sul mercato? Difficilmente il desiderio di guadagnare soldi, di solito quelli si spendono e basta. Piuttosto qualcos'altro... Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Il fatto è che a quasi tutti coloro che ci sono passati, beffa del destino ciano-grafico e baro, è rimasta solo la vanità. A pochissimi altri invece è stata riservata la gloria. Ma chi furono gli autori, oggi famosi, che scelsero l'auto-pubblicazione? E come? E con quali cifre? Tutto ciò lo racconta benissimo lo studioso di storia editoriale Lucio Gambetti nel saggio - breve ma ricchissimo di notizie - A proprie spese, pubblicato in questo caso a spese delle edizioni Unicopli (pagg. 82, euro 10; prefazione di Andrea Kerbaker). Sottotitolo: «Piccole vanità di illustri scrittori». Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Gli anglosassoni la chiamano vanity press o vanity publishing, i francesi parlano di edizioni à compte d'auteur, mentre gli italiani preferiscono usare l'acronimo «aps», a proprie spese, appunto. Oops... a proposito. Dalla casa editrice Alpes di Milano, nel 1929, usciva il romanzo Gli indifferenti per cui l'allora sconosciutissimo Alberto Moravia (destinato a divenire uno dei più pagati scrittori italiani del Novecento) dovette sborsare la somma, per l'epoca non indifferente, di 5mila lire. Dell'esempio illustre di Moravia se ne ricorderà Giorgio Dell'Arti quando sul mensile Wimblendon, siamo nel 1990, lanciò la rubrica dedicata ai testi scritti dai lettori: «La Gente Che Scrive». Lo sloga era: «Morite dalla voglia di pubblicare? PAGATE».
E furono in tanti a pagare nella storia del libro. Qualcuno già famoso, come Ludovico Ariosto. Il quale decise di diventare editore di se stesso quando (l'anno è il 1532) per la terza edizione del suo Orlando, furioso di avere a che fare con edizioni pirata, decise di stroncare il fenomeno: per saturare il mercato si fece stampare una tiratura di 3mila copie, una mostruosità per l'epoca: gliene rimasero sul gobbo 2mila, che quasi lo mandarono sul lastrico. Ma la stragrande maggioranza degli auto-pubblicati erano, almeno in quel momento, anonimi. Edgar Allan Poe, nel 1827, studente per nulla modello all'Università della Virginia, si rivolse a un tipografo commerciale di Boston che non aveva mai stampato un libro prima di allora e lo incaricò di pubblicare nove sue poesie: dai torchi uscì un volumetto di 40 pagine tirate in una cinquantina di copie col titolo Tamerlane and Other Poems. Poe non volle il nome in copertina. E lo fece passare come opera di «A Bostonian». Anche Nathaniel Hawthorne si fece pubblicare la prima opera (il romanzo Fanshawe) nel 1828, anche lui a Boston, anche lui anonimo. Ma, rispetto a Poe, fu così scontento del risultato che poco dopo chiese indietro le copie che aveva regalato ad amici e parenti per distruggerle, mentre a quelle rimaste nel magazzino dell'editore ci pensò un incendio (i rarissimi volumi sopravvissuti oggi valgono 20mila dollari). E a proposito di edizioni anonime. Persino Walt Whitman nel 1855 si auto-stampò senza nome in copertina la prima smilza edizione di Foglie d'erba (molto elegante: il ragazzo aveva lavorato tre anni in una tipografia e conosceva il mestiere). E a proposito di giganti della poesia, persino Ezra Pound dovette arrangiarsi da sé per la sua prima raccolta di versi. Rifiutata in America, se la pagò coi pochi dollari che aveva in tasca appena sbarcato in Europa: nel 1908, in un'oscura tipografia veneziana, tirò 150 copie di A lume spento utilizzando la carta avanzata da una precedente pubblicazione... Il resto è storia. Della letteratura. Ogni libro, una storia. E che storie. C'è quella di Lewis Carroll, il quale prima fa rilegare il manoscritto della sua favola di Alice per donarlo alla sua amichetta Alice Pleasance Liddell, poi capisce che potrebbe guadagnarci qualcosa e si autoproduce una prima pubblicazione, ampliata e illustrata da John Tanniel, che fa distruggere perché di qualità scadente, e infine una seconda che nel giro di un anno lo fa rientrare di tutte le spese, e subito fa il giro del mondo. Poi c'è la storia stranota di Marcel Proust: rifiutato dai grandi editori, nel 1913 si rivolse a un editore specializzato in auto-pubblicazioni, Bernard Grasset, per far stampare la prima parte della Recherche (pagò 1750 franchi). E c'è quella meno nota di Giovanni Verga: nessuno voleva saperne dei suo romanzo polpettone I carbonari della montagna e così si fece dare mille lire dal padre - molto scettico - per farselo stampare (in quattro volumi!) da due diversi tipografi di Catania. Una copia la spedì a Dumas, gran parte della tiratura rimase invenduta e alla fine non ne parlò nessuno. Del resto padri pietosi furono anche quelli di D'Annunzio (che coprì le spese della prima plaquette del Vate) e di Giovanni Comisso (che di suo dovette vendere un impermeabile). Ceto, per chi era ricco di famiglia - o almeno abbiente - le cose furono più facili. Italo Svevo si dice non avesse abbastanza soldi per continuare gli studi universitari, ma ne ebbe abbastanza per accollarsi le spese di stampa sia del primo romanzo Una vita nel 1892 (tiratura: mille copie presso un libraio-editore triestino), sia del secondo, Senilità nel 1898 (un vero fallimento sia sul piano commerciale sia critico), sia, vent'anni dopo, da Cappelli, del terzo: La coscienza di Zeno. Lo sponsor però a quel punto era James Joyce e tutto fu più facile. Molto difficile, invece, fu il rapporto di Oreste Del Buono con un racconto che scrisse nel 1969. Prima, col titolo La fine del romanzo, lo mette in un'antologia Mondadori di racconti gialli. Poi se lo fa pubblicare come romanzo da Einaudi, dove lavora, però si pente subito e allora si compra l'intera tiratura per mandarla al macero. Quindi ci rimette le mani e lo ripropone di nuovo a Einaudi, che lo fa uscire nel 1978 (Un'ombra dietro il cuore), ma quando lo scrittore riceve la copia staffetta comincia a sentire un senso di nausea («Ho riassaporato il mio boccone di petite madeleine di merda», dirà in seguito) e così, pagando sei milioni di lire, blocca la distribuzione e manda tutto di nuovo al macero (pochissime copie sopravvivono in mano a qualche fortunato bibliofilo). Fino a quando, dopo altre riscritture, dubbi e una bella faccia tosta, lo rifila a un altro editore, Longanesi, che lo porta in libreria nel 1980 col titolo Se io mi innamorassi di te. Il libro non vendette molto, anzi. Ma Del Buono liquidò così la sua ossessione. A proprie spese.
Quella smania di pubblicare i libri ripudiati dagli autori. Da Nabokov a Capote, sono tante le opere che non avrebbero dovuto vedere la luce. E in qualche caso sarebbe stato meglio..., scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale". Virgilio poco prima di morire chiese che l'Eneide, priva degli ultimi ritocchi, venisse distrutta nel caso non fosse riuscito a completarla. Boccaccio, verso la fine della vita, colto da una crisi religiosa, si narra volesse bruciare ogni suo scritto, incluso il Decameron. E Franz Kafka si fece promettere dall'amico Max Brod di distruggere le sue opere incompiute. Oggi dobbiamo ringraziare coloro che disubbidirono agli autori. Ma di fronte ad alcuni recenti casi di cronaca editoriale - la pubblicazione del sequel del Buio oltre la siepe di una Harper Lee che non si capisce quanto sia in grado di intendere e volere, e l'uscita negli Stati Uniti dei racconti giovanili che Truman Capote non si sognò mai di raccogliere in volume - è utile chiedersi se pubblicare sempre e tutto di tutti sia la scelta migliore. Certo, da una parte esiste un diritto dei lettori a godere di ogni testo che l'Autore ha lasciato dietro di sé. Dall'altra c'è il dovere di studiare l'opera omnia, in qualsiasi sua forma, da parte della filologia «riesumatrice». E dall'altra parte ancora appaiono legittime le esigenze commerciali di editori ed eredi (a volte benemeriti, altre sciacalli). Ma il dubbio rimane. Forse alcune pagine inedite, pur di prestigiose firme, sarebbe meglio rimanessero tali. Esempi? Parecchi. In sostanza tutto ciò che il figlio di Tolkien, Christopher, oggi novantunenne, ha pubblicato mettendoci più o meno pesantemente mano a partire dal 1977 con Il Silmarillion, che il padre non avrebbe voluto fosse dato alle stampe. Infatti finché fu in vita lo tenne nei cassetti. Certo, non si tratta di opere esplicitamente rigettate, ma di appunti, pagine abbozzate, testi incompleti che il padre del Signore degli anelli, pignolo e perfezionista, non aveva previsto per la pubblicazione. Libri utili agli studiosi per capire come lavorava Tolkien, benedetti dai fan golosi di inediti, ma (forse con l'eccezione de I figli di Húrin, composto da due parti per le quali il figlio Christopher ha scritto un raccordo «logico») poco significativi dal punto di vista letterario. Stesso discorso per i romanzi realistici di Philip K. Dick dati alle stampe dopo la sua morte nel 1982: scritti prima del suo straordinario successo con i libri di fantascienza, se li vide rifiutare da tutti gli editori a cui mai più li sottopose, neppure quando ormai vendeva moltissimo. E vista la bassa qualità di quei titoli, fece bene. Ogni volta che ne esce uno ci guadagnano gli eredi, ma ci perde Dick. A proposito di figli ed eredi. Vero all'alba, romanzo autobiografico di Ernest Hemingway, fu composto (per alcuni abbozzato) fra il 1954 e il 1956 al ritorno da un safari in Kenya. Il dattiloscritto, custodito per molti anni nell'archivio delle opere non consultabili della Kennedy Library di Boston, fu recuperato dal figlio Patrick che ne curò personalmente un'edizione nel 1999. L'operazione suscitò dubbi e polemiche. Così come lasciò perplessi la decisione di Dimitri Nabokov, figlio di Vladimir, di pubblicare nel 2009, postumo e incompleto, il romanzo L'originale di Laura cui stava lavorando il padre all'epoca della morte, nel 1977, disobbedendo alle indicazioni che lo stesso Nabokov aveva seminato tra le righe del meraviglioso La vera vita di Sebastian Knight: «... perché egli apparteneva a quel raro genere di scrittori i quali sanno che nulla deve più rimanere tranne l'opera compiuta: il libro stampato; che la concreta esistenza del libro è incompatibile con quella del suo spettro, del manoscritto grezzo che ostenta le proprie imperfezioni ; e che per questa ragione gli scarti della bottega, nonostante il loro valore sentimentale o commerciale, non devono mai sopravvivere». Scarti di bottega, dice così. Ogni commento è superfluo. Ed è stato superfluo o essenziale pubblicare i dieci racconti a tema irlandese raccolti sotto il titolo Finn's Hotel scritti (ma mai dati alle stampe) da James Joyce subito dopo l'uscita dell'Ulisse e prima di addentrarsi nella impenetrabile foresta letteraria di Finnegans Wake? Nel 2013 Denis Rose, un veterano della critica joyciana, scaduti i diritti d'autore, tirò fuori i racconti inediti dai cassetti e li fece pubblicare dall'editore Ithys Press (in Italia uscirono da Gallucci, in una peraltro ottima edizione). L'operazione, neanche a dirlo, fu venduta alla stampa, e da questa rilanciata, come una sensazionale «scoperta letteraria». Ma la critica più accreditata la contestò duramente: i racconti erano «brutte copie» che l'autore non desiderava pubblicare. E a proposito di giganti del '900, cosa succederà quando inizieranno a uscire gli inediti finora nelle mani degli eredi di J. D. Salinger? Davvero ogni cosa che verrà alla luce ha avuto il benestare dello scrittore? Quando, nel 1997, una minuscola e sconosciuta casa editrice italiana, la Eldonejo, pubblicò il racconto lungo Hapworth 16, 1924 apparso fino ad allora solo sul New Yorker il 19 giugno 1965 (e poi mai più ristampato per volontà dello stesso Salinger), si scatenò l'inferno. Il libro, tradotto da una ragazza laureatasi con una tesi su Salinger e stampato senza diritti di pubblicazione, fu ritirato dopo la prima edizione di duemila copie e sparì dal mercato. E forse, ancora una volta, è meglio così. Testamenti traditi. Milan Kundera ha scritto molto su come e perché alcuni scrittori siano stati traditi. Da biografi, traduttori, critici. E una forma di tradimento è anche pubblicare pagine di chi in vita quelle pagine non volle dare in pasto al pubblico. Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung non avrebbe mai dovuto essere pubblicato secondo l'autore, eppure è uscito in pompa magna in mezzo mondo nel 2009. Andrea Emo non intendeva lasciare nulla: ma da anni leggiamo i suoi libri. E La volontà di potenza di Nietzsche curata dalla sorella? E i nostri scrittori? Nel 1993 Einaudi pubblicò i racconti scritti da Cesare Pavese tra i 17 e i 25 anni, nati dal romanzo appena progettato ma mai scritto Lotte di giovani. L'italianista Ermanno Paccagnini sul Domenicale del Sole-24 ore, sotto il titolo Inediti e inutili, li stroncò duramente: «Una raccolta di pessimi racconti che lo scrittore ebbe l'intelligenza di non pubblicare ma non la lungimiranza di distruggere». Stessa cosa potrebbe valere per il primo romanzo di Guido Piovene, Il ragazzo di buona famiglia, apparso da Rizzoli nel 1998, testo che forse può dire qualcosa agli studiosi, non certo al lettore comune. E stessa cosa, ancora, per il romanzo postumo di Goffredo Parise L'odore del sangue: scritto di getto («bozzetto primitivo», disse certa critica) nell'estate del 1979, fu subito impacchettato, piombato con ceralacca e nascosto in un cassetto. Lì rimase dimenticato e rimosso, fino al 1986. Quell'anno Parise aprì il pacchetto, rilesse il libro, non toccò nulla. E morì poco dopo. Nel 1997 il romanzo uscì da Rizzoli con prefazione di Cesare Garboli. E molti si chiesero se fosse davvero quello che Parise desiderava. Luigi Mascheroni.
Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale". «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che resta un classico in materia, La cultura del piagnisteo, Robert Hughes si era mostrato fiducioso: «Un'abitudine tipicamente americana» l'aveva definita.
«L'appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d'Europa non desta praticamente alcuna eco». Mai profezia si è rivelata più avventata, nel piccolo come nel grande, nella politica come nella cronaca, nella tragedia come nella farsa. Giorni fa, nello spiegare l'invio di militari intorno alla diga di Mosul, in Iraq, il nostro ministro della Difesa ha detto che sarebbero andati lì «per curare i feriti» e il suo collega degli Esteri ha specificato che non andavano certo «per combattere»... L'idea del soldato-infermiere e/o portatore di caramelle è singolare e richiama alla mente la neo-lingua e il bis-pensiero del George Orwell di 1984: «La libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza», mentire con purità di cuore, «negare l'esistenza della realtà obbiettiva e nello stesso tempo trarre vantaggio dalla realtà che viene negata»...D'altra parte, «la guerra è pace» è in fondo poca cosa rapportata alle dichiarazioni con cui, poco tempo fa, il rettore di un college inglese ha deciso che «il ragazzo è una ragazza» e viceversa, e quindi a scuola gonne e pantaloni sono optional: il sesso non si dà, si sceglie. Se, indeciso, lo studente/la studentessa, si presentasse nudo/nuda alla meta, ovvero in classe, non è dato sapere se frequenterà le lezioni... E naturalmente, i guerrieri della pace e/o i pacifisti della guerra, gli uomini-donne e/o le donne-uomini fanno anche loro parte di quella corrente di pensiero che ha stabilito che immigrati e emigranti erano un retaggio del passato, di quando insomma non eravamo esseri umani: «migranti» rende meglio il concetto, qualsiasi cosa con esso si voglia dire. È l'onda lunga di quella che Hughes aveva definito la Lourdes linguistica, dove il male e la sventura svanivano grazie a un tratto di penna, ma è la stessa idea di natura umana che il pensiero progressista, ovvero «il campo del bene», ovvero «il politicamente corretto» guarda con sospetto. Niente è più irritante dell'avere una identità, di uomo e di cittadino. Come spiega lo storico Jacques Julliard alla Revue des deux mondes, corrisponde «alla caricatura dell'idea sartriana che l'uomo non è ciò che è, ma ciò che fa. Alla filosofia del progresso che era quella del XIX secolo, si è sostituita la filosofia del volontarismo individuale: la decostruzione di ogni identità individuale a beneficio di una libertà pura nella quale la filosofia greca avrebbe visto una sorta di hybris, di rivolta contro la natura che gli dei ci hanno dato. Ecco il fondamento filosofico ultimo della sinistra morale». Il fatto è, dice ancora Julliard, che l'uomo è un essere storico, e ciò che c'è di più presente in lui è il suo passato. Viene anche da qui quella strana «teologia negativa» per la quale si nega la propria identità per far emergere quella dell'altro. Così, nella Francia del laicismo scolastico, puoi avere dei programmi dove l'islam diviene obbligatorio, mentre il cristianesimo è facoltativo...La «cultura dell'eufemismo» vuole le eccezioni preferite alle regole, le minoranze alle maggioranze, le orizzontalità alle verticalità, e grazie a lei la contro-verità diventa una verità. Nel «campo del bene», spiega alla Revue des deux mondes il filosofo Jean Pierre Le Goff, l'emozione e i buoni sentimenti la fanno da padrone. Non si vuole cambiare la società con la violenza, e la classe operaia ha smesso da tempo di essere oggetto di interesse. Si tratta invece di rompere con «il vecchio mondo» estirpandone le idee e i comportamenti ritenuti retrogradi, in specie nel campo dei costumi e della cultura. Non ha un modello chiavi in mano di società futura, ma una sorta «di armatura mentale: svalutazione del passato e della nostra tradizione; appello incessante al cambiamento individuale e collettivo, reiterazione dei valori generali e generosi che porteranno alla riconciliazione e alla fratellanza universali. Da un lato i buoni, dall'altro i cattivi»…Relativista, antiautoritario, edonista, moralista e sentimentale. Anche libertario? Le Goff dice di no: «Esercita una polizia del pensiero e del linguaggio di un genere nuovo. Non taglia le teste, fa pressione e ostracizza». A sentire i difensori del «politicamente corretto», per esempio il direttore di Libération Laurent Joffrin, si tratterebbe di una balla. Essere progressisti vuol dire fondarsi sui valori universali di eguaglianza e giustizia per giudicare le situazioni contemporanee. Le idee progressiste, insomma, sono politicamente corrette proprio perché progressiste, e del resto, per restare sempre in Francia, non siamo di fronte a un affollarsi di pensatori reazionari, sulla stampa come alla televisione, sempre lì a dire che sono proscritti e intanto però a scrivere e a parlare senza impedimenti e con qualche lucro: libri, programmi, rubriche eccetera? Sono loro «il vero pensiero unico»...Le cose sono un po' più complicate, e trasformare una minoranza che dissente in maggioranza che ha potere rimanda ancora al bis-pensiero e alla neo-lingua orwelliani. Per quel che si sa, nessun professore universitario viene fischiato dai suoi studenti per essersi richiamato all'ideologia dei diritti dell'uomo e a quella del progresso, e quindi l'ideologia dominante è ancora quella lì ed è ancora saldamente al suo posto. Solo che è un disco rotto, non inventa più niente e quindi più che alla confutazione del pensiero altrui si dedica alla sua delegittimazione: non dice che è falso, dice che è cattivo o che, oggettivamente, fa il gioco del cattivo, del Male, del Diavolo. Non interessa se le opinioni possono essere giuste, conta che possano essere strumentalizzate contro il «campo del bene», «l'impero del bene»... Si arriva così all'assurdo di dichiararsi per la libertà di espressione, purché però la si pensi allo stesso modo. Naturalmente, c'è anche un benpensantismo a destra, un politicamente corretto che non è solo o tanto la retorica del definirsi politicamente scorretti, una sorta di esaltazione per il rutto intellettuale scambiato per schiettezza anticonformista. È una questione più delicata. In Francia l'hanno ribattezzata «droite no frontier», ovvero il sogno della libertà economica, il capitalismo libertario e senza confini che però non dovrebbe confliggere con i valori familiari e morali. Si esalta il mercato planetario di massa, ma non si ammette che dietro c'è «l'uomo nomade», che al mercatismo del mondo corrisponde quello dell'essere umano. In questo i due benpensantismi, di sinistra e di destra, finiscono per darsi la mano: il primo sogna la libertà illimitata di agire sul naturale umano e però fa finta di rifiutare la libertà economica del mondialismo; il secondo prende per buona quest'ultima, ma finge di credere che non lo riguardi nella sua quotidianità. Entrambi tartufi, politicamente corretti.
L'ossessione politicamente corretta ammazza la cultura e l'Università. Salisburgo, tolta la laurea ad honorem a Lorenz per il suo passato nazista. La lettera di protesta dei professori di Oxford: stanno distruggendo il confronto tra le idee, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale". E l'uomo incontrò il politicamente corretto. Pochi giorni fa l'università di Salisburgo ha revocato al grande etologo austriaco Konrad Lorenz, premio Nobel per la Medicina nel 1973 (morto nel 1989), la laurea honoris causa per il suo passato nazista. Studioso di fama mondiale per gli studi sul comportamento animale - e autore di uno dei testi più straordinari mai scritto sul valore della conoscenza e dell'informazione, L'altra faccia dello specchio - Lorenz si distinse fin dagli anni Trenta per la volontà di diffondere l'ideologia hitleriana.È curioso. Il passato nazista di Lorenz è noto da sempre (nel 1937 fece domanda per una borsa di studio universitaria facendosi raccomandare da accademici viennesi come simpatizzante del nazismo, nel '38 aderì al Partito dopo aver scritto sul curriculum che aveva messo «tutta la sua vita scientifica al servizio del pensiero nazionalsocialista», e nel '42 fu spedito sul fronte orientale e fatto prigioniero dai russi). Eppure Lorenz fu ritenuto meritevole del Premio Nobel nel 1973. E l'ateneo austriaco lo insignì del titolo onorifico nel 1983. Però, oggi, lo rinnega. Perché l'abiura non è stata fatta prima? Perché ora? Ha senso? L'onda lunga del politicamente corretto, nella corrente di risacca, finisce per travolgere la cultura del passato. Ma è quella del futuro che preoccupa di più. Lo tsunami scatenato da questo pericoloso atteggiamento sociale che piega ogni opinione verso un'attenzione morbosa al rispetto degli «altri», perdendo quello per la propria intelligenza, fino a diventare autocensura, rischia di fare immensi disastri. Ieri un gruppo di professori di «Oxbridge», cioè di Oxford e Cambridge, ha scritto una lettera aperta al Daily Telegraph per denunciare il politically correct che sta uccidendo progressivamente la libertà di pensiero ed espressione nelle università britanniche, indebolendone il ruolo di spazio privilegiato del confronto delle idee. Il casus belli è la campagna indetta per rimuovere la storica statua di Cecil Rhodes, ex alunno e benefattore dell'«Oriel College» (tanti ragazzi si sono fatti strada grazie ai suoi soldi), perché considerato l'ispiratore dell'apartheid in Sudafrica. Ma le sue colpe - fa notare qualcuno - non ne cancellano i meriti a favore del progresso. Un principio che può essere applicato anche a Lorenz in campo medico. O a Heidegger in campo filosofico. O a Céline in campo letterario. Ironia della sorte, e dimostrazione della stupidità insita nel politicamente corretto: l'ex studente che ha lanciato la crociata per la rimozione della statua, il sudafricano Ntokozo Qwabe, ha potuto studiare a Oxford grazie a una borsa di studio finanziata dalla Fondazione Rhodes.L'aspetto più inquietante della faccenda è che a farsi promotori dell'autocensura basata sulla correttezza politica, ad Oxford, non sono i professori, ma gli stessi studenti. Gli autori della lettera aperta, guidati dal sociologo Fran Furedi della University of Canterbury, da parte loro accusano le università inglesi di trattare i giovani come «clienti» che pagano rette salate (che è meglio non scontentare) e non come menti da formare e aprire al confronto. A Oxford un dibattito sull'aborto è stato annullato dopo che una studentessa ha lamentato che si sarebbe sentita offesa dalla presenza nell'aula di «una persona senza utero». Che, tradotto, significa «un uomo». Un comportamento da vera papera che avrebbe di certo incuriosito un etologo come Lorenz.
La triste ferocia omo-illiberale contro i cattolici. Non capisco perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day una "manifestazione inaccettabile", scrive Piero Ostellino, Giovedì 25/06/2015, su "Il Giornale". In un Paese civile - e l'Italia, controriformista e intollerante, indipendentemente dallo schieramento al quale ciascuno appartiene, purtroppo, non lo è - tutti dovrebbero poter manifestare liberamente le proprie convinzioni a favore delle proprie libertà, comprese quelle sessuali, senza essere criminalizzati. Non capisco, perciò, perché i gay che (giustamente) manifestano per i propri diritti civili siano un fenomeno progressista e il Family day - per dirla con il sottosegretario Scalfarotto troppo ruffiano verso la vulgata gender - una «manifestazione inaccettabile». I diritti civili dei gay sono i diritti dell'uomo teorizzati dall'Illuminismo e sanciti dallo Stato moderno e la famiglia è il primo nucleo della socializzazione nella nostra società. Difendiamo entrambi senza farne un caso politico o elettorale. Personalmente, non sono omofobo e mi vergognerei a discriminare gli omosessuali. Ma non sono neppure orgoglioso della mia eterosessualità, come alcuni di loro - peraltro per una comprensibile reazione polemica - affermano spesso di essere della loro omosessualità. Prendo il mondo come è senza indulgere a concessioni politicamente corrette o a dannazioni moralistiche. Dico quello che penso, sperando di pensare sempre quello che dico. Per me, ciascuno gestisce la propria sessualità - che è una scelta di libertà individuale - come meglio crede. Sono liberale proprio per tale mio atteggiamento nei confronti di chiunque professi un'opinione - salvo essere intollerante verso gli intolleranti, come predicava Locke - o verso comportamenti diversi dal mio. È un dato caratteriale, prima che culturale. Punto. Non avrei partecipato alla manifestazione del Family day perché non partecipo a manifestazioni di alcun genere, ma neppure, aristotelicamente, condivido certa propaganda gender che tende a confondere ciò che la natura ha creato con le propensioni personali o, addirittura, mondane. Un maschio è un maschio e una femmina una femmina, anche se in tema di diritti civili sono ovviamente sullo stesso piano e non lo sono secondo ciò che intendiamo per «naturale». Detto, dunque, che, in un Paese civile, ciascuno ha diritto di manifestare liberamente la propria opinione, voglio, però, aggiungere, che una cosa è, per me, la piena libertà dei gay di manifestare per i propri diritti civili in quanto diritti umani universali, un'altra sono certe loro pretese di affermare la propria condizione come postulato politico, come ormai sta avvenendo in nome di una malintesa idea di politicamente corretto. Non credo di essere, come eterosessuale, meno apprezzabile di un omosessuale, alla cui condizione conservo tutta la mia comprensione e tolleranza. Ma dico che se e è condannabile l'omofobia non vedo perché non lo debba essere l'ostilità, almeno in certi ambienti, verso l'eterosessualità, che è anch'essa una scelta, oltre che, diciamo, naturale, individuale. Punto. Tira, invece, una certa aria, da noi - frutto della conformistica esasperazione del principio di correttezza politica voluta da una sinistra priva di identità culturale che individua volentieri nell'adesione «a orecchio» alle parole d'ordine del conformismo una manifestazione di identità culturale. Aria che francamente trovo, in una democrazia liberale, del tutto superflua e parecchio stupida. Ho detto che non avrei partecipato al Family day, ma aggiungo subito di trovare non meno stupidi i Gay pride e la loro richiesta di legittimazione del matrimonio fra persone dello stesse sesso. Non sono un fanatico del matrimonio fra maschio e femmina, che considero solo un fatto attinente al costume e alla tradizione. Mi sono sposato, persino in chiesa! - perché così aveva voluto la mia futura moglie, cattolica e moderatamente praticante - ma penso che passerò il resto dei miei giorni con lei non perché l'ho detto a un prete, ma perché mi ci trovo bene... Punto.
Le migliori frasi di Oriana Fallaci. "Prendi l'intellettuale di sinistra, l'intellettuale che oggi va di moda, o meglio l'intellettuale che segue la moda per comodità, o per paura, o per mancanza di fantasia: egli sarà sempre pronto a condannare le dittature di destra, bontà sua, però mai o quasi mai le dittature di sinistra. Le prime, le disseziona, le studia, le combatte coi libri e coi manifesti; le seconde le tace o le scagiona o al massimo le critica con imbarazzo e con timidezza. In certi casi addirittura ricorrendo a Macchiavelli: il-fine-giutifica-i-mezzi. Quale fine? quello di una società concepita su principii astratti, calcoli matematici, due più due fa quattro, tesi e antitesi uguale sintesi, e cioè senza tener conto che nella matematica moderna due più due non fa necessariamente quattro, magari fa trentasei, o senza tener conto che nella filosofia più avanzata la tesi e l'antitesi sono la medesima cosa, che la materia e l'antimateria sono due aspetti dell'identica realtà? È grazie ai loro calcoli, cioè al lugubre fanatismo delle ideologie, all'illusione anzi alla presunzione che il Buono e il Bello stiano da una parte sola, che un genocidio o un assassino o un abuso sono considerati illegittimi se avvengono a destra e diventano legittimi o almeno giustificabili se avvengono a sinistra. Conclusione, il grande malanno del nostro tempo si chiama ideologia e i portatori del suo contagio sono gli intellettuali stupidi: i sacerdoti laici e non disposti ad ammettere che la vita (ciò che essi chiamano Storia) provvede da sola a ridimensionare le loro masturbazioni mentali, quindi a dimostrare l'artificialità del dogma. La sua fragilità, la sua irrealtà."
Il razzismo di Repubblica contro gli intellettuali “di destra”, scrive Marco Respinti su “L’Intraprendente” del 19 ottobre 2015. È una storia che ha più di mezzo secolo, ma se sei uno di quei parvenu che pensano che il mondo inizi e finisca con la Repubblica non te ne sei mai accorto. È la storia della Sinistra che dice alla Destra quel che deve fare. Il titolo potrebbe essere “Ti piace vincere facile”. Cominciò quando negli Stati Uniti, tra i tardi anni ’50 e l’inizio del decennio successivo, gli intellettuali liberal che pensavano di essere i padroni del mondo per mancanza totale di opposizione (tipo Matteo Renzi, per intenderci) scoprirono che non era affatto così (e qui l’analogia con l’Italia di oggi finisce). Temendo di perdere il posto, scoprirono Sun Tzu: «Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità», e ci si applicarono di buzzo buono. Non passò molto e sfornarono la ciambella, con tanto di buco. Cucinarsi un avversario su misura di modo che quando abbaia non morde, l’opposizione e l’alternanza diventano una pagliacciata, e il Circo Barnum può proseguire indisturbato la tournée. Ora, negli Stati Uniti è finita che la ciambella liberal dopo un po’ si è afflosciata, ma questa è un’altra ricetta. Da noi invece la mamma del fornaio è sempre incinta. Di nome fa delegittimazione, di cognome demonizzazione. Tutti hanno diritto a pensarla come vogliono, tranne quelli che non la pensano come noi. Quelli lì sono brutti, cattivi, sporchi, e puzzano pure. Per dirlo, la Repubblica del 17 ottobre ha scomodato tanto di firma francese, Christian Salmon. Il bersaglio sono Michel Houellebecq, Eric Zemmour, Alain Finkielkraut e Michel Onfray, tutti diversissimi ma inesorabilmente tutti colpevoli. Di che? Di essere scorrettamente preoccupati per il futuro del loro Paese e dell’identità francese. Renzi tradurrebbe “gufi”, ma nella lingua di Salmon suona: «Sono tutti accusati di deriva a destra, e di fare il gioco del Front National». Fantastico, da manuale della demagogia a dispense settimanali. 1) «Sono accusati», ça va san dire. Da chi? Da chi dice che sono accusati: si chiama sofisma, ma il giorno che a scuola lo insegnavano, Salmon era assente. 2) Quella di destra è sempre e solo una «deriva». 3) L’asso di bastoni che prende alla gola per paura anche l’ultimo scettico è la reductio ad Hitlerum, un classico che non stufa mai. Rimanesse ancora un dubbio, arriva la parola passepartout: «razzismo». Ma Salmon e la Repubblica non sono volgari e quindi raffinano. Mica vogliono dire che i quattro moschettieri accusati sono razzisti; no, per carità. Gli è che essi, pinocchi che altro non sono, fingono. Per vendere. Siccome in giro tira aria xenofoba, l’intellettuale senz’anima, pennivendolo con un pelo sullo stomaco fitto come la selva nera, dà alla gente ciò che la gente pagante vuol sentirsi dire, eccola qua la Destra. La raffinatezza scende però ancora più in basso e sfodera la tesi finale contundente: la cultura di destra nemmeno esiste, non è mai esistita, non esisterà mai. Chi pensa elucubra a sinistra, a destra rubano dalla cassetta dell’elemosina. E qui l’orgasmo si fa multiplo: si ridicolizza chi fa domande scomode (al di là che le sue risposte siano comode), si squalificano le stesse domande scomode, alla faccia della democrazia si sputa su qualche milione di persone che le domande scomode vorrebbe almeno sentirle porre e si demonizza quella che viene minacciosamente chiamata “la Destra” solo perché alternativa al pensiero unico della Sinistra (sono di destra Houellebecq, Finkielkraut e Onfray?). Ah, che la destra sia solo marketing, dice Salomon, è un brand di Gilles Deleuze, stasera possiamo dormire tranquilli. Fine, ma mi punge vaghezza di un poscritto. Nel giorno in cui la Repubblica chiude nel ghetto tutti quelli che non la pensano come lei (ma non era intolleranza, questa, quasi quasi razzismo?), Matteo Renzi gigioneggia dicendo che tagliare le tasse non è né di destra né di sinistra, ma solo giusto. Giusto. Cioè di destra. Giocando con le lingue di mezza Europa (latino, italiano, francese, inglese, idiomi germanici) in cui “giusto”, “destra” e “diritto” (sia nel senso di “retto” sia nel senso di “legge”) sono termini uguali, l’impareggiabile Erik von Kuehnelt-Leddihn (1909-1999) coniò un moto immarcescibile: «Right is right, left is wrong». La Sinistra? Sinistra e sinistrata.
Se l'intellettuale di sinistra ha belle idee di destra. Dopo anni di accuse e invettive, le tesi della Fallaci e le battaglie sull'Islam della Le Pen o di Salvini vengono riprese da chi le condannava. Ovviamente cambiando le parole e facendo finta di niente, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 16/11/2015, su "Il Giornale". È già da tempo che, lentamente, a volte con imbarazzo altre con improvvisi salti della barricata, pezzi più o meno piccoli della sinistra benpensante cominciano a rivedere le proprie convinzioni in tema di Islam, scontro di civiltà, integrazione. E, pur senza prendere tessere politiche o ideologiche nel campo avversario, finiscono per scivolare su posizioni che qualcuno per comodità tende a definire reazionarie e altri per semplificare «di destra». È il progressismo che vira verso la conservazione. L'utopia rivoluzionaria che si piega al pragmatismo del buon senso. E così l'intellighenzia si scopre a confessare a denti stretti che forse, però, in fondo (certo condannando sempre con fermezza la xenofobia e il razzismo!) tutto sommato quelle teste calde che in tempi non sospetti mettevano in guardia dai rischi del fondamentalismo religioso e preannunciavano che il confronto fra Occidente liberale e il fanatismo islamico si sarebbe trasformato in guerra, ecco a ben guardare non avevano poi tutti i torti. Succede da tempo e tanto più succede ora, dopo i sanguinosi fatti si Parigi. Accade in Francia, che ha già pagato sulla sua pelle l'illusione di un convivenza pacifica e di una reciprocità dei diritti tra l'Europa laico-capitalista e l'Islam radicale. E accade in Italia, che non è ancora stata colpita in casa ma sente la minaccia sul collo. Da noi capita sempre più spesso di ascoltare politici e intellettuali di solidissima fede democratica dire (attenzione, ecco il trucco, con parole diverse) le medesime cose che da anni in maniera magari meno elegante e più di pancia ripete la Lega o una certa destra. Era un po' curioso e un po' comico, sabato sera, a 24 ore dalla strage di Parigi, ascoltare a Otto e mezzo Massimo Cacciari e Gianni Letta sostenere - salvo irriderlo per le sue semplificazioni e grossolanità - ciò che Matteo Salvini ripete da anni, a partire dalla necessità di un intervento militare internazionale contro l'Isis fino all'ammissione che sui barconi di profughi diretti in Europa dall'Africa e dal Vicino Oriente ci siano anche potenziali terroristi. Così come capita di trovare persino su un sito come l'Huffington Post Italia articoli (vedi quello di sabato di Giuseppe Fantasia e relativi commenti di decine e decine di lettori) che celebrano «la Cassandra dell'Informazione» Oriana Fallaci, riscoperta come «profetessa» da una parte di quella sinistra che per un quindicennio l'ha derisa e ghettizzata. Ieri, sul Corriere della sera, Pierluigi Battista, dopo aver letto forse l'Huffigton forse altri siti, ha scritto un pezzo intitolato «Scusaci Oriana, avevi ragione», Il risarcimento postumo è online. E se la vecchia pazza - si chiedono molti democratici cittadini in Rete - non fosse così pazza? Battista, peraltro, è uno che non deve scusarsi di nulla, avendo più volte, anche a costo di pesanti attacchi, difeso e citato i libri della scrittrice toscana. Più sorprendente, forse, poche pagine dopo sullo stesso quotidiano, l'articolo La lezione da apprendere del teatro Bataclan firmato da Paolo Mieli, il quale, in maniera molto lucida ma un po' in ritardo rispetto a centinaia di pezzi scritti da esempio sul Giornale da anni, scoperchia l'ipocrisia di tanti #JeSuisCharlie dalla memoria corta e denuncia i danni micidiali che causa il «politicamente corretto» applicato all'islam radicale. Benvenuto nel club di chi crede che il buonismo è solo una forma perversa della cattiveria. Tutto ciò capita, finalmente, anche in Italia. E capita da tempo, ben prima del massacro di due giorni fa, in Francia. Dove a suo tempo editori come Gallimard e Grasset si rifiutarono di pubblicare La Rage et l'Orgueil della Fallaci, considerata fascista, razzista e xenofoba. E dove oggi, mentre il romanzo Sottomissione di Michel Houellebecq si rivela profetico tanto quanto i pamphlet della Fallaci - sono sempre di più i Maître à penser della gauche sedotti dalla destra radicale. Come il filosofo Michel Onfray, alfiere della sinistra laica, o come l'economista di estrema sinistra Jacques Sapir, o l'ex sessantottino Alain Finkielkraut che invoca l'identità nazionale davanti all'invadenza del velo islamico... Certo, non danno i loro voti al Front National, ma spesso danno ragione a Marine Le Pen. Quando parla di Europa, di Islam e di immigrazione.
Intellettuali di destra? «Inesistenti», scrive Serena Danna il 20 gennaio 2010 su “Il Sole 24 ore”. «Lo so perché sono un intellettuale» diceva Pier Paolo Pasolini, punto e basta. E nell'anno 2010, Twitter e televisione a tre dimensioni, gli intellettuali hanno ancora l'aura sacra dei saggi greci o devono affidarsi solo ai talk show? Pierluigi Battista, classe 1955, editorialista del «Corriere della Sera», ha passato la vita a ragionare sul destino degli intellettuali, ieri Sartre, oggi Arianna Huffington con il suo blog. E dopo un libro sul caso Grass e gli intellettuali italiani (Cancellare le tracce, Rizzoli 2007) e uno sulle polemiche che hanno spaccato la cultura italiana del dopoguerra (Il partito degli intellettuali, Laterza 2001), Battista - Pigi per gli amici - ritorna con I conformisti (Rizzoli), stavolta per celebrarne il funerale.
Battista, un'ossessione per la figura dell'intellettuale?
«Mi ha sempre affascinato il rapporto tra intellettuali e politica, soprattutto mi incuriosisce la seduzione che il totalitarismo esercita su di loro. In preda all'ebbrezza ideologica, senza perdere il talento nei loro ambiti, è come se si svuotassero di capacità critica e analitica. Si compie un sacrificio intellettuale: immolano la ricerca della verità sull'altare del conformismo e della fedeltà all'ideologia».
Perché?
«Perché gli irregolari, quelli che rifiutano il conformismo, hanno sempre subito l'isolamento. Pensi al confronto tra l'irregolare Raymond Aron e il conformista Jean-Paul Sartre: i giovani parigini urlavano a gran voce «Meglio avere torto con Sartre che ragione con Aron», convinti di enunciare un brillante paradosso».
Certo le discussioni sulla libertà di Sartre esercitavano più fascino sul '68 rispetto al realismo del liberale Aron che giustificava la guerra...
«Il punto è che tanti intellettuali giustificavano carneficine in nome dell'ideologia: dal filosofo filo-nazista Martin Heidegger, che vedeva nel Führer il compimento di millenni di metafisica, al drammaturgo filo-sovietico Bertolt Brecht, che commentò così le torture moscovite inflitte alla sua ex amante: «Se è stata condannata devono esserci prove contro di lei»».
Perché – come recita un libro di Raymon Boudon – gli intellettuali non amano il liberalismo?
«Perché è sempre apparso come una dottrina fatta di regole. È difficile avere trasporto per le regole, ci riescono in pochi. Tanti uomini di cultura hanno scelto la sintonia con le masse: gli intellettuali usciti dal fascismo preferirono l'ideologia opposta perché era più facile».
Lei sostiene che dopo la caduta del muro di Berlino la situazione non sia cambiata.
«Allora ci fu l'illusione di essere entrati in un'era post-ideologica: la fine del bipolarismo. E invece cosa si è realizzato? Anticomunismo in assenza di comunismo e antifascismo in assenza di fascismo. Il rapporto con il potere oggi è certo meno omicida, rimane un involucro vuoto e caricaturale dove spicca la tendenza alla denigrazione e all'odio. Ieri Italo Calvino che definiva George Orwell un «libellista di second'ordine» perché aveva denunciato i massacri degli anarchici durante la guerra civile spagnola; oggi Moni Ovadia che parla della «bella utopia»».
Nel suo libro divide gli intellettuali contemporanei tra ex e post. Cosa intende?
«L'ex ha un rapporto serio con il passato vuole ed esige una resa dei conti che non arriva mai. Il suo rappresentante è Sant'Agostino, che passò tutta la vita provando vergogna per i peccati commessi nel suo passato. Il post, invece, è una figura che non considera i suoi errori, concilia ogni cosa. È come Jean-Jacques Rousseau che vedeva nella società la responsabile di tutte le colpe».
Scrive che con pur di non «dargliela vinta» a Berlusconi, la sinistra avrebbe annullato il giudizio critico. D'altra parte il premier usa spesso l'etichetta "comunista" per chiunque abbia un'idea diversa dalla sua...
«Certo l'atteggiamento della sinistra è una risposta all'anticomunismo viscerale di Berlusconi, ma resta il fatto che, pur di non dargli mai ragione, tanti rifiutano di vedere la realtà. Berlusconi è percepito come il riassunto di ogni male, dunque qualunque cosa dica deve essere squalificata e derisa in quanto manifestazione del male».
Fin qui le responsabilità degli intellettuali di sinistra... E quelli di destra?
«Non esistono! In 20 anni la cultura di destra non ha prodotto niente: non c'è un film, una mostra. Al punto che i politici del centro-destra ogni tanto devono imporre alla Rai una fiction revisionista pur di dimostrare che qualcosa c'è».
Sembra che lei abbia perduto speranza per la cultura...
«La devastazione è stata così radicale che ricominciare a pensare sarà molto difficile. Non riesco a essere ottimista, soprattutto quando vedo che tra i giovani hanno ancora successo le idee e i miti del passato. Chi emerge dall'apatia, gioca ancora a fascisti e comunisti...»
E gli intellettuali possono far qualcosa per rompere l'impasse o sono spacciati?
«Non si può sempre ricorrere in appello. A furia di perdere si sono auto-estinti. L'unica cosa è un grande scossone, nuova aria. In sostanza c'è un altro muro da abbattere».
Italia, nazione in coma per eccesso di ipocrisia. Nel dopoguerra la nuova morale politica dei vincitori lavò le coscienze ma anche il carattere di un intero popolo. Che cadde nel conformismo, scrive Stenio Solinas, Giovedì 10/10/2013, su "Il Giornale". Ogni volta che mi illudo di avere imparato a scrivere, Piero Buscaroli mi rimanda sui banchi di scuola. Prendo appunti, studio la costruzione della pagina, mi sforzo di nuotare senza annegare nei riferimenti, nei suggerimenti, nella sprezzatura stilistica con cui tutto è raccolto e come rilegato. Una nazione in coma (Minerva editore, 569 pagine, 19 euro), il suo nuovo libro, conferma questa sudditanza e la colora di malinconia, perché alcune delle parti che lo compongono, penso alla Vandea e a Charette, all'Italia in guerra e al Vietnam, all'infame mattanza dei cosacchi, ai ritratti di Benoist-Mechin e di Longanesi, uscirono su questo giornale quando ne dirigevo le pagine culturali e mi illudevo, anche qui, che le ragioni dei vinti potessero avere una tribuna e un senso. C'erano ancora i dimafonisti, ma Buscaroli odiava dettare («il suono della mia voce mi fa orrore» diceva) e i fax, di cui non si fidava. Così settimanalmente arrivavano sul mio tavolo delle buste gonfie di cartelle dattiloscritte, immagini, consigli e rampogne. Messe in pagina, divenivano paginoni, e a riprenderli oggi in mano uno capisce che, anche giornalisticamente, si è chiusa un'epoca. Le riforme grafiche hanno ridotto gli spazi e imposto la brevità, la paura-alibi di annoiare il lettore ha fatto il resto. E poi, di giornalisti-scrittori come Buscaroli si è perso lo stampo. Scriveva Cioran che «cadere dall'eternità nel tempo fu, finora, la regola. Ma si può cadere più in basso: cadere perfino fuori del tempo. Non è affatto escluso che questa esperienza diventi, un giorno, da individuale, un fatto che ci riguarda tutti». Questa profezia è alla base di Una nazione in coma, nel senso che lo informa e insieme lo contraddice, racconta di un futuro senza speranza e però puntigliosamente elenca ragioni e torti, rettifica e si indigna, maledice, persino. È un libro di memorie sui generis, ridotte al minimo quelle familiari, rivendicate quelle di testimone di un'epoca, il secondo dopoguerra, vissuto portandosi sulle spalle il peso di ciò che, ancora ragazzo, gli era franato sopra cucendogli addosso lo status di sconfitto. Ci sono dei lutti che si portano come decorazioni. Che la sconfitta riguardasse tutti, l'aveva capito perfettamente, ma invano, Benedetto Croce, di cui Buscaroli riporta quel discorso contro la firma del Trattato di Pace del luglio 1947, che una nazione degna di questo nome avrebbe dovuto trasformare in lettura d'obbligo fin dalle elementari. «Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l'abbiamo perduta tutti, anche coloro che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l'ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l'opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalla sua vittoria né dalla sua sconfitta». Nel suo opporsi alla firma del trattato, il filosofo dell'idealismo si opponeva non solo all'idea, infelice e infame, che la Seconda guerra mondiale l'avesse persa il fascismo e vinta invece gli italiani, ma anche alla pretesa dei vincitori «di un giudizio morale e giuridico sull'Italia e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare per redimersi». Chiosa Buscaroli che «scrostata la maschera della commedia democratica e della virtuosa ipocrisia messa a nascondere l'eterna vendetta, Croce rifiutava, fin dalla sua prima apparizione, la nuova morale politica che sarebbe diventata, nel mezzo secolo democratico, dominante e senza opposizione possibile». Era il «lavaggio del carattere» quello che si voleva, e che a sessanta e passa anni di distanza ci rimanda l'immagine di un Paese senza carattere, privo di dignità e di orgoglio. Finis Italiae. Di questo cammino che segna il nostro ritorno a ciò che fu un'espressione geografica, Una nazione in coma registra fedelmente i passi: «È l'Italia - scrive Buscaroli - che cessa di partecipare alla grande storia, e beata poltrisce sulle glorie, la storia e le ambizioni dei suoi mille municipi, delle sue cento contrade. È l'Italia indaffarata e laboriosa degli individui, ma priva di ogni aspirazione e speranza. È l'Italia guelfa, municipale e democratica, clericale e comunista da sempre, che castiga le sue minoranze ghibelline, i suoi sognatori senza i piedi per terra sulla terra, senza un solido appoggio nelle reali forze; eppure persuasi, per antica esperienza, che l'Italia savia e coi piedi per terra è l'Italia peggiore: è l'Italia di oggi perché è quella di sempre». Zibaldone di incroci, digressioni, ritratti ad hoc (Soffici e Messina, Paratore e de Vergottini, Praz e Cardarelli), Una nazione in coma è anche un vertiginoso compendio di due secoli di storia, la rivoluzione francese e «lo stupido secolo XIX» che ne discende, il suicidio dell'Europa in due guerre mondiali, con il suo contorno di olocausti umani e olocausti artistici: «La cancellazione delle opere dello spirito, del genio, del lavoro di un popolo, prolunga il crimine oltre la perdita della generazione in un certo tempo vivente. Rende l'olocausto ancora più odioso». Ma c'è spazio anche per «l'universalismo della chiesa» come «non un'invenzione originale del cattolicesimo, fu succhiato dalla romanità»; per una messa a punto sul provincialismo da caffè della cultura italiana d'antan: «Non mi pare che abbia diritto di insolentirla un'età che a quella tribuna, poverella di udienze e di guadagni, ha sostituito le soste di letterati e politicanti, giornalisti e pittori presso le scimmie male ammaestrate dalle televisioni»…. Una nazione in coma non è un libro omogeneo e, essendo un libro di parte si presta a critiche e messe a punto. Ma nel caso specifico, non ho alcuna voglia di sentirmi super partes.
L'imbarazzante silenzio su Buscaroli. Fu al Borghese con Leo Longanesi, al Giornale con Indro Montanelli e Vittorio Feltri. Ma la la piccineria del mondo intellettuale non gli ha mai perdonato le posizioni di estrema destra, scrive Alessandro Gnocchi, Giovedì 18/02/2016, su "Il Giornale". Un paio di brevi e un fogliettone di trenta righe. Per la maggioranza dei giornali, la notizia della morte di Piero Buscaroli, avvenuta lunedì, è roba da poco, da nulla addirittura. Peccato che il Bach di Buscaroli, un successo sorprendente, sia finito negli Oscar Mondadori, fatto inconsueto per un serissimo saggio di 1216 pagine. Peccato che La morte di Mozart e Beethoven abbiano ottenuto un notevole riscontro e siano dibattuti dal giorno della loro uscita in libreria. Peccato che Buscaroli abbia fatto la storia del giornalismo, procedendo a caso fu al Borghese con Leo Longanesi, al Giornale con Indro Montanelli e Vittorio Feltri, diresse il Roma, fu inviato di guerra, raffinato cronista di costume sotto pseudonimo, critico musicale tra i più validi, battitore libero di sconfinate conoscenze, basti pensare alle pagine sui vandeani massacrati dai rivoluzionari. Peccato che Buscaroli abbia diretto alcune collane editoriali che ispirano tuttora editori blasonati. La raffinatissima «Torre d'avorio», curata per l'editore torinese Fògola, annoverava titoli come Dio è nato in esilio di Vintila Horia, un capolavoro, oppure le Lettere dalla Russia di Astolphe de Custine, un altro capolavoro, e poi: Curzio Malaparte, molto prima che tornasse di moda, Henry de Montherlant, la musica e i classici meno frequentati della letteratura italiana. Ci sono anche le collane curate per Rusconi e Mondadori, insieme con Paolo Isotta; la recente autobiografia in due volumi; l'insegnamento nei Conservatori. Si potrebbe proseguire ma ormai è chiaro: le posizioni politiche di estrema destra hanno fatto ombra ai libri di Piero Buscaroli, belli e mai ipocriti, costasse quello che costasse (tantissimo, ora è dimostrato). Naturalmente, si possono criticare le sue idee ma disconoscere il valore di ciò che ha fatto per la cultura italiana è indice della piccineria del mondo intellettuale, incapace di distinguere l'uomo dalle sue opere e di riconoscere i meriti del «nemico», soprattutto quando, come in questo caso, sono indiscutibili. Tempo fa capitò di leggere l'ampia recensione di una nuova edizione del libro di Astolphe de Custine. Buscaroli, che lo aveva scoperto e pubblicato, accompagnandolo con una prefazione straordinaria, neppure veniva nominato. Furbizia? Ignoranza? Difficile dire nel caso specifico. È invece sicuro che certi intellettuali amano definire inesistente la cultura di destra. Prima però la saccheggiano, dopo averla scoperta con quarant'anni di ritardo; e per non farsi cogliere con le mani nel sacco, sbianchettano i nomi.
Piero Buscaroli: l’Italia fa orrore (la Lega meno). I disgusti dell'Indignato Speciale: Fummo fascisti nonostante il Duce. A Budapest c'è il ponte Napolitano. Almirante? Un infortunio. Fini? Uno stupido. Si salva Cota, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 11/04/2010, su "Il Giornale". Per entrare nella casa di Piero Buscaroli a Bologna bisogna piegare il capo, come nella basilica della Natività a Betlemme. Il portone in Strada Maggiore non supera il metro e 50 di altezza. Ci si deve far piccini al cospetto di Dio e Buscaroli, a modo suo, questo è: un dio. Della musica, del giornalismo, della storiografia, della polemica, dell’indignazione. Ed è appunto l’Indignato Speciale a intimorirti, mentre affronti lo scalone che su ogni gradino potrebbe allineare almeno otto persone. Incombe dalla sommità: «Non sarà venuto qui anche lei con l’intenzione di farmi passare per nazista?». L’ultimo è stato un inviato delle pagine culturali della Stampa, «un tipo pieno di capelli gialli, sicuro di sé». Hanno bisticciato subito. «Ha osservato che il libro Beethoven è il mio opus magnus. Ho dovuto correggerlo: guardi che opus è neutro, si dice magnum». Il peggio doveva ancora venire. «Sperava di farmi dire che la mia massima aspirazione era quella di diventare guardiano di Auschwitz. Ma si può? Un vero imbecille. Nel 1943 avevo 13 anni». Non mi è di viatico il ricordo del nostro primo e unico incontro, inizi del 1996, quando, da poco vicedirettore del Giornale, incrociai Buscaroli nella segreteria di redazione. Mi squadrò da capo a piedi: «Tu chi sei? Quello nuovo?». È tornato al lei. «Lo vedremo verso la fine se è degno del tu». Mi sta andando già meglio di Mario Calabresi, il direttore dell’inviato biondo, colpevole di non aver tenuto presente che il padre Luigi fu commemorato da Buscaroli, all’epoca direttore del Roma, il quotidiano di Napoli dell’armatore Achille Lauro, con il conio di una medaglia commissionata allo scultore Francesco Messina (e con una sottoscrizione fra i lettori che raccolse «un bel mucchietto di denari» per la vedova e gli orfani del commissario di polizia assassinato da Lotta continua), e perciò destinatario di una lettera che, fra un «cialtrone» e un «pagliaccio», si chiudeva con un epitaffio: «Senza saluti e tanto schifo». C’era di mezzo Dalla parte dei vinti, il nuovo libro di Buscaroli, Memorie e verità del mio Novecento, 521 pagine di «materie disperatamente difformi», magari non il più caro, certo il più sofferto, «ho fatto diventar matto l’editore, all’ultimo momento volevo sciogliere il contratto, m’è costato un’ischemia moderata, un’ischemia Mondadori», 60 anni ci ha messo a scriverlo, altro che l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo che ne richiese 18, «però non s’azzardi a chiamarlo autobiografia: non lo è». Giovanni Ansaldo, collaboratore della Rivoluzione liberale di Piero Gobetti e poi direttore del Telegrafo di Livorno di proprietà della famiglia Ciano e del Mattino di Napoli, gl’impartì una lezione che non avrebbe mai dimenticato: «Scriva sempre tutto quel che le preme, non ha idea di come faccia presto la memoria a cancellare particolari importanti: bastano 24 ore». Una perizia calligrafica rivelerebbe la datazione originale, se non l’autenticità, di ciò che giorno dopo giorno, notte dopo notte, Buscaroli ha minuziosamente registrato, da cronista, nei suoi taccuini. Su uno appena cominciato, il 12 giugno 1955, si legge un’annotazione di Leo Longanesi: «Me lo riporti, quando l’avrà finito...». Il fondatore del Borghese, che nello stesso anno assunse Buscaroli come inviato speciale, aveva intuito subito che da quelle pagine sarebbe transitata la Storia. Ed eccola qui, la Storia. Paolo Emilio Taviani che nel 1974 convoca a casa propria il nemico Buscaroli, nella speranza di ingraziarsi Giorgio Almirante e assicurarsi i voti del Msi, e gli rivela come se nulla fosse che «insomma, lei dovrebbe intendermi, dico che certe bombe, quelle attribuite alla sinistra, le abbiamo messe noi», noi chi, ministro? la Dc?, «ma no, noi, ministero degli Interni, mi capisce adesso?». La guerra nel Vietnam, seguita per sei estati: «Io parteggiavo per il Sud Vietnam, la Rsi locale, e per il generale Nguyen Cao Ky, che era stato decorato dai francesi in Algeria, un ufficiale con le palle come gli Stati Uniti non l’hanno visto mai, ed ero stupefatto di come le nuove generazioni crescessero bene in quel bagno di turpi guadagni e traffici immondi, di anno in anno vedevo ragazzine sempre più floride, più alte, più sane, più svelte, e giunsi a una conclusione prezzoliniana, disperante per un moralista: il vizio migliora la specie». La rivolta d’Ungheria: «A Budapest uno dei ponti sul Danubio viene ancor oggi chiamato Napolitano, per non dimenticare che nel 1956 il futuro capo dello Stato italiano proclamò come gli invasori sovietici avessero salvato la pace mondiale. Trent’anni ci ha messo a chiedere scusa». Nella casa-museo di Buscaroli, un dedalo, l’unico modo per non perdersi è memorizzare la posizione dei Cesari nei medaglioni appesi sopra gli architravi, dei mobili stile impero, dei pianoforti, dei dipinti («questa è l’ultima tempera su carta di Mario Sironi, me la regalò la figlia, un fascio stilizzato sormontato dalla penna d’oca degli scrittori, nessuno aveva mai fatto caso alla similitudine»), delle foto d’epoca, del sorprendente ritratto di Osama Bin Laden in una cornice d’argento, soprattutto di alcuni dei 10.000 libri che a ogni passo, a ogni corridoio, a ogni anticamera, a ogni stanza ti guidano, ti assediano, ti soffocano. Nell’ultimo salone, quello con le due sedie Biedermeier appartenute a Richard Wagner, c’è il pianoforte Érard del 1856 su cui suonò Johannes Brahms. «Me lo restaurò Fabbrini, lei sa chi è Fabbrini?». Veramente no. «Male, ora glielo spiego, queste cose un giornalista le deve sapere. Angelo Fabbrini era l’accordatore di Arturo Benedetti Michelangeli, tre anni ci ha messo a rifarlo nel suo laboratorio di Pescara, per portarlo su dalle scale c’è voluto una specie di cingolato leggero, con mezza Bologna ferma giù di sotto a guardare». Compirà 80 anni fra qualche mese ed è come se avesse vissuto non una, ma dieci vite. Tutto il mondo gli è ruotato intorno e lui lì, sull’attenti, irremovibile. «Italia nemica, a fondo, sempre. Era la prima cosa che dicevo ai miei figli appena nascevano», tre volte ha ripetuto quel tragico giuramento. Buscaroli non parla: esonda. Il 5 marzo 1970 fu costretta a occuparsene persino la Pravda - a ogni citazione ti sopraffà col suo dinamismo prensile nello scovare a colpo sicuro il ritaglio giusto da migliaia di agende, faldoni, scartafacci - «ecco qua, queste due paroline in caratteri cirillici significano Piero Buscaroli e qui c’è scritto che sono un mascalzone, mi assicura un esperto di interna corporis bolscevichi che il giornale ufficiale del Pcus mai usava riferirsi agli stranieri con nome e cognome». La Verità moscovita quella volta fece un’eccezione, non solo perché Buscaroli aveva denunciato sul Borghese l’intenzione sovietica di smembrare la Jugoslavia, ma perché se lo meritava: non ha mai stretto la mano a un comunista in vita sua, «e se dovevo andare in posti frequentati da canaglie, prima indossavo i guanti». L’unica volta che si lasciò afferrare «due dita in punta», ovviamente guantate, fu da direttore del Roma, quando, durante un processo nella pretura di Castel Capuano, lo ghermì alle spalle «un certo avvocato Iossa, o Fossa, consigliere comunale del Pci, che mi aveva denunciato per conto di una professoressa comunista e cieca e protendeva la mano piatendo 300.000 lire per rimettere la querela: “Direttore, voi siete umano, siete un signore...”». È vero. Il Buscaroli umano, che non t’aspetti, è quello che alla fine dell’intervista decide di poter tornare a darti del tu. Lo stesso che la domenica delle Palme, accompagnato dai familiari, ha voluto «vedere la destinazione finale» a Monteleone di Roncofreddo, «è un bel cimiterino su un poggio», col geometra Zamagni che esaltava l’erigenda tomba di famiglia come «il sarcofago del fondatore» e col per nulla convinto futuro inquilino che raccomandava: «Né Madonnine piangenti, né simboli cristiani», ma non osava contraddire la figlia Beatrice, critica d’arte, che eccepiva: «Guarda babbo che la mamma vuole la croce».
La questione sepoltura non mi sembra attuale.
«Quello che chiamano Dio sa che scherzo mi ha fatto? Sì, insomma, quel qualcuno che tiene la contabilità ha detto: al Buscaroli abbiamo tolto dalla testa molti nomi, ma dopo un minuto e mezzo glieli restituiamo. Per cui ho affinato l’arte di divagare per 90 secondi».
Non la trovo affatto svaporato.
«Fino al 22 luglio, prima dell’ischemia, avevo una memoria nichelata. Mai smarrito un ricordo. Adesso arrivo davanti all’edicola e non mi sovvengo di come si chiama Il Sole 24 Ore. Non posso mica dire: mi dia il giornale rosa dei ragionieri. Aspetto».
Da dove viene la mitologica asprezza del suo carattere?
«Sono aspro quando voglio. Con quelli che non mi piacciono. Con i bugiardi. Con i comunisti».
Piero il Terribile.
«Lasci perdere il titolo del Foglio. Non mi ci riconosco. Semmai passo per eccessivamente accondiscendente. Mia moglie Maria Grazia ogni tanto mi fa l’elenco di quelli che ho salvato».
In che modo vi conosceste?
«Andando a trovare i nostri padri prigionieri nel carcere di San Giovanni in Monte. Neppure Giampaolo Pansa ha un’idea di che cos’è stata la vita di noi appartati, dispersi in tante tane».
«Vae victis». A lei, da vinto, che guai sono toccati?
«I partigiani hanno tentato tre volte di ammazzarmi. La mia unica preoccupazione era morire bene. Quando arriva quel momento, non reagisci. Ti acquatti e aspetti che tutto finisca. Mi salvarono due ufficiali polacchi che odiavano i comunisti. E poi la distruzione della famiglia. Quattro zii morti. Mio padre Corso, insigne latinista, incriminato per un reato inesistente. Era il miglior amico di Dino Grandi (il ministro che preparò l’ordine del giorno di sfiducia al Duce votato nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943, ndr). Da reggente del fascio di Imola non ebbe alcun ruolo nelle rappresaglie. Lo tenevano in galera dal giugno del 1945. Aveva fatto i calcoli: era sicuro di uscire presto. Il direttore del carcere nell’estate del 1948 lo convocò: “Professore, ho una brutta notizia per lei. Sono arrivati i conteggi: le restano da scontare tre anni”. Il babbo aveva una pressione delirante, 260 di massima, allora non esistevano farmaci. Cadde a terra, colpito da paresi. I conteggi erano sbagliati. A fine anno uscì. Tre mesi dopo era morto. Chiesi la revisione del processo. Fu assolto dalla Cassazione nel 1960».
Dino Grandi è la sua bestia nera.
«Il babbo me l’aveva dipinto come un asino che sbagliava persino a scrivere le parole, roba da non passare la licenza elementare. Nel 1918 era innamorato della sorella maggiore di mio padre, Illiria. Questa mia zia, vedova dell’ingegner Gino Cacciari e nonna di Massimo, il sedicente filosofo già sindaco di Venezia, fino all’ultimo cercò di farmi fare la pace con Grandi. Per meglio dire, era il conte Grandi che invocava disperatamente il mio perdono. Ma quello che pensavo di lui glielo misi per iscritto: “Giudico lei, signor conte, come l’altro conte, il genero (Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini, ndr), e tutti i soci, fucilati e scampati, per quello che avete fatto; e non per aver ‘tradito il Duce’, come ripetono i fascisti cretini, ma per aver consegnato l’Italia al Badoglio, che la consegnò a tedeschi, inglesi e americani. Senza il 25 luglio, signor conte, non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l’infame catena di assassinii che i coglioni chiamano ‘guerra civile’ e fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista. Per questo e solo per questo, signor conte, detesto lei e tutti i suoi soci. Voi avete distrutto anche quanto poteva salvarsi, altro che ‘salvare il salvabile’!”».
Grandi la pensava come Indro Montanelli: quando una guerra appare perduta, il male minore è accordarsi col vincitore.
«Quei due erano uguali. A me il feldmaresciallo Albert Kesselring ribadì invece che se il nemico t’impone una resa senza condizioni, non resta che combattere fino in fondo. La Germania e il Giappone seguirono questa via. Fu il maresciallo Pietro Badoglio ad abbandonare l’Italia nelle mani dei nazisti».
Lei non ha grande considerazione di Montanelli. «Lo stimo poco», si legge in Dalla parte dei vinti.
«Montanelli era la copia di Grandi anche in fatto d’ignoranza. Nell’unica pagina che ho letto dei suoi libri sulla storia d’Italia parla della corona ferrea custodita nel Duomo di Monza chiamandola “monile”. Un’ignoranza da far invidia».
Lo accusa d’aver costruito la sua popolarità su un’intervista con Adolf Hitler mai avvenuta e su una condanna a morte emessa dai nazisti, pure questa inventata.
«Da Montanelli non ho mai imparato nulla, se non che i moderati sono peggiori degli estremisti. Ricordo il giorno in cui mi accolse nella redazione del Giornale, allora alloggiata nel Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour a Milano, fatto costruire da Benito Mussolini nel 1938 per Il Popolo d’Italia. Nell’atrio mi afferrò un braccio: “Qui Lui diceva... qui Lui faceva... qui Lui scriveva...”. Ma perché mi stringi il braccio? Che c’entro io? Basta! Lo avete glorificato, tradito, ammazzato. Per il Duce non nutro nessun sentimento, se non la pietà. Ti dirò di più, caro Indro: io sono stato fascista nonostante Mussolini, non per Mussolini».
Vorrebbe farmi credere che Montanelli doveva farsi aiutare da Mario Cervi a scrivere i libri di storia perché da solo non ne sarebbe stato capace?
«Da Cervi, da Roberto Gervaso, da Marcello Staglieno. Io non sono mai caduto nella sua rete. Finché una volta, a colazione al ristorante Bice, gli dissi chiaro e tondo: noi non siamo amici. Mi guardò assorto: “Hai ragione, non lo siamo”. E non siamo amici perché tu sei un traditore nato. Avrebbe voluto che fossi io a scrivergli il coccodrillo. Se lo faccio, ti rovino anche da morto, gli risposi. Invece avevo grande stima per Colette Rosselli, la moglie di Montanelli, che non si capacitava di questi miei impeti d’ira: “Sbagli ad arrabbiarti. Non hai ancora capito com’è fatto? Il suo lavoro, il suo articolo, e basta, non c’è altro”. Sa che cosa mi diceva di lui Leo Longanesi? “Quell’Indro finirà nel piscio”».
Oltre a Longanesi, chi sono stati i fari della sua vita?
«Il filosofo Lorenzo Giusso. Il maestro Ireneo Fuser, che fiutò in me un qualche intuito per l’armonia e il contrappunto e mi avviò allo studio dell’organo. Il pittore Ardengo Soffici. Il professor Giovanni de Vergottini, con cui mi laureai in giurisprudenza: m’inoculò la diffidenza per ogni storiografia che non sia incardinata nel diritto. L’anglista Mario Praz, che m’insegnò a distinguere la linea delle epoche, il bello e il brutto, gli stili. E poi Giuseppe Prezzolini, consigliere di tutti i miei comportamenti, il quale 12 anni prima che un erede putativo (Montanelli, ndr) si appropriasse della sua antica testata, disse all’editore Francesco Zuzic: “Oggi l’unico a poter dirigere La Voce forse è Pierino Buscaroli. Avrebbe un grande difetto, però: la scriverebbe tutta lui”. E infine Vittorio Cini. Che persona, che amico, che galantuomo! Lei lo sa che io non sono mai esistito in nessuna manifestazione ufficiale, mi hanno epurato perfino i musicologi?».
Immagino la loro gelosia per lo spessore, anche in senso fisico, dei suoi libri: 1.180 pagine Bach, 1.358 pagine Beethoven...
«Quando Cini scoprì che non m’avevano invitato a un congresso di studi su Ottorino Respighi che si teneva a Venezia sull’Isola di San Giorgio, casa sua, volle portarmici in motoscafo. Giunto il momento di dare il saluto ai convegnisti nel refettorio benedettino dove un tempo vi era la tela delle Nozze di Cana del Veronese, tagliata a pezzi da quel gran ladrone di Napoleone e oggi al Louvre, Cini si finse afono e cedette la parola a me. E quelli furono costretti ad applaudirmi».
Anche Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera dal 1952 al 1961, le ha voluto bene.
«M’insegnò che il giornalista non deve dare al lettore più di un’idea per volta e, se possibile, neanche quella. Era un fascista furioso. Una sera mi prese la mano e mi fece toccare il suo polso: recava la cicatrice di una sciabolata. “Lo senti? È il segno cesareo!”. Gliel’aveva inferto Mussolini in un duello nel 1921. “Sei il più grande”, mi diceva, “potrei fare la tua fortuna”. E in che modo? Assumendomi al Corriere? “Ma come, c’è già quel disgraziato di Montanelli, mica vorrai diventare il numero 2? No, tu devi andare in galera! Per salvare la patria”. Io gli rispondevo: direttore, questa fogna non la salva nessuno, e poi non ne vale la pena, sull’Italia io ci cago. È questo che mi ha sempre unito a Prezzolini: l’odio e il disprezzo per gli italiani».
Ma lei come diventò fascista?
«Non lo ero neanche nell’estate del 1943. Odiavo il sabato fascista, quelle gite assurde nel contado polveroso intorno a Imola, irreggimentati nelle nostre ridicole divise, la camicia nera col fazzoletto azzurro, la medaglietta di Mussolini, tutte cose che mi facevano schifo. Ce l’ho con l’Italia perché, mentre stavamo perdendo le ultime zolle insanguinate della Tunisia, i nostri istruttori durante le marce ci facevano cantare: “È la Marina / l’arma dei fessi / e l’Aviazione / pulisce i cessi”. La precocità è una dote che si perde col tempo. Compivo 13 anni il 21 agosto. Presi la carta da lettera più bella che trovai in casa e scrissi al federale di Bologna, Alfredo Leati. Mi fece rispondere dalla segretaria che non prendeva in considerazione i pareri di un bambino. Cominciai ad aborrire anche i federali. Venti giorni dopo ero rimasto l’unico balilla moschettiere. Fui promosso avanguardista perché non c’era più nessuno».
Siamo all’8 settembre: il proclama di Badoglio, l’armistizio di Cassibile, la Wehrmacht che occupa l’Italia.
«Come faccio a dirle che cosa furono per noi quei giorni? Non c’era mai stato tedeschismo nella nostra famiglia. Mio nonno Pietro era un socialista umanitario che sognava l’invasione della Svizzera e aveva chiamato Corso il primo figlio maschio perché voleva la restituzione della Corsica all’Italia. Mia madre era una Falorsi, i suoi antenati ghibellini avevano combattuto contro i guelfi nella battaglia di Montaperti menzionata da Dante, e aveva perso due fratelli di 22 e 20 anni sul Pasubio nella Strafexpedition del 1916. Un terzo era caduto nella riconquista della Libia. Le restava solo Carlo, il quarto, ferito due volte in Grecia, medaglia d’argento al valor militare, comandante della Scuola ufficiali di Ravenna. L’8 settembre ero a letto con la febbre. Udii un frastuono di pentole che proveniva dalla strada. Le donne urlavano: “È finita la guerra”. Il mio babbo mormorò: “Non sanno che cosa comincia”. Lo zio Carlo si ritrovò da solo con un pugno di uomini. Tutti i comandi militari erano fuggiti a Ortona Mare. Uno dei suoi soldati, preso dalla disperazione, mirò al collo dello zio e lo uccise con un solo colpo, poi si mise il calcio del moschetto fra i piedi e si sparò a sua volta. Ho odiato l’Italia e gli italiani da allora».
Capisco.
«Pochi giorni dopo al ponte sul fiume Santerno mi venne incontro una sagoma nera da Film Luce, due uomini, uno in sella alla motocicletta, l’altro seduto nel sidecar. “I tedeschi! I tedeschi!”. Tutti scappavano. Io solo gli andai incontro. Lasciai cadere la mia bici e feci il saluto romano. L’ufficiale balzò a terra e rispose col saluto romano. Uno scambio di cortesie da cancelleria del Reich. Ecco, mi guardi in faccia: mi fa ancora tremare quel momento. Fu la mia prima decisione da uomo. In quell’istante io diventai ciò che sono. Mi ero schierato. “Nach Ficarolo?”. Poveracci, s’erano solo persi, cercavano la strada per Ficarolo».
È ancora fascista?
«Fummo italiani. Eravamo fascisti per obbedienza, o familiare, o nazionale, o dinastica. Perciò non accetto che mi si dia del nazifascista o, peggio, del nazista, come ha osato apostrofarmi Massimo Cacciari. Feci condannare in un’unica udienza Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari davanti al tribunale di Roma per una simile affermazione. Esordii: signor giudice, non ho mai avuto bisogno di affidare il mio onore a un magistrato, so difendermi da solo, ma questa volta debbo ricorrere a lei, perché “nazista” non è più un giudizio politico, bensì un marchio demonizzante per cancellare una persona, per ridurla al nulla, è il peggio che si possa dire».
Ma Cacciari non si vergogna a portare al polso l’orologio che apparteneva al fratello della madre, fucilato dai partigiani?
«Me lo sono sempre chiesto. Cesare Momo era un tenente che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Il comunistino sostiene che lo zio fu ammazzato durante la guerra. Falso! Venne trucidato dieci giorni dopo il 25 aprile, a guerra conclusa, senza alcuna motivazione militare. La distinzione fra strage e macello non è mia, è nel Dizionario di Niccolò Tommaseo, 1851: “Macello s’applica agli animali. Se è per uomini, indica strage più fiera, viene da rea volontà... Il macello va fino alla crudeltà, alla barbarie”. Fu macello, perché vennero massacrati con crudeltà i già vinti e senz’armi».
Che cosa servirebbe per porre fine alla guerra civile?
«La fine del popolo italiano. Non è degno di sopravvivere. La sconfitta della dittatura ha portato alla guerra permanente e alla tirannia del denaro che sta facendo morire la civiltà. Io credo che l’Occidente entro 20 anni sarà finito».
Non c’è speranza.
«La Lega è l’unica salvezza. Può spazzare via la classe dirigente tarlata che ci tiriamo appresso da decenni. Io non voto, sia chiaro. Ma ieri sera a Otto e mezzo su La7 era ospite Roberto Cota. Be’, ho visto una persona diversa, ho ascoltato un modo di ragionare nuovo. È stata una frustata. In quell’uomo parlava un’autenticità che non riscontro in nessun altro politico».
Non è mai troppo tardi.
«L’Italia è stata una finzione che la monarchia e il fascismo hanno potuto solo parzialmente migliorare. Mussolini ha trovato i Savoia e se li è tenuti, ha trovato gli Agnelli e se li è tenuti, ha trovato la Chiesa e se l’è tenuta, anzi l’ha fatta padrona d’Italia. Il fascismo è stato una delusione totale».
E che cosa pensa di Gianfranco Fini, presidente del Senato, secondo il quale il fascismo fu invece «il male assoluto»?
«Si può usare il pensiero per Gianfranco Fini? L’ho sempre spregiato. La gente non sa quant’è stupido. Però io mi considero più stupido di lui, perché insieme con l’ammiraglio Gino Birindelli volevo rovesciare Almirante, al quale scrissi che reputavo la sua presenza il massimo infortunio che potesse toccare al popolo disperso dei fascisti dopo Mussolini. Fini è il vero figlio di Almirante».
Perché questa disistima per Almirante?
«Per il modo indegno con cui sfruttava il suo ruolo di quasi martire. Mi espulse dal Msi accusandomi di non credere nella socializzazione. Io me ne sono sempre fregato degli operai. Pensavo che la Repubblica sociale italiana dovesse solo difendere il passato».
Incluse le leggi antisemite promulgate nel 1938?
«No. Quelle furono un orrore. Un’idiozia prim’ancora che un’infamia».
Però il titolo della Stampa le metteva in bocca una frase terribile: «Non voglio sapere se questo è un uomo».
«Ma per carità! Ho il volto di un individuo che può aver detto un’enormità simile? Nemmeno un cane risponde così. Non ho letto il libro di Primo Levi, tutto qui».
Il politicamente corretto non sa che cosa sia. Sugli omosessuali dichiarò al Corriere: «Sconsiglierei il termine gay. La destra dovrebbe chiamarli correttamente froci o checche. Andrebbero spediti in campo di concentramento».
«Quello fu l’agguato di una tal Latella (Maria Latella, attuale direttore di Anna, ndr). Stravolse il mio pensiero. Dissi che li consideravo degli infelici costretti a vivere come nei lager. È ben diverso. Io ho paura solo della nebbia, non certo degli omosessuali. Esecro chi vorrebbe ergerli a modelli di vita e costruire l’assetto sociale di una nazione sull’omosessualità».
Per lei i trapianti d’organo sono «macelleria di Stato».
«I medici si sono inventati una morte che non esiste, quella cerebrale. La morte è una sola, sa?».
Si considera un perfezionista?
«Non in tutto. Solo in ciò che m’interessa. Nell’Opera 111 di Beethoven, per esempio. E nella scrittura».
Allora perché in Dalla parte dei vinti ha scritto d’essere stato querelato dalla vedova di Mariano Rumor? Al massimo poteva essere la sorella.
«L’ho sposato postumo».
Si dichiara ateo e antireligioso, però suonava Bach nelle cattedrali. La musica non l’ha avvicinata a Dio?
«Non sono né ateo né antireligioso. Già la parola ateo mi fa venire l’orticaria perché mi ricorda Voltaire. Non credo nel monoteismo ossessivo delle tre religioni di Palestina, nel tonitruare d’insopportabili profeti, nell’imposizione di volontà malconosciute, nello scatenacciare porte d’inferni. Non sono né pro Dio, né senza Dio, anche se l’unico in cui credo è il dio Caso. Non ho mai detto ai miei tre figli di non andare in chiesa. Da me avrete imparato almeno la libertà, gli ripeto sempre. Non ho il senso della religione. Ma credo che sia necessaria come instrumentum regni per tutelare l’ordine e i buoni costumi, un modo per disciplinare i popoli. Dio ci vuole. Guai se tutti smettessero di credere in Dio, saremmo finiti. Meno male che c’è Dio».
Si sposò a Santa Maria delle Muratelle.
«Se è per quello sono anche molto amato dai giovani di Comunione e liberazione. Una volta il cardinale Alfredo Ottaviani mi disse: “Non credi in Dio, ma credi nella Chiesa, che c’è!”. Poi soggiunse: “Tu Dio non l’hai ancora conosciuto. Ma lo conoscerai. E finirai sugli altari”. Sono ancora qui che aspetto».
Le è mai capitato di chiedere scusa?
«Tutti i giorni. Nasco dalla giustizia, non quella dei tribunali. È l’unica cosa che è contata davvero qualcosa nella mia vita».
Come vorrebbe essere ricordato?
«Come un buon padre. Ma come un buon padre sul serio, non solo la domenica». (Si ferma). «Ma poi non vorrei nemmeno essere ricordato».
Requiem per Buscaroli, italiano contro. Intellettuale eretico, "fascista deluso", visse sempre dalla parte dei vinti. Litigando con tutti, scrive Camillo Langone, Martedì 16/02/2016, su "Il Giornale". Litigava con tutti, Piero Buscaroli, litigava anche con i suoi estimatori e quindi ha litigato anche con me che lo avevo intervistato in modalità venerante siccome lo consideravo, e lo considero tuttora, un maestro. Litigava con tutti perché tutti coloro che lo circondavano avevano la grave colpa di essere italiani. E per lui i suoi connazionali erano quanto di peggio l'Europa avesse mai generato: «Trattandosi di italiani, non ci si possono aspettare esiti veloci in materie come l'onore nazionale e la morale» scrive in Dalla parte dei vinti che è uno dei suoi libri importanti, miracolosamente pubblicato da Mondadori. Dico miracolosamente perché nemmeno con gli editori andava d'accordo, ci mancherebbe, e perché non è facile trovare una grande casa editrice disposta a pubblicare un simile giudizio sulla resistenza: «Senza il 25 Luglio non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l'infame catena di assassinii che i coglioni chiamano guerra civile e che fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista». Buscaroli ha odiato gli italiani per oltre settant'anni ovvero dall'Otto Settembre quando appena tredicenne vide disfarsi la nazione. Si trovava a Imola dov'era nato nel 1930 e all'età in cui oggi si ascolta Justin Bieber e si pensa al primo tatuaggio vide morire amici e famigliari e vide tradire Mussolini e Mussolini tradire, o comunque amaramente deludere, e decise di mettersi al fianco del padre Corso, latinista cinquantenne che stoicamente accettò la responsabilità del fascio repubblicano cittadino, scelta che dopo la guerra pagò con anni di carcere. Non la chiamo guerra civile perché altrimenti Buscaroli dall'al di là cataloga come coglione anche me, non la chiamo guerra di liberazione perché non si può chiamare liberazione un'invasione, la chiamo anodinamente Seconda guerra mondiale ed era il tempo delle stragi come quella di Arcevia, paese delle Marche in cui i partigiani comunisti «sterminarono una famiglia di anziane ricamatrici, accusate di essersi fatte ricche col loro lavoro, e quindi nemiche del popolo. Una scena rituale, incredibile e assurda, le anziane cucitrici, i parenti e amici condotti in fila per due a uno spiazzo apposta aperto sulla strada statale, e ivi immolati col dolente assenso del nuovo sindaco e la cittadinanza tutta nascosta, all'italiana, dietro le persiane». Fonte del virgolettato è sempre Dalla parte dei vinti ma di libri ne ha scritti tanti, Buscaroli, e non solo di storia. Era un grande musicologo, anzi, siccome mi sovviene che non voleva essere definito tale mi correggo e lo definisco un grande storico della musica riferendomi al suo libro su Bach, al suo libro su Brahms, al suo libro su Mozart e soprattutto al suo libro su Beethoven che confesso di non avere letto sia perché in quel 2004 ascoltavo Jan Garbarek e Giovanni Lindo Ferretti sia perché la mole, 1.358 pagine, ebbe la meglio sulla mia ammirazione. Paolo Isotta ha definito il gran tomo meraviglioso e questo mi basta, meraviglioso lo sarà senz'altro. Buscaroli aveva studiato organo a Bologna e poi aveva insegnato in vari conservatori, Torino, Venezia, Bologna, trovando il tempo di collaborare col Borghese di Leo Longanesi, uno dei pochi personaggi verso il quale non manifestò mai disprezzo (parlava male perfino di Massimo Cacciari e il perfino non è riferito a un'infondabile intoccabilità intellettuale del filosofo veneziano ma al fatto che, incredibile ma vero, Cacciari era suo cugino). Nei primi anni Settanta fu direttore del Roma, quotidiano che a dispetto del nome veniva pubblicato a Napoli, proprietà del molto controverso e molto autoritario Achille Lauro, a riprova che a Buscaroli davvero non piaceva la vita comoda. In seguito fu critico musicale del Giornale ma io ne scoprii l'esistenza sulle pagine del più seminale dei libri sgarbiani, Dell'Italia, in una sezione dedicata a eccentrici ed esteti quindi tra Franco Maria Ricci, la marchesa Casati e Massimo Listri. Me ne invaghii e corsi a leggere tutto Il poco in quel periodo reperibile in libreria. Ricordo Paesaggio con rovine che aveva un'epigrafe da brivido: «Formica solitaria di un formicaio distrutto / dalle rovine d'Europa, ego scriptor». Parole ovviamente di Ezra Pound e identificazione altrettanto ovvia di Buscaroli, solitario scrittore. E poi La vista, l'udito, la memoria, uscito in una collana molto opportunamente intitolata «La torre d'avorio», dove col suo italiano magistrale impartiva lezioni non solo di storia e di musica, anche di arte. Lo riprendo in mano e ci ritrovo la dedica che mi fece nel buen retiro di Monteleone, sulle colline sopra Cesena. Non scrisse 16 luglio 2002, la data ordinaria, bensì 17 luglio 2.755 u.c. Perché, se ancora non lo si è capito, ieri non è morto un moderno italiano, è morto un antico romano, un uomo che con questa Italia (ma ce ne sono altre?) proprio non poteva andare d'accordo.
Buscaroli, Eco, Magli. Ci sono morti e morti…, scrive Piero Visani il 21 febbraio 2016. Piero Buscaroli, Umberto Eco, Ida Magli: è un febbraio decisamente bisestile per la cultura italiana. Sfortunatamente, è anche assai poco equilibrato, perché si passa dall’esaltazione acritica dell’uno alla “damnatio memoriae” dell’altro, al ricordo vagamente infastidito dell’altro ancora. Non è mia intenzione discutere lo spessore culturale di alcuno dei tre illustri estinti, non ne ho neppure le qualifiche. Mi dispiace solo – e questo è tipicamente italiano – che uno (Eco) muoia da “intellettuale organico”, degno di figurare in una nuova “Accademia d’Italia”; gli altri due muoiano da “underdog” del pensiero, cani sciolti che hanno pagato a carissimo prezzo la loro originalità. Questo fa immediatamente cadere ogni discorso di tipo culturale. Qui, purtroppo, c’è solo politica, la politica totalitaria che accetta un certo tipo di manifestazioni di pensiero e ne boccia irrimediabilmente altre. A mio parere, questo è l’esatto contrario della cultura, perché tutte le manifestazioni del pensiero umano, comunque si manifestino, sono degne del massimo rispetto. Eco aveva espresso posizioni molto radicali in politica, salvo poi finire a cantare le lodi della democrazia totalitaria, ma questo non investe e non può investire il livello qualitativo della sua produzione di pensiero. La cosa vale però anche per Piero Buscaroli e Ida Magli, e invece abbiamo un santo e due reietti. Il che equivale a dire che Ezra Pound e Louis-Ferdinand Céline erano due pessimi scrittori perché fascisti. Nasce il sospetto – non infondato – che spesso si diventi intellettuali celebrati perché organici agli assetti politici del proprio tempo. E’ vero, ma non è una patente culturale, anzi.
Umberto Eco e Ida Magli, considerazioni a margine, scrive Martedì 23 Febbraio 2016, Luigi O. Rintallo su Agenzia Radicale. La morte di due personalità quali Umberto Eco e Ida Magli, spinge a compiere qualche riflessione sulla condizione e sul ruolo svolto dagli intellettuali italianinella società di questi anni. Almeno tre sono gli aspetti da considerare. Il primo concerne la questione dell’autonomia di giudizio e dei modi di espressione della propria militanza politica. Gran parte dell’attività di Umberto Eco si è svolta nell’ambito accademico: autore di saggi che hanno divulgato la semiotica, disciplina prima poco meno che ignota in Italia, egli ha saputo togliere alla figura del professore universitario quella patina di polverosa solennità, contaminando un sapere vasto con la produzione dell’universo mediatico. In questa sua produzione, ha dimostrato acutezza di analisi, spesso anti-conformista, aprendo strade inesplorate e rifornendo allievi e lettori degli strumenti per elaborare un pensiero critico. Detto questo, colpisce come una persona dotata di tutte le capacità intellettuali per esprimere giudizi ponderati, nel descrivere società e politica abbia preferito abbagliare i lettori con fasci di luce monodirezionali che oscuravano il resto e quindi ne falsificavano la percezione complessiva. La cosa può spiegarsi soltanto riferendosi al vincolo esercitato dall’appartenenza, dall’attitudine a schierarsi ereditata dal modello dell’intellettuale organico. L’aver condiviso, con il polo Espresso-Repubblica che ne ospitava gli articoli, la divisione manichea per cui gli avversari sono raffigurati quasi come dei sub-umani, fa calare su Eco il velo di un dubbio irrisolto. A sollevarlo, quel velo, scopriamo quanto pesi il condizionamento dei referenti editoriali, specialmente quando si costituiscono come soggetto politico a tutti gli effetti senza passare per il filtro della normale dialettica democratica. Di ciò si ha un riscontro anche per quel che riguarda Ida Magli. Anche nel suo caso, siamo di fronte a un’autrice che nei suoi studi ha svelato i temi dell’antropologia culturale, scavando in profondità le ragioni della diversità uomo/donna e dando un contributo teorico essenziale al femminismo italiano. Firma prestigiosa de «la Repubblica» negli anni ’70-80, non esitò ad abbandonare quella favorevole tribuna quando la deriva politically correct spinse il giornale a respingere i suoi articoli, che si contraddistinguevano per le posizioni non conformi. Nella logica di contrapposizione manichea, bastò questo fatto per catalogarla automaticamente dall’altra parte della barricata, prescindendo dalla storia di una vita intera: l’ennesima dimostrazione di quali frutti malati abbia prodotto l’avvelenamento dei pozzi della cultura liberale nel nostro Paese. Proprio la denutrizione liberale e, con essa, l’assoluta sordità del mondo intellettuale rispetto a una dimensione individualista e libertaria del vivere sociale, rappresenta il secondo aspetto che va evidenziato. La cultura italiana contiene in sé questa sorta di “buco nero”, per cui è ben difficile scardinare i riferimenti che rimandano da un lato all’egemonia di stampo gramsciano e, dall’altro, ai retaggi del cattolicesimo. Umberto Eco si può dire che ne costituisce la sintesi eccelsa: ex dell’Azione cattolica, approdato nella sinistra prima extra-parlamentare e poi tardo azionista, non è stato mai portatore di un pensiero che fosse per lo meno sfiorato da una visione lontanamente assimilabile a quella del libertarismo. Da parte sua, Ida Magli che pure promosse una consapevolezza nuova delle tematiche di liberazione della donna, ha quindi assunto posizioni anti-europeiste all’insegna di una rivalutazione della dimensione nazionale che mal si concilia con la volontà di riaffermare i diritti della persona universalmente. È pur vero che Ida Magli negli ultimi anni si è battuta per sostenere le parti dei cittadini contro il prevalere delle burocrazie, ma certo è ben difficile che tale difesa possa esercitarsi dentro i confini di un solo Paese. Ultima considerazione riguarda l’assenza, presso gli intellettuali italiani, di una produzione teoretica in proprio. Dai tempi di Croce, non pare si siano più profilati pensatori in grado di dare un’interpretazione complessiva del reale. Abbiamo avuto divulgatori, compilatori e polemisti – come appunto Umberto Eco e Ida Magli – ma finora è mancata la capacità di impegnarsi in una progettualità di ampio respiro.
Ida Magli o la fallocrazia spiegata alle femministe, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2016 su "Il Giornale". Dopo Costanzo Preve si spegne un’altra voce fuori dal coro. Ida Magli è morta nella sua casa a Roma, all’età di 91 anni. Ad annunciarlo è stato Giordano Bruno Guerri, vicino alla famiglia, che con lei scrisse anche un libro intervista nel 1996Per una rivoluzione italiana. Molti ora la ricordano per quel trittico anti-globalista (La dittatura europea, Dopo l’Occidente e Difendere gli italiani) che con largo anticipo pose le basi moderne del primato politico sull’economico. Ma la Magli era innanzitutto un’antropologa laureata in filosofia con specializzazione in psicologia medica sperimentale alla Sapienza dove ha insegnato fino al 1988. Studiava l’uomo anche se si è sempre impegnata nella difesa delle donne. Il suo libro più affascinante e meno commerciale risulta infatti La sessualità maschile (Baldini&Castoldi) in cui affrontò il tema centrale del potere confutando le banali teorie femministe che hanno sempre parlato di una società maschilista, senza però spiegarne le origini. “Per capire la nostra cultura dovevo capire i maschi, visto che sono stati loro a costruirla. Questa la strada che ho percorso a ritroso. E alla sommità della risalita ho trovato il pene” scrive. In un breve manoscritto Ida Magli si avventura in una tesi scontata quanto illuminante: al principio della nostra civiltà c’è l’organo sessuale maschile. Così il “fallo” dell’uomo viene analizzato non solo come forza simbolica, ma come organo biologico. Il pene, osserva Ida Magli, si erige, si distanzia in certo senso dal corpo e per giunta proietta la sua essenza all’esterno, amplificando la volontà di potenza dell’uomo. Così l’erezione diventa sinonimo di conquista e il getto dello sperma, uno strumento di dominazione. “Fallocrazia” a parte, il sesso femminile era stato già studiato un secolo prima dal giovane scrittore austriaco Otto Weininger che in Sesso e Carattere distingueva l’uomo dalla donna per la sua genialità (intesa come capacità d’inventare e creare). Sul piano biologico “la vagina riduce il sesso femminile alla riproduzione”, che si traduce su quello simbolico all’imitazione. Questa tesi non vuol essere misogina, bensì una constatazione storicamente verificata (Weininger lo riscontra nella musica, nella pittura, nella scrittura, nella filosofia, nella scienza, nella politica), che tuttavia può essere confutata con delle ovvie eccezioni (Caterina di Russia, Rosa Luxembourg, Evita Peron, Simone Weil, Margherita Hack, solo per citarne alcune). Eppure l’ideologia femminista ha voluto rendere questa eccezione, sinonimo di naturalezza, in una regola inscatolata: le quote rosa. Un’emancipazione in realtà solo apparente nella “grande dittatura finanziaria”. L’antropologa Ida Magli ci ha insegnato che le decisioni politiche si prendono in altre sfere di potere perché i Parlamenti non contano più nulla. Bene, vi siete mai chiesti quante donne lavorano tra la City londinese e Wall Street? Poche, forse nessuna. Tutti quei “burocrati, banchieri e faccendieri” che lavorano dietro le quinte sono uomini e hanno il pene.
Hanno ucciso mediaticamente Ida Magli. Non riceverà, Ida Magli, gli onori mediatici che ha ricevuto Umberto Eco per la sua scomparsa, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". Chissà come avrebbe commentato i giornali del giorno dopo, se avesse potuto leggerli. Da antropologa di lungo corso e da intellettuale avvezza ai peggiori difetti del culturame, ne avrebbe fatto un interessante caso di studio di quella particolare distorsione del pensiero e della morale che va sotto il nome di razzismo antropologico. Come definire altrimenti la reazione della stampa italiana - silenzio o giudizi di parte - alla morte di Ida Magli? L'Unità e il Fatto Quotidiano: neppure una riga. La Stampa: una breve di sei righe, in cui si sbaglia anche il titolo dell'ultimo libro (Figli dell'uomo. Duemila anni di mito dell'infanzia, Bur), dicendo che uscirà nei prossimi mesi quando invece è in libreria da novembre. Corriere della sera: un fogliettone in cronaca, che gli nega la dignità della sezione Cultura, in cui si dice che «forse ne ha sparata qualcuna un po' grossa» (ma colei che firma il pezzo è una femminista fuori tempo massimo incarognita con chi, come la Magli, di fronte alle violenze imposte alle donne dagli islamici si chiese giustamente «ma come, abbiamo appena incominciato a emanciparci dai nostri veli, dalle nostre velette e ammettiamo che si torni indietro di secoli?»). E la Repubblica - che pure pubblica un bel pezzo di Marino Niola - incentra il ricordo sulla Magli femminista e di sinistra lasciando solo poche righe alla Magli degli anni Novanta-Duemila, quella che per prima prese dure posizioni contro il mondo musulmano e l'Unione europea. Ecco il punto: perché separare un «prima» e un «dopo» (come ha fatto la migliore intellighenzia su Twitter) e non considerare l'intellettuale come unico, con tutte le sue sfumature? E perché (come si sono sfogati in tanti sui social) ricordarla per la sua militanza femminista e poi consegnare le legittime critiche all'islam a una «deriva xenofoba»? È la formula standard del pensiero corretto: chi si azzarda a denunciare il substrato antidemocratico del mondo islamico o manifesta paura per i flussi migratori ormai completamente fuori controllo, è immediatamente tacciato di islamofobia, o ignoranza, o razzismo. Per i politicamente scorretti non c'è posto. Come non c'è stato posto (ancora meno rispetto Ida Magli) per Piero Buscaroli, uno che ha vissuto dalla parte dei vinti tutta la vita, fin da quando aderì, da ragazzo, alla Rsi: non sono bastati libri magistrali di musicologia e una carriera giornalista straordinaria per una «redenzione» agli occhi dei benpensanti. E così, morto settimana scorsa, è stato ignorato da tutti. Uccidere mediaticamente un irregolare del pensiero, o anche due, non è reato.
Umberto Eco e gli Intellettuali partigiani. Morto lo scrittore Umberto Eco. Il semiologo, filosofo e scrittore noto al grande pubblico per "Il nome della rosa" si è spento ieri sera: aveva 84 anni, scrive Chiara Sarra, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". È morto ieri sera a 84 anni Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore, noto al grande pubblico soprattutto per i romanzi Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988). Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, nel 1988 aveva fondato il Dipartimento della Comunicazione dell'Università di San Marino e dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell'Università di Bologna e dal 2010 socio dell'Accademia dei Lincei. Eco è autore di molti romanzi di successo, ma anche di saggi di semiotica, linguistica e filosofia. L'ultimo libro, Numero Zero è stato pubblicato nel 2015: ambientato nel 1992, racconta di una redazione di un giornale, ripercorrendo con questo stratagemma narrativo tutte le tappe importanti della storia d'Italia da Tangentopoli a Gladio, passando per P2 e terrorismo rosso. Da ieri sera il ricordo dello scrittore si rincorre sui social, che nonostante la tarda ora in cui è giunta notizia della sua morte, celebrano il grande intellettuale. Sintetico il comunicato di Bompiani: "lutto per la cultura, ci lascia Umberto Eco: Siamo addolorati". Giovanna Melandri aggiunge "Che tristezza la notizia della morte di Umberto Eco. Un grandissimo intellettuale e scrittore, una persona unica e speciale. Mancherà tanto". Anche la cantante Noemi affida le sue sensazioni ai social scrivendo: "Una parte della nostra cultura e letteratura. Ora tocca a noi. Saremo capaci di raccontarci così bene agli Italiani di domani?". "È mancato un grande italiano", nota Ivan Scalfarotto. Ma quello che salta più agli occhi è la quantità di messaggi lasciata da gente qualunque, lettori e studenti formatisi sui suoi libri, che ricordano Eco postando alcune citazioni. La più ricordata è quella che forse meglio rappresenta il motivo per cui uno scrittore non certo facile sia oggi ricordato come una rockstar: "Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni". Profondo cordoglio anche da Matteo Renzi: "Esempio straordinario di intellettuale europeo, univa una intelligenza unica del passato a una inesauribile capacità di anticipare il futuro", sottolinea Renzi, "Una perdita enorme per la cultura, cui mancherà la sua scrittura e voce, il suo pensiero acuto e vivo, la sua umanità", conclude il presidente del consiglio.
Eco, dalla tv ai romanzi fino alle 40 lauree, continua Chiara Sarra. Con la morte di Umberto Eco il mondo della cultura, anche internazionale, perde una delle figure di maggiore importanza. Filosofo e semiologo, fine cultore del Medioevo, padre della semiotica interpretativa, ma anche saggista e professore emerito dell’Università di Bologna. Eco iniziò a interessarsi all’influenza dei mass media nella cultura di massa a partire dalla fine degli anni ’50. Nel 1988 fondò il Dipartimento della Comunicazione dell’Università di San Marino. Dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Dal 12 novembre 2010 Umberto Eco diventa socio dell’Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Figlio di un negoziante, Eco conseguì la maturità al liceo classico "Giovanni Plana" di Alessandria, sua città natale. In gioventù fu impegnato nella Giac (l’allora ramo giovanile dell’Azione Cattolica) e nei primi anni cinquanta fu chiamato tra i responsabili nazionali del movimento studentesco dell’Ac. Nel 1954 abbandonò l’incarico in polemica con Luigi Gedda. Si Laurea in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con Luigi Pareyson con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino iniziò a interessarsi di filosofia e cultura medievale, campo d’indagine mai più abbandonato, anche se successivamente e per lunghi anni si dedicò allo studio semiotico della cultura popolare contemporanea e all’indagine critica sullo sperimentalismo letterario e artistico. Nel 1956 pubblicò il suo primo libro, un’estensione della sua tesi di laurea dal titolo Il problema estetico in San Tommaso. Ma è lunga e molto importante la lista dei suoi lavori. Tra i maggiori: nel 1963 pubblica un libro che è diventato nel tempo un classico Diario minimo (Mondadori), volume che raccoglie saggi come Fenomenologia di Mike Bongiorno e Elogio di Franti. E ancora, Apocalittici e integrati (Bompiani) del 1964, altro classico La struttura assente (Bompiani, 1968). Ma la celebrità a livello mondiale arriverà nel 1980 con Il nome della rosa. Un romanzo che farà riscoprire all’Italia e poi al mondo intero, attraverso la formula del giallo, dell’intrigo, del mistero, il meraviglioso mondo medievale. Con Il nome della rosa Eco vincerà il Premio Strega nel 1981 e numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Ma al di là dei premi Il nome della rosa ha rappresentato il desiderio di Eco di dare pari dignità a tutte le forme culturali. Dopo Il nome della rosa, sono arrivati Il pendolo di Foucault (1981), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000). Fino al più recente Numero zero. Nella sua lunga carriera, nel 1954 vince un concorso della Rai per l’assunzione di telecronisti e nuovi funzionari. Con Eco vi entrarono anche Furio Colombo e Gianni Vattimo. Dal 1959 al 1975 fu condirettore editoriale della casa editrice Bompiani. Nel 1962 pubblicò il saggio Opera aperta che ebbe notevole risonanza a livello internazionale e diede le basi teoriche al Gruppo 63, movimento d’avanguardia letterario e artistico italiano. Nel 1961 iniziò anche la sua carriera universitaria che lo portò a tenere corsi, in qualità di professore incaricato, in diverse università italiane: Torino, Milano, Firenze, infine, Bologna dove ha ottenuto la cattedra di Semiotica nel 1975, diventando professore ordinario. All’università di Bologna è stato direttore dell’Istituto di Comunicazione e spettacolo del Dams, poi ha dato inizio al Corso di Laurea in Scienze della comunicazione. Infine è divenuto Presidente della Scuola Superiore di Scienze Umanistiche che coordina l’attività dei dottorati bolognesi del settore umanistico. Nel corso degli anni ha insegnato anche in varie università straniere tra cui UC-San Diego, New York University, Columbia University, Yale, College de France, Ecole Normale Superieure. Nell’ottobre 2007 si è ritirato dall’insegnamento per limiti di età. In tutta la sua lunga carriera Eco ha ricevuto 40 lauree honoris causa da università europee e americane.
È morto Umberto Eco. Filosofo, semiologo e romanziere, aveva 84 anni. Da "Il nome della Rosa" a "Numero Zero", nei suoi libri lo spirito del tempo, scrive il 20 febbraio 2016 Panorama. Umberto Eco scrittore, filosofo e semiologo, aveva 84 anni. La notizia della sua morte è stata data dalla famiglia a Repubblica. Il decesso è avvenuto alle 22:30 di ieri nell'abitazione dello scrittore. Eco era nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932. Tra i suoi maggiori successi letterari Il nome della rosa del 1980 e Il pendolo di Foucault (1988). Il suo ultimo libro, Anno zero, è stato pubblicato lo scorso anno da Bompiani. Nel 1962 Eco pubblica Opera aperta, analisi di testi letterari in termini strutturalisti a partire da Ulisse di Joyce, che fa discutere e diviene uno dei manifesti della neoavanguardia riunita l'anno dopo nel Gruppo '63. Nel 1980 esce invece il romanzo storico medioevale Il nome della rosa, che suscita consensi internazionali, best seller da oltre 12 milioni di copie. Si svolge tra queste due tappe, meno lontane e diverse di quanto possa apparire, il lavoro di Eco, che aveva festeggiato il 5 gennaio scorso gli 84 anni. Da osservatore ironico e semiologo avvertito oltre che creativo, ha dimostrato in ogni occasione di saper cogliere lo spirito del tempo. Il suo Lector in fabula, saggio del 1979 (non a caso periodo in cui stava scrivendo proprio Il nome della rosa), è appunto il lettore che in un testo, in particolare se creativo, letterario, arriva a far interagire col mondo e le intenzioni dell'autore, il proprio mondo di riferimenti, le proprie associazioni, che possono creare una lettura nuova: ''generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui''. Un'"opera aperta" è proprio quella che più riesce a produrre interpretazioni molteplici, adattandosi al mutare dei tempi e trovando agganci con scienze e discipline diverse. Una tesi che apparve dirompente in un paese legato alle sue tradizionali categorie estetiche, diviso tra crocianesimo e marxismo storicista. E il discorso di Eco non riguarda, ovviamente solo la forma, la struttura di un'opera, come intesero molti autori di quegli anni, tanto che poco dopo dette alle stampe La struttura assente, che spostava il discorso sulla ricerca semiologica e le sue interazioni. Così, forse, il tentativo più esemplare nel mettere in pratica le sue teorie, è nel 2004 La misteriosa fiamma della regina Loana, romanzo illustrato con foto di libri e riviste, manifesti, tavole di fumetti, che fanno parte del racconto e contribuiscono a far rivivere l'atmosfera dell'epoca (da fine anni '30 alla guerra) a ogni lettore anche con i propri ricordi. Insomma, anche un romanzo di un personaggio e studioso di questo tipo, attento alla cultura di massa e già autore di paradossali e ironiche pagine su aspetti minori della realtà raccolte in Diario minimo negli anni '60, nasce entro questo spettro di riferimenti con una sapienza, non solo costruttiva e intellettuale. E il successo internazionale, col Nome della rosa, di un saggista raffinato, di uno studioso che aveva debuttato laureandosi sui problemi estetici in San Tommaso, finì per suscitare più polemiche delle sue innovative teorie saggistiche. Se in tanti parlano di ''libro geniale e assai notevole'' come sintetizzava Maria Corti, ecco che per Geno Pampaloni c'era ''difetto di genio letterario'', Francesco Alberoni lo definiva ''libro privo di emozioni'' che deve la sua fortuna all'essere divenuto un feticcio di cultura, mentre Stefano Benni ha ''chiuso a pagina trenta, assalito dalla noia''. Poi verranno gli altri romanzi, altri best seller che ne consolidano la fama e stemperano le astiosità: Il pendolo di Foucault nel 1988, L'isola del giorno prima 1994 e Baudolino 2001, La misteriosa fiamma della regina Loana 2004 e l'anno scorso Il cimitero di Praga. Ancora una volta, attraverso la storia nel XIX secolo del tragico e graduale prosperare di quella falsificazione nota come I protocolli dei Savi di Sion, che ispirerà anche Hitler, un romanzo di ampio intreccio, ricco di erudizione divulgata con eleganza e in quella misura che impegna il lettore comune, ma non troppo, introducendolo con sapienza narrativa in una coinvolgente realtà di idee e storica. Fino all'ultimo romanzo sul mondo dei giornalisti e dell'editoria, Numero Zero, uscito l'anno scorso.
Caro Umberto, ci hai lasciato orfani. Era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, antinomie in apparenza inconciliabili. Un intellettuale vero, che difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché il potere lo temeva. Ecco perché lo rimpiangeremo, scrive Wlodek Goldkorn il 20 febbraio 2016 su "L'Espresso". Chiunque abbia conosciuto Umberto Eco nel cuore suo, oltre a volergli bene, lo temeva. Ed era bello temerlo. Infatti, Eco, nato il 5 gennaio 1932 ad Alessandria e scomparso la sera del 19 febbraio a Milano, è stato prima di tutto un grandissimo intellettuale, ossia l'uomo che dall'alto del suo sapere e della sua esperienza di vita, giudica e si schiera. Un intellettuale vero, ed Eco era uno degli ultimi al mondo ad appartenere a questa categoria, difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché lo temeva non solo il potere, ma anche la cerchia dei suoi conoscenti e amici. In realtà, però, Umberto era un uomo mite. Un po' perché sapeva quanto la rabbia fosse faticosa e inutile, ma prima di tutto perché la sua mitezza era il risultato di una profonda riflessione. Detto brutalmente (e con ammirazione), era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, le antinomie in apparenza inconciliabili. Era un accademico (senza di lui niente semiologia) e al contempo autore di testi giornalistici, anzi l'uomo che dentro il mondo dei media sapeva muoversi come se tutta la sua vita professionale si fosse svolta nell'ambito del giornalismo. E basti pensare al suo impegno con L'Espresso, alla Bustina di Minerva. Infatti, qui all'Espresso l'abbiamo sempre temuto. Ma l'abbiamo anche pensato come a uno di noi, però un po' migliore, e più colto di tutti noi messi insieme. Come si diceva, Eco era un grande accademico, ma anche l'uomo che spiegò, fu tra i primi a farlo, quanto la cultura popolare, il fumetto in fattispecie, siano spesso anche dei testi dai forti risvolti filosofici (Charles Schulz, il papà dei Peanuts, per il Nostro era un maestro dell'etica). E ancora, con “Il Nome della Rosa” il semiologo si era trasformato in un romanziere: non un semplice scrittore, ma un autore di bestseller (tradotto in quaranta lingue, 30 milioni di copie vendute). Però, si trattava di un bestseller che non assomigliava a tanto ciarpame che va di moda. “Il nome della Rosa”, contiene considerazioni filosofiche che riportano a Tommaso d'Aquino, Aristotele, Guglielmo d'Ockham; tocca la disputa teologica sulla povertà nella Chiesa (e papa Francesco sembra talvolta uscito dalle pagine di quel libro) e ha una struttura stratificata, che si presta a mille letture e infinite interpretazioni. Affascinato dalla molteplicità dei codici e dei significati, Eco ha dedicato molto tempo ed energie allo studio delle varie teorie di cospirazione; quel modo di interpretare il mondo semplificandolo, dandone una versione che possa spiegare in apparenza tutto, ma che riduce il tutto a una narrazione nichilistica e senza speranza, mentre lui cercava invece il desiderio che poi è fondamento di ogni immaginazione e quindi dell'avvenire (cosa è il futuro se non il frutto della nostra immaginazione?). Per capire quell'universo oscuro e pieno di falsità ha scritto “Il cimitero di Praga”, un romanzo in cui risale alle origini dei “Protocolli dei savi saggi del Sion”, dandone una paternità diversa da quella convenzionalmente accreditata. Ma soprattutto, in questo romanzo spiega come tutte le teorie di cospirazione muovano dalla stessa matrice. Declinata poi secondo codici diversi. Eco era una persona che ci ha insegnato la cosa più difficile da comprendere e accettare: che ogni opera crea un linguaggio nuovo, quindi ogni linguaggio porta con se infinite possibilità di interpretazione. Un intellettuale quindi che ha anticipato il postmodernismo? Sì. Ma poi, al contrario di quanto sopra, Eco era un intellettuale moderno; uno che sapeva quanto abbiamo bisogno, ancora, di categorie, gerarchie, ordine, sapere generale e non solo parziale e frammentario, quanto la conoscenza delle nozioni, dei dati e delle date, della storia e della geografia, fossero importanti. O, se vogliamo, ci ha insegnato che per sovvertire il linguaggio (strumento di potere) bisognava prima di tutto padroneggiare il linguaggio. Sì, per lui padroneggiare era importante. Lo dimostra la sua ultima, estrema impresa: La nave di Teseo, una casa editrice nuova. Oltre la contingenza (la nascita di Mondazzoli) dopo essere stato autore di libri e delle parole, Eco voleva esserne anche il padrone. Nel migliore senso della parola: uno che si gioca il tutto per tutto. Ora la Nave di Teseo sta per salpare. Senza di lui, ma con i suoi libri. Nell'epoca della frammentazione del sapere e della infinita riproduzione delle fonti, Umberto Eco è stato uno degli ultimi intellettuali veri, un uomo che cercava di abbracciare la totalità del sapere. Ci lascia orfani.
Casa Pound contro Eco: "Voleva rieducare gli elettori di destra". Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, pubblica su Facebook un epitaffio polemico nei confronti del noto scrittore deceduto ieri, scrive Francesco Curridori, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". "È morto uno che firmava appelli alla lotta armata per il comunismo, uno che affermava tranquillamente l'inferiorità culturale degli elettori di destra proponendo una loro "rieducazione"...Stile gulag sovietici per intenderci. Ciao Umberto, prova a fare lo spocchioso con Caronte stanotte". È l'epitaffio postato su Facebook che Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, dedica all'intellettuale Umberto Eco scomparso ieri notte a 84 anni. Al militante che gli fa notare che Ecco fosse comunque un valido scrittore, Di Stefano risponde a muso duro: "Tu per lui eri feccia. Comunque Il giudizio 'artistico' è soggettivo, l'arte non conosce colore politico. Però di fronte alla apologia che lo dipinge come una specie di santo è giusto che si sappia cosa pensava veramente".
Umberto Eco spara a zero: "Internet è la patria degli scemi del villaggio". Lo scrittore massacra i social e tutti quelli che li frequentano. Un'uscita infelice che ci affibbia il titolo di "scemi del villaggio", scrive Sonia Bedeschi, Giovedì 11/06/2015, su "Il Giornale". Un tempo quelli che venivano definiti gli "scemi del villaggio" erano personaggi strani, con difetti in evidenza, stravaganti e anche un po' tonti. Ma si sa, i tempi cambiano, le tecnologie fanno il loro corso e dalla carta stampata dal profumo inconfondibile si è lentamente passati al web: internet e i suoi social. Una novità, uno progresso che fa tremare il noto professore Umberto Eco, tanto da consentirgli di entrare a gamba tesa sulla reale funzione di internet, dei social, e dell'uso che ne fanno gli "scemi" che navigano e frequentano. Questa volta Umberto Eco ci va giù pesante, la sua è una provocazione perché in altre occasioni, pur con grande e ironica severità, il professore aveva criticato la rete ma insieme ne aveva esaltato le potenzialità. Infatti aveva dichiarato "Oltre a custodire la memoria storica, gli strumenti multimediali possono essere dei dispositivi per rinforzare la capacità di ricordare". E fin qua tutto bene. Gli anni passano e ora Eco si trova ad avere la bellezza di 83 anni, e il suo pensiero, su internet e social e' decisamente cambiato, in peggio. "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel". Insomma l'avvento del web e naturalmente chi ci lavora dentro, stando alle sue parole, rappresenterebbero una vera e propria minaccia per l'umanità, addirittura un danno e magari irreparabile. Eppure ricordiamo al sempre noto professore, che ha ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino, che dietro al "pericolosissimo" internet esistono persone serie, professionali, che lavorano, che si fanno quotidianamente "un mazzo così". E ora non ci venga a dire che con queste sue sparate non voleva certo generalizzare. Perché dopo queste sue dichiarazioni, ammettetelo, ci sentiamo un po' tutti "scemi del villaggio", perché la consultazione di internet e l'interazione attraverso i social occupano buona parte della nostra giornata. Senza fare troppi danni, anzi in molti casi, quelli che lavorano o passano il tempo sul web, sfornano informazione, e spesso e volentieri attendibile. Continua Eco "Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità", ha osservato invitando i giornali "a filtrare con équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno". Insomma ci sentiamo, credo, un po' tutti offesi da queste raccomandazioni che suonano come una iniezione di terrore, sospetto e sfiducia. Diciamo allora che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, dovrebbe stare al passo coi tempi se possibile, dovrebbe accettare l'evoluzione naturale della tecnologia e delle persone. Nessuno di noi naviganti si sente scemo, semplicemente al passo coi tempi. Poi sta a ognuno di noi attivare il buon senso e fare un uso corretto della tecnologia.
Eco, un intellettuale sempre organico (ma solo a se stesso), scrive Vittorio Feltri, Domenica 21/02/2016, su "Il Giornale". La livella arriva per tutti e non ha risparmiato neppure Umberto Eco, morto in casa propria a 84 anni, dopo aver inanellato una serie impressionante di successi editoriali che lo hanno reso famoso nel mondo. Il suo romanzone Il nome della rosa è stato tradotto in un centinaio di lingue e ha venduto 12 milioni (14 secondo qualcuno) di copie, quante ne bastano per arricchire un autore. Se si aggiunge la diffusione notevole di altre sue opere, ad esempio Il pendolo di Foucault, si arriva a una montagna di volumi. Non vogliamo fare i conti in tasca a Eco, ma solo ricordare che egli è stato un intellettuale importante per la cultura italiana del dopoguerra. Non piaceva a chiunque lo avesse letto, ma ciò è normale. Come sempre, anche nel suo caso era ed è la politica a dividere il pubblico tra estimatori e detrattori. Le mode culturali contribuiscono in modo decisivo ad innalzare un uomo ai vertici della considerazione popolare o a farlo sprofondare negli abissi del disprezzo. Umberto è stato bravissimo nella scelta di campo utile a portarlo sull'Olimpo. Pur essendo stato cattolico all'inizio della carriera, non ha esitato a diventare miscredente e a schierarsi a sinistra in tempi in cui i cristiani erano democristiani, cioè gentucola conformista, mentre i laici erano comunisti e quindi degni della massima stima. Non affermiamo che Umberto sia saltato da una sponda all'altra per opportunismo. Probabilmente si è limitato a seguire la propria indole di uomo del giorno. Ma il sospetto rimane, visto che il passaggio da qui a là gli ha giovato parecchio in termini di consenso e di incasso. I laici progressisti negli ultimi 60 anni hanno goduto di grandi agevolazioni: porte aperte, buona stampa, elogi sperticati della corporazione dei cosiddetti intelligenti. Giuseppe Berto, grande scrittore che negli anni Sessanta vinse per sbaglio il Campiello con il Male oscuro, romanzo contro la psicoanalisi, fu dimenticato (e schifato) in fretta, perché genericamente di destra, ossia ostile alle ideologie correnti e di maggior presa nel periodo in cui i suoi libri erano in commercio. Quando tirò prematuramente le cuoia non fu celebrato adeguatamente. Lo stesso dicasi per Giuseppe Prezzolini, snobbato poiché conservatore dichiarato. Vabbè, niente di nuovo né di sensazionale. Eco, a differenza di costoro, condannati al silenzio e all'oblio, seppe inserirsi nel filone giusto riuscendo a suscitare l'attenzione e l'approvazione nei contemporanei affascinati dall'eurocomunismo inventato da Luigi Berlinguer, una teoria fantasiosa eppure in grado di sedurre circa la metà della beota popolazione italiana. Fu bravo a intuire la strada da percorrere per giungere in vetta al gradimento dei cittadini sedicenti illuminati. Ciò non toglie alcun merito allo scrittore alessandrino, anzi accresce la misura della sua abilità di intellettuale (quasi) organico. Umberto non è mai stato contestato da nessuno che avesse i titoli per farlo. Lui stesso a un certo punto confessò che Il nome della rosa, nonostante il boom delle vendite (qualcosa di straordinario) era il suo peggior romanzo. Non saprei dire se avesse ragione o torto; sta di fatto che questo era il suo pensiero, almeno quello manifestato con stupefacente franchezza (a cui sarei portato a non credere). Eco, coerentemente con le posizioni acquisite negli anni della maturità, ha collaborato con l'Espresso e la Repubblica, sui quali ha scritto articoli memorabili, che hanno immancabilmente fatto scalpore. Egli assurse ancor giovane (relativamente) al ruolo di maître à penser, ascoltato e lodato dai compagni di ogni risma. Bisogna dargli atto che non è mai stato banale nelle sue osservazioni. Filosofo, semiologo, linguista e professore universitario, egli fu protagonista di un episodio storico. Dopo aver collaborato assiduamente con Lascia o raddoppia?, il primo programma televisivo della Rai d'antan, Umberto scrisse un saggio clamoroso in cui faceva a pezzi il conduttore della trasmissione: Mike Bongiorno. Un'impennata che rivelava appieno la personalità dello scrittore scomparso, uno che faceva e disfaceva con sorridente e irridente disinvoltura. Ebbi anch'io con lui un garbato scontro. Io sostenni che la destra si era impoverita perché tutti gli intellettuali destrorsi, dal 25 aprile 1945 in poi, si erano trasferiti armi e bagagli nella sinistra, cambiando bandiera senza battere ciglio. Era la verità. Ma Eco mi rispose che i voltagabbana non erano tali in quanto non fascisti, bensì esponenti della destra storica. E avevano semplicemente mutato idea. La sua mi parve una stupidaggine. Ma lui era lui e io ero io. Una replica alla marchese del Grillo. Niente di serio. Vittorio Feltri.
Eco fu il migliore della sinistra che si crede sempre migliore. Incarnò alla perfezione la presunta superiorità antropologica dei progressisti sugli "altri". Rinunciò a capire gli italiani che sognavano una destra liberale preferendo attaccare il mondo berlusconiano, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 21/02/2016, su “Il Giornale”. Nel 2005 Luca Ricolfi scrisse il saggio Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori (Longanesi). Il sociologo analizzava la reazione degli intellettuali, più o meno militanti a seconda dei casi, di fronte all'avanzata del berlusconismo. Già nel 1994, dopo la clamorosa sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, si faceva strada la teoria delle due Italie. Una virtuosa, minoritaria e di sinistra. L'altra avida, corrotta, meschina, maggioritaria e di destra. Una colta, amante della lettura. L'altra ignorante, schiava delle televisioni. Tra i molti esempi di questa mentalità, sorda e cieca innanzi al Paese, felice di crogiolarsi nel pregiudizio, Ricolfi citava anche il professore Umberto Eco. In effetti Eco, nel 2001, su Repubblica aveva teorizzato «al meglio» la superiorità antropologica della sinistra, e diviso i cittadini di destra in due categorie. La prima. L'Elettorato Motivato è composto dal «leghista delirante», dall'«ex fascista», e da tutti coloro che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all'indipendenza dei pubblici ministeri». La seconda. L'Elettorato Affascinato «non ha un'opinione politica definita, ma ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi. Per costoro valgono ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita, non dissimile da quella di coloro che chiameremo genericamente i Migranti Albanesi». Marcello Veneziani riassunse in una formula poi ripresa da tutti - incluso Ricolfi - tale modo di vedere le cose: «razzismo etico». Rientrano in questo schema intellettuale, che ha avuto un nefasto influsso sulla vita culturale del Paese, alcune provocazioni del professore: gli appelli contro Berlusconi, lo sciopero dei consumi di prodotti delle aziende di Berlusconi, la promessa (non mantenuta) di abbandonare il Paese in caso di vittoria elettorale di Berlusconi, il paragone tra Hitler e Berlusconi, le rampogne contro il populismo e il fascismo strisciante di Berlusconi. Non sorprende che, a un certo punto, Eco fosse rimproverato da una parte dei suoi compagni di strada (oltre Ricolfi, ricordiamo Franco Cordelli, Erri De Luca, Gianni Vattimo) perché parlava soltanto di Berlusconi, ottenendo l'effetto di renderlo ancora più forte, mentre ignorava le gravi lacune della sinistra. Lui rispose così alle critiche, in un'intervista rilasciata a Dino Messina e pubblicata dal Corriere della Sera: «Guardi, l'Italia nei cinque anni appena trascorsi si è messa sulla strada del declino. Se andiamo avanti così diventiamo definitivamente un Paese da Terzo Mondo. Figurarsi se di fronte a un tale rischio mi metto a parlare della barca di D'Alema, che pure mi permetterebbe di fare delle bellissime battute». Era appena uscito A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico (Bompiani, 2006) una raccolta di saggi sull'era Berlusconi. Al di là dello sdegnato giudizio etico, c'era poco. A Eco, come a molti altri, mancava la curiosità di scoprire davvero chi fossero e cosa volessero i milioni di italiani che speravano in una svolta liberale. La sua ultima avventura editoriale, la fondazione della casa editrice La Nave di Teseo, appena varata insieme con Elisabetta Sgarbi, rispondeva al desiderio di non pubblicare i suoi ultimi libri con la Mondadori della famiglia Berlusconi, che aveva acquistata Rcs Libri, e con essa la Bompiani, il suo editore storico. Venerdì prossimo La nave di Teseo pubblicherà Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, libro che nasce dalle Bustine di Minerva, la rubrica di Eco sul settimanale l'Espresso. Si parlerà anche di politici. Almeno uno, sapete già chi è.
La «Nave» della superiorità antropologica, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 25/11/2015, su "Il Giornale". Ieri è andato in scena, sulle pagine de la Repubblica, l'eterno ritorno dell'anti-berlusconismo, la malattia senile della sinistra rimasta senza idee. Questa volta il bersaglio è Marina Berlusconi, presidente del Gruppo Mondadori. L'occasione per lucidare le armi impolverate è fornita dalla fondazione di una nuova casa editrice, La nave di Teseo. Al timone ci sarà Elisabetta Sgarbi, che ha rassegnato le dimissioni da Bompiani in seguito alla acquisizione di Rcs Libri (e quindi di Bompiani) da parte del Gruppo Mondadori. Una concentrazione, a suo dire, preoccupante perché viatico alla omologazione della proposta editoriale. Con sé, Elisabetta Sgarbi avrà editor e autori provenienti anch'essi da Bompiani: Mario Andreose, Eugenio Lio, Umberto Eco, Sandro Veronesi, Pietrangelo Buttafuoco, Edoardo Nesi e altri. Due giorni fa, da Segrate era filtrato il dispiacere per questa decisione. Elisabetta Sgarbi rifiutava interpretazioni politiche o ideologiche. Meglio la frammentazione o la concentrazione per rilanciare il settore? La qualità è appannaggio dei piccoli editori, dei grandi o di entrambi? A ciascuno le proprie opinioni. A questo punto, in qualunque Paese al mondo, la parola sarebbe passata al mercato, cioè ai lettori. Ma siamo in Italia, e ci ha pensato la Repubblica a trasformare la questione editoriale in questione ideologica, mettendo il cappello su La nave di Teseo. Per accendere le polveri, bastano le parole di Elisabetta Sgarbi, che racconta dal suo punto di vista il rapporto con Marina Berlusconi: «Non ha capito perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale». Glossa di Umberto Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito». Ieri pomeriggio Elisabetta Sgarbi, in un'intervista al sito IlLibraio.it, ha aggiunto: «Ognuno avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa per tenere la Bompiani unita. Ma se si è proprietari del 100% di qualcosa, non si è tenuti a raggiungere accordi». E ha descritto come «svolti nella più assoluta cordialità» gli incontri con «Ferrari, Ernesto Mauri (soprattutto), e una volta con Marina e Silvio». Secondo indiscrezioni, inoltre, i «fuoriusciti» hanno anche provato a comprare Bompiani. Tentativo non realistico. In ogni caso, l'indipendenza del marchio, all'interno del Gruppo, non è mai stata in discussione come suggerisce la storia delle precedenti acquisizioni di Segrate. Chiedere informazioni a Eugenio Scalfari, pubblicato da Einaudi e omaggiato con un Meridiano Mondadori. Comunque a la Repubblica non importa la ricostruzione dei fatti. Importa solo che Marina di cognome faccia Berlusconi perché questo consente di rilanciare un «grande» classico: la superiorità antropologica della sinistra. Ecco la prosa di Francesco Merlo: «E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne-capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell'industria culturale più grande e più decaduta d'Italia. E infatti l'una parlava di umanesimo cosmopolita e l'altra di azienda, l'una di autori da allevare e l'altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini». Sono «donne incompatibili e incomunicabili non per ideologia, ma per antropologia». Esistono dunque due specie. Di là ci sono le persone colte, raffinate, disinteressate; di qua gli ignoranti, i rozzi, gli affaristi. Questa grottesca rappresentazione della realtà perseguita l'Italia da vent'anni, svilendo ogni dibattito. L'industria culturale «più decaduta» è la sinistra che vive di pregiudizi.
Ecco cosa pensiamo di Umberto Eco. Il coccodrillo-verità di Libero, scrive Fausto Carioti il 21 febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. De mortuis nihil nisi bonum. Ma se il defunto è l'intellettuale italiano più noto nel mondo c' è anche l’obbligo della verità. Tutta, inclusa quella sgradevole. L' autore del Nome della rosa è stato tante cose. Politicamente parlando è stato l'intellettuale più autorevole tra coloro che hanno diviso l'Italia in due, per venti lunghissimi anni. Da una parte chi studia, legge (preferibilmente Repubblica e Micromega) e ha una coscienza: l'Italia dei giusti. Dall' altra, l'Italia della barbarie: delinquenti, favoreggiatori di delinquenti, subumani della cultura. In parole povere: tutti coloro che hanno votato per Silvio Berlusconi. Una dicotomia che ha fatto di Umberto Eco il grande teorico della inferiorità etico-culturale degli elettori di centrodestra. Il difetto di Eco non era la sua antipatia viscerale per il Cavaliere, che nel 2006 lo spinse ad annunciare la fuga dall' Italia (figuriamoci) se avesse vinto Berlusconi e che è appartenuta e appartiene a tanti, anche a destra e che spocchiosi non sono (non sempre, almeno). Era invece il disprezzo antropologico dell'intellettuale illuminato per milioni di italiani. Quel «razzismo etico» che gli è costato un giudizio durissimo da un intellettuale di sinistra senza paraocchi come Luca Ricolfi. Il quale, ricordando come si comportò nella seconda metà degli anni Novanta la categoria cui lui stesso appartiene, scrisse sulla Stampa: «Fu proprio in quell' epoca che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l'appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l'accecamento ideologico». Accecamento ideologico: per un intellettuale, cioè per colui la cui identità e professione sono le idee, l'accusa peggiore. È anche quella che dipinge meglio l'Eco degli scritti politici (chiamiamole pure invettive). Dall' appello firmato nel 1971 contro il «commissario torturatore» Luigi Calabresi - padre del direttore di quella Repubblica che ieri commemorava Eco - agli appelli, alle interviste, a certe "Bustine di Minerva" vergate per l'ultima pagina dell'Espresso. L' apice, ma anche la teorizzazione che ha dato dignità a tanti deliri del progressismo italiano (vale la pena di ripeterlo: intrinsecamente razzisti, perché basati sulla superiorità antropologica dell'homo sinistriensis), è proprio l'appello che Repubblica mise in pagina l'8 maggio del 2001. Tonitruante sin dal titolo: «Non possiamo astenerci dal referendum morale». Lì Eco divideva «l'elettorato potenziale del Polo» in due. C' era l'Elettorato Motivato, del quale facevano parte «il leghista delirante», «l'ex fascista» e quelli che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all' indipendenza dei pubblici ministeri». E poi c' era l'Elettorato Affascinato, composto da chi legge «pochi quotidiani e pochissimi libri», persone che «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina». «Che senso ha parlare a questi elettori di off shore», inveiva Eco, «quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter?». Criminali e gente in malafede, dunque, assieme a ignoranti lobotomizzati dalle televisioni e da un sogno di benessere a buon mercato. Spiriti meschini, paria del suffragio universale, personaggi che nella democrazia illuminista di Eco non avevano diritto alla cittadinanza e probabilmente nemmeno allo status di rifugiato. In quella pagina Eco scrisse anche che, se avesse vinto il Polo, «tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, il Giornale, e via via dall' Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall' Espresso a Novella 2000, sino alla rivista online Golem», sarebbero finiti nelle mani dello «stesso proprietario», ovviamente Berlusconi. Il quale, come noto, avrebbe vinto nel 2001 e nel 2008 per trovarseli tutti contro: la previsione dello scienziato sociale Eco fu falsificata, ma lo status dell'autore non ne risentì. Non avrebbe mai cambiato idea. Ripubblicò il testo del 2001 in una raccolta del 2006 (anno in cui ovviamente scrisse anche l' ennesimo appello in occasione dell' ennesimo «appuntamento drammatico» elettorale) e in quell' occasione difese gli insulti che cinque anni prima aveva distribuito su metà degli italiani, paragonando se stesso agli intellettuali che resistettero al fascismo: «Come se ai loro tempi si fosse imputato (si parva licet componere magnis) ai Rosselli, ai Gobetti, ai Salvemini, ai Gramsci, per non dire dei Matteotti, di non essere abbastanza comprensivi e rispettosi nei confronti del loro avversario». Il fatto che «oggi Umberto Eco a Ventotene ci va - se lo vuole - in vacanza», come ha scritto lo storico Giovanni Orsina, non pareva scuotere le sue certezze. Nel dibattito elettorale, argomentava Eco in quel gennaio di dieci anni fa, «le critiche all' avversario devono essere severe, spietate, per potere convincere almeno l'incerto». Ma allora è questo il compito dell'intellettuale? Insultare, drammatizzare, umiliare il prossimo affinché voti come lui gli dice di fare? Abitante spocchioso dei quartieri alti della Moralità, quando di mezzo c'era la politica Eco non aveva nulla della leggerezza e dell'umanità di un Edmondo Berselli, per restare nella sinistra colta di matrice bolognese. Una vita di successi, lo status di grande maestro universalmente riconosciuto, ma in fondo Eco è rimasto sempre lo stesso di quel saggio che scrisse a 29 anni, in cui Mike Bongiorno era definito «esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità», la rappresentazione di «un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Era già tutto lì, nel 1961. Disprezzo per l'italiano medio e accecamento ideologico inclusi. Accecato dall' ideologia, ha sparato ad alzo zero su chi non votava come voleva lui: criminali oppure ignoranti lobotomizzati dalle tv. Il manicheo che teorizzava l'inferiorità etica della destra Umberto Eco nel febbraio del 2011 al Palasharp di Milano chiede le dimissioni di Silvio Berlusconi durante una manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia.
La sinistra uccide la cultura, scrive Francesco Maria Del Vigo il 4 febbraio 2016 su "Il Giornale". Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato un articolo che in Italia non potrebbe mai uscire. Il senso del pezzo è questo: quasi tutti i docenti dei paesi anglosassoni sono di sinistra e il loro pensiero unico distrugge la cultura e pure gli atenei. Sacrosanto. Pare, stando alle statistiche del foglio economico, che il 60 per cento dei professori americani tifi per i Democratici, contro il 40 per cento del 1989. Risultato? Dalle cattedre universitarie si professa un solo punto di vista. Non c’è dibattito. Si vende una sola idea e la si spaccia per verità. Vado per esperienza personale – quindi fallibile – ma in Italia credo che sia peggio. A naso: il 90 per cento dei docenti universitari – e delle superiori – sono di sinistra. Non solo i docenti, anche chi seleziona e scrive i libri di testo. Vi è mai capitato di leggere i tomi di storia o filosofia delle scuole dell’obbligo? Lasciamo perdere Il giudizio su Mussolini e il fascismo – De Felice nella migliore delle ipotesi è citato come un eretico -, ma pure uno come Nietszche viene trattato come una canaglia. Dalle nostre parti vige ancora l’idea che la cultura sia proprietà della sinistra. Quando i giganti della cultura del Novecento – per esempio – sono stati tutti di destra: fosse fascista, reazionaria, conservatrice, repubblicana, liberista, liberale o monarchica. Mishima, Pirandello, Drieu la Rochelle, Heidegger, Schmitt, Fermi, Gentile, Marinetti, D’Annunzio, Junger, Guenon, Evola, Berto, Cioran, Fante, Balla, Prezzolini, Hamsun, Keller, Comisso, Ionesco, Eliot? (E ho citato solo alcuni nomi, i primi che mi sono venuti in mente. Per leggere qualcosa di più preciso consiglio l’articolo “I grandi scrittori? Tutti di destra” di Giovanni Raboni uscito sul Corriere il 27 marzo 2002). Sono stati di sinistra? Sono stati comunisti? No, e ognuno di loro ha detto qualche cosa che oggi sarebbe incappato nella censura del politicamente corretto. E anche se li fossero stati – comunisti, stalinisti o chissà cosa – non ci sarebbe alcun problema… E lì in mezzo – in questa lista assolutamente incompleta e provvisoria – ci sono froci, drogati, blasfemi e alcolizzati. Perchè ci sono centodestre (titolo di un bellissimo dizionario biografico) che fanno da contraltare al pensiero unico di sinistra. E comunque la cultura non è rossa e neppure nera. Non è islamica, nè cattolica, nè apostolica, nè romana. La cultura è cultura. Punto. A prescindere dal colore e persino dalle follie ideologiche che abbia sostenuto. Non ci sono idee o scrittori che non si possano studiare, discutere e criticare. Non c’è nulla di vietato. Il politicamente scorretto è un’impotenza intellettuale contro la quale al momento non è commercializzato alcun Viagra. Se non quello della libertà intellettuale. Che purtroppo non si compra al supermercato. Ma il problema sollevato dal Financial Times – e qualche settimana fa anche dagli accademici di Oxford – merita di essere trasportato in Italia: il politicamente corretto uccide il dibattito culturale. Perché qui da noi il corpo docenti è ancora più radical e fuori dal mondo che negli USA o in Gran Bretagna. E non ci si può mordere la lingua di fronte a un’idea solo perché farebbe sussultare la Boldrini. Poi ci chiediamo perché i nostri titoli di studio non valgono un accidente… Anzi, studiarsi a memoria le banalità che impongono certi libri di testo è una medaglia al demerito. Uno schiaffo alla libertà di pensiero, al sano diritto all’insofferenza e alla claustrofobia verso tutto cioè che è imposto. Ogni volta che conosco qualcuno che abbia raggiunto i massimo voti negli studi classici mi preoccupo e mi sincero che abbia avuto anche altre evasioni intellettuali. Meglio bigiare una lezione e leggersi in un bar – magari pure con una sigaretta in bocca – una pagina di Max Stirner o di Berto Ricci. Di un anarco libertario o di un socialfacista. Magari per poi smontarli. Roba che tra i banchi è giudicata più pornografica di una gang bang di Sasha Grey. E comunque apre di più la mente un filmato su Youporn di uno dei libri di storia imposto dallo stato nei quali le foibe vengono evase in tre righe scarse. E poi – anche in campo sessuale – D’Annunzio a Fiume aveva già fatto tutto… (Alla festa della rivoluzione, Claudia Salaris, Il Mulino). E ricordatevi: quel barbuto con l’eskimo 2.0, gli occhialoni neri e la moleskine in mano che sta seduto accanto a voi in biblioteca non è un intellettuale: probabilmente è un coglione che manda a memoria testi del sessantotto pensando che siano roba nuova. Il futuro, per ora, non è infondo a sinistra. Lì hanno spostato la discarica delle idee.
«Fare film sul potere è duro Sulla sinistra molto di più», scrive Pedro Armocida, Lunedì 15/07/2013, su “Il Giornale”. «Il racconto della politica al cinema non è un fatto scontato. In Italia non si faceva più dai tempi di Rosi o di Petri». E magari, qualche leader della sinistra sinistrata raccontata da Roberto Andò nel suo vivido Viva la libertà ne avrebbe fatto pure volentieri a meno. E invece il regista siciliano ha portato sul grande schermo la storia raccontata nel suo romanzo d'esordio Il trono vuoto (Bompiani) che qualche mese fa ha avuto un buon riscontro anche al botteghino e ha recentemente ottenuto due David di Donatello (sceneggiatura e attore non protagonista, Valerio Mastandrea) e un Nastro d'argento (sceneggiatura) prima dell'uscita in home video in questi giorni. «Sarà un'altra occasione per verificare l'azzardo dell'idea, la bontà di questo progetto, un tappo sulla politica che si è liberato al cinema». Roberto Andò, classe 1959, palermitano adottato dalla Capitale dove mi accoglie in un elegante appartamento nella Prati più vicina al Vaticano mentre squilla il telefono e all'altro capo c'è proprio Rosi, è un caso atipico di regista. Decine le sue regie teatrali e di opere liriche, poi il cinema con tutto il suo lato più intellettuale e complesso (Viaggio segreto, Sotto falso nome) e le sue passioni d'origine (Il manoscritto del Principe ossia Tomasi di Lampedusa al lavoro su Il gattopardo) mentre ora sembra vivere una nuova elettrizzante dimensione di «leggerezza» - come ama definirla - e di incontro con il pubblico: «Questo film mi ha dato la forza di immaginare con libertà attraverso una struttura non conforme. Mi piacerebbe mantenere questo sguardo. Una volta ho letto un'intervista di Bertolucci in cui, dopo un insuccesso, diceva di essersi posto il problema del pubblico. Tutti i registi dovrebbero farlo. Ora questo desiderio è emerso in me perché quando vuoi parlare del tuo Paese devi entrare in contatto con gli spettatori».
Ma, a sinistra, non tutti sono stati così empatici.
«Bè certo, c'è stato chi come Renzi e Veltroni, peraltro recensori positivi del romanzo su Panorama, mi ha fatto arrivare un'adesione entusiasta. Nel corso del tempo sono venute fuori le anime inquiete della sinistra con Civati con cui sono appena stato al suo politicamp a Reggio Emilia dal titolo proprio W la libertà. Mente l'altra parte è rimasta in imbarazzo. So che Bersani l'ha visto da solo a Piacenza».
E D'Alema?
«Silenzio assoluto».
Uno dei suoi «padri» intellettuali, Leonardo Sciascia, ha sempre cercato di raccontare il potere.
«L'affaire Moro era una specie di processo al palazzo dove la politica è sinonimo d'impenetrabilità, di mistero. Dopo Berlinguer i politici hanno sul volto l'angoscia del potere. Lo cercano ma al contempo vorrebbero fuggirgli. Io sono partito da qui ma in direzione del cambiamento. Il film mette insieme vita e politica e lo spettatore s'immedesima nell'idea che nell'esistenza si possa sempre ripartire».
Come nella sua vita?
«A 19 anni ho scritto il mio primo romanzo. Piacque molto a Sciascia ma lo misi nel cassetto e sta ancora lì. Poi sono andato avanti come in una specie di strabismo attraverso discipline diverse. Mai conforme e sempre anomalo, un po' come Toni Servillo, il protagonista di Viva la libertà e ingiustamente non premiato ai David anche se naturalmente sono contento per Valerio Mastandrea».
Come mai, lei che è così «transmediale», non ha mai fatto tv?
«Mi è stata proposta varie volte ma la narrazione da noi è molto conformistica. Tutto è giocato sullo struggimento privato. Potrei accettare solo se fossi coinvolto nel progetto fin dall'inizio, dalla sceneggiatura».
Intanto continua con l'opera lirica, la sua passione. Ma è una proposta ancora contemporanea?
«Certo, a Torino all'inizio del prossimo anno farò Il flauto magico. L'opera è straordinaria proprio perché propone un paesaggio che lo spettatore pensa di ritrovare sempre uguale ma la scommessa del regista è di cambiarlo sempre. Come quando in Viva la libertà ho inserito la popolare La forza del destino di Verdi che rappresenta perfettamente il carattere dell'italiano e con cui lo spettatore si riconosce, come se galleggiasse dentro un liquido amniotico».
E il teatro?
«Connesso con l'opera. A Palermo il 23 ottobre con Sette storie per lasciare il mondo con Marco Betta, musicista di Viva la libertà, storie di persone che scompaiono, con la novità che lo spettatore vedrà sul palco su due schermi sette film che sostituiscono il libretto».
Cosa risponde a chi dice che la lirica drena molte risorse dello Stato?
«Conosco bene il mondo dell'opera. Ci vorrebbe molto più coraggio da parte dei sindacati che in questo sono molto conservativi. Ci vuole una scossa perché ci sono cose rinunciabili. Un teatro si apre quando c'è uno spettacolo. Invece i costi fissi sono altissimi».
E il sostegno alla cultura? A Taormina ha lanciato un grido di allarme.
«Sono fiducioso nel ministro Bray ma, come diceva Fellini, non possiamo tollerare di prendere i pugni in faccia. La battaglia sul ripristino del tax credit dimezzato alla produzione dei film è sacrosanta. Lo Stato deve preservare un'idea di civiltà e fare delle scelte strategiche. Poi il singolo artista deve costruirsi il suo percorso. Magari senza troppi aiuti si può trovare in una condizione più giusta e stimolante».
Il "Mein Kampf" ritorna. Ma come oggetto di studio. I diritti sul libro, detenuti dalla Baviera, sono scaduti e la "bibbia del nazionalsocialismo" viene ripubblicata in Germania, e non solo. Senza questo testo è difficile capire l'ascesa di Hitler, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 08/06/2016, su "Il Giornale". Un oggetto tabù, eppure un documento storico fondamentale. Un libro che fa paura e che si teme sempre possa ispirare nostalgici del totalitarismo, eppure anche un testo senza il quale diventa difficile spiegare la Shoah o l'attacco nazista alla Russia sovietica. Stiamo parlando del Mein Kampf, il manifesto politico che Adolf Hitler iniziò a stendere, con l'aiuto di Rudolf Hess, in carcere, a Landsberg am Lech, dopo il velleitario (e fallito) colpo di Stato di Monaco del 9 novembre 1923. Il primo volume venne pubblicato nel 1925 (il secondo l'anno dopo) dalla casa editrice Franz Eher di Monaco, dopo che il direttore editoriale Max Amann pretese una riscrittura dell'elaborato, roboante e farraginoso, dell'aspirante dittatore (un autodidatta con talento per i discorsi ma scarse doti letterarie). Il testo ebbe, dopo una partenza stentata, un'enorme fortuna editoriale parallela al diffondersi del partito nazista. Giusto per fare un esempio, sino all'ascesa al potere di Hitler nel 1933 erano state vendute circa 241mila copie che superarono rapidamente il milione una volta che Hitler divenne cancelliere. E non solo in Germania. Il testo (la prima edizione italiana abbreviata rispetto all'originale è del 1934 per i tipi di Bompiani), intriso di antisemitismo e razzismo, ebbe enorme diffusione mondiale, sia tra gli ammiratori del dittatore tedesco sia tra chi voleva conoscere il proprio nemico. Charles De Gaulle nel 1939 urlava inascoltato che le difese francesi fossero insufficienti per fermare l'avanzata nazista, ripeteva: "Ci salteranno alla gola, io lo so: ho letto il Mein Kampf". Nessuno gli diede retta. Dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della "Bibbia del nazionalsocialismo". I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l'edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae. Scopo dichiarato e promosso proprio dalla Baviera: smontare il mito, strumentalizzato dai neonazisti, che aleggia attorno al manifesto del Führer. Ma le logiche di mercato hanno subito scavalcato gli intenti filologici e pedagogici. E così la prima edizione legale in Germania dal 1945 (due volumi di 2mila pagine con 3.500 note critiche) ha scatenato una corsa all'acquisto dell'oggetto di "culto": la prima tiratura - 4mila copie - è andata esaurita il primo giorno, l'8 gennaio. I librai tedeschi non hanno fatto neppure in tempo a ricevere i volumi, già tutti prenotati. Anzi, una delle prime copie è stata rivenduta su Amazon per quasi 10mila euro. Del resto anche il costo del libro, pubblicato e curato dall'Istituto di Storia contemporanea di Monaco, è elevato: 59 euro. Eppure dal giorno di uscita è tra i cento libri più venduti in Germania (anche se la maggior parte dei librai ha deciso di non esporre il testo, vendendolo solo su richiesta). Chiaro dunque che la decisione di ridare alle stampe il Mein Kampf (che in edizione pirata è sempre circolato) non abbia mancato di suscitare polemiche. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, ne ha sostenuto l'utilità: "Il commento critico mostrerà con quali teorie e tesi, false, abbia lavorato Hitler". E in Germania si sta anche molto discutendo sulla forma nella quale reintrodurre lo studio del testo, ovviamente a scopo storico, nelle scuole. Per altro in Germania le edizioni non commentate del Mein Kampf restano vietate. Ma pochi giorni fa un editore di Lipsia, come riportato da Bild, ha deciso di pubblicare il Mein Kampf nell'edizione originale, senza alcun commento a supporto. Si tratta della casa editrice di estrema destra Der Schelm (letteralmente il "briccone"). La procura di Bamberga ha aperto un'inchiesta. Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto.
Il Mein Kampf sabato in edicola con il Giornale. Polemiche in tutta Italia, scrive Antonio Panullo su “Il Secolo D’Italia”, venerdì 10 giugno 2016. Polemiche – prevedibili – dopo che il Giornale ha deciso di regalare una copia del Mein Kampf, da sabato, a chiunque acquisterà una copia del quotidiano. In realtà l’operazione è più complessa, e rientra in operazioni culturali che il quotidiano fondato da Indro Montanelli ha sempre compiuto. Il Giornale, infatti, dopo aver allegato La storia del fascismo di Renzo De Felice, e altre collane storiche, adesso inizia la pubblicazione di una serie di volumi dedicati al Terzo Reich. Il primo titolo è Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo di William Schirer, acquistabile a 11,90 euro. In più ci sarà il Mein Kampf nell’edizione originale, pubblicata in Italia da Bompiani nel 1934, con la prefazione critica di Francesco Perfetti. La comunità ebraica protesta: «Sono molto perplesso. Questo è un libro che non si può regalare con un giornale, come se fosse un romanzo da leggere sotto l’ombrellone, ma è un testo che va maneggiato con molta cura. Se vogliamo leggerlo e studiarlo, facciamolo, ma con i mezzi culturali necessari», ha osservato Ruben Della Rocca, vicepresidente della comunità ebraica romana». Da parte sua il deputato del Pd Emanuele Fiano, che ad Auschwitz ha perso buona parte della sua famiglia, dice: «Penso sia sbagliato, offensivo verso la memoria dei morti e al limite della collaborazione con quell’ideologia. Non è un testo che può essere pubblicato, addirittura regalato, così alla leggera. Che bisogno c’era un’operazione del genere?». Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia Renzo Gattegna sostiene che «la distribuzione gratuita nelle edicole del Mein Kampf, domani accompagnato al quotidiano Il Giornale, rappresenta un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza. Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente. E bisogna soprattutto che a dirlo sia chi è chiamato a vigilare e a intervenire sul comportamento deontologico dei giornalisti italiani», conclude Gattegna. Il Mein Kampf è tornato nelle librerie dopo 70 anni. Da notare che alla scadenza dei diritti – il 31 dicembre 2015 – in Germania il libro del Fuehrer tornato nelle librerie dopo 70 anni con un’edizione commentata di circa 2000 pagine che ha scalato le classifiche. Il quotidiano milanese da parte sua ha così spiegato la scelta editoriale: «La scelta di allegare il Mein Kampf alla collana di opere sul nazismo in edicola da sabato con il Giornale (otto volumi a 11,90 euro più il prezzo del quotidiano) fa discutere. Ma il libro-manifesto della follia xenofoba e antisemita di Adolf Hitler è un documento fondamentale per capire l’orrore della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Il politologo Giorgio Galli, esperto dei legami tra nazismo ed esoterismo, spiega le origini del libro più maledetto della storia: “Hitler fu l’ultimo teorico della guerra tra razze. Questo libro non ha nulla di proibito e vietarlo lo ha reso solo più interessante”». Il giorno prima in un altro articolo sul Giornale Matteo Sacchi aveva così concluso il suo articolo Il Mein Kampf ritorna. Ma come oggetto di studio: «Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto». Dall’articolo in questione apprendiamo anche che «dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della “Bibbia del nazionalsocialismo”. I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l’edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae». Adesso probabilmente anche le copie del Giornale andranno a ruba.
Il Giornale regala il Mein Kampf. Esplode la polemica. La comunità ebraica insorge: "Fatto squallido". Sallusti replica: "Non deve essere un tabù, per capire il male bisogna storicizzarlo", scrive “Il Tempo” l’11 giugno 2016. A partire da oggi, sabato 11 giugno, Il Giornale è in edicola una collana dedicata alla storia del Terzo Reich che si articolerà in 8 volumi con uscita settimanale. Il primo titolo in edicola è "Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo". In omaggio con il volume, viene distribuito il testo originale di Mein Kampf di Adolf Hitler, nell'edizione critica a cura del professor Francesco Perfetti. Tale decisione ha generato scalpore, scatenando l'ira della Comunità Ebraica e del presidente del Consiglio. "Un fatto squallido" ha commentato Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. "Non aver paura di storicizzare" replica il direttore del quotidiano, Sallusti. Sul caso è intervenuto anche Renzi su Twitter: "Trovo squallido che un quotidiano italiano regali il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio più affettuoso alla comunità ebraica #maipiù". La polemica "Se ce lo avessero chiesto, avremmo consigliato loro di distribuire libri molto più adeguati per studiare e capire la Shoah” riferiscono fonti dell’ambasciata d’Israele a Roma. E Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità Ebraiche Italiane, commenta come la distribuzione del testo sia "un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza". Gattegna poi rincara la dose dicendo che: "Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente". Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme gli fa eco: "Che qualcuno abbia pensato di usare il Mein Kampf per accrescere le vendite è un fatto senza precedenti e allarmante". Non si stupisce delle reazioni il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Che replica: "Per capire com’è potuto nascere il male assoluto, bisogna andare alla fonte e non aver paura di storicizzare le tragedie del Novecento. Non avrei problemi, per dire, a pubblicare anche il Libretto rosso di Mao".
Il Mein Kampf in edicola: tutto quello che non sapete. Imparare dagli errori del passato è un nostro dovere. Ecco perché pubblichiamo il manifesto di Hitler, scrive "Il Giornale", Sabato 11/06/2016. È un assioma ricorrente nei manuali di strategia: per sconfiggere il nemico bisogna conoscerlo. E così, se si vogliono comprendere i crimini del nazismo, bisogna leggere il Mein Kampf. Poche storie. Il romanziere scozzese Bruce Marshall, tra i migliori a raccontare i drammi e le aberrazioni della Seconda Guerra Mondiale, lo ripete più volte nei suoi libri: molto si sarebbe potuto salvare se i Capi di Stato del Novecento si fossero presi la briga di leggere questo libro. Sia chiaro: quella che esce oggi con Il Giornale non è la prima edizione italiana del libro di Hitler. Le edizioni Kaos lo hanno stampato anni fa e su Amazon si può acquistare per pochi spiccioli. Chiunque può acquistarlo con un clic. Quindi perché adirarsi? Critiche (legittime) sono arrivate dalla comunità ebraica, ma ad esse ha già risposto il direttore di questo quotidiano, Alessandro Sallusti. Ma, dato il can can mediatico che è stato sollevato in queste ore, val la pena fare alcune precisazioni. Il Mein Kampf allegato a Il Giornale non è gratuito. Chi lo vorrà leggere dovrà acquistare il primo volume della collana sull'ascesa e declino del Terzo Reich scritta da William Shirer, e con note critiche e commenti del professor Francesco Perfetti, docente di storia contemporanea riconosciuto a livello internazionale. La storia sul nazionalsocialismo che uscirà in queste settimane non è certo un'apologia. Anzi...Proprio la lettura di questi libri servirà a dare la giusta lettura al Mein Kampf. Proprio questo mese è uscito in Italia un film interessante, "Lui è tornato", tratto dall'omonimo libro. "Lui" è ovviamente Hitler. Quella tratteggiata nel film è una società distopica, dove il Führer torna e fa il pieno di successo. Per realizzare questa pellicola sono state utilizzate anche scene improvvisate, in cui l'attore che impersona Hitler interagisce con ignari passanti. Chi ha visto il film può confermarlo: molti, ancora oggi, elogiano il dittatore tedesco. I motivi possono essere più disparati, ma sono tutti riconducibili all'ignoranza. Siamo abituati a pensare che Hitler abbia agito così in quanto pazzo: nulla di più falso. Quello del Führer era un piano lucido e criminale. Ottant'anni fa, abbiamo sottovalutato il problema. Non abbiamo letto il Mein Kampf e ci siamo trovati dall'oggi al domani con milioni di morti e una guerra mondiale. Evitiamo di farlo anche oggi.
Capire il Mein Kampf perché non torni più. Con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 11/06/2016, su "Il Giornale". C'è un pezzo di storia che fa ancora paura solo a parlarne. Ed è comprensibile perché gli uomini fanno scattare una legittima difesa contro il male assoluto. Parliamo di Hitler e del nazismo, la più grande tragedia - insieme al comunismo staliniano - del Novecento e tra le più orrende della storia intera del mondo. Milioni di ebrei sterminati nelle camere a gas, milioni di tedeschi mandati a morire per una causa aberrante, milioni di uomini liberi morti per estirpare dall'Europa questo cancro. Tutto ha inizio con un farneticante libro scritto nel 1925 dal futuro Führer e tragicamente noto come Mein Kampf, tradotto «La mia battaglia». Il 31 dicembre 2015 sono scaduti i diritti d'autore sul testo, diritti che erano stati affidati al governatorato della Baviera, che per settant'anni ne aveva vietato la pubblicazione. A gennaio l'Istituto di storia contemporanea di Monaco ha deciso di ripubblicare il testo a fini storici in una edizione commentata con l'avallo del presidente delle comunità ebraiche tedesche. In questi giorni si sta discutendo se adottare questo testo nei piani di studio delle scuole superiori. Abbiamo deciso di ripetere l'operazione per l'Italia, rieditando il testo originale stampato dalla Bompiani nel 1938 che oggi, per chi vorrà, è in edicola insieme al quotidiano e al primo numero di una collana dedicata alla storia del Terzo Reich. Ovviamente si tratta di un'edizione commentata. La guida critica alla lettura è del professore Francesco Perfetti, una delle massime autorità nel campo della storia contemporanea. La sola notizia di questa pubblicazione ha già suscitato polemiche, la maggior parte delle quali legittime e comprensibili, e le preoccupazioni degli amici della comunità ebraica italiana, che ci ha sempre visto e sempre ci vedrà al suo fianco senza se e senza ma, meritano tutto il nostro rispetto. Escludo però che ad alcuno possa anche solo sfiorare l'idea che si tratti di un'operazione apologetica o anche solo furba. Non si gioca su una simile tragedia. Semmai il contrario. Perché, con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale. Cito Perfetti: «Al mondo politico, ma anche a quello intellettuale dell'Europa del tempo, può essere oggi rimproverato il fatto di non avere letto in maniera approfondita l'opera e di non averne quindi compreso appieno la dimensione aberrante destinata, come la storia avrebbe tragicamente dimostrato, a minare in profondità le fondamenta del mondo civile». Studiare il male per evitare che ritorni, magari sotto nuove e mentite spoglie. Questo è il senso vero e unico di ciò che abbiamo fatto.
Quanta polemica per un libro venduto pure alla Feltrinelli. Social divisi sulla promozione del «Giornale». Lerner s'infuria ma quando uscì in Germania disse: è giusto, scrive Giuseppe Marino, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". C'è uno scandalo nel mondo dei media italiani: una nota società editoriale lucra sul Mein Kampf. È la Feltrinelli. Basta cliccare sul sito della libreria on line e cercare il titolo per veder spuntare bene in evidenza il volume pubblicato da «Edizioni clandestine» con tanto di talloncino della promozione «-15%», autore «Hitler Adolf», disponibile in cinque giorni a soli 10,20 euro. E per giunta, a differenza di quella allegata al Giornale insieme a una collana storica firmata da autori di solida fama come William Shirer, quella venduta dall'editore simbolo della sinistra non è un'edizione critica ma il testo integrale. Ma niente da fare, l'occasione per accendere uno scandalo di plastica era troppo ghiotta. Come poteva non caderci Gad Lerner? E infatti sul suo blog consegna ai posteri un giudizio lapidario: «Alessandro Sallusti che distribuisce in edicola il Mein Kampf di Hitler conferma il suo talento nel fare la caricatura di se stesso». Eppure, nello scorso dicembre, in occasione della prima pubblicazione del testo base del nazismo dopo la decadenza dei diritti d'autore, lo stesso Lerner si dichiarava favorevole: «Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato». Nello stesso articolo del Fatto Quotidiano, si esprimevano anche il politologo Piero Ignazi («Era ora») e lo storico Gian Enrico Rusconi («Un segno di maturità»). Il Mein Kampf del resto non è affatto un pamphlet clandestino. In Italia l'edizione più nota è quella critica curata dal politologo Giorgio Galli per i Tipi della «Kaos», accompagnata da parole sagge: «Questa riedizione del Mein Kampf ha un triplice significato. Il rifiuto etico-intellettuale di ogni tabù e di ogni forma di censura. La storicizzazione di un testo la cui lettura deve rappresentare un imperituro monito. La denuncia di rimozioni e mistificazioni all'ombra delle quali si vorrebbero legittimare disinvolti quanto pericolosi revisionismi storiografici». E ancora: «È opinione diffusa che sia un libro dell'orrore, un compendio di farneticazioni. Si può continuare a ritenerlo tale, ma solo dopo averlo letto». Il libro è tra l'altro accompagnato da una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell'Aned, Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti. E che dire del settimanale Focus, che dopo lo scoppio della polemica sull'iniziativa del Giornale, pubblica un vademecum sul «Mein Kampf in pillole» per «non doverlo per forza avere in casa». Lecita iniziativa giornalistica o speculazione? Al di là delle strumentalizzazioni, quelle di chi approfitta di un'iniziativa editoriale per scatenare una polemica da proiettare sul voto alle amministrative, sembra uno scherzo ma davvero nel Pd c'è chi attacca Parisi per questo (e che c'entra?), in tutto il dibattito un punto fermo c'è. Il manifesto hitleriano, comprensibilmente avversato dalle comunità ebraiche, che pure si divisero sul tema della ripubblicazione in Germania, non è mai stato un libro clandestino. Si trova da scaricare on line e, secondo l'associazione hateprevetion.org, ha venduto 70 milioni di copie nel mondo, dal 2008 a oggi. Nonostante questo non trascurabile dato di fatto, la vicenda ha incendiato il dibattito sui social network, con la consueta singolar tenzone parolaia. Quella organizzata (gli account collegati al Pd si sono dati un gran daffare a twittare e ritwittare) e spontanea ironia. Vedi Fulvio Abbate: «La prossima settimana offrirà ai lettori il dissuasore elettrico a bastone». Ma anche tanti che hanno capito il gioco di chi strumentalizza. E replicano in modo altrettanto graffiante. Come «Re Tweet»: «Mi congratulo per la vostra battaglia contro la presenza del #MeinKampf nelle edicole. Khomeini sarebbe fiero di voi».
Veri ipocriti e falsi moralisti. Trovo preoccupante che Renzi non sappia che il Mein Kampf si può acquistare da tempo in libreria, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Matteo Renzi ha definito «squallida» l'iniziativa de Il Giornale di allegare, all'interno di una collana storica, una edizione commentata del Mein Kampf, atto fondativo di quella tragedia che fu il nazismo. Evidentemente il presidente del Consiglio in vita ha letto tanti fumetti - e questo lo si capisce -, ma pochi libri. Certamente non ha letto Se questo è un uomo di Primo Levi, nel quale, a proposito dell'Olocausto, si legge: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Trovo poi preoccupante che Renzi non sappia una cosa nota a tutti, cioè che il Mein Kampf lo si può acquistare già da tempo in molte librerie, quelle della Feltrinelli comprese, e con un clic su Amazon. I negazionisti rimuovono la storia scomoda, gli uomini liberi la affrontano, la studiano, la giudicano con la severità che merita. Potremmo ricordare a Renzi che squallido è non pagare i debiti che lo Stato ha con le imprese o illudere i pensionati che presto avranno 80 euro in più. Ma mischieremmo il sacro con il profano. Non possiamo però tacere, a proposito di storia, su quanto sia stato squallido, oltre che pericoloso, ricevere a Roma pochi mesi fa con tutti gli onori (e oscuramento delle statue marmoree dei Musei Capitolini per non offenderlo) Hassan Rouhani, presidente dell'Iran, cioè di un Paese che nega il diritto all'esistenza di Israele e che sul popolo ebraico getterebbe volentieri una bomba atomica per arrivare alla soluzione finale alla pari di Hitler. Alla stupidità di Renzi preferisco la coerenza di Stefano Fassina, uno degli ultimi comunisti ancora in circolazione. Dice Fassina: voglio vedere se Il Giornale avrà il coraggio di pubblicare i diari di Anna Frank. Per noi non si tratta di coraggio, questo giornale è dalla parte di Anna nella storia e anche oggi, ma accetto volentieri il suggerimento e, compatibilmente con i problemi di diritti d'autore, farò il possibile perché ciò accada. Dal Mein Kampf al Diario di Anna Frank, dal male assoluto al sogno di libertà. Ma se mi permettono Renzi e Fassina, punterei alla trilogia. Un'ultima uscita con un libro che rivendichi il diritto di Israele a esistere senza essere quotidianamente minacciato e ferito dal terrorismo palestinese e dall'ostile e complice indifferenza di buona parte della sinistra occidentale. Perché altrimenti tutta questa levata di scudi è soltanto l'ennesima presa per i fondelli.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano dell’11 giugno 2016: vi dico perché ora rischia la galera mezza Italia. In Italia si può negare l'esistenza di dio, ma non si può dubitare della versione ufficiale di un fatto storico, anzi, di alcuni fatti storici, anzi, di uno in particolare. È questa l'obiezione insuperabile alla legge sul negazionismo approvata l'altro giorno (237 sì, 5 no, 102 astenuti) che beninteso, è una legge di ornamento, serve a farsi belli e ad accontentare una minoranza: ma siccome le leggi poi gravano sul groppone di tutti, eccoci qui a dimostrare come una norma-bandiera sia destinata a restare disapplicata o a produrre assurdità o, più probabilmente, a essere risvegliata solo quando si parla di Shoah. Nel dettaglio: la norma introduce la galera da 2 a 6 anni quando la propaganda e l'incitamento all' odio razziale si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Già qui salta all' occhio il primo pasticcio: si citano «la Shoah o i crimini di genocidio» come se appartenessero a una classificazione storica diversa. Non è un caso che il principale promotore della legge sia stata l'Unione delle Comunità Ebraiche (ben decisa a separare eticamente "l'unicità" dell'Olocausto) e non è un caso neppure che la stessa Unione, nei suoi comunicati, abbia festeggiato la nuova legge citando solo la Shoah e nessun altro genocidio o crimine di guerra o contro l'umanità: e con ragione, perché il significato politico dell'operazione era indirizzato a loro. Il problema è che la legge, letta nero su bianco, poi vale per tutti: e sulla definizione dei genocidi (altri genocidi) fioccano disaccordi di ogni tipo e a tutti i livelli. È anche per questo che nel suo complicato iter (la norma ha fatto la navetta col Senato per 3 ben volte) gli storici e i politici di ogni schieramento hanno condiviso ogni perplessità per qualcosa che lascerà ai magistrati l'arbitrio di decidere che cosa sia reato e che cosa no; una "verità di Stato" che potrebbe vanificare ogni dibattito controverso. Studiosi di sinistra come Marcello Flores, direttore dell'Istituto storico della Resistenza e curatore della Storia della Shoah per Utet, per dire, su questo si è trovato d'accordo con Carlo Giovanardi o con Pietro Ichino: si rischia, dicono, un pasticcio infernale. Esempi? Centinaia. Dovremmo incriminare, in teoria, Recep Erdogan non appena mettesse piede sul suolo italiano, visto che da sempre si ostina a negare il genocidio degli armeni - riconosciuto dalle massime autorità europee e mondiali - e ha pure promosso delle leggi contro chi ne ammetta l'esistenza. A ruota potremmo mettere sotto indagine il governo Renzi, che nel marzo dell'anno scorso, attraverso il Ministero dei Beni culturali, eliminò la parola "genocidio" da una rassegna dedicata al popolo armeno. Inquisito anche l'ex ministro Franco Frattini, che in passato definì quel genocidio solo «un massacro». In ordine sparso: in galera chiunque metta in dubbio (o apra una discussione) sui crimini di guerra che l'esercito italiano commise tra il 1931 e il 1943 in Cirenaica ed Etiopia; al macero tutti i libri, anche serissimi, che nelle biblioteche negano quei crimini come fece anche Indro Montanelli con l'uso dei gas italiani in Etiopia. Dentro, poi, chiunque non consideri genocidio i fatti di Srebrenica (alcuni giuristi lo contestano) e incriminati anche quei tribunali di Buenos Aires che negarono lo status di genocidio alla repressione dei militari argentini. Nessun problema, invece, per quei manuali che ancor oggi giustificano o "contestualizzano" i milioni di morti dello Stalinismo: la definizione di genocidio, in quel caso, è ancora ufficiosa. Persino Giorgio Napolitano scrisse cose imbarazzanti sul ruolo di Solzenicyn durante l'intervento sovietico a Budapest nel 1956: ci sarebbe da approfondire. Piergiorgio Odifreddi, firma di Repubblica, paragonò l'esercito israeliano e le SS delle Ardeatine: ci sarebbe da approfondire anche qui. Il quotidiano Il Giornale, tra qualche giorno, allegherà una copia del Mein Kampf come documento storico: sarà incitamento? Istigazione? La portavoce del Commissariato Onu per i rifugiati, Carlotta Sami, ma anche Emma Bonino e Gad Lerner, in passato paragonarono lo sterminio pianificato degli ebrei al dramma degli immigrati nel Mediterraneo: fu un buon paragone? Non è che rischiano, ora? Un tempo si rischiava di dire cazzate e basta, ora si rischia che a valutarle sia un giudice. Senza contare l'esperienza di quei Paesi occidentali in cui le leggi anti-negazioniste sono state applicate: la copertura mediatica dei processi che ne sono scaturiti, spesso, ha finito per diventare una tribuna per la propaganda delle tesi che venivano perseguite, e che altrimenti sarebbero state ignorate dall' opinione pubblica. Leggi fallite, in sostanza: l'Italia si è accodata subito.
Renzi si indigna: «Un regalo squallido». Però i veri antisemiti stanno a sinistra. Il premier condanna l'iniziativa con un tweet ipocrita Ma il 25 aprile la Brigata ebraica fu cacciata dal corteo, scrive MMO, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". «Trovo squallido che un quotidiano italiano regali oggi il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio affettuoso alla comunità ebraica. #maipiù». Così Matteo Renzi su Twitter va all'attacco del Giornale per la scelta di regalare il Mein Kampf con il primo volume della collana sulla storia del Terzo Reich. Ma il cinguettio del premier suona ipocrita, considerato che proprio nella sinistra italiana c'è un problema irrisolto - e difficilmente dichiarato - con l'antisemitismo, come testimoniano le puntuali quanto vergognose contestazioni della Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile (salutati al grido di «assassini» e «fascisti» a Milano poco più di un mese fa), per dirne una.
Comunali, il Pd milanese punta sull’islamismo politico. Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti: Pierfrancesco Majorino fotografato in questi giorni assieme a Sameh Meligy, legato ai Fratelli Musulmani, scrive Angelo Scarano, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti. Non sono bastati i collegamenti messi in evidenza dai media durante la campagna per le Comunali tra la candidata Sumaya Abdel Qader e i Fratelli Musulmani, non sono bastate le sue dichiarazioni contraddittorie nei confronti dell’organizzazione islamista e nemmeno i post equivoci del marito, Abdallah Kabakebbji, nei confronti di Israele, definita “una truffa” e un “errore storico”. La rete che collega la candidata del PD e “confratelli” a ambienti come CAIM, Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto, Waqf al-Islami, Associazione Donne Musulmane d’Italia (Admi) e Alleanza Islamica, nonché a Fioe, Femyso. Sarà forse un caso che il presidente del Caim, Maher Kabakebbji, nonché suocero di Sumaya, è anche presidente del Caim e del Waqf al-Islami? Sarà un caso che Maher e il figlio Abdallah (marito di Sumaya) venivano ritratti in foto con Rachid Ghannouchi, leader storico dei Fratelli Musulmani tunisini? Sarà una coincidenza che Souhair Katkhouda, moglie di Maher Kabakebbji, è la presidentessa dell’Admi? Entrambi erano inoltre agli eventi organizzati in nord-Italia per inaugurare moschee finanziate dalla Qatar Charity. E che dire della foto che ritrae il padre di Sumaya Abdel Qader, nonché imam di Perugia, a un evento ufficiale mentre stringe la mano dell’ex presidente egiziano ed esponente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi? Guarda caso diversi esponenti del Caim erano stati fotografati e filmati a manifestazioni a favore di Morsi, tra cui Omar Jibril, legato al Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto (gruppo molto attivo con iniziative a favore di Morsi). Omar Jibril e Sumaya Abdel Qader venivano recentemente fotografati a una riunione proprio con il candidato sindaco PD, Beppe Sala. Al momento Beppe Sala si è limitato a dire, durante un confronto televisivo con Parisi, che gli elementi in questione non sono dei Fratelli Musulmani, ma non ha ancora fornito chiarimenti riguardo ai collegamenti più che evidenti messi in luce dai media, così come Sumaya Abdel Qader non si è vista granchè sui grandi schermi e non ha chiarito le sue posizioni nei confronti dei matrimoni gay, delle adozioni, della repressione messa in atto dal governo-regime di Erdogan nei confronti di intellettuali, giornalisti, membri dell’opposizione e curdi. Tutti temi che, almeno in teoria, dovrebbero essere cari alla sinistra. Non dimentichiamo inoltre che in piena campagna elettorale il PD si è visto costretto a ritirare la candidatura di Sameh Meligy, pronto a correre per la zona 4 di Milano e fotografato assieme a Beppe Sala. Le polemiche erano scoppiate in seguito a una sua foto scattata assieme al predicatore legato ai Fratelli Musulmani kuwaitiani, Tareq Suwaidan, al quale è stato recentemente vietato l’ingresso in Italia poiché dal 2014 sulla blacklist dell’area Schengen e la cui enciclopedia illustrata sugli ebrei è ben più pericolosa del Mein Kampf. Meligy era inoltre apparso anche lui a manifestazioni pro-Fratelli Musulmani egiziani assieme a membri del Caim. Le posizioni islamiste intransigenti di Meligy sono ben note. Nonostante ciò, l’assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, è stato fotografato in questi giorni assieme a Meligy durante i volantinaggi del PD a favore di Beppe Sala. Meligy che è inoltre amico di Usama Santawy, predicatore noto non soltanto pro-Fratelli Musulmani, ma legato anche a personaggi come Musa Cerantonio, predicatore italo-australiano apologeta dell’Isis. Tutto ciò mentre i principi del Qatar, paese notoriamente legato ai Fratelli Musulmani e accusato di supportare i jihadisti in Siria, venivano in Italia a incontrare il Papa e a inaugurare centri islamici. Nel frattempo a Milano, dal 3 al 5 giugno, veniva ospitato a una conferenza organizzata dalla European Muslim Network, Tariq Ramadan, esponente dell’Islam “europeo” ma anche nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna. Non dimentichiamo che l’organizzazione dei Fratelli Musulmani è stata messa al bando in Russia, Egitto, Siria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi mentre in Gran Bretagna Cameron aveva fatto aprire un’inchiesta per avere maggiori informazioni sull’organizzazione. Il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani è niente meno che Hamas, che pochi giorni fa festeggiava l’attentato di Tel Aviv offrendo pasticcini agli incroci stradali di Gaza. Vista la delicata situazione internazionale, la presenza di elementi legati all’islamismo politico all’interno del PD andrebbe affrontata con le necessarie cautele. Gli elementi emersi non possono non far riflettere. Il PD milanese a questo punto deve fornire delle risposte immediate ed esaustive al riguardo che vadano oltre il “non sono dei Fratelli Musulmani”, visto che la questione è seria. Del resto essere dei Fratelli Musulmani in Italia non comporta reato, dunque, se non c’è nulla da temere, se non ci sono scheletri nell’armadio perché negare? Vale poi la pena considerare un elemento, musulmani e Fratelli Musulmani non sono sinonimi, dunque inglobare nel PD elementi legati a un’ideologia politica significa discriminare la maggior parte dei musulmani che credono e seguono una religione e non un’ideologia.
Nell'islam che noi tuteliamo non c'è spazio per la libertà. La strage in Florida mostra le nostre contraddizioni: difendiamo coloro che sottometteranno i nostri diritti, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale". Ecco quale sarà la sorte di noi italiani, noi europei, noi occidentali qualora sciaguratamente dovessimo essere sottomessi all'islam. A prescindere dal fatto che Omar Saddiqui Mateen, lo stragista del locale gay Pulse a Orlando, 29 anni, cittadino americano dalla nascita, di origine afghana, fosse o meno organico all'Isis o ad altre sigle del terrorismo islamico, è indubbio che la condanna a morte degli omosessuali corrisponda a ciò che Allah prescrive letteralmente e integralmente nel Corano, a ciò che ha detto e ha fatto Maometto, alla prassi nel corso di 1400 anni di storia dell'islam. A oggi tutti gli Stati islamici, nonostante abbiano formalmente sottoscritto la «Dichiarazione universale dei diritti umani», sanzionano in un modo o nell'altro l'omosessualità come reato, mentre la condanna a morte degli omosessuali è ufficialmente vigente in Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Nigeria, Sudan, Somalia e Mauritania. Non è affatto casuale che gli omosessuali siano vittime predilette sia dei terroristi islamici, che li lanciano dai tetti di edifici alti e poi vengono lapidati a morte, sia di Stati islamici che noi occidentali consideriamo addirittura «moderati», che li impiccano ostentatamente nelle pubbliche piazze di fronte alle moschee dopo la preghiera collettiva del venerdì. Succede perché tutti i musulmani sono tenuti a sanzionare il rapporto anale definito «liwat», a prescindere dal sesso di chi lo subisce, dove l'omosessuale è indicato come «luti», dal nome di Lot, nipote di Abramo, che per l'islam è un profeta, salvato da Allah dopo aver distrutto Sodoma e Gomorra. Nel Corano (27, 55-58) si legge: «V'accosterete voi lussuriosamente agli uomini anziché alle donne? Siete certo un popolo ignorante! Ma la sola risposta del suo popolo fu: Scacciate la famiglia di Lot dalla vostra città, poiché son gente che voglion farsi passare per puri. E noi salvammo lui e la sua famiglia, eccetto sua moglie, che stabilimmo dovesse restare fra quelli che rimasero indietro. Su di essi facemmo piovere una pioggia: terribile è la pioggia che piove su chi fu ammonito invano!». Così come a Maometto viene attribuito il detto: «Se scoprite chi commette il peccato del popolo di Lot, uccidete chi lo compie e chi lo subisce». È pertanto paradossale che dentro casa nostra siano proprio i paladini più intransigenti dei diritti dell'uomo e persino gli stessi omosessuali, guarda caso quasi tutti schierati a sinistra, a mobilitarsi per la piena legittimazione dell'islam, per la proliferazione delle moschee e persino per la presenza di tribunali islamici che emettono sentenze sulla base della sharia che, in generale, disconosce i diritti fondamentali alla vita, alla dignità, alla libertà di tutti e, in particolare, condanna a morte gli omosessuali. Un caso emblematico è quello del presidente della Regione della Sicilia Rosario Crocetta, dichiaratamente omosessuale, che sta promuovendo la reislamizzazione della Sicilia, consentendo in particolare all'Arabia Saudita e al Qatar di investire decine di milioni di euro per la costruzione di nuove moschee. All'amico Crocetta ricordo che a oggi può professarsi orgogliosamente omosessuale solo perché per sua fortuna si trova su questa nostra sponda del Mediterraneo, dove vige una civiltà laica e liberale dalle radici cristiane, ma se malauguratamente anche da noi dovesse prevalere l'islam gli omosessuali farebbero la stessa fine delle vittime del locale gay di Orlando. Perché è l'islam che lo prescrive, a prescindere dal fatto se il carnefice è un individuo o uno Stato, un terrorista o un «moderato».
Prostituzione culturale. L’Europa e il neo oscurantismo islamico, scrive Michael Sfaradi il 26 gennaio 2016. Roma, 26 Gennaio 1564. Avete letto bene la data, non è un refuso. Questa mattina siamo tornati indietro di ben quattrocentocinquantadue anni, e al punto in cui siamo arrivati l’Italia non esiste più e chi comanda a Roma è Papa PIO IV. Il concilio di Trento ha deciso che le nudità nell’arte non sono più ammesse e il pittore Daniele da Volterra, detto il Braghettone, armato di pennelli sta coprendo le nudità della Cappella Sistina. Per cui la data è giusta e io non sono impazzito. Fino a ieri, 25 Gennaio 2016, la discussione era sull’opportunità di ricevere il presidente di una nazione come l’Iran dove ogni anno, dopo processi sulla cui legalità internazionale e in sfregio a ogni diritto universale dell’uomo, centinaia di persone vengono impiccate. Molte delle quali finiscono con il penzolare dalle gru per la sola colpa di essere omosessuali. Nei mesi immediatamente precedenti, fra il Dicembre 2015 e il Gennaio 2016, c’è stata anche un’accesa discussione sul fatto che alcune giornaliste o donne politiche italiane e europee in visita a Teheran si fossero coperte il capo con il velo come detta l’usanza imposta in quei luoghi anche se sul Corano non c’è nessuna indicazione di questo tipo. Questa mattina però tutte le discussioni dei giorni scorsi hanno perso di ogni significato perché la gravità di ciò che le autorità italiane hanno deciso ha superato ogni limite, sia della fantapolitica che della decenza, e ci hanno trasportato indietro nel tempo in una situazione così surreale che anche a distanza di ore è difficile credere che sia successo davvero. Qualcuno pensa che criticare Renzi e il suo esecutivo dopo le innumerevoli vicissitudini di carattere politico, economico e di contrasto di interessi vari, ad esempio il salvataggio delle banche di cui una del padre di un suo ministro, di cui si è reso protagonista sia come sparare sulla Croce Rossa, ma dopo che il Governo Italiano ha dato ordine di coprire le nudità delle opere d’arte esposte nei Musei Capitolini di Roma per non offendere il Presidente Rohani in visita presso lo stesso museo, non solo bisogna sparare ma abbiamo anzi il dovere di farlo. E nella fattispecie usando anche l’artiglieria pesante. La visita nella città eterna da parte del leader iraniano è una delle dirette conseguenze della firma di accordi che hanno visto sul tavolo delle trattative volpi politiche, gente in malafede e dilettanti allo sbaraglio. Una delle prove, ce ne sono molte ma cito solo l’ultima in ordine di tempo, è che prima della firma dell’accordo il Segretario di Stato John Kerry tranquillamente dichiarava di essere sicuro che i soldi della fine delle sanzioni sarebbero stati usati da Teheran per salvare la sua economia, e poi a giochi fatti lo abbiamo risentito ammettere, altrettanto tranquillamente, che indubbiamente parte del denaro finirà in mano ai Pasdaran e da lì a finanziare il terrorismo. Se è lo stesso fautore degli accordi ad ammettere che ci sono delle ‘opacità’ possiamo credergli e nel contempo ringraziarlo di averci confermato tutti i dubbi che avevamo su di lui e sul suo operato. Ma il terrorismo che colpisce, e l’assurdo è che potrebbe anche essere l’Europa o gli stessi USA a finanziare proiettili o esplosivo, può colpire anche in maniera molto pesante ma per quanto sconvolgente e sanguinoso possa essere non può riuscire a cambiare storia e cultura di una nazione o di un continente intero. Quello che può farlo invece è il prostituirsi in maniera così palese nei confronti della controparte facendo chiaramente passare il messaggio di sottomissione totale che dice: “Noi a casa tua facciamo come dici tu e tu a casa nostra fai come ti pare e anzi ti aiutiamo a farlo”. Perché coprire le opere d’arte che sono la testimonianza tangibile della cultura occidentale davanti a chi in casa propria pretende rispetto delle proprie usanze significa svendere il proprio essere, e l’ottenimento di contratti di affari, anche lucrosi, non può prescindere dal rispetto di se stessi e della proprio storia. Coprire quelle statue e quei dipinti è stato come coprire se stessi, è stata una dichiarazione di vergogna di quello che siamo e di come ci siamo diventati, e chi ha dato ordine di mettere quelle coperture si è reso complice di uno dei peggiori atti di terrorismo possibili, un attacco che anche se non ha versato neanche una goccia di sangue ha gravemente ferito secoli di progresso umano. Fino ad oggi pensavamo che i tempi dell’oscurantismo papale fossero finiti dal almeno quattrocento anni, ci sbagliavamo. Oggi abbiamo avuto l’ennesima prova che nessuna conquista è per sempre e che ogni passo avanti verso la libertà può essere messo in discussione e che questo può essere fatto da chiunque, perfino da colui che è stato il sindaco di Firenze.
Quei veli sulle nudità dei musei capitolini. Eccesso di zelo per non turbare l’ospite. Statue millenarie coperte: web e opposizione scatenati contro il governo. Ai Musei capitolini ci sono capolavori dell’antichità classica come la Venere capitolina e la Venere esquilina, scrive Mattia Feltri su "La Stampa” il 27 gennaio 2016. I poveri ragazzi di Palazzo Chigi non sapevano più che rispondere a Bbc e Cnn, e altre emittenti dal mondo, e testate giornalistiche varie, tutte molto interessate al caso delle statue dei Musei capitolini nascoste con pannelli perché le marmoree nudità non offendessero il presidente iraniano, Hassan Rohani. Infatti non hanno più risposto. E l’imbarazzo dov’essere lievitato fino alle sommità del governo, mute davanti agli impietosi e comodi rimproveri arrivati dalle opposizioni. La notizia che Matteo Renzi avesse fatto inscatolare la Venere capitolina e qualche altra statua altrettanto impudica, e l’indiscrezione che avesse fatto chiudere la sala Pietro da Cortona con la Venere esquilina e un Dioniso discinti per un sovrabbondante rispetto delle sensibilità islamiche, ha eccitato forzisti e leghisti e fratelli d’Italia che, invece, il giorno prima non avevano nulla da ridire sulle cerimonie riservate al capo di uno Stato che ammazza, mutila e tortura dissidenti e omosessuali, che lapida le donne adultere, anche se adultere contro la loro volontà, e che non riconosce l’esistenza dello Stato d’Israele. Il dettaglio non soltanto numerico di queste pratiche era stato diffuso da Nessuno tocchi Caino, invano: come al solito la politica ha seguito tortuose viuzze, forse perché ai suoi tempi Silvio Berlusconi non era stato meno benevolo con dittatori anche mediorientali. Però non si era mai spinto su così raffinate vette di piaggeria (le critiche al capo di Forza Italia arrivarono per motivi opposti: impietosito dalle amputazioni, aveva ridotato una statua di Marte con mezzi posticci). Fra l’altro non si è ben capito se le statue siano state occultate su richiesta degli iraniani o per eccesso di zelo degli italiani: secondo qualche spifferata è uno studiato omaggio del nostro governo, secondo spifferate ulteriori si è deciso tutto dopo un sopralluogo ai musei dello staff di Rohani: comunque, quando lunedì sera il presidente ha percorso il corridoio che doveva condurlo al luogo della conferenza stampa, gli è stata risparmiata la vista sconveniente di opere d’arte ignude da due millenni e mezzo. E così non soltanto la politica: come si dice in questi casi, «si è scatenata l’ironia del web». Si è ricordato al presidente del Consiglio la promessa di spendere un euro in cultura per ogni euro speso in sicurezza, gli si è ricordato il grido di vaporoso orgoglio dopo gli attentati di Parigi a dicembre («la bellezza è più forte della barbarie»), il precedente di un paravento gigliato che risparmiò le mascolinità di una scultura di Jeff Koons a un principe saudita, e lo si è irriso con una sfilata di immagini: il David di Michelangelo in mutande, la Venere di Milo col reggiseno, e poi l’album della storia dell’arte occidentale, nudo dopo nudo. Dunque: l’ironia delle minoranze, l’ironia del web e infine l’ironia di testate straniere come il Figaro che nell’edizione on line ha cominciato il pezzo ricordando un motto internazionale: «A Roma fai come fanno i romani», regola unica per sopravviverci. E stavolta no: a Roma si fa come dicono gli iraniani, compresa una cena senza vino quando - ricorda ancora il Figaro - a Parigi una simile occasione fu cancellata per evitare collisioni fra laïcité e sharia. Stavolta si ha più l’impressione che la sharia abbia vinto per compiacente abbandono dell’avversario: gli affari in miliardi di euro che si prevede scaturiranno dagli incontri di questi giorni hanno consigliato a Renzi di ingoiarsi tante prese in giro. E a sera, prima dei tg, dead line per ogni dichiarazione importante, nessuno del Pd aveva ancora cercato di metterci una pezza, e pure qui verrebbe una battuta, ma ve la risparmiamo.
Arriva Rohani, l’omofobo. Si coprono le statue e nessuno scende in piazza, scrive "Tempi”. Tutti in piazza per le unioni civili, ma nessuno per protestare contro la visita del presidente di un paese dove gli omosessuali sono perseguitati. «Soltanto tre giorni fa qualche centinaio di migliaia di italiani era in piazza per manifestare a favore dei diritti omosessuali, non ancora riconosciuti in Italia, non a sufficienza. Si parla con agio di medioevo, si definiscono trogloditi gli oppositori, ci si infiamma di sdegno perché sul Pirellone a Milano compare la scritta “Family Day”. Poi arriva in visita ufficiale il presidente iraniano Hassan Rohani (è arrivato ieri) e tutto questo fermento è già indolenzito nel torpore dei giorni feriali». Scrive così oggi, sulla Stampa, Mattia Feltri. Certo, ci sono i soldi (affari per 17 miliardi di euro, si dice), ma Feltri non può fare a meno di notare come in un battibaleno «i rutilanti caroselli di sabato si siano spenti, la riprovazione per l’arretratezza culturale italiana è evaporata, non importa che Rohani sia presidente di una Repubblica islamica nella quale gli omosessuali vengono impiccati in piazza, appesi alle gru». Sono cose che accadono non di rado nel mondo musulmano (si pensi, solo per fare un esempio, agli omosessuali gettati dalle torri di Raqqa dai jihadisti dello Stato Islamico). Ma non solo lì, appunto. L’Iran è il paese dove se un omosessuale viene scoperto «si prende cento frustate (se il rapporto era casto e si pente) oppure viene messo a morte (se il rapporto era completo). Purtroppo non ci sono statistiche sulle esecuzioni, perché è capitato che i gay, anche minorenni, venissero condannati sotto voci più generiche. Gli amanti del dettaglio troveranno soddisfazione nell’ultimo report di Nessuno tocchi Caino, associazione della galassia radicale: 980 condanne capitali soltanto nel 2015, soprattutto per traffico di droga e omicidio ma anche per reati politici e – come detto – di natura sessuale. E poi lapidazioni, torture, mutilazioni cioè l’intera casistica delle pene inflitte per dare soddisfazione a Dio». Gli unici che hanno protestato sono stati i radicali. E gli altri? «Le ragioni di una così straordinaria indifferenza sono difficili da comprendere», scrive Feltri. Già. Intanto, sempre oggi sono uscite le immagini dei pannelli con cui sono state ricoperte i nudi delle statue dei musei capitolini. Non sia mai che Rohani, passandovi di fianco, possa offendersi.
Statue coperte, Rohani: "Caso giornalistico, Italia Paese ospitale". Sel: "Renzi spieghi questa vergogna". Salvini-Meloni attaccano Ironia anche sul Guardian, scrive "L'Ansa" il 27 gennaio 2016. La vicenda delle statue coperte "è una questione giornalistica. Non ci sono stati contatti a questo proposito. Posso dire solo che gli italiani sono molto ospitali, cercano di fare di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti, e li ringrazio per questo". Così il presidente iraniano Hassan Rohani rispondendo a una domanda dei giornalisti in conferenza stampa a Roma. "Quella di coprire le statue dei Musei capitolini, in occasione della visita a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani - ha detto il ministro per i beni culturali, Dario Franceschini - è stata una "scelta incomprensibile. Penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro alla sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue. Non era informato - ha proseguito Franceschini - né il presidente del Consiglio né il sottoscritto di quella scelta di coprire le statue". "Ho presentato un'interrogazione al presidente del Consiglio perché siano resi noti tutti i nomi della banda di idioti che ha ordinato la copertura di statue che potevano dare fastidio a Rohani, il leader iraniano in visita in Italia". Lo dichiara il senatore Maurizio Gasparri (FI). "Questo gesto di prostituzione culturale - prosegue - ordinato dalle autorità italiane a beneficio di un personaggio che nel suo paese applica la pena di morte, che minaccia la libertà e la vita di Israele, che viene da noi omaggiato e tollerato nei suoi abusi solo per interessi commerciali ha ottenuto atteggiamenti inconcepibili. Bisognerebbe mettere una sorta di burqa politico a quanti hanno ordinato questo scempio politico-culturale". "Chiedo di conoscere i nomi - afferma Gasparri - di quanti hanno impartito le direttive che sono state eseguite supinamente da chi non ha avuto uno scatto di dignità e orgoglio. Quanti protestarono per una tenda di Gheddafi che per alcune ore fu piantata a Roma oggi tacciono di fronte a questo stupro alla nostra cultura e identità storica. È tipico del renzismo assumere questi atteggiamenti e quindi non appaiono credibili le presunte proteste dello stesso presidente del consiglio. Per questa ragione vogliamo chiarezza. Si esibiscano i documenti, le direttive, le identità di chi ha attuato questa vergogna di cui l'Italia porterà a lungo memoria". In occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio sono state coperte da pannelli bianchi su tutti e quattro i lati alcune statue di nudi dei Musei Capitolini. La copertura sarebbe stata decisa come forma di rispetto alla cultura e sensibilità iraniana. Tanto che durante le cerimonie istituzionali non è stato servito nemmeno il vino. E la notizia fa scoppiare una bufera politica. Salvini, gli onori di Renzi a chi vuole la fine di Israele - "Renzi accoglie con tutti gli onori il presidente dell'Iran, lo stesso signore che vorrebbe cancellare Israele dalla faccia della terra. E magari domani Renzi farà il burattino alla Giornata della Memoria, per ricordare lo sterminio degli Ebrei... Renzi ipocrita e anche complice!". Così su Facebook il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. "Per la visita degli iraniani - conclude Salvini - ieri sono state 'coperte' da pannelli bianchi alcune statue con nudi dei Musei Capitolini, per rispetto... Roba da matti". Meloni, indecente sudditanza Renzi - Il livello di sudditanza culturale di Renzi e della sinistra ha superato ogni limite di decenza. A questo punto ci chiediamo che cosa avrà in mente Renzi per l'arrivo in Italia dell'emiro del Qatar previsto in settimana: coprire la Basilica di San Pietro con un enorme scatolone?". Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. L'ironia del Guardian - "Roma copre le statue di nudi per evitare al presidente iraniano di arrossire": così, con una nota d'ironia, il Guardian dedica oggi addirittura il titolo a questa vicenda in un articolo di cronaca sulla visita di Hassan Rohani in Italia e in Vaticano. Ad attirare l'attenzione del giornale britannico - ancor prima delle questioni politiche e degli accordi economici messi sul piatto nei colloqui romani di Rohani - sono state proprio le statue dei Musei Capitolini nascoste dietro alcuni pannelli bianchi in occasione della conferenza stampa congiunta del presidente iraniano con il premier Matteo Renzi all'ombra del monumento equestre a Marc'Aurelio. Un gesto motivato dalle autorità italiane - scrive il Guardian, dopo aver citato l'ANSA come fonte di questa curiosità - con la volontà di non imbarazzare l'ospite e scongiurare "ogni possibile offesa". Il giornale nota anche come nel corso della cena ufficiale in onore di Rohani non siano stati offerti alcolici, consuetudine che lo stesso Guardian descrive peraltro come consolidata quando sono in visita diplomatica "dignitari musulmani". Il quotidiano inglese non manca infine di sottolineare un precedente dell'ottobre scorso, quando Renzi ricevette nella sua Firenze il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed. Sel lancia petizione su Change.org - "In occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio sono state coperte da pannelli bianchi su tutti e quattro i lati le statue di nudi dei Musei Capitolini. La copertura sarebbe stata decisa per non turbare la "sensibilità" religiosa del presidente iraniano". E' quanto scrive Gianluca Peciola, esponente di Sel, che ha lanciato una petizione su change.org. "Chiediamo al Presidente del Consiglio Matteo Renzi - continua Peciola - spiegazioni immediate ed ufficiali su una scelta che consideriamo una vergogna e una mortificazione per l'arte e la cultura intese come concetti universali. Inoltre riteniamo che siano stati gravemente violati e compromessi i principi di laicità dello Stato e di sovranità nazionale". Radicali, a Torino caso analogo con Papa - Diventa un caso la scelta di coprire le statue di nudi dei Musei Capitolini in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani, "ma per il Papa nessuno disse niente": così i coordinatori dell'Associazione radicale Adelaide Aglietta, Silvja Manzi, Laura Botti, Igor Boni. "A giugno dello scorso anno (non del secolo scorso), solo sette mesi fa, sempre per rispetto - spiegano i radicali - vennero coperti i manifesti della mostra di Tamara de Lempicka per la visita del Papa nella laica (si fa per dire) Torino. Allora nessuno si scandalizzò, oggi nessuno lo ricorda". "Si tratta evidentemente di una laicità a corrente alternata, ma la laicità è ... o non è" aggiungono e, riferendosi al voto di ieri del Consiglio Comunale di Torino che ha respinto la richiesta di rimuovere il Crocefisso dall'aula, concludono che si tratta di preoccupanti "passi indietro sulla laicità".
Statue coperte, "giallo" su chi ha deciso, scrive “Avvenire” il 27 gennaio 2016. Una questione "giornalistica" per Rohani, quella della polemiche nate dalle statue coperte al Museo Capitolino in occasione della sua visita. In conferenza stampa dice di non avere niente da dire, aggiungendo però: "So che gli italiani sono un popolo molto ospitale, che cerca di fare di tutto per mettere gli ospiti a loro agio". Un atto di ospitalità, dunque, che però non smette di far discutere. Il vicepresidente Fi del Senato Maurizio Gasparri ha presentato un'interrogazione al presidente del Consiglio Matteo Renzi, chiedendo che "siano resi noti tutti i nomi della banda di idioti che ha ordinato la copertura di statue che potevano dare fastidio al presidente iraniano Rouhani, in visita in Italia". Un gesto di "prostituzione culturale", di cui Gasparri chiede di conoscere gli autori. Toni meno polemici da parte del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini: "Io penso che ci sarebbero stati facilmente altri modi per non andare contro la sensibilità di un ospite straniero così importante senza questa incomprensibile scelta di coprire le statue ". Franceschini ha aggiunto: "Né il sottoscritto né il presidente del Consiglio erano stati informati di quella scelta di coprire le statue". E siamo al rimpallo di responsabilità: "Sulla vicenda delle statue dei Musei Capitolini coperte in occasione della visita del presidente iraniano Rohani dovete chiedere a Palazzo Chigi. La misura non è stata decisa da noi, è stata un'organizzazione di Palazzo Chigi, non nostra". Così la Sovrintendenza capitolina ai beni culturali smentisce un suo ruolo nella decisione di coprire alcune statue di nudi dei Musei Capitolini e rinvia al cerimoniale della presidenza del Consiglio. Durissimo il Codacons, che chiede il licenziamento di coloro che hanno preso la decisione "per i gravi danni all`onore e all'immagine di Roma e dell'intera Italia, e per la figuraccia cagionata al Paese a livello mondiale". Il presidente Carlo Rienzi dice anche di aver presentato un esposto alla Corte dei Conti, "perché le spese relative alla copertura delle statue siano sottratte alla collettività e addebitate direttamente a chi ha preso tale folle decisione, che deve risponderne in prima persona".
Nudi coperti, il governo fa lo scaricabarile. Ma la Sovrintendenza accusa Renzi. Il presidente iraniano: "Gli italiani fanno di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti". L'oscurantista Renzi fa imbarazzare l'Italia davanti al mondo intero. E sottomette la millenaria cultura occidentale all'islam. Ma Franceschini fa lo scaricabarile ma viene smentito dalla Sovrintendenza, scrive Andrea Indini, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". Il presidente iraniano Hassan Rohani prova a tagliare corto, ma la decisione di coprire alcune antiche statue di nudi dei Musei Capitolini ha già mostrato al mondo l'imbarazzante sottomissione dell'Italia all cultura islamica. "Non ci sono stati contatti a questo proposito", assicura Rohani scaricando tutta la responsabilità della scandalosa decisione sul governo italiano. "Posso dire solo che gli italiani sono molto ospitali - continua il presidente italiano - cercano di fare di tutto per mettere a proprio agio gli ospiti, e li ringrazio per questo". L'Italia oscurantista copre la propria cultura per non offendere il presidente iraniano e la sua religione, l'islam. Una premura che non era stata chiesta da Teheran. Anzi, pare proprio che il cerimoniale di Stato iraniano non ne sapesse nulla. Ha fatto tutto Roma. Dietro a osceni pannelli bianchi sono state nascoste la Venere Esquilina, il Dioniso degli Horti Lamiani e un paio di gruppi monumentali perché nudi. Uno sfregio alla bellezza dei Musei Capitolini e, soprattutto, uno schiaffo alla cultura italiana e, più in generale, a quella occidentale. L'ingresso della sala Pietro da Cortona sarebbe stato addirittura chiuso da un pannello per impedirne la vista. Ma non finisce qui. Come fa trapelare la Bbc News, "l'Italia ha anche scelto di non servire vino nei pranzi ufficiali, un gesto che la Francia, dove Rohani andrà poi, si è rifiutata di compiere". Gli inquietanti particolari della visita del capo di Stato negazionista, che (coincidenza imbarazzante) è stata fissata alla vigilia della Giornata della Memoria, hanno trovato eco anche su tutti i media internazionali, in alcuni casi con malcelata ironia. In Francia, per esempio, Le Figaro ha ricordato a Renzi il detto "A Roma fai come i romani". Oltremanica ci ha pensato il Guardian a prendere in giro il nostro governo: "Roma copre le statue di nudi per evitare al presidente iraniano di arrossire". Ma aldilà delle facili e ovvie ironie suscitate all'estero, è in Italia che Matteo Renzi è finito al centro di una asprissima polemica. Dopo aver portato Rohani in giro per il Colosseo, il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini si è subito fiondato a difendere il premier. "Né io né Renzi - ha detto - eravamo stati informati della scelta di coprire le statue". Uno scaricabarile che viene subito smontato dalla Sovrintendenza capitolina ai beni culturali: "La misura non è stata decisa da noi, è stata un'organizzazione di Palazzo Chigi non nostra". Tanto che al Senato Maurizio Gasparri ha presentato un'interrogazione a Renzi perché renda noti tutti i nomi della "banda di idioti" che ha ordinato la copertura di statue. "Questo gesto di prostituzione culturale - denuncia il senatore di Forza Italia - è stato ordinato dalle autorità italiane a beneficio di un personaggio che nel suo paese applica la pena di morte, che minaccia la libertà e la vita di Israele e che viene da noi omaggiato e tollerato nei suoi abusi solo per interessi commerciali". Lo sdegno attraversa tutta la politica. "Roba da matti", scuote la testa Matteo Salvini ricordando che Rohani è "lo stesso 'signore' che vorrebbe eliminare Israele". Anche all'interno del Pd non mancano le critiche, anche se i più si limitano a parlare di. "improvvido eccesso di zelo". Ma da Forza Italia gli fanno notare che coprire le statue "non è rispetto" ma "annullamento delle differenze o addirittura sottomissione". Il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, parla di un "livello di sudditanza culturale di Renzi e della sinistra" che "ha superato ogni limite di decenza".
La statua equestre è "sconveniente". Per Rohani spostato pure il palco. Un retroscena rivela nuovi dettagli sulla visita del presidente iraniano e il fastidio di Palazzo Chigi. Intanto la stampa internazionale si scatena, scrive Luca Romano, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". Se ieri a tenere banco è stata la polemica, oggi si cercano i colpevoli. Le statue delle Veneri coperte per l'arrivo a Roma del presidente iraniano Hassan Rohani occupano le pagine di tutti i giornali, non solo in Italia. E sulla questione dei nudi nascosti per "non offendere" l'ospite straniero resta un dubbio. Chi ha deciso? In conferenza stampa a Parigi, dove Rohani è arrivato oggi, per un altro giro di incontri al vertice, il presidente si è rifiutato di entrare nei dettagli, dicendo che quella dei nudi del Campidoglio è "una questione giornalistica" e lasciando intendere che non ci sono state richieste particolari da Teheran. E un retroscena pubblicato dal Messaggero sembra indicare che neppure a Palazzo Chigi pretendessero tanto. Il palchetto da cui Renzi e Rohani hanno parlato è stato spostato, racconta il quotidiano. Troppo vicino ai testicoli della statua equestre di Marco Aurelio, pare. E Matteo Renzi, di quei pannelli di compensato, non sembra essere rimasto troppo felice, tanto che ha chiesto conto di quell'eccesso di zelo cerimoniale. "Non era informato nè il presidente del Consiglio nè il sottoscritto", ha aggiunto il ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini. Tutti hanno scritto di quanto successo a Roma, dal Guardian a Le Figaro. E quello che trapela da Palazzo Chigi è un certo fastidio, anche perché la questione dei nudi ha rubato la scena a una giornata che segnava la riapertura di una nuova fase con un Paese, l'Iran, storicamente amico dell'Italia. Dal canto suo Massimo Sgrelli, già capo del Cerimoniale di Stato, difende ancora sulle pagine del Messaggero quello che è successo a Roma. "Nella scelta di rispettare la sensibilità altrui non c'è alcuna sottomissione".
L'ipocrisia del Pd di Renzi: onora solo i costumi islamici. A Roma censurati i marmi classici per "non offendere" Rohani. Ma come si può parlare di integrazione o anche solo di scambi economici se non abbiamo il coraggio di mostrare ai nostri interlocutori la nostra identità? Scrive Giovanni Masini, Martedì 26/01/2016, su "Il Giornale". La chioma castana di Debora Serracchiani come le "vergogne" dei marmi romani. Due casi assai diversi ma che si possono facilmente porre in correlazione. Pochi giorni fa, la vicepresidente del Pd si faceva fotografare durante una visita ufficiale in Iran con indosso il velo islamico. Un atto di rispetto verso le usanze di quel Paese, che però sollevò numerose polemiche politiche, anche all'interno dello stesso Partito democratico. Due settimane più tardi è il presidente iraniano Hassan Rohani a visitare l'Italia. Stavolta però a venire censurate sono state le statue romane dei Musei Capitolini, coperte perché le nudità classiche non turbassero il pudico sguardo presidenziale. Questi i fatti. Che impongono però alcune riflessioni. Quello della Serracchiani è stato un gesto di riguardo verso l'ospite, non imposto da alcun regolamento (alle spalle del governatore del Friuli si può infatti vedere una donna a capo scoperto) ma solo un'espressione di cortesia. La censura delle statue invece è un fatto diverso. Anzitutto perché nulla impediva che la conferenza stampa con Rohani venisse ospitata altrove, lontano dalle "scandalose" pudenda di marmo. Soprattutto perché l'arte classica è Roma, con i suoi nudi e con le sue censure - come dimenticare, infatti, che furono gli stessi Papi, ad ordinare, in piena Controriforma, la "vestizione" dei nudi della Cappella Sistina? Se Rohani visita Roma, se intende promuovere i commerci e gli scambi con l'Italia deve sapere con chi ha a che fare. Esattamente come è bene che gli italiani conoscano e rispettino le usanze e le tradizioni iraniane. Censurare preventivamente un'arte millenaria è atto sacrilego, indice della nostra debolezza. Ma sbaglierebbe chi pensasse che quei pannelli di legno che nascondono le sculture dei Musei Capitolini rappresentino una vittoria dell'Iran. Quella censura è invece testimonianza dello zeitgeist, dello spirito del tempo, occidentale. Imbevuto di relativismo, inebetito dal mantra per cui solo annullando la nostra identità potremmo realizzare una vera integrazione. Il precedente, del resto è presto servito: a ottobre, a Firenze, una scultura di nudo dello scultore statunitense Jeff Koons venne coperta da un paravento per non turbare la sensibilità del principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed Bin Zayed Al Nahyanl. Tanto ricco quanto Rohani è potente (e, en passant, presidente di uno Stato dove i diritti umani vengono calpestati ogni giorno). Perché nascondere la propria identità è sempre inaccettabile, ma farlo per omaggiare ricchi e potenti è ancora più ignobile.
Sottomissione, scrive Massimo Gramellini il 27 gennaio 2016 su "La Stampa". I geni del cerimoniale che hanno inscatolato quattro statue peraltro velate del museo Capitolino nel timore che, vedendole, il presidente iraniano Rohani avesse uno sgomento ormonale e stracciasse i contratti con le nostre aziende sono i degni eredi di un certo modo di essere italiani: senza dignità. Quella vocazione a trattare l’ospite come se fosse un padrone. A fare i tedeschi con i tedeschi, gli iraniani con gli iraniani e gli esquimesi con gli esquimesi. A chiamare «rispetto» la smania tipica dei servi di compiacere chi li spaventa e si accingono a fregare. Su questa tradizione millenaria, figlia di mille invasioni e battaglie perdute anche con la propria coscienza, si innesta il tema modernissimo del comportamento asimmetrico con gli Stati musulmani. Se un’italiana va in Iran, si copre giustamente la testa. Se un iraniano viene in Italia, gli copriamo ingiustamente le statue. In un modo o nell’altro - in un mondo e nell’altro - a coprirci siamo sempre noi. E la suscettibilità da non urtare è sempre la loro. Ma se la presenza di donne sigillate da capo a piedi su un vialone di Baghdad urtasse la mia, di suscettibilità? Non credo che, per rispetto nei miei confronti, gli ayatollah consentirebbero loro di mettersi la minigonna. Sarei curioso di sapere come funziona la sensibilità a corrente alternata del signor Rohani (le tette di marmo lo sconvolgono e i gay condannati a morte nel suo Paese no?) e di sentire cosa penserebbe mia nonna di questa ennesima arlecchinata italica: quando ero bambino mi insegnò che il primo modo di rispettare gli altri è non mancare di rispetto a se stessi.
Renzi e quelle statue coperte: quando la tolleranza diventa servilismo, scrive Filippo Di Stefano il 27 gennaio 2016. Ha scatenato un incredibile polverone mediatico la scelta di Renzi di far coprire le statue dei Musei Capitolini, per non offendere la "sensibilità musulmana" del presidente iraniano Rohani. Reazioni giustificate? Renzi e le sue statue. Potrebbe essere il titolo di una mediocre satira a tinte grottesche, con un pronunciato sottotesto di drammaticità. Eppure, è tutto vero. L’episodio in questione è ovviamente la copertura delle statue esposte presso i Musei Capitolini per ordine del Governo, in concomitanza con la visita del presidente iraniano Hassan Rohani. Un gesto di scellerata leggerezza-nei confronti della Cultura, con la C maiuscola, e del buongusto-giustificato con il fantasma della famosa “ospitalità italiana”. L’ha ripetuto lo stesso Rohani dopotutto, avendo apprezzato il gesto atto a non ledere la sua sensibilità di musulmano di tendenze filo-integraliste: “L’Italia è un Paese molto ospitale”. E ci mancherebbe. Tuttavia la decisione ha sollevato uno tsunami di polemiche sia in Parlamento, sia nei bar di tutta la Penisola. Ormai non si parla d’altro, ed il quesito sulla bocca degli italiani è pressappoco il medesimo da regione a regione, con sottilissime-trascurabili-variazioni: “Se Renzi voleva essere ospitale perché, anziché coprire dei simboli di Storia, d’Arte e di Cultura del nostro Paese come fossero abominevoli blasfemie, come se se ne dovesse vergognare lui stesso, non gli ha invece concesso per una notte la signora Agnese?”. Probabilmente Rohani avrebbe gradito l’articolo ancora di più. Ma fatto sta che il Premier ha preferito umiliare la propria identità storica e culturale-insieme a quella di milioni di italiani-piuttosto che rischiare di destabilizzare il giudizio morale del presidente dell’Iran. Apparentemente un rischio calcolato per Renzi, che ha simulato per l’occasione un sentimento di pudicizia talmente ipocrita e farisaico, che avrebbe fatto inorridire persino il suo omonimo televisivo Don Matteo. Le reazioni dal mondo della politica non si sono fatte attendere. Maurizio Gasparri ha definito la copertura delle statue “Prostituzione culturale” ad opera di “una banda di idioti”, ricordando che l’Iran vorrebbe la fine di Israele. Che tale prospettiva sia però assolutamente reciproca fra le parti, Gasparri questo non l’ha menzionato. Ancora più dura la Meloni, che ha ventilato l’ipotesi di coprire l’intera Basilica di San Pietro in occasione dello sbarco-oramai prossimo-dell’emiro del Qatar, sottolineando che la sudditanza di Matteo Renzi abbia travalicato ogni limite della decenza. Reazioni a forti tinte ironiche sono giunte, immancabili, dalle testate estere, che non hanno mancato di riportare la vicenda in chiave burlesca. Apprezzabile in particolare il british humor del Guardian (“Roma copre le statue nude per evitare al presidente iraniano di arrossire”). E su change.org è prontamente nata una petizione volta ad ottenere le scuse al popolo italiano da parte di Matteo Renzi. Giochi di politica? Probabilmente sì. Anche se lui, in un disperato tentativo di salvare la faccia, giura oggi che non ne sapeva nulla. Sintetizzando il tutto: per quanto Machiavelli stesso pontificasse sulla necessità del Principe di saper apparire multiforme, così da volgere ogni situazione a proprio vantaggio, lo stesso eminente riferimento non mancava di ricordare che il buon regnante dovesse essere sì “golpe” furba, ma anche dispotico e ruggente “lione” all’occorrenza. Pena il farsi mettere i piedi in testa, e perdere credibilità ed autorità; dunque potere. E Matteo Renzi (che giocava peraltro in casa) con quest’uscita pregna di svilente e gratuito servilismo è sembrato, più che un leone, al massimo un gattino ammansito. Finanche nella propria “tana”.
COSA NE PENSA L’AUTORE. FILIPPO DI STEFANO - Questa farsa è degna delle peggiori operette, è metasatira, è la politica che prende per il culo sé stessa nella realtà quotidiana. Ormai siamo arrivati al punto in cui il grottesco ha travalicato i confini dello spettacolo, per radicarsi-trovare concretezza-in quegli stessi contesti dai quali prendeva spunto. E non è cosa di oggi. La questione sinceramente mi imbarazza, e non poco. Trovo ridicolo il dover essere arrivati a coprire delle statue per non offendere la sensibilità religiosa di un (pur eminente) personaggio estero, tantopiù che non stiamo parlando di nulla di osceno, bensì delle fedeli rappresentazioni di normalissimi e naturalissimi corpi umani. Quoto inoltre chi ha citato l'analogo episodio avvenuto l'anno scorso in occasione di una visita papale, e le disgraziate pennellate di Berlusconi al quadro con l'impudico capezzolo scoperto. Il fatto che certi individui si vergognino a tal punto della propria cultura, salvo poi organizzare festini a coca e mignotte degni del peggior Diprè (che tanto parla, ma in fondo è un poveretto), è insopportabile.
Statue? Impacchettate Renzi e speditelo in Iran a fare un corso di tolleranza, scrive Emanuele Ricucci il 26 gennaio 2016 su "Il Giornale". Stiamo a vedere quando toccherà a noi italiani non essere offesi. Come ebbi modo di scrivere. Dà fastidio il crocifisso? Guardassero altrove. Dà fastidio la patatina marmorea della Venere o gli attributi bronzei della Statua equestre di Marco Aurelio? Andassero altrove. Facessero altrove la farsa. Che so, in Villa Borghese tra i mezzi busti. Ritorno al medioevo o giù di lì? A quando per pudore venivano fatti ricoprire i nudi della Cappella Sistina? O per essere politicamente corretti del Glande Sistina (tanto, visto che ci siamo…)? Coerenza! Ora basta. Se integrazione deve essere, lo sia per davvero. Togliete la biada al cavallo bronzeo di Marco Aurelio: ramadan. Mettete il velo alla Venere di Botticelli, forza! E se possibile troncate pèni di marmo e coprite le sacre nudità partorite dalla gentilezza pittorica di qualche matto infedele del Rinascimento italiano. E soprattutto, altro che le statue di marmo: impacchettate Renzi e tutta la bislacca corte e spediteli in Iran a fare un corso di tolleranza e rispetto delle culture altrui, vedranno quanto sarà più facile chiudere accordi commerciali, chinare il capo e sottostare a leggi morali, etiche e giuridiche ferree. Velo per la Boschi subito, appena scesa dall’aereo, zitti e mosca. Dopo aver subordinato ogni proiezione spontanea di italianità al rispetto dell’altro, ai capricci del progresso che sposta i mercati qua e là, dopo aver quasi dimenticato che cent’anni fa ci fu la Grande Guerra, dopo aver tolto di mezzo crocifissi, dopo aver chiesto di buttare giù obelischi, dopo aver fatto crollare mezza Pompei, mentre l’operazione di smontaggio dell’italianità, dell’essenza stessa della cultura italiana (non basta un bel paio di scarpe “Made in Italy”, fatte a mano, voilà, né la riforma Franceschini che risistema le soprintendeze italiane, per quanto ben concepita) è in lento progredire, ci mancava la ciliegina sulla torta. E certo. Strappare la lingua all’arte che da secoli parla un linguaggio universale è davvero barbarico. Uno stupido servilismo, un’inutile prostrazione. Nascondersi, la parola d’ordine del regime è nascondersi. Nascondere le origini in nome del rispetto, nascondere il proprio credo in nome della tolleranza. Nascondere l’arte dietro a pannelli di plastica. Una mutilazione, un aborto; guardare quella freddezza impacchettata, quei pannelli, annichilisce, roba da star male, sconcertati davanti allo schermo. “Fonti della delegazione iraniana confermano che, durante un sopralluogo, i nudi femminili erano stati considerati inappropriati per la visita del leader e religioso iraniano”, riporta il Corsera. Coprire i nudi, poi, siamo al ridicolo. Siamo d’accordo che il presidente iraniano Hassan Rohani pensi che non tutti abbiano i genitali e per questo si offenda terribilmente nel constatare che, in queste latitudini, esistano, addirittura nelle raffigurazioni marmoree di uomini e donne, ma calarsi le braghe così platealmente, senza ovviamente mostrare i gioielli di famiglia, sempre per questione rispetto, è davvero qualcosa di incredibile. Nel frattempo, Franceschini annuncia che Pistoia sarà la capitale della cultura 2017. Evviva! Speriamo che, lì almeno, non vada in visita nessuna delegazione…non si sa mai.
Umiliati a casa nostra, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Tempo” 27 gennaio 2016. È inverosimile. Le ridicole ragioni esibite dal cerimoniale per giustificare la copertura di antiche statue romane ai musei capitolini indicano uno stato di soggezione indegno di un paese libero. Sarebbe inimmaginabile un comportamento come questo da parte del governo americano. Anche se, all’apparenza, la manifestazione di superiorità che l’Occidente può offrire è nella cortesia di fare una cosa gradita a un ospite. Diversamente, obbedire alle indicazioni attribuite al cerimoniale del presidente iraniano appare un’umiliazione. In passato, sul piano folkloristico, ci si era assoggettati ai capricci di Gheddafi che aveva voluto accamparsi nelle sue tende. Nonostante che anch’egli fosse un rappresentante della religione musulmana non si era arrivati a coprire le testimonianze della civiltà romana per compiacerlo. Mai eravamo scesi così in basso. L’arrivo del presidente Rouhani deve invece far riflettere sulla differenza tra una grande civiltà come quella persiana e l’Islam sotto il dominio di Maometto. Non è possibile confondere il presidente dell’Iran con il califfo al-Baghdadi, la Persia non è l’Isis e Rouhani non è Bin Laden. La religione islamica in Iran ha profonde radici culturali come la religione cristiana ha radici nel mondo greco e nel mondo latino. A Persepoli si vede la grandezza della civiltà persiana come a Roma antica si vede la grandezza della civiltà occidentale. I persiani non rinnegano il loro passato, non ne occultano le testimonianze. È insensato nascondere le nostra agli occhi di Rouhani, che non poteva immaginare che quelle scatole occultassero nudi maschili di Roma Antica e non nudi pornografici. D’altra parte, nella statuaria antica nudo è il maschio - eroe, atleta o guerriero - mentre coperta è la femmina, come anche l’Islam richiede. Per questo era insensato cercare d’interpretare un senso di pudore inesistente nella sensibilità di un iraniano colto per un eccesso di zelo non compreso e per noi mortificante. Il paradosso è che le rovine di Persepoli sono alla luce del sole in Iran e le rovine romane sono nascoste a Roma.
Quel nudo coperto della Venere che ci fa apparire solo ridicoli. Chi è superiore può fare qualunque cosa. Chi ha paura, si umilia, rinnegando la propria identità per prevenire rischi, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 27/01/2016, su "Il Giornale". La decisione di coprire le sculture romane del Campidoglio può essere motivata da due impulsi. Il primo di superba cortesia, il secondo di umiliazione. Chi è superiore può fare qualunque cosa, concedendo ciò che ritiene gradito all’altro. Chi ha paura, si umilia, rinnegando la propria identità per prevenire rischi. È difficile dire quale delle due motivazioni abbia mosso il cerimoniale a uno dei comportamenti più insensati che si potessero assumere, perché l’eccesso di zelo che si finge ispirato da una richiesta del cerimoniale iraniano può far riferimento alla provocazione di nudi contemporanei su manifesti pubblicitari o cinematografici. Ma la storia è immune dal senso del pudore anche più radicale ed estremo. E qui, infatti, ci sono l’equivoco e il difetto culturale. Sappiamo le varietà dell’islam, ma non si può immaginare di misurarsi con gli stessi strumenti con l’islam radicale che ha il suo profeta in Maometto e la religione islamica innestata su una civiltà antica come la nostra. Non è possibile confondere l’autorità religiosa e politica iraniana con il califfo Al Baghdadi. Non è possibile confrontarsi con l’Iran come con Al Qaida o l’Isis. Per secoli la religione islamica ha rispettato Palmira, che solo in tempi recenti è stata intollerabilmente violata. La Siria musulmana non rinnegava la storia romana. Parimenti, l’islam in Iran si innesta sulla millenaria civiltà persiana, non diversamente dal cristianesimo sulle radici greche e romane. I cristiani hanno adattato ma non distrutto il Pantheon. E allora, soltanto una profonda ignoranza può pensare di coprire in Italia testimonianze della storia antica che non sono oscurate in Iran. A Persepoli, in Iran, i corpi nudi non sono censurati e non è dunque pensabile censurare i corpi nudi romani a Roma. Vedere quelle scatole non sarà sembrato al presidente iraniano Rouhani un gesto di cortesia, né, tanto meno, per fortuna, di sottomissione, ma soltanto la testimonianza di una sciatteria di chi ha continui cantieri per restauri in corso. Questo deve aver pensato, da uomo di cultura, dei parallelepipedi che nascondevano statue di cui non poteva immaginare l’aspetto D’altra parte la nudità da coprire per il senso del pudore ispirato dalla religione è quella femminile, e non quella maschile. Nelle antichità romane il corpo dell’uomo può essere nudo, quello della donna è coperto. Se occorreva apparire ridicoli siamo riusciti ad esserlo.
"Difendiamo la nostra civiltà a costo di offendere le altre". Il filosofo inglese Roger Scruton racconta il flop delle politiche sugli stranieri: "L'Europa si è arresa alla sinistra: se parli di integrazione passi per razzista", scrivono Simone Bressan e Andrea Mancia, Lunedì 18/01/2016, su "Il Giornale". Roger Scruton è un uomo fuori dal tempo. Compirà 72 anni tra poco e solo qualche giorno fa il Weekly Standard lo ha definito come «il conservatore inglese più significativo dai tempi di Edmund Burke». Lui fa di tutto per non smentire l'onorificenza e nel suo ultimo libro Fools, Frauds and Firebrands: Thinkers of the New Left («Sciocchi, imbroglioni ed estremisti: i pensatori della Nuova Sinistra») - espansione e aggiornamento di un suo controverso lavoro del 1985 - disegna una sorta di crudele «bestiario» dell'intellighènzia globale sinistrorsa dal Dopoguerra a oggi. Scritto con il disincanto di chi si ricorda di essere figlio di una famiglia laburista, il libro mette a nudo tutti i limiti del pensiero progressista, affrontando mostri sacri come Habermas, Lukacs, Sartre, Galbraith e Derrida. Scruton è uno di quelli che ha scelto di non piegarsi al politically correct dominante e che continua a ritenere che la nostra civiltà sia minacciata più dall'estremismo islamico che da qualche opinione un po' sbilenca rispetto ai rigidi confini tracciati dai guru del progressismo. In un delizioso dialogo con il giornalista Mike Hume, pubblicato questo mese dal periodico inglese Spiked!, Scruton argomenta con grande lucidità le ragioni del suo ultimo lavoro e spiega il senso di voler dedicare un intero libro alla demolizione intellettuale di pensatori a volte ignoti al grande pubblico. Anche se «all'uomo della strada questi nomi dicono poco» e le loro biografie sono particolarmente datate, gli effetti devastanti del loro pensiero debole rischiano di essere letali per l'Occidente. Soprattutto oggi che le minacce alla nostra libertà sono diventate terribilmente serie. Lo slogan della rivoluzione francese è rimasto, appunto, «solo uno slogan». Liberté, égalité, fraternité: tutti valori per cui, spiega Scruton, «moltissima gente ha combattuto e ha perso la vita, sono stati completamente trasformati da un approccio burocratico». Così oggi siamo pieni di leggi e provvedimenti statali orientati a garantire che nessuno venga discriminato, con il risultato che si impedisce a chiunque di emergere appena un po' più degli altri. Anche la libertà è stata codificata come un diritto concesso generosamente dallo Stato: non la libertà delle persone di vivere la propria vita al meglio e di realizzarsi ma un beneficio, magari «concesso sotto forma di voucher» per chi è gay, donna o minoranza etnica. Così facendo, secondo Scruton, «questi ideali hanno smesso di essere tali e sono diventati una proprietà che lo Stato distribuisce alle persone secondo la moda del momento». Ma è sul conflitto esistente tra la civiltà occidentale e l'estremismo islamico che la questione diventa cruciale. «Per 30 anni spiega il filosofo inglese mi sono battuto perché l'integrazione delle comunità di immigrati nella nostra società fosse un tema centrale». La verità è che nessuno ci ha mai provato davvero, perché «se parlavi di integrazione la sinistra ti accusava di razzismo». Nessuno ha mai avuto la forza di opporsi all'apologia continua del multiculturalismo. E quando Scruton pubblicò sul giornale da lui diretto (The Salisbury Review) un saggio che spiegava come «il fatto di non obbligare i ragazzi a parlare inglese nelle scuole rischiasse di danneggiare i bambini di tutte le comunità», la sua carriera accademica andò letteralmente in pezzi. Scruton, però, continua «a credere nel concetto di integrazione», anche se le sue idee in merito sono quanto di più lontano possa esistere da una generica affermazione di buoni principi. «I Musulmani racconta a Spiked! devono essere messi davanti al fatto che in Occidente ci si comporta in un certo modo: non si trattano le donne come avviene spesso nella loro cultura e non ci si copre il volto in pubblico». Per Scruton, infatti, la nostra è una società che definisce i rapporti e le relazioni tra persone anche e soprattutto guardandosi in faccia e negli occhi. Sono affermazioni come questa che gli hanno garantito in passato e gli garantiranno in futuro l'ostracismo della sinistra progressista e di larga parte dei media occidentali, tutti allineati al dogma del politically correct. Non si tratta solo «di difendere solo il diritto di manifestare il proprio pensiero, anche se scorretto, ma soprattutto di rivendicare quanto abbiamo ereditato dall'Illuminismo e dal Cristianesimo». «Se incalza Scruton non siamo disposti a difendere la cultura che ha prodotto Ludwig van Beethoven, George Eliot e Lev Tolstoj, che cosa mai dovremo difendere?».
"La sinistra mi attacca ma io parlo lo stesso". "Ho visto 40 guerre, io a parlare di Siria ci sarò", scrive Gian Micalessin, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Faccio il giornalista dal 1983 quando, a 23 anni, andai in Afghanistan per raccontare il dramma di un Paese dove piccoli gruppi di combattenti, al tempo ancora male armati e scarsamente finanziati, resistevano all'invasione sovietica. Da allora sono passato per una quarantina di guerre spiegando indifferentemente le ragioni di quanti nella retorica quotidiana passano per «buoni» o «cattivi». Negli anni '90 ho trascorso mesi con i musulmani «buoni» assediati a Sarajevo da Milosevic. Ma in Algeria ho vissuto per settimane con i «cattivi» del Fis, i fondamentalisti islamici impegnati, allora, in un sanguinoso scontro con il governo. Tra il 1994 e il 2000 ho frequentato anche quei ribelli ceceni nemici della Russia di Eltsin e di Putin, trasformatisi poi in spietati terroristi. In Iraq tra il 2004 e il 2005 ho incontrato più volte gli insorti alqaidisti di Falluja. Fino a quando non mi hanno puntato un kalashinkov alla testa spiegando di esser poco interessati a condividere le loro ragioni con un «infedele». Dal 2012 in poi mi sono spesso recato nella Siria di Bashar Assad per raccontare una guerra, costata la vita a 250mila persone, che ha permesso allo Stato Islamico di rafforzarsi e d'espandere la sua logica dell'odio e del terrore. Quando mi è stato chiesto di raccontare queste mie esperienze non ho mai detto di no a nessuno. E, tantomeno, mi sono mai chiesto chi fosse o come la pensasse perché ritengo che l'informazione non si debba negare a nessuno. Ecco perché quando il movimento «Alliance for Freedom and Peace» mi ha chiesto di partecipare al convegno organizzato la prossima domenica a Milano sul conflitto siriano al fianco del senatore ed ex ministro della difesa Mario Mauro, non ho avuto problemi ad accettare. Ora scorrendo le pagine milanesi di Repubblica scopro che quel convegno «non s'ha da fare» perché dietro gli organizzatori si nasconderebbero Forza Nuova e vari altri gruppi di estrema destra. Scopro anche che l'ex Ministro della Difesa senatore Mario Mauro viene accusato di «andare a braccetto con i neonazisti» solo per aver accettato di parlare a quel convegno. Accuse che per la proprietà transitiva cadono anche su di me. Accuse formulate senza essersi premurati di ascoltare quello che il senatore Mauro ed io diremo e le idee che sosterremo. In queste accuse, giustificate con le regole dell'anti fascismo, intravvedo purtroppo lo stesso fanatismo ostracizzante dello Stato Islamico. Da una parte i fedeli, dall'altra gli infedeli da mettere all'indice assieme a chiunque abbia contatti con loro. I colleghi di Repubblica me lo consentano, ma dare spazio a queste logiche mi appare osceno. E non tanto nei confronti del senatore Mario Mauro o di chi, come me, parlerà a quel convegno, ma nei confronti del loro stesso giornale. Un giornale diretto da Mario Calabresi. Un uomo che per queste stesse ragioni vide uccidere il proprio padre.
Il videoclip su tutte le menzogne di guerra divulgate da "La Repubblica", scrive Il Piccolo D'Italia il 21 gennaio 2016. Fonte: Francesco Santoianni per L’Antidiplomatico. Celebriamo anche noi i “40 anni di Repubblica” con un videoclip dedicato alle sue più clamorose menzogne finalizzate ad alimentare la guerra. Un compito svolto da “Repubblica” sfruttando – oltre ai soliti cliché della propaganda bellica – i valori di quel popolo di “sinistra”, “progressista”, “antifascista” e “politically correct”, suo principale target. E così già nel 1999 – per supportare la Guerra NATO-D’Alema alla Jugoslavia – Repubblica presentava i Serbi come i nazisti (si legga, a tal proposito, questo ottimo libro e i “ribelli kossovari” come ebrei destinati ai campi di sterminio. Poi, Repubblica, per promuovere guerre e/o per additare altri “stati canaglia”, ha sposato la salvezza di altre “categorie” care ai suoi lettori di “sinistra”rifilando bufale su donne, gay, lesbiche, animali da compagnia . Il tutto accompagnato da un sempre più marcato travisamento della realtà: basti guardare i servizi di Repubblica sulla Palestina o il suo davvero sbalorditivo servizio fotografico che consacrava i fascisti del battaglione Azov che baciavano le “fidanzate” (in realtà fotomodelle reclutate dall’agenzia di pubbliche relazioni Weber Shandwick, che aveva realizzato il servizio) prima di partire per le loro mattanze nel Donbass. Ma con questa sempre più marcata linea bellicista, Repubblica ha perso lettori? Purtroppo no. Il quotidiano di De Benedetti continua ad arpionare un target socio-economico medio-alto (il più ambito dagli inserzionisti). Pubblico che, comunque non si direbbe capace di indignarsi; valgano per tutti le davvero poche proteste dei suoi lettori davanti alla più sfrontata menzogna pubblicata da Repubblica: una foto satellitare – piazzata in prima pagina – che avrebbe dovuto attestare l’invasione russa dell’Ucraina e che, invece, come recitava la piccola didascalia posta sulla foto, riprendeva un territorio della Federazione russa distante cinquanta chilometri dalla frontiera. Ma, invece di abbandonarsi a deprimenti considerazioni è forse meglio dare una occhiata ad alcune (tutto sommato, divertenti) menzogne di guerra pubblicate da “Repubblica”. Solo alcune, tra le innumerevoli. E per farvele meglio gustare ecco il videoclip. Qui di seguito i link sulle “notizie” riportate nel videoclip:
Bambini legati sui carri armati di Assad e usati come “scudi umani” (12 giugno 2012)
Fosse comuni di Gheddafi (13 giugno 2011)
“I Serbi uccidono mia madre e poi mi costringono a stuprarla” (22 giugno 1996)
Viagra alle truppe di Gheddafi per violentare le donne dei manifestanti (12 dicembre 2012)
Missile dei ribelli filorussi abbatte jet in Ucraina (18 luglio 2014)
Elicotteri di Gheddafi mitragliano e uccidono centinaia di manifestanti (22 febbraio 2011)
Cecchini di Assad si allenano su donne in cinta (19 ottobre 2013)
Il water d’oro del dittatore comunista Janukovic (22 febbraio 2014)
Il dittatore della Corea del Nord fa sbranare lo zio da 120 cani (3 gennaio 2014)
Il regime di Kiev sta uccidendo in carcere la pasionaria Tymoshenko (14 febbraio 2012)
Assad fa affogare in un fiume decine di oppositori (11 marzo 2013)
Governo Renzi diminuisce le spese per la Difesa (5 ottobre 2015)
L’assedio di Assad strangola Madaya (5 gennaio 2016)
Foto satellitari: la Russia invade l’Ucraina (28 agosto 2014)
Dittatore della Corea del Nord fa fucilare il progettista dell’aeroporto (23 giugno 2015)
Dittatore della Corea del Nord fa fucilare ministro che si era addormentato (13 maggio 2015)
Assad pensa di usare le armi chimiche (31 ottobre 2013)
Governo del Venezuela ordina di sparare su manifestanti (25 febbraio 2015)
Trovato un cane che somiglia a Putin (23 settembre 2014)
Come ebreo vorrei fosse studiato a scuola. Io vado a comprarne una copia. Mi serve per capire il Male. Proprio perché sono interessato al dramma della Shoah questo libro terribile non può mancare nella mia biblioteca, scrive Giampiero Mughini, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale". Sto per andare alla mia edicola di viale Trastevere dove assieme alla consueta mazzetta di quotidiani comprerò il Mein Kampf di Adolf Hitler di cui Francesco Perfetti (uno dei migliori storici italiani del moderno) ha curato l'edizione per Il Giornale. No, è pericoloso per chi non ha senso critico. Proprio perché sono visceralmente e drammaticamente interessato alla Shoah in ogni sua sfumatura di storia e di personaggi e di tragedia apicale del Novecento, quel libro non può mancare alla mia biblioteca. Lo metterò nello scaffale che ho dedicato a quell'argomento, il più vicino alla sedia su cui lavoro nel mio studio. Gli staranno accanto il libro dello storico inglese Martin Gilbert sulla reticenza degli Alleati a reagire a quel che sapevano stava succedendo nel campo di Auschwitz e altri; il portentoso libro/intervista in cui Gitta Sereny dialogava con l'ex capo nazi di Treblinka; il libro di Hannah Arendt sul processo Eichmann; il libro einaudiano che pubblicava per intero la relazione d'accusa del procuratore generale israeliano contro Eichman; il libro di Robert Faurisson il capo dei «negazionisti» francesi che avevo comprato nella libreria parigina dove negli anni Sessanta aveva comprato una celeberrima rivista trotzchista su cui avevo fatto la tesi di laurea nel 1970. Accanto al libro forse il più sconvolgente di tutti, L'Album d'Auschwitz, il libro dov'erano le foto che un paio di SS di Auschwitz avevano scattato in tutta tranquillità (alla maniera dei selfie nostrani) a donne e uomini che a vagonate erano appena sbarcati ad Auschwitz e che avevano ancora poche ore di vita. Ne potrei elencare cento altri. Il Mein Kampf non lo avevo, e invece cimelio mostruoso com'è non deve mancare da una biblioteca come la mia. All'epoca in cui apparve e fino al momento in cui il popolo tedesco non inondò di voti Hitler, quel libraccio lo avevano letto in pochissimi. Era reputato lo sproloquio di uno squinternato che si stava facendo un po' di galera per avere tentato un (ridicolo) putsch contro la democrazia di Weimar. L'inumana potenza dei carri armati e dei caccia nazi rese quel programma attuabile. Un programma che in tanti avevano sottovalutato. Se una tale porcata a tal punto dilaga e diventa effettuale, come fai a non conoscerne i tratti? Purtroppo non conosco il tedesco e non sono ricco. Fosse dipeso da me avrei volentierissimo comprato l'esemplare della prima edizione che i bouquinistes della Senna hanno venduto una decina d'anni fa. Come non avere un cimelio dell'orrore di tale stazza? E del resto io da ragazzo li avevo comprati i quattro volumi degli Editori Riuniti con le opere complete di Stalin, altro pontefice dell'orrore assoluto. Un paio d'anni fa mi capitò tra le mani la prima edizione italiana del Mein Kampf, un'edizione Bompiani del 1942. Solo che era in cattive condizioni, e la mia anima da bibliofilo si rifiutò. Se la trovo in buone condizioni la compro subito. Un libro uscito quando erano in molti gli italiani anche colti che flirtavano con l'antisemitismo. Ricordatevi di Guido Piovene che aveva fatto un grande elogio del «razzista» all'italiana Telesio Interlandi (personaggio del resto interessantissimo su cui ho scritto 25 anni fa un libro meritorio). Leggere sapere conoscere capire. Più lo fai e meglio è. E poi vi ricordate la gran polemica se sì o no pubblicare i «comunicati» delle Br pur di fare rilasciare un magistrato che loro avevano rapito? Tutti a dire di no, che non bisognava dar loro una vetrina massmediatica. Si distinse in quell'occasione Riccardo Lombardi, uno dei maestri socialisti della mia giovinezza. Ma certo che vanno pubblicati, scrisse, a far vedere a tutti che razza di cretini e delinquenti sono i brigatisti. Quei loro comunicati e «risoluzioni» mi sono messo adesso a cercarli in antiquariato e a leggermeli a uno a uno. Da far accapponare la pelle a pensare che quegli idioti hanno costituito un allarme per la nostra democrazia. Buona lettura.
Forse stiamo diventando tutti nazisti..., scrive Rocco Buttiglione il 10 giugno 2016 su “Il Dubbio”. È di nuovo in circolazione in Italia l’opera fondamentale di A. Hitler Mein Kampf. Non so se essere contento o preoccupato per il fatto che è stato tolto il bando che dalla fine della seconda guerra mondiale gravava su questo libro. Quanto più si progredisce nella lettura tanto più ci si rende conto di quanto tutti noi siamo impregnati dello spirito del nazionalsocialismo, di quanto le categorie culturali del nostro tempo ricalchino quelle che stanno alla base della ideologia nazionalsocialista. Questa può essere l’occasione di un grande esame di coscienza dell’Europa che ci conduca a rivedere profondamente le categorie culturali con le quali pensiamo noi stessi. Oppure può essere l’occasione per accelerare la regressione nella barbarie che caratterizza tanta parte della cultura nella quale siamo immersi. In un certo senso molti di noi potrebbero scoprire con orrore (o con compiacimento?) che eravamo nazisti e non lo sapevamo. Iniziamo con la filosofia di Hitler. Quali sono i presupposti filosofici del nazionalsocialismo? Per prima cosa incontriamo l’evoluzionismo darwiniano elevato a concezione del mondo. Nella Germania di quegli anni queste idee erano nell’aria, soprattutto per opera di E. Haeckel. È appena il caso di osservare che lo scientismo evoluzionistico è anche una componente fondamentale del modo di pensare comune dei nostri giorni. Naturalmente qui la teoria scientifica di Darwin non c’entra, c’entra il fatto che nella mentalità comune essa si trasforma da scienza (che spiega un certo numero di fenomeni propri della biologia) in metafisica che spiega il mistero dell’essere ed in filosofia sociale che spiega il destino dell’uomo. Ma non è proprio in questo modo che essa viene presentata anche oggi alle grandi masse? Il darwinismo popolare genera, allora come adesso, una certa tenerezza verso gli animali ed un certo disprezzo per gli umani. Se siamo tutti parte di una vita cosmica che perennemente si evolve la differenza qualitativa fra l’uomo e gli animali si perde. Siamo autorizzati a trattare gli uomini come se fossero animali e gli animali come se fossero uomini. Se prendete un filosofo che adesso va molto di moda come Peter Singer ritroverete la stessa tenerezza verso gli animali e la stessa negazione della sacralità della vita umana. Oggi parlar male del darwinismo significa essere additati al pubblico disprezzo come difensori di un creazionismo dogmatico e antiscientifico. Nessuno difende la verità fondamentale contenuta nella vecchia idea di creazione: l’uomo ha una dignità che non è paragonabile a quella degli animali e che nessuno ha il diritto di violare. È proprio l’oblio di questa verità il punto di partenza del pensiero di Hitler. L’altro filosofo di Hitler è Nietzsche. Non voglio negare che Nietzsche sia un pensatore che ha molti lati, anche contraddittori fra di loro, e non voglio rendere Nietzsche responsabile del nazismo. È però indubitabile che Hitler costruisce in larga misura il suo pensiero su di uno dei lati del pensiero di Nietzsche. Non esiste una verità oggettiva a cui l’uomo debba obbedire. L’uomo crea lui stesso l’ordine del mondo a partire dalla propria volontà. Questa volontà, che è volontà di potenza e di vita, abita nell’inconscio della razza ed emerge in un individuo che le dà forma storica: la Guida (il Führer). Non esiste una ragione che conosca una legge morale che precede la volontà ed a cui la volontà si debba piegare. L’unica legge è quella della lotta a morte per l’affermazione di se (del proprio popolo). La ragione non ha il compito di indicare alla volontà i fini che devono guidarla ma quello di organizzare i mezzi che le permettono di sottomettere a se la realtà. I parallelismi con il postmodernismo attuale sono evidenti. Esiste (per il momento) una differenza: il postmodernismo attuale non tematizza il concetto di popolo e di inconscio collettivo ma in qualunque momento potrebbe cominciare a farlo. Comune al nazismo ed al postmodernismo è l’odio della legge che pone un limite alla volontà ed al desiderio. La legge è sempre un inganno che vuole mettere in catene la volontà. L’ebreo è la personificazione della legge mentre la libertà germanica è la sua negazione. Non la legge astratta ma il concreto rapporto di fedeltà che si stabilisce fra il Führer ed i suoi seguaci deve guidare il popolo. Qui c’è posto anche per un cristianesimo deebraicizzato (e deellenizzato) ridotto ad una malcompresa polemica di S. Paolo contro la legge ebraica che ricorda da vicino qualche corrente della teologia contemporanea. Il Cristo germanico abolisce la legge e le oppone il vincolo personale che unisce i discepoli attorno alla sua volontà che dà forma ad un mondo nuovo. Non ci vuole molto per arrivare a vedere nel Führer il continuatore di Gesù che completa la sua opera distruggendo il popolo ebraico. I Cristiani Tedeschi (die Deutschen Christen, corrente teologica protestante) qualche anno dopo la pubblicazione di Mein Kampf, questo passo lo fecero. Dove però emerge tutta la personale (diabolica) genialità di Hitler è nella sua teoria della politica. La teoria politica classica si struttura attorno alla idea di bene comune. Al centro della teoria politica di Hitler c’è l’identificazione del nemico. L’unità del popolo si struttura contro il nemico. Max Scheler (che non era nazista) aveva spiegato in quegli anni che la vita psichica si struttura attorno alle due passioni fondamentali dell’amore e dell’odio ed aveva messo in guardia contro la forza dell’invidia e del risentimento. In ogni società come in ogni individuo singolo esiste un fondo di risentimento che ci si sforza di neutralizzare al fine di rendere possibile un comportamento razionale e civilizzato. Per Hitler l’azione politica deve al contrario mobilitare il risentimento, dargli piena legittimazione, farne la guida dell’azione politica. Per sfruttare in pieno la forza del risentimento bisogna affermare che noi e solo noi siamo il popolo. I nazisti non sono un partito. La parola partito viene per quanto possibile evitata perché evoca la idea di parte e dà l’idea che anche altri partiti possano essere parti legittime del popolo. Meglio usare la parola movimento o, meglio ancora, popolo. I nazisti pretendono di essere la parte sana della nazione. Gli altri, gli oppositori, sono la parte malata che va sradicata e gettata nel fuoco. Con essi non si viene a patti, non si argomenta, non si riconosce loro diritto di parola. Non hanno una dignità umana che vada rispettata. L’unica relazione verso di loro è l’invettiva. Non bisogna preoccuparsi nella polemica politica della verità delle cose. Un’unica fondamentale verità sovrasta tutte le altre e le riassorbe in se stessa: il nemico è il nemico e deve morire. Non so se Grillo abbia letto Mein Kampf. Tendo a pensare di no. Se non lo ha letto allora ne ha riscoperto da solo i principi. Per la politica del risentimento il problema non è realizzare il bene comune ma distruggere l’avversario. Sarebbe ingeneroso però vedere in Grillo l’unico discepolo di Hitler nel nostro tempo. Sempre più il linguaggio e l’argomentazione politica si vanno strutturando intorno all’odio verso il nemico piuttosto che intorno alla proposta in positivo di un bene comune. Il tema è sempre: mandiamo a casa Renzi oppure mandiamo in galera Berlusconi. Per quale motivo, se a torto o a ragione, sulla base di quali argomenti e per fare poi che cosa sono considerazioni alle quali non si attribuisce alcuna importanza. Come libro Mein Kampf funziona. Ricorda l’opera di Wagner. Wagner anche lui ha molti lati e uno di questi lati certamente è stato usato da Hitler. L’opera d Wagner mette in scena archetipi fondamentali dello spirito umano, forze potenti che albergano nell’inconscio di ciascuno di noi. Il criterio di verità dell’opera è interno alla soggettività umana, nei personaggi e nella tensione fra di essi rivediamo noi stessi. Avviene la stessa cosa anche in Shakespeare. Pensate per un attimo al Mercante di Venezia ed al personaggio di Shylock, l’ebreo. Lo sentiamo vero e lo odiamo e lo disprezziamo per la sua crudeltà (e anche lo compiangiamo perché Shakespeare ci fa intuire che la sua malvagità è la conseguenza di sofferenze ed ingiustizie che egli stesso ha subito). Odiamo e disprezziamo in lui parti interne di noi stessi ma... Immaginate se rivolgessimo i sentimenti che il dramma suscita in noi non contro il nostro Shylock interno ma contro gli ebrei realmente esistenti trasformando la verità interna dell’opera d’arte in verità politica. Hitler proietta il male fuori di noi nel nemico e ci invita poi a distruggere il male distruggendo il nemico. La sua narrazione è coinvolgente sul piano della rappresentazione artistica ma diventa demoniaca se proiettata sulla realtà. È stato W. Benjamin a vedere nella “estetizzazione” della politica una delle caratteristiche fondamentali del nazismo. Anche qui è evidente la parentela con quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Gli stili si mescolano, il cabaret diventa politica, non vi sono più limiti all’iperbole, ciò che io sento vero (senza nessuna prova empirica) lo metto in scena come se fosse vero e la gente si perde in questa realtà virtuale fino a smarrire la capacità di valutare la situazione e le proposte politiche sul piano della realtà. Come ultima riflessione vorrei consegnare ai lettori un dubbio: non è che per caso siamo (o stiamo diventando) tutti nazisti senza saperlo?
Siamo di fronte al libero pensiero unificato.
Tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi. Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.
Wikipedia «blocca» la Raggi: non ha rilevanza se non è eletta. Secondo le regole, i candidati hanno diritto ad una pagina solo se diventano sindaci, scrive Emanuele Buzzi l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Volete consultare la pagina Wikipedia dedicata a Virginia Raggi? Allora qualche nozione di spagnolo, russo o tedesco potrebbe essere fondamentale. Infatti non esiste una voce italiana sulla candidata Cinque Stelle al Campidoglio. Un paradosso del web, contando che Raggi si è conquistata la ribalta sulla stampa di mezzo mondo: dalla Cina alla Russia, dagli Stati Uniti alla Francia. Molti altri candidati, invece, anche di città di molto meno popolose, sono presenti sulla enciclopedia web. Compreso Roberto Giachetti. Sulla Rete c’è chi ha protestato, parlando di «chiara violazione della par condicio e della libertà di informazione» e chiedendo la pubblicazione di una pagina apposita. «Se ne riparla eventualmente dopo il ballottaggio, a seconda del risultato — hanno replicato gli amministratori —. Prima, no. Per inciso: Wikipedia è una enciclopedia e non un servizio giornalistico e in quanto tale non è soggetta alla par condicio». E proprio dai paletti fissati dalla comunità che dà vita alle voci di Wikipedia nasce il paradosso che riguarda Raggi. «Le regole sulla presenza di esponenti politici su Wikipedia risalgono addirittura al 2008, quando l’enciclopedia cominciò a essere famosa e quindi c’era chi voleva sfruttarla a fini elettorali — spiega Maurizio Codogno, wikipediano di lunga data —. La comunità scelse di limitarsi a parlamentari nazionali e sindaci dei capoluoghi di provincia, pensando che i candidati sindaco non avessero rilevanza prima di venire eventualmente eletti. Dopo il 2013, con i casi di Pizzarotti a Parma e Accorinti a Messina, si fece una nuova discussione, ma il consenso finale fu di non cambiare le regole». In altre parole, per ora, Raggi non è politicamente rilevante secondo le norme vigenti per avere una propria pagina. E come lei anche, per citare altri casi, Lucia Borgonzoni (al ballottaggio a Bologna) o Chiara Appendino (a Torino). Lo scopo della comunità è duplice: evitare che la pagina dei candidati venga strumentalizzata durante la campagna elettorale.
Salvatore Aranzulla cancellato da Wikipedia. E lui replica: «Rosiconi». La cancellazione della voce sul noto blogger di informatica dall'enciclopedia online ha scatenato un dibattito e diviso la Rete sulle ragioni che portano alla rimozione, scrive Raffaella Cagnazzo l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un caso che ha aperto una discussione online, ma non solo. La voce Wikipedia su Salvatore Aranzulla è stata cancellata. Una citazione che riguarda uno dei divulgatori di consigli di informatica più conosciuti del web: il suo sito internet è tra i trenta più visitati d’Italia con oltre 400mila visite al giorno, su Facebook ha più di 340.000 follower, un fatturato che supera il milione di euro e chi cerca suggerimenti online su computer, internet e telefonia, difficilmente non si è imbattuto in un suo post. Cosa è successo. «Amici cari, vi dico solo che concorrenti di bassa lega e rosiconi stanno proponendo l’eliminazione della mia voce da Wikipedia» scriveva il 23 maggio scorso Aranzulla sulla sua pagina Facebook. E dopo una lunga discussione sulla piattaforma, la cancellazione è avvenuta. L'accusa mossa ad Aranzulla è di non essere un divulgatore scientifico, in sostanza i detrattori del blogger ritengono non risponda ai criteri di enciclopedicità necessari per essere presente sulla pagina di Wikipedia. Una delle tre ragioni che possono portare alla cancellazione di una voce dalla piattaforma di divulgazione in Rete (le altre sono la forma con cui è scritta una voce e il contenuto quando utile più al soggetto citato che ad un'informazione generale). Per la piattaforma di Wikipedia poco importa che il blogger sia una celebrità online, abbia scritto libri e sia considerato un esperto tanto da essere stato invitato più volte come ospite qualificato in trasmissioni nazionali. La replica di Aranzulla. «Abbiamo fatto scoppiare una bomba: più di 300.000 persone sono venute a conoscenza della cancellazione della mia pagina da Wikipedia. Ho ricevuto migliaia di messaggi di sostegno e centinaia di discussioni sono state avviate e sono in corso in Rete: da Facebook a Twitter, da Reddit a Linkedin. La comunità italiana di Wikipedia è di parte e il mio non è un caso isolato» commenta Aranzulla, spiegando che anche la pagina di Virginia Raggi, al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, è stata cancellata. La cancellazione, com'era inevitabile, ha scatenato un dibattito tra chi è un fervido sostenitore del blogger e lo considera un Guru del Web chi, invece, lo accusa di non avere competenze specifiche e di non aver mai programmato. Ma la questione sconfina oltre il singolo caso di Salvatore Aranzulla e apre una disputa sulla scelta delle voci attive su Wikipedia, le cui regole e linee guida sono state stabilite prima del 2004, e dove sono presenti le voci su tronisti di Uomini e Donne, Veline, e più in generale vari personaggi appartenenti alla cultura popolare. Chi è il blogger Aranzulla. Dal suo blog, Salvatore Aranzulla si definisce un divulgatore informatico, con più di 15.000 copie di libri venduti, autore del sito Aranzulla.it, uno dei 30 più visitati in Italia. Offre indicazioni pratiche con post in cui spiega «Come trasformare un Pdf in Jpg» o «Come filmare lo schermo del Pc», «Come cancellare la cronologia di Google» o ancora «Come connettersi ad una rete wireless»: argomenti di uso comune con cui, chi usa la tecnologia, si confronta tutti i giorni.
Wikipedia e la censura su Antonio Giangrande, le sue opere e le sue attività, scrive “Oggi” il 19 luglio 2012. Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un’enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell’ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande pur avendo 200 mila risultati sui motori di ricerca (siti web che parlano di lui), o cercate i suoi 100 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande e da tempo inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, dovuti al fatto perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.
E poi c'è la massa di frustrati. Il 9 giugno 2016 mi trovo sulla mia pagina Facebook la richiesta di amicizia di un tipo insignificante a da me ignorato. Attingo le sue informazioni: libero pensatore (?) di Milano e con pochi amici. Confermo la richiesta. Facebook lo impedisce. Cerco di eliminarla, idem. Dopo un paio di giorni vedo citato il mio nome a sua firma in un blog sconosciuto. E leggo quanto su di me racconta. Il tipo, sicuramente, lo fa con un certo astio, non avendo letto alcun mio libro. Oppure, avendo letto quello su Milano, ne sia rimasto risentito. “Lenzuolate. Cercando informazioni sul sempreverde Paglia, al secolo Giancarlo Pagliarini mi sono imbattuto in codesto personaggio, tal Antonio Giangrande. Uno che le mitiche lenzoluate di Uriel Fanelli sono termini delle elementari. Un grafomane assoluto come non ne avevo mai visti. Nu tipo tutto d’un pezzo. Uno che tiene ‘na caterva di siti. Insomma una specie di professionista della neNuNZia civil/penale. Uno che – parole sue: Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate. Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d’informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l’uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. Gli ingredienti del complottista ci sono tutti:
è convinto che gli altri lo taccino di mitomania, calunnie o pazzie (oh, por ninin)
si ritiene ingiustamente maltrattato (oh, pora stela)
ritiene di essere perseguitato per la sua azione “meritoria”. Infatti:
i media lo censurano (oh, por ninin)
le istituzioni lo perseguitano (oh, pora stela)
ma chicca delle chicche, questa missione superiore oh, poffartopo,
gli impedisce di lavorare!
Dico, ma quello che fa a casa mia si chiama “giornalismo”. Tant’è vero che vende i suoi libri su Amazon, su Google libri, e perfino su Lulu o su Create Space. È talmente preso dal bisogno morboso e patologico di scrivere, di dire al mondo che è tutto un’ingiustizia che non si rende nemmeno conto che forse a strillare così come un ossesso sembra davvero fuori di cotenna. Poi capisco la foga di dire al mondo la notizia. Ma diamine scrive come se parlasse alla radio! E ne sà, ma quante ne sà. In lungo e in largo, su ogni tema e su ogni zona di codesto infame paese E son tutti cattivi con lui: non lo sfiora neanche per un attimo che forse è proprio il suo atteggiamento che lo rende poco credibile. Ma no, lui ci ha la CiuSDiZia nelle vene.
Giusto per non farsi mancare niente, leggete come si descrive – in inglese:
THE ASSOCIATION AGAINST ALL THE MAFIAS
INTRODUCES
THE RELATION OF THE JUSTICE IN ITALY
President: Antonio Giangrande been born in Avetrana in the 2nd June 1963.
Professions: entrepreneur, private investigator, lawyer.
he emigrated in Germany when he had 16 years, because he was poor.
today, in Italy, for the threats and the attacks of the Mafia, he is unemployed.
today, in Italy, for the irregular examinations, he is unemployed.
The President with the degree is unemployed.
His wife is unemployed.
His son with the 2 degrees is unemployed.
His daughter with the diploma is unemployed.
They are unemployed because they fight the Mafia.
The judges do not punish the Mafia.
In Italy the environment is polluted;
In Italy the administrators publics do not respect the law;
In Italy the insurance agencies do not respect the law;
In Italy the lawyers do not respect the law;
In Italy the banks do not respect the law;
In Italy all the examinations are irregular, wins who is more cunning.
In Italy the authorities ignore the disabled, the prisoner, the unemployed, the poor people.
In Italy the judges do not respect the law;
In Italy the police does not respect the law;
In Italy the authority does not respect the law;
In Italy the authority misuses its power.
In Italy the authority says to the citizen: you undergo and be quiet!
The Italian citizen is silent.
You can translate the complete relation. It is in Italian.
Nessuno è onesto, son tutti disonesti, farabutti ecceterì ecceterà. Ma se è così un campione di superiore intelligenza….. perché non è andato all’estero a far faville? Mistero….Personalmente io sono una mezza sega, ma almeno sò di esserlo… codesto è il genio dei farlocchi incompresi. O meglio, sembra esserne convinto…”.
Non aspiro al consenso assoluto, comunque grazie per la pubblicità. Oscar Wilde diceva “Bene o male, purchè se ne parli…” Il detto «Nel bene o nel male, purché se ne parli» (e simili) parafrasa un brano de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1890): “... ma attirare l'attenzione delle persone su di te ha due risvolti: il primo è che se non sei indifferente ad esse, e che quindi parlano, anche male, di te, vuol dire che comunque esisti; ma quando a parlare male di te sono persone disperate, derise dal resto del mondo e che passeranno su di esso senza lasciare alcuna traccia, allora è proprio triste...E ancora, se l'unica cosa che meriterebbero queste "persone" sarebbe un Oscar, se ne esistesse uno per la capacità di fingere, per la falsità con cui gestiscono i rapporti anche tra loro, allora è ancora più triste. Il mio errore più grande è stato quello di adeguarmi a frequentare "esseri" i cui neuroni sono pochi e purtroppo anche stanchi... e per adeguarmi intendo dire che ho accettato i loro limiti intellettivi, umani, culturali e sono passato sopra alle cose anche gravi che hanno fatto... così, perchè ho deciso di adottare la filosofia secondo la quale tutti siamo diversi... per intelletto, umanità e cultura... E quando mi sono sentito chiedere: "Come fai a stare con certa gente?" ho risposto che le persone è necessario conoscerle prima di giudicarle. Il problema è che io mi faccio conoscere come sono, ma spesso mi illudo di conoscere chi mi sta intorno. Forse sottovaluto ciò di cui possono essere capaci...Non avevo idea di come potesse essere cattiva la gente, o meglio, non pensavo di poterlo provare sulla pelle, di essere io l'oggetto della cattiveria di qualcuno/a... e mentre mettevo in guardia le persone a cui tengo di più, non mi accorgevo che dovevo stare anche io in guardia....La cosa che questi esseri (scusate ma non so proprio come definirli) non capiscono è che mentre cercano di rovinare la tua reputazione, dispensando giudizi negativi e gratuiti su di te, non si accorgono che la loro è già compromessa, o forse sono solo consapevoli che se si concentrano sui tuoi difetti non vedono i propri... Tu comunque non vieni intaccato, perchè ciò che dicono rimane nel loro piccolo mondo di cacca che si sono costruiti, e fuori da quel mondo di cacca tu sei apprezzato e rispettato, intrecci rapporti lavorativi, sociali, interagisci con persone diverse, mentre loro suscitano ilarità, disprezzo o peggio ancora indifferenza...Ecco perchè dopo tutto ciò non sono deluso, o triste, ma provo solo pietà... perchè io so, e sapevo, di tutta questa ilarità, disprezzo e indifferenza... la leggevo negli occhi di quelle stesse persone alle quali oggi gli esseri dispensano giudizi negativi e gratuiti su di me...Che falsità, che ipocrisia...Finchè nella tua vita non fai niente di "speciale", niente che possa suscitare l'invidia delle persone, passi inosservato, e nessuno si sente in diritto di giudicarti... ma quando eccelli in qualcosa, quando volente o nolente "ti fai notare" allora sei fottuto... e cosa ancora più grave proprio da chi ti diceva - Ma come sei bravo, diventerai un bravo ing., ecc.! . Giuda almeno ci ha guadagnato 30 denari con un bacio...L'importante è avere la stima delle persone a cui tieni di più: la tua famiglia, gli Amici veri, e perchè no, la gente con cui lavori... ma soprattutto il tuo orgoglio, il resto è niente... un tassello da aggiungere ad un puzzle, un pezzo che vorresti perdere ma che comunque fa parte del quadro, e senza mancherebbe sempre qualcosa, ci sarebbe un vuoto. Ben vengano le critiche allora, gli sguardi invidiosi, le maldicenze... sono prove a cui la vita ci sottopone, e ne usciamo più forti. Ci sono due tipi di "invidia": quella "malata", che porta molti a credere che per avere successo bisogna affondare chi è meglio o credi sia meglio di te, e quella "sana" che porta a migliorarti, perchè sai che tu puoi essere meglio di come sei ... che ti stimola a perfezionarti, perchè è così che si ottiene il successo. Purtroppo, come la gramigna, la prima è più diffusa, è insita nella natura umana, e propria di chi non vuole far fatica a mettere a prova sè stesso... è più facile distruggere chi rappresenta una minaccia...Rappresento una minaccia per qualcuno? non so, può darsi. Suscito invidia? Forse... ma non penso che qualcuno riesca a distruggermi.”
La “mediocrazia” ci ha travolti, così i mediocri hanno preso il potere, scrive Angelo Mincuzzi il 19 giugno 2016 su L’urlo del “Il Sole 24ore”. Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la “mediocrazia” ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro, un po’ come gli alieni del film di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi”. Ricordate? “Mediocrazia” è il titolo dell’ultimo libro del filosofo canadese Alain Deneault, docente di scienze politiche all’università di Montreal. Il lavoro (“La Mediocratie”, Lux Editeur) non è stato ancora tradotto in italiano ma meriterebbe di esserlo se non altro per il dibattito che ha saputo suscitare in Canada e in Francia. Deneault ha il pregio di dire le cose chiaramente: «Non c’è stata nessuna presa della Bastiglia – scrive all’inizio del libro -, niente di comparabile all’incendio del Reichstag e l’incrociatore Aurora non ha ancora sparato nessun colpo di cannone. Tuttavia, l’assalto è stato già lanciato ed è stato coronato dal successo: i mediocri hanno preso il potere». Già, a ben vedere di esempi sotto i nostri occhi ne abbiamo ogni giorno. Ma perché i mediocri hanno preso il potere? Come ci sono riusciti? Insomma, come siamo arrivati a questo punto? Quella che Deneault chiama la «rivoluzione anestetizzante» è l’atteggiamento che ci conduce a posizionarci sempre al centro, anzi all’«estremo centro» dice il filosofo canadese. Mai disturbare e soprattutto mai far nulla che possa mettere in discussione l’ordine economico e sociale. Tutto deve essere standardizzato. La “media” è diventata la norma, la “mediocrità” è stata eletta a modello. Essere mediocri, spiega Deneault, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema. Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, spiega il filosofo canadese, deve «giocare il gioco». Ma cosa significa? Giocare il gioco vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco, racconta Deneault, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata. È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere “affidabili”, di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. «Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale» è l’obiettivo del mediocre. Verrebbe da dire che la caratteristica principale della mediocrità sia il conformismo, un po’ come per il piccolo borghese Marcello Clerici, protagonista del romanzo di Alberto Moravia, “Il conformista”. Comportamenti che servono a sottolineare l’appartenenza a un contesto che lascia ai più forti un grande potere decisionale. Alla fine dei conti, si tratta di atteggiamenti che tendono a generare istituzioni corrotte. E la corruzione arriva al suo culmine quando gli individui che la praticano non si accorgono più di esserlo. All’origine della mediocrità c’è – secondo Deneault (nella foto qui sopra) – la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni 80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance – sostiene l’autore del libro – l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato “problem solving”. Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti, incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo. La governance è in definitiva – sostiene Deneault – una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese. Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia. Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato “clienti”, tutti sono consumatori. E dunque non c’è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all’apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. È quello che Denault definisce con un equilibrismo grammaticale «l’estremo centro». Un tempo, noi italiani eravamo abituati alle “convergenze parallele”. Questa volta, però, l’estremo centro non corrisponde al punto mediano sull’asse destra-sinistra ma coincide con la scomparsa di quell’asse a vantaggio di un unico approccio e di un’unica logica. La mediocrità rende mediocri, spiega Denault. Una ragione di più per interrompere questo circolo perverso. Non è facile, ammette il filosofo canadese. E cita Robert Musil, autore de “L’uomo senza qualità”: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall’esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe». Senza scomodare Musil, viene in mente il racconto di fantascienza di Philip Klass, “Null-P”, pubblicato nel 1951 con lo pseudonimo di William Tenn. In un mondo distrutto dai conflitti nucleari, un individuo i cui parametri corrispondono esattamente alla media della popolazione, George Abnego, viene accolto come un profeta: è il perfetto uomo medio. Abnego viene eletto presidente degli Stati Uniti e dopo di lui i suoi discendenti, che diventano i leader del mondo intero. Con il passare del tempo gli uomini diventano sempre più standardizzati. L’homo abnegus, dal nome di George Abnego, sostituisce l’homo sapiens. L’umanità regredisce tecnologicamente finché, dopo un quarto di milione di anni, gli uomini finiscono per essere addomesticati da una specie evoluta di cani che li impiegano nel loro sport preferito: il recupero di bastoni e oggetti. Nascono gli uomini da riporto. Fantascienza, certo. Ma per evitare un futuro di cui faremmo volentieri a meno, Deneault indica una strada che parte dai piccoli passi quotidiani: resistere alle piccole tentazioni e dire no. Non occuperò quella funzione, non accetterò quella promozione, rifiuterò quel gesto di riconoscenza per non farmi lentamente avvelenare. Resistere per uscire dalla mediocrità non è certo semplice. Ma forse vale la pena di tentare.
BIBLIOGRAFIA ED OSSESSIONE.
Quando il libro è un'ossessione: ecco i peggiori bibliofili d'Italia. Esce il nuovo libro di Mascheroni: Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia. Una galleria di ritratti di 25 accaniti bibliofili fra storia dell’editoria, patologia e "libridine", scrive Luigi Mascheroni Venerdì 28/12/2012 su "Il Giornale". S’intitola “Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia” (sottotitolo: “Ritratti d’autore dei peggiori bibliofili d’Italia") ed è il nuovo libro di Luigi Mascheroni (Biblohaus, pagg. 176, euro 15; prefazione di Mario Baudino): da Giulio Andreotti a Cesare De Michelis, da Alfredo Castelli a Philippe Daverio, da Pablo Echaurren a Vittorio Sgarbi, da Marcello Dell’Utri a Giampiero Mughini, una galleria di ritratti di 25 accaniti bibliofili (famosi e non) fra storia dell’editoria, patologia e “libridine”, che raccontano la passione per i libri, il piacere della lettura, e i vizi del collezionismo. Dal più grande amatore di libri erotici all’infallibile cacciatore di libri proibiti, dal maggior collezionista di libri di fantascienza al monaco solitario che vive insieme a 50mila volumi…Pubblichiamo qui un estratto del libro, il capitolo dedicato a Simone Berni, il “cacciatore di libri impossibili”…Nella sua biblio-casa, a Siena, c’è anche l’opuscolo fantapolitico 5 anni di governo Togliatti, apparso anonimo nel 1953 per le Officine Grafiche Arnoldo Mondadori di Verona e poi sparito, in cui si paventa un Paese portato allo sfascio dal “Migliore”. C’è il libro che Franco Tabasso, nel 1957, scrisse sulle imprese del padre Aristide, agente del Servizio Informazioni della Marina, dal titolo Su Onda 31 Roma non risponde, stampato da una piccola casa editrice di Città di Castello e sequestrato prima della distribuzione, con divieto di successiva ristampa. E c’è anche un esemplare della prima tiratura, pochissime copie, del Codice da Vinci, quella con in quarta di copertina la foto di Dan Brown seduto, e non in piedi come in tutte le altre. Cercate un libro scomparso? Una prima edizione rarissima? Un titolo dato per disperso o ritirato dal mercato per qualche segreta ragione? Bene, la persona giusta alla quale chiedere aiuto è lui. Simone Berni. Il miglior esperto sul mercato di “insolito li-bresco”, implacabile cacciatore di libri per conto terzi ma anche fanatico collezionista per conto proprio. Sull’argomento ha anche scritto una vera guida (stampata da Biblohaus): Questo è Berni, sottotitolo “Manuale del cacciatore di libri introvabili”. Il titolo e la sovraccoperta, giusto per far capire ai non-bibliofili di cosa parliamo, sono una citazione dell’introvabile Questo è Cefis, la sulfurea biografia non autorizzata del presidente dell’Eni e della Montedison Eugenio Cefis, firmata da un non meglio identificato Giorgio Steimetz, pubblicata nel 1972 dall’Agenzia Milano Informazioni, e subito fatta sparire da tutte le librerie e le biblioteche italiane: insomma, il libro introvabile per eccellenza. Comunque. Il “Manuale” di Berni è un prontuario prodigo di consigli e trucchi per chi bazzica mercatini, librerie, bancarelle e siti internet specializzati; che mappa i luoghi e le tecniche della caccia; e che censisce le tipologie dei personaggi che popolano il mondo dei libri. Ma nello stesso tempo è un “catalogo delle meraviglie” di tutti i testi scomparsi o perduti (lo sapevate che nel ’62 Bompiani stampò ma non distribuì Il tamburo di latta di Günter Grass, che poi uscì da Feltrinelli?), i titoli rari&rarissimi (l’autobiografia di Moana Pozzi…), le edizioni pirata (i vari Larry Potter...), gli apocrifi (un meraviglioso Il Gatto brasiliano di Conan Doyle apparso a Milano nel ’32 per Valdieri). Insomma, libri proibiti, o proibitivi. Senta, Berni: visto che Lei non dà la caccia ai libri solo per rivenderli ai collezionisti, ma molti se li tiene, si può sapere cosa c’è esattamente nella sua biblioteca? “Beh, mi metto in moto su richiesta, per lo più. Fun-ziona così. Sto correndo, come tutte le mattine, lungo il fiume. Mi squilla il cellulare. È un collezionista, e mi dice che vuole una copia della Bibbia di Gutenberg entro il fine settimana”. Prego? “Nel senso che non mancano vere e proprie mission impossible, anzi, sono le sfide più difficili quelle che mi attirano di più, che stimolano la mia creatività. Ma per il collezionista rivolgersi a me può anche rivelarsi controproducente. Spesso non si rende conto di avere a che fare con un potenziale ladro”. ...???... “Nel senso che posso rima-nere così colpito da un libro introvabile commissionatomi da un cliente, che alla fine decido di tenermelo, rinunciando a un compenso anche cospicuo. Sa, la brama di possesso prende facilmente il sopravvento”. La prego, torniamo alla sua libreria… “Va bene, va bene. La mia libreria… Qualcuno l’ha definita la Biblioteca dei libri perduti, salvo poi scoprire che questo è il titolo di un romanzo di John Harding. E… sì, ammetto di avere qualcosa di interessante. Ma io non la apro a cuor leggero ai visitatori. Di alcuni libri in mio possesso, la maggior parte degli stessi bibliofili neppure ne sospetta l’esistenza. E vorrei che continuassero a non sospettarla. Ciò che è segreto è in salvo. Dalla mia raccolta forse un giorno nascerà un museo. Un giorno”. E un giorno quel museo immagazzinerà testi unici, perduti, scomparsi, ritrovati, rarità, edizioni pirata, clandestine, false, fantasma, apocrife… Sono pochi pezzi, numericamente elencando, diciamo 1500-2000 al massimo, ma pesantissimi dal punto di vista della… come dire? “Anormalità”. Molti sono stati casi interessanti “a tempo”, cioè hanno rivestito un interesse particolare solo per un periodo ben preciso e oggi, a distanza anche di pochi anni, rivestono solo un valore documentale. Altri sono bizzarrie, come alcune prime edizioni di Ignatius Donnelly, un politico del Minnesota vissuto alla fine dell’800 che scriveva strani romanzi d’utopia. Altri sono libri d’esordio di non facile reperimento: Concerto a sei voci, il primo libro di Giulio Andreotti (è del 1945), o Commiato dal tempo di pace di Indro Montanelli (anno 1935), o il meno pretenzioso Ho ucciso la morte di Maurizio Costanzo (1958). Altri ancora, invece, hanno dato vita a casi destinati a fare epoca, basti pensare a Pasque di sangue di Ariel Toaff pubblicato nel febbraio del 2007 e ritirato dal Mulino pochissimi giorni dopo l’uscita (ne sono girate solo 3mila copie, le restanti sono finite al macero) per le violente proteste della comunità ebraica: nella prima versione del testo, poi ripubblicato “purgato”, Toaff sosteneva la fondatezza della voce secondo cui nei secoli passati gli ebrei, in talune circostanze, compirono sacrifici umani durante i riti pasquali. Scritto da un ebreo, ce n’era abbastanza per farne un libro maledetto…Libri maledetti.. uhmmm. Qual è il primo acquistato per il puro piacere del possesso? “Come funziona la dittatura fascista, di Gaetano Salvemini, un libro in italiano stampato a New York per sfuggire alla censura. Mi colpì subito quella copertina. Il volto di Benito Mussolini alla sommità di due tibie incrociate. Era chiaro, mi dissi quando lo notai in un sobborgo di Amsterdam, che in Italia un libro del genere, stampato alla fine degli anni Venti, non avrebbe potuto circolare liberamente. Dopo la mia segnalazione nel 2005 oggi tutti lo ricercano. È diventato un piccolo oggetto del desiderio”. E il primo libro introvabile su cui ha messo le mani? “Mondi in collisione di Immanuel Velikovsky, edizione Garzanti 1955, con la sovraccoperta originale e l’introvabile fascetta azzurra. Come argomento siamo sempre nel filone delle scienze perdute. Il libro è un vero must del genere. In America Velikovsky è stato demonizzato per almeno mezzo secolo, dal 1950 in poi, anno in cui osò sfidare la comunità scientifica con il suo irriverente libro”. Quello con alle spalle la storia più curiosa? “Forse Les Septe Têtes du Dragon Vert di Teddy Legrand, un libro francese degli anni Trenta sul simbolismo iniziatico che trovai con grosse difficoltà e una serie di peripezie per conto di un docente universitario di Roma, ma che poi mi sono tenuto per me (e ti pareva, ndr). Il libro è rarissimo. Recentemente è stata realizzata una riedizione in qualche centinaio di copie. Subito vendute, sono diventate quasi più rare dell’originale. C’è gente che farebbe follie”. Ecco. Libri e follie. La letteratura insegna che c’è gente che per un libro sarebbe pronta anche a uccidere. “Beh, è vero. Ci sono effettivamente collezionisti e feticisti dell’oggetto-libro che sono pronti a ogni sacrificio pur di entrare in possesso di ciò che bramano. Un collezionista emiliano, ad esempio, ha la monomania dei libri dei grandi artisti della fotografia. Da Helmut Newton a Mario Testino, a William Claxton o David Lachapelle, per non dire di Slava Mogutin, un fotografo russo contemporaneo, specializzato in sog-getti umani di realtà urbane degradate. I suoi album fotografici degli esordi sono introvabili e spuntano valutazioni altissime tra i suoi truci fan. Il collezionista in questione è capacissimo di spendere i diecimila dollari che occorrono per portarsi a casa Hotel Lachapelle di David Lachapelle, un’opera prodotta in cinquanta copie numerate e firmate dall’autore. E stiamo parlando di un libro del 2007. Oggetti del desiderio destinati a triplicare di valore nel giro di pochi anni, o svalutarsi nell’arco di pochi mesi”. O a incrementare progressivamente. Come tanti titoli che toccano due argomenti particolarmente delicati dal punto di vista editoriale: l’antisemitismo, come il libro di Piero Pellicano uscito per Baldini&Castoldi nel 1938 col titolo Ecco il diavolo, Israele (che però, sul frontespizio, cambiando punteggiatura, diventa Ecco il diavolo: Israele!) oppure gli Ufo, come L’enigma dei dischi volanti di Aimé Michel, edizioni Massimo, 1955, il più costoso libro italiano sull’argomento (ma solo se completo della sovraccoperta originale). Anche se esistono libri ancora più dispendiosi. Se non dal punto di vista economico, in termini di tempo e fatica. “Pochi mesi fa, dopo una caccia infinita, ho messo le mani su un libro sul quale per ora voglio mantenere un riserbo assoluto. Si tratta di un’edizione scomparsa, probabilmente è l’unica copia sopravvissuta. Una mosca bianca che può riscrivere la storia di uno dei più famosi romanzi del ‘900. Dico solo che questa specifica edizione, non dovrebbe esistere”.
LE ULTIME PAROLE FAMOSE: GLI ADDII DEL SUICIDIO.
Nella Rete delle ultime parole (non) famose. Gabriele Tinti ha raccolto una collezione di addii prima del suicidio, scrive Davide Brullo Mercoledì, 06/01/2016, su “Il Giornale”. «Di cos'altro bisognerebbe parlare? Questo è il tema necessario della letteratura, il tema fondamentale», dice lui. Prima di lui lo aveva già detto Albert Camus, senza fronzoli. Prima frase del Mito di Sisifo: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Sul suicidio si è fatta fin troppa letteratura: dal re delirante Saul ad Aiace, da Pier delle Vigne allo svenevole Werther allo sventato Jacopo Ortis. Sul corpo dei suicidi, frollato nella colpa, grava la sentenza leopardiana (nel Bruto minore): «Spiace agli dèi chi violento irrompe nel Tartaro». «Tutto il mio lavoro è centrato sulla morte», dice ancora lui, Gabriele Tinti, che ai suicidi ha dedicato un libro grave e assurdo. Gabriele Tinti sta tra Senigallia, nelle Marche, e New York. Non è uno stilista, non è uno snob, non è ricco di famiglia. Nelle Marche insegna ai disabili; a New York è un poeta apprezzato. «So di essere un outsider. E un diverso. Perché non faccio parte di alcun gruppo, di nessuna rivista, non conosco nessuno nel mondo della poesia italiana», dice lui, ma è quello che in fondo dicono tutti. A Gabriele Tinti, precisando, fa schifo la letteratura italica. Non sopporta «la chiacchiera a cui si è ridotta la letteratura di oggi», sente come tutti «il desiderio di parole definitive, reali, concrete, vere». Per questo, da anni raccoglie le parole dei suicidi. Le parole ultime e testamentarie, che scova nel sacrario di Internet. Sono morti anonime, una falange di sconosciuti, italiani, francesi, americani. Questo lavoro sepolcrale, in sessantanove messaggi, da «Non rinuncio facilmente, ma stavolta non riesco a vedere una via d'uscita da questo buco nero» a «Fine», è diventato un libro che agghiaccia, Last words, uscito in novembre («l'estate, fredda, dei morti» del Pascoli) per Skira in Italia e a febbraio negli Stati Uniti. Pratica nota per Tinti, il libro oltreoceanico: due anni fa il ciclo di poesie All over, dedicato ai pugili «lavorando sull'etica della sconfitta», ebbe fiamme di fama dopo che fu letto al Getty Museum da Robert Davi, uno dei cattivi del cinema internazionale (l'abbiamo visto ne I Goonies, in 007: vendetta privata e ne I mercenari 3, per dire). L'insegnamento che dona il libro di Tinti è che non basta suicidarsi per diventare uno scrittore, la letteratura è spietata, si commuove davanti a un suicida come di fronte a un Bacio Perugina. Le parole ultime raccolte con cura da Tinti spiccano per la loro banalità («Mi hai strappato l'anima. Non ho più ragione di respirare»), per l'accumulo di cliché («Ancora una volta ho mandato a puttane la mia vita e questa volta non c'è rimedio»; «Mi dispiace tanto per favore perdonatemi tutti per quel che sto per fare»), per il valzer di paradossali ovvietà («Apprezza ogni giorno che nasce, apprezzane ogni minuto»). C'è chi imbocca l'etica darwiniana («La sopravvivenza del più adatto. Adiós inadatti») e chi ha afrori cristici («Mi sacrifico per salvare i moltissimi che morirebbero se dovessi vivere. È una nobile causa, suppongo. Una buona ragione per morire. Mi piace pensare che sareste d'accordo»), ma l'insegnamento mistico per davvero, feroce e severo del libro, è che bisognerebbe morire in silenzio, diritti, senza sparpagliare rancori o irrorare colpe. Esito: la vita non basta. Per realizzare la morte, è ancora necessaria la letteratura. L'Intervista a un suicida di Vittorio Sereni (incipit memorabile: «L'anima, quella che diciamo l'anima e non è/ che una fitta di rimorso»), ad esempio, è un talismano necessario. Come il Memorandum per un vecchio amico di Ryunosuke Akutagawa, che prima descrive, in forma estetica perfetta, come ci si uccide, per poi uccidersi davvero, compiendo il suo racconto (per la cronaca: ingerendo una quantità folle di Veronal, a 35 anni, il 24 luglio del 1927). Un testo meditabondo e terribile («Da due anni penso unicamente alla morte»), si risolve in grazia: «la natura mi appare così splendida perché sono gli estremi sguardi che le rivolgo». Si può scrivere davvero, dice Akutagawa, soltanto se si osservano le cose per l'ultima volta, sempre sul ciglio della fine.
Gabriele Tinti e Last words. L’ultimo mondo che la poesia indica e forse preserva. Gabriele Tinti è un Poeta, scrive Barbara Martusciello il 2 maggio 2015. Affermare, oggi, in tempi tanto bui, profani e consumistici, dove tutto è soppesato in termini di immediata monetazione e di audience, il valore della Poesia, e indicare una persona Poeta non è cosa di poco conto e coraggio. Eppure, la Poesia esiste e insiste in un contesto che ne ha disperato, inconsapevole bisogno, comunque tanto da prenderne a piene mani laddove questa – la poesia – compare in modo più o meno sorprendente. Sono lontani eppure freschi nella memoria collettiva sociale certi Reading e Festival (spiaggia di Castelporziano, Roma, estate ’79) che coinvolsero giovani, persone comuni, cittadini accanto a grandi intellettuali, persone di settore e autori affiancati nel nome della lirica e del verso di cui oggi avremmo tutti una necessità esistenziale e culturale all’interno della distopica nostra quotidianità. Questo è un punto importante: la Poesia non è Musa esclusiva di eletti e spiriti sensibili, non imposizione scolastica da cui fuggire (ricordiamo tutti l’atroce sfida del dovere imparare a memoria poemi spesso incomprensibili per incapacità dei docenti a farli amare agli studenti); essa, al contrario, è e dovrebbe essere (o tornare) fruizione comune, parte dell’esistente, porzione della normalità delle persone come angolo di decompressione dal logorio della vita moderna, attivatrice o facilitatrice di emozione, linguaggio con il quale confrontarsi per mettere in contatto ogni parte di sé al di là del rumore di fondo. Quanto ciò sia oggi agile non è facile da dire – ma lo diciamo: non lo è – ma talvolta qualcosa avviene e questa agilità la percepiamo immediata e foriera di arricchimento tanto da sperare che altre iniziative simili si ripetano. Ci stiamo riferendo alla lettura di fine aprile (da parte di Silvia Calderoni di Motus) di Last words al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps. Perché un tal poetare in uno spazio espositivo tanto speciale come questo romano? Perché Tinti, giovane poeta e scrittore nato a Jesi, autore di libri e protagonista di altre presentazioni museali (come al Queens Museum of Art di NYC, la Triennale di Milano, il MACRO di Roma e il Boston Center for the Arts di Boston), ha scritto appositamente il componimento ispirandosi al famoso gruppo scultoreo Galata suicida conservato nel Museo. Conosciuto anche come Galata Ludovisi, l’opera è una pregevole copia romana in marmo (h. 211 cm) del I secolo a .C. di un originale bronzeo di Epìgono realizzato verso il 230-220 a.C.. Con l’altrettanto celebre, bellissimo Galata morente (la cui copia romana è nei Musei Capitolini di Roma) faceva parte del Donario di Attalo, un perduto monumento trionfale sull’acropoli di Pergamo commissionato da Attalo I per celebrare la propria vittoria contro i Galati. La Poesia nei Musei risplende e fa luce, a sua volta, sull’Arte visiva che, grata, rischiarata, rende la cortesia. Questo connubio sembra, quindi, un’idea giusta da proporre per rinverdire quel rapporto tra ambiti, discipline e fruitori che nel passato fece del nostro Paese un crogiuolo di creatività e culturale sperimentale pionieristico: qualcosa che potremmo tornare ad essere per imporci nuovamente per quello che siamo sempre stati, al di là della corruzione e di mafie capitali, ‘ndranghete e simili nefandezze: patria di eroi, navigatori, di trasmigratori, pensatori, scienziati, artisti e poeti, oltre che di santi…
L'evento vedrà le letture di Silvia Calderoni (Motus) e di Gabriele Tinti presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps di Roma, di fronte alla statua del Galata suicida.
Silvia Calderoni leggerà "Last words" una poesia che Gabriele Tinti ha scritto appositamente come omaggio all'importante gruppo scultoreo conservato nel Museo, scrive Sandra Terranova su “Affati Italiani” il 23 aprile 2015. Il disegno concettuale che la presiede è drammatico: restituire il lirismo degli istanti ultimi. Con questo obiettivo lo scrittore ha composto in un’unica, dolorosa, poesia le ultime parole di persone comuni che hanno scelto di suicidarsi, facendone il canto ultimo della coraggiosa donna che - come il marito - preferisce ricevere la morte alla prigionia. Sono parole letali, lucide, parole che contengono tutta la complessità terribile della vita. Nel loro essere ultime, conclusione d'ogni comunicazione, d'ogni slancio vitale, testimoniano la più autentica difficoltà dell'esser uomini. Gabriele Tinti introdurrà la lettura e racconterà l'opera che l'ha ispirata. Gabriele Tinti è un poeta e scrittore italiano. I suoi libri di poesia sono conservati nei maggiori centri di ricerca della poesia internazionale come la Poets House di NYC, il Poetry Center di Tucson, la Poetry Foundation di Chicago, la Poetry Collection di Buffalo e la Poetry Library del South Bank Centre a Londra. Le sue poesie sono state lette in Musei come il Queens Museum of Art, il Boston center for the Arts, il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma e la Triennale di Milano da attori come Alessandro Haber, Michael Imperioli, Franco Nero e Burt Young. Silvia Calderoni è un'attrice italiana, vincitrice del Premio Ubu 2009, del Marte Award 2013 e del Premio Elisabetta Turroni 2014 come migliore attrice. E' interprete protagonista di tutti i recenti spettacoli del gruppo teatrale i Motus. Ha collaborato più volte con Judith Malina, Thomas Walker e Cathy Marchand (Living Theatre).
ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.
“Basta coi fascisti tutti cretini!”, scrive il Bruno Giurato su Riproponiamo per i lettori di OFF l’intervista cult ad una delle più forti personalità della letteratura italiana, Antonio Pennacchi, da dicembre 2015 di nuovo in libreria con il sequel del romanzo che gli valse il Premio Strega nel 2010, “Canale Mussolini”.
I Neandertal alla fine non erano così rozzi come li si dipinge. Costruivano utensili molto funzionali. Li decoravano, quindi apprezzavano l’inutile: l’arte. Avevano, probabilmente, una forma di culto dei morti, una “cultura immateriale”: un senso della spiritualità. Lo racconta, insieme a molte altre cose, Antonio Pennacchi nel suo libro. Camerata Neandertal (Baldini & Castoldi, pp. 290, euro 16,00), un romanzo-memoir umoristico e divertito, pieno di ironia, furore e sacrosanto cazzeggio. E a proposito, si può scrivere Neandertal, senza l’acca in mezzo, invece di Neanderthal. E a proposito bis: la paleontologia non è una fissazione dello scrittore di Latina, magari legata al ritrovamento di un teschio neandartaliano in mezzo a un circolo di pietre a Grotta Guattari a due passi da casa sua. Viene il sospetto che sia una metafora. Politica.
E glielo domandiamo: non è che riabilitando i negletti Neandertal intende fare del revisionismo sui grandi impresentabili, ormai quasi innominabili, della storia, Fascismo e comunismo? Risposta: “E lei che dice…?”. Dico che sì, ha voluto fare del revisionismo.
«Mi hanno ammazzato un libro per questa storia: il Fasciocomunista. Nel film Mio fratello è figlio unico quelle tre teste di cazzo degli sceneggiatori hanno dovuto fare i fascisti tutti cattivi e imbecilli. Perché non gli tornava che i fascisti potessero essere persone normali, come tutti gli altri».
E invece lei ha sempre cercato un’unione, magari rissosa, oltre le divisioni ideologiche.
«La vita è un campo di tensioni. Lo racconto nel libro che mi sono menato con Ajmone Finestra quando mi cacciò dall’Msi, mi sono menato con mio fratello Gianni, più di una volta. Ci meniamo, ma poi la cosa che serve a tutti la facciamo».
Sembra Guareschi. Peppone e Don Camillo.
«Sono diverso da lui. La mia scrittura è più elaborata della sua, e l’ho già detto e ridetto. Ma il suo cinema mi piace sempre. Ogni volta riguardo i Don Camillo quando li fanno in tv. Guareschi era un anticomunista viscerale (in questo sono come lui, viscerale, di pancia), ma in fondo è un togliattiano…»
Un togliattiano Guareschi?!?
«Ha un fortissimo sentimento dell’unitarietà del popolo. E in questo è togliattiano. Quando Togliatti parla di “unità nella diversità”. Il prete e il sindaco comunista che si pigliano a botte, ma sempre nell’interesse e al servizio del popolo. Anzi sa cosa le dico?»
Lo dica…
«Quella di Guareschi sembra addirittura una visione maoista (nel senso di quel che Mao scrive, non nel senso di quello che fa, naturalmente). Tutto deve tendere all’uno».
Va bene. Politica come soluzione di problemi pratici, sociali. Come piccola comunità unita quasi familiarmente, nonostante tutto. Le piace la Lega di Salvini?
«Per me è molto più progressivo Berlusconi che Salvini. Il giudizio sulla politica non si fa rispetto al tasso di corruzione. Ma sull’efficacia del progetto. Quello di Salvini non guarda avanti. Non vuole rischiare. Vuole salvaguardare l’esistente. Mentre ormai siamo necessitati a guardare avanti, verso un governo globale. Il nostro destino è la globalizzazione».
Ma lei dice di detestare il Cav…
«L’ho detto. Ma cambio spesso idea…»
Le piace l’Europa?
«Non mi piace l’Europa dei banchieri. Ma la soluzione è l’Europa politica, finalmente, non il “meno Europa”. Salvini da questo punto di vista guarda solo in casa, al qui e ora. Appena tornai da un viaggio in Cina mi resi conto. Lì pensano avanti, ai prossimi trenta, quaranta anni».
E quindi Renzi e Berlusconi.
«Renzi lo voto, l’ho votato e lo voterò. A me personalmente, a pelle, Renzi non mi piace. Quando vedo in tv da come si muove sembra Galeazzo Ciano nei filmati dell’Istituto Luce. Fare tronfio, finta bonomia, “so tutto io”. Ma non c’è altra soluzione. Il patto con Berlusconi è storicamente necessitato (perché non l’abbiamo fatto fare a D’Alema? Ci saremmo risparmiati 20 anni di dismissioni industriali). I patti si fanno con l’avversario, sennò con chi cazzo li fai? Ma semmai si poteva fare di più. Non solo una riformicchia. Ci levano il Senato e forse si fa la legge elettorale. Capirai! Ma già che ci sei ribaltalo il paese! Dai una botta alla magistratura, anche! Anche per quei fatti della Fiom. Giorni e giorni di polemiche per quattro manganellate…»
Eh?
«Ne ho prese di botte ai tempi miei. Pare che le cosa più importante siano le botte alla manifestazione. Eh no. La cosa più importante è se riesci a far stare aperta questa cazzo di fonderia. Non c’è un operaio italiano che rinuncerebbe a prendersi quattro manganellate, purché gli si tenga aperta la fabbrica».
Chiarissimo. Lei è un materialista e ha scritto un’autobiografia dove si parla molto di spirito. Di culto dei morti. Racconta di un’esperienza di pre-morte. Cosa le succede?
«Scrivo in una lingua senza aggettivi, non scrivo barocco, scrivo essenziale. Racconto i fatti. Quella che lei chiama “esperienza pre morte” la dico in poche righe e con molto pudore. La musa delle mie opere è mia moglie. E ogni volta mi rimette a terra quando rischio di partire per voli pindarici. Sull’esperienza pre-morte, dopo l’operazione con la quale mi hanno innestato tre bypass, mi ha detto: “come puoi esserne sicuro”? Non lo so. So che la racconto. Mi sembra di aver visto la luce. Vai a capire…»
E il suo rapporto con gli avi? Lei ha scritto di aver sentito i loro spiriti in molte occasioni. Tra l’altro siamo proprio a cavallo di una ricorrenza come il giorno dei morti.
«Sento molto le ricorrenze del calendario. Il mio primo libro, Mammut, ho iniziato a scriverlo proprio il primo novembre».
Umorismo commuovente nella scena in cui le ceneri di suo fratello [Gianni, storico cronista politico, tra l’altro de Il Giornale] vengono disperse nel canale e la famiglia in coro gli canta “Gianni Gianni. Gianni del buco del…”
«Ho scoperto che fa pensare a certi rituali popolari. In Calabria certi santi vengono buttati in acqua, come raccontano gli antropologi».
Nelle cose che scrive c’è una sorta di contraddizione. Sembra che in questo libro lei parli delle volte come un materialista, a volte come un aruspice.
«Non è una contraddizione. E’ che la realtà è fatta di molti aspetti. La realtà è molto più grande dell’io».
Che Antonio Pennacchi sia uno dei più grandi scrittori viventi è evidente, scrive il 31/12/2015 Davide Fent su "Il Giornale". Con “Canale Mussolini” Pennacchi ha vinto il Premio Strega, e ha raccontato la saga di una famiglia contadina originaria del Polesine. Una famiglia fascista. Proprio per i meriti acquisiti in una mortifera azione squadrista, i Peruzzi (si chiamano così) vengono ricompensati con due poderi nella fascistissima bonifica agraria dell’Agro Pontino: di punto in bianco i mezzadri padani si trovano catapultati nel “deserto” pontino, tra i “marocchini”. E fascisti lo resteranno fino alla fine, quando si daranno da fare per contrastare lo sbarco inglese a Anzio, in attesa dei rinforzi nazisti. Tutti i familiari, ed è questa la principale forza del romanzo, sono veraci e diretti: ciascuno incarna a modo suo una comune istrionica vitalità (molto veneta). Si esprimono rigorosamente in dialetto, un dialetto “veneto-pontino” colorito e efficace, iconoclasta e comico. Un dialetto fagocitante e pervasivo che è una lettura in chiave epica della realtà, un subdolo grandangolo linguistico che fa apparire Mussolini un uomo decisamente simpatico, anche se un po’ burbero e umorale (e impenitente donnaiolo). Ora ecco “Canale Mussolini. Parte seconda” (Mondadori, pp. 425, euro 22) dove continua la saga della famiglia Peruzzi: sullo sfondo di Latina e Littoria si muovono i fantasmi della Storia e della Seconda guerra mondiale. E del nostro Paese, e racconta la prima (e ultima) notte trascorsa insieme da Benito Mussolini e Claretta Petacci, appena prima di essere uccisi, il 28 aprile del 1945. In settant’anni di studi e ricostruzioni, gli ultimi giorni e le ultime ore di Benito Mussolini hanno avuto molte versioni. Un altro grande mistero è poi quello del famoso tesoro di Dongo, dal valore di otto miliardi di lire dell’epoca, che era nascosto in valigie e borse dell’autocolonna fuggiasca di tedeschi e gerarchi fascisti. All’oro del duce è dedicato il nuovo libro dello storico Gianni Oliva, uscito per Mondadori: “Il tesoro dei vinti”. Dongo è un grazioso borgo del lago di Como, ma nell’immaginario collettivo degli italiani è avvolto da un’aura di inquietudine e di mistero. Lì, il 27 aprile 1945, i partigiani della 52a brigata Garibaldi hanno arrestato il Duce e i gerarchi che cercavano di allontanarsi dall’insurrezione di fine guerra; di lì, nottetempo, Mussolini e Claretta Petacci sono stati trasferiti a Bonzanigo nella cascina De Maria, dove il giorno successivo sarebbero stati prelevati e uccisi, secondo la versione ufficiale. Come muore Mussolini? A che ora? Dove? La Petacci muore con lui, oppure viene uccisa in altre circostanze? Tra una rivelazione e l’altra, da settant’anni la morte del Duce e della sua giovane amante costituiscono un «feuilleton» mai esaurito. C’è chi ha parlato di esecuzioni avvenute in momenti e luoghi diversi; chi di una messinscena davanti a Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, dove i due sarebbero arrivati già cadaveri; c’è chi ha messo in discussione l’identità del «colonnello Valerio» sostenendo che a sparare fu lo stesso Luigi Longo; c’è chi ha parlato di un ruolo decisivo dei servizi segreti inglesi preoccupati per le possibili rivelazioni di Mussolini sui rapporti tra Churchill e l’Italia fascista; c’è chi sostiene che a sparare sia stato Michele Moretti, chi «Valerio», chi il «capitano Neri», chi Lampredi. In futuro l’interminabile romanzo d’appendice si arricchirà forse di nuove pagine. E qui si dimostra che spesso un bel romanziere vale più di uno storico. Che la «narrazione» (lo storytelling tanto odiato dagli intellettuali col cuore a sinistra e il fegato ingrossato) può illuminare pezzi di storia scostando le tendine dell’ideologia; e che il narrare restituisce un profilo umano ad amici e nemici, rossi e neri, belli e brutti. Anche gli angeli a volte si sporcano, e anche il diavolo a volte è un buon diavolo. Si può usare anche, naturalmente, la parola «revisionismo» per Canale Mussolini. La Parte seconda di Antonio Pennacchi, la cui trama, come per la prima parte, ruota intorno a Littoria/Latina, alla Famiglia Peruzzi di origine veneta trapiantata nelle Paludi Pontine. Anche in questo caso il lato «politico» del libro mira a restituire alla testa e al cuore una fetta di storia, in questo caso la Seconda guerra mondiale, non più ideologizzata. Pennacchi è un fascio/comunista, passato dal Movimento Sociale, divenne uno stalinista marxista-leninista militando in Servire il popolo, dopo la dissoluzione di quel movimento divenne un cane sciolto – come sostanzialmente poi è sempre rimasto – senza più catena e senza padroni (la cosa più drammatica è che ogni volta che hanno tentato di rimettergliela la catena, e di ricercare un nuovo padrone, sono sempre stati loro poi – Uil, Psi, Pci, Cgil – a tagliargliela ed a cacciarlo via: “Vaffanculova’, vaffanculo a un’altra parte”. Espulso). Comunque uno stalinista, ma forse no, uno attratto dalla destra/sociale ma senza partito, senza casa e senza famiglia. L’impasto linguistico dei dialoghi di questa “Parte seconda” rimane l’arcaico veneto-ferrarese della bassa rovigotta – contaminato probabilmente in Agro Pontino – appreso bambino da sua madre e dai suoi zii, e definibile oggi come un dialetto veneto dell’emigrazione. La versione spagnola della parola ‘ginocchio’ dovrebbe essere in realtà – secondo tutti i vocabolari – ‘rodilla’ e non ‘genocho’. Pare però secondo un taxista ispano-americano provenisse da una zona dell’America Latina a fortissima concentrazione di immigrazione veneta dei primi del Novecento. Non è quindi da escludere un reciproco processo di contaminazione e scambio linguistico. Del resto è abbastanza noto che siamo molti di più i veneti in giro per il mondo, dei veneti rimasti in Veneto e sviluppatisi anche e soprattutto in forza della nostra emigrazione. Poi stai bene a dire: «Basta imigrasion! Paroni a casa nostra!». Quando hai mandato noi – a casa degli altri – non valeva? E se adesso ci cacciano, torniamo tutti lì? …. Un romanzo imperdibile.
Margherita Sarfatti, la «brutta» che sedusse l'Italia del Duce. Margherita è destinata per modi, studi, e intelligenza a diventare una delle donne più importanti del suo tempo, scrive Angelo Crespi Martedì 5/01/2016 su “Il Giornale”. Adolfo Wildt la scolpisce nel bianco del marmo, idealizzandone l'ovale. Eppure non si può dire che sia bella. Neanche nel ritratto che le dedicò l'amico Mario Sironi risplende per venustà. Veneziana di famiglia ebrea ricca, i Grassini, in seguito Sarfatti (avendo sposato Cesare, rampollo di altrettanta nobile schiatta lagunare), Margherita è però destinata per modi, studi, e intelligenza a diventare una delle donne più importanti del suo tempo. Amica, amante, mallevadrice, e biografa di Benito Mussolini (Dux del 1925 fu best seller internazionale) avrà un ruolo fondamentale nella cultura e propaganda fascista. Ospite straordinaria, nel suo salotto - a Milano e poi a Roma - passeranno tutti i più importanti intellettuali e artisti dell'epoca; giornalista impegnata, dapprima socialista, amica e rivale della Kuliscioff, poi fascista collaboratrice del Popolo d'Italia e direttrice di Gerarchia (fino al 1934), fu scrittrice, mecenate e critica d'arte. A lei si deve, in opposizione agli eccessi e alle sperimentazioni delle avanguardie e del Futurismo, la creazione del gruppo Novecento (Sironi, Funi, Dudevrille, Bucci, Malerba, Marussing, Oppi) che interpreta, dal 1922, quel ritorno all'ordine e alla classicità che in seguito sarà bollato, e sminuito, in quanto arte di regime. Quella della Sarfatti fu una vita sopra le righe, per certi versi tragica (dalla prematura morte del figlio Roberto durante la prima Guerra mondiale, all'esilio in Sudamerica nel 1938), piena di contraddizioni, eccessi, desideri, incontri e scontri, che ora viene tracciata in modo definitivo da Rachele Ferrario in un tomo denso e pieno di notizie che ne incastona la figura nelle temperie dell'epoca (Margherita Sarfatti. La regina dell'arte nell'Italia fascista, Mondadori, pagg. 404, euro 25). Innanzitutto, il rapporto con Mussolini: un rapporto di amicizia, amore, passione sfrenata, infine di sofferta indifferenza. Il Duce, arrivato al potere, cercò quasi subito di sbarazzarsi dell'ingombrante amante che, anni dopo, fu costretta a fuggire dall'Italia quando il regime appoggiò le politiche razziste del Nazismo. Secondo, l'adesione al Fascismo: da socialista Margherita seguì Mussolini nella cavalcata al potere (fin dalla marcia su Roma), divenne un'interprete fidata del nuovo corso, ebbe incarichi e prestigio, sebbene osteggiata dall'intellighenzia, cercò fino all'ultimo in tutti i modi lei filo americana di impedire l'alleanza con la Germania hitleriana. Terzo, il lavoro nel campo dell'arte e della cultura: da Boccioni (con cui intratterrà un rapporto d'amorosi sensi) a Marinetti, da Carrà a De Chirico, da D'Annunzio a Marconi, la Sarfatti è l'epicentro vitalistico di una grande, forse irripetibile, stagione culturale. Rientrata in Italia nel 1947, ormai sessantasettenne, vivrà gli ultimi anni lontano dai riflettori, scontando la diffidenza spesso anche di chi in passato aveva aiutato, evitando di parlare di politica, preferendo la letteratura, intrattenendo rapporti con pochi vecchi amici, tra cui Bernard Berenson, fino alla morte avvenuta nel 1961.
Uno, cento, mille fascismi. Ecco i testi che fanno storia. Discorsi, articoli, saggi: l'antologia sul fascismo curata da Renzo De Felice illustra la pluralità di motivi culturali e politici del regime, scrive Francesco Perfetti Sabato 02/01/2016 su "Il Giornale". Nel febbraio 1925, all'indomani del discorso con il quale Benito Mussolini inaugurò dopo la crisi del delitto Matteotti la svolta che avrebbe portato alla costruzione del regime, sulle pagine della rivista Critica Fascista, fondata e diretta da Giuseppe Bottai, apparve un articolo intitolato «Le cinque anime del fascismo». Lo aveva scritto, usando lo pseudonimo Volt, il conte Vincenzo Fani Ciotti. Questi era un intellettuale che potremmo definire di destra tradizionalista, la cui vita politica si era svolta a cavallo fra nazionalismo, futurismo e primo fascismo. Autore di un saggio dal titolo Programma della destra fascista, apparso l'anno precedente e divenuto oggetto di ampio dibattito, Volt sosteneva nel suo articolo che all'interno del movimento fascista erano individuabili cinque «anime»: una «estrema sinistra» con Malaparte e i repubblicani nazionali; un «centrosinistra» composto prevalentemente dagli ex sindacalisti rivoluzionari; una «estrema destra» rappresentata dai monarchici integralisti e assolutisti; un «centrodestra» composto da ex nazionalisti e, infine, un gruppo di «revisionisti» ormai in via di riassorbimento. Al di là della esattezza, o non, dell'analisi contenutavi, l'articolo di Volt è importane perché fa capire come i protagonisti stessi del fascismo fossero ben consapevoli dell'eterogeneità culturale e politica del loro movimento. Dopo il crollo del regime e fino agli anni Sessanta quando, cioè, Renzo De Felice cominciò a scriverne in maniera scientifica e senza pregiudiziali ideologiche tutti, o quasi, i discorsi interpretativi sul fascismo tendevano a presentarlo come una realtà unitaria. I marxisti, per esempio, ne parlavano come di un fenomeno di classe, mentre i liberali come di una esplosione delle forze irrazionali. Malgrado le originarie differenze ideologiche e politiche, questi discorsi interpretativi avevano qualcosa in comune: l'idea che il fascismo fosse solo violenza bruta e, soprattutto, anticultura. Mentre lavorava alla stesura della sua grande opera su Mussolini, De Felice si pose il problema storiografico di cercare di capire la vera «natura» del fascismo, andando ben oltre le semplificazioni di questa letteratura interpretativa. Cominciò a leggere e analizzare l'imponente massa di scritti dedicati al fascismo e alla sua vicenda storica e si rese conto che anche le migliori opere sull'argomento, pubblicate nei primi decenni post-liberazione, risentivano del fatto di essere state scritte da studiosi appartenenti a una generazione troppo partecipe degli eventi e tendente, comunque, a eludere il tema della «natura» del fascismo. Nacquero così, da una precisa esigenza di chiarezza intellettuale, tutta una serie di lavori saggi, voci enciclopediche, rassegne e antologie editi o redatti a partire dalla metà degli anni Sessanta, in parallelo con la pubblicazione dei volumi della biografia mussoliniana. Attraverso questi interventi il più celebre dei quali è il volume Le interpretazioni del fascismo (1969) De Felice tentò sia di dare una prima sistematizzazione critica della letteratura italiana e internazionale sul fascismo, sia di formulare una risposta al quesito relativo a quale tipo di regime esso fosse assimilabile. Si convinse che il concetto di fascismo non doveva essere dilatato fuori dell'Europa e del periodo compreso fra i due conflitti mondiali: le sue radici, infatti, erano tipicamente europee e penetravano in maniera profonda in quel processo di trasformazione della società europea innescato dalla Grande Guerra che generò una crisi di trapasso, morale e materiale, verso una società di massa con caratteristiche del tutto nuove. In sostanza De Felice, pur ammettendo in linea teorica la possibilità di individuare un più generale «fenomeno fascista», sempre peraltro limitato geograficamente e temporalmente, lasciò intendere che, da un punto di vista storico, sarebbe stato corretto parlare di fascismo soltanto con riferimento al caso italiano e con una particolare attenzione alla complessità della sua storia e dei suoi «valori» di riferimento. L'Autobiografia del fascismo apparsa alla fine del 1978 quando erano già stati pubblicati diversi volumi della biografia mussoliniana, nonché i lavori e le antologie sulle interpretazioni del fascismo e, non da ultimo, la celebre Intervista sul fascismo ha un posto importante nella produzione storiografica di De Felice, anche dal punto di vista metodologico. Raccogliendo, infatti, per la prima volta, testi fascisti scritti fra il 1919 e il 1945, egli volle sottolineare come fosse non soltanto opportuno, ma addirittura necessario ricorrere alle «fonti» di parte fascista per poter comprendere davvero quello che il fascismo, come movimento e come regime, era stato. Attraverso questa ricca antologia di testi sistemati cronologicamente, De Felice riuscì a offrire, davvero, una ricostruzione dello sviluppo storico del fascismo in grado di far emergere, con riferimento a precise fasi e momenti, «posizioni, tendenze, suggestioni culturali, stati d'animo, aspirazioni, velleità non solo molteplici ma spesso tra loro assai diversi e talvolta inconciliabili». Quelle che Volt aveva definito, come si è ricordato, le «cinque anime del fascismo» non appaiono più sufficienti, dopo la lettura del volume di De Felice, a definire concettualmente il fascismo italiano né a esaurire il tema. Dalla Autobiografia del fascismo emerge infatti una pluralità di motivi culturali e politici propri del fascismo, motivi individuati da De Felice e collocati in una prospettiva di lunga durata: «alcuni destinati a morire col fascismo storico, altri a sopravvivere nel neofascismo postliberazione, altri ancora a evolversi sino a portare chi ne era partecipe su posizioni antifasciste, altri infine a inquinare persino alcune manifestazioni politico culturali apparentemente lontanissime ed antitetiche rispetto al fascismo». In questo quadro, per esempio, è sintomatico l'inserimento di testi degli anni Trenta di intellettuali che, in seguito, sarebbero diventati esponenti dell'antifascismo: da Delio Cantimori, che nel 1931 parla del fascismo come «rivoluzione e non reazione europea», a Corrado Alvaro, il quale inserisce «Mussolini tra i pionieri», fino a Fidia Gambetti, che nel 1936 invoca «l'ora del combattimento». Proponendo una panoramica del fascismo e della sua vicenda storica «dall'interno» e dovendo per ciò stesso rifarsi a fonti e testi fascisti, la Autobiografia del fascismo di De Felice finiva per dare ampio spazio, in senso specifico e in senso antropologico, proprio alla dimensione culturale con la scelta che poneva, per usare le parole dello storico, «fine, fra l'altro, all'assurda discussione se sia o no esistita una cultura fascista». E, anche sotto questo profilo, essa contribuiva a dare una ulteriore spallata all'uso politico della storia.
Il diario al fronte di Benito scatena guerre editoriali. Scadono i diritti sul testo scritto in trincea e parte la corsa alla pubblicazione del reportage bellico, scrive Matteo Sacchi Sabato 02/01/2016 su "Il Giornale". Un testo in presa diretta dalle trincee, anche se da zone del fronte che non erano sempre al centro dell'azione. Un diario, pubblicato a puntate sul Popolo d'Italia, che doveva essere la prova provata che Benito Mussolini era capace di far seguire i fatti alle parole. E, a più di cent'anni dall'inizio della prima pubblicazione un testo che è ancora un caso editoriale in grado di scatenare una piccola corsa tra editori. Stiamo parlando del Giornale di guerra che il futuro duce vergò dopo essere stato richiamato alle armi, come bersagliere, per quel Primo conflitto mondiale di cui aveva voluto a tutti i costi l'Italia partecipe. Cosa racconta il trentenne Mussolini della vita al fronte? Moltissime cose e, a tratti, in maniera molto meno enfatica di come ci si potrebbe aspettare da un propagandista del conflitto. Nel testo c'è la noia, l'effetto terrificante dei bombardamenti, la vita minuta dei soldati. Anche un divertente glossario per far capire al lettore il linguaggio delle trincee. Ma soprattutto c'è il senso di freddo e di umido della guerra in montagna. Non manca, sotto traccia, anche la polemica a distanza con quei giornali, tra cui il Mattino di Napoli e L'Avanti! che accusavano il direttore del bellicista Popolo d'Italia di godere di troppi privilegi e troppe licenze. Il futuro duce sottolinea sempre il suo essere un semplice soldato. Di certo era un cronista di razza e quindi il suo racconto è sempre vivido, avvincente. Non sacrifica mai alla retorica la capacità narrativa. Insomma è un testo che «prende» a differenza di altre memorie, magari scritte mesi o anni dopo il conflitto. Insomma quando Mussolini si ritaglia un ruolo forse più eroico di quello che ebbe, lo fa con sapienza. Soprattutto nel testo originale del '15-'17, nella pubblicazione in volume del '23 invece alcune parti (soprattutto quelle più irreligiose) vennero espunte. Ecco perché il testo tentava da anni molti editori. Ma, come ci ha spiegato Adriano Ossola della Leg, era quasi impossibile mettersi d'accordo sui diritti con gli eredi Mussolini. Ora però sono scaduti e dal 14 di questo mese ci saranno in libreria ben 3 edizioni. Una è proprio quella della Leg (pagg. 218, euro 22), con una postfazione di Mimmo Franzinelli. Un'altra, che ha per curatore Alessandro Campi, esce per i tipi di Rubbettino (pagg. 336, euro 16). La terza è invece curata dal Mulino e si avvale dell'esperienza storica di Mario Isnenghi. Ed è significativo che editori di ogni orientamento politico si «contendano» un testo, per certi versi minore, di Mussolini. L'ego giornalistico di Benito, che «depose la penna per imbracciare il fucile» senza però deporla mai troppo, ne sarebbe lusingato.
"Quale altro esercito terrebbe duro in un conflitto come il nostro?" Uno stralcio tratto da "Giornate di guerra, Alto Isonzo-Carnia-Carso (1915-1917) di Benito Mussolini. "Amano la battaglia questi uomini? No. La odiano? No, l'accettano come un dovere" di Benito Mussolini, scrive "Il Giornale" Sabato 02/01/2016. Pubblichiamo in questa pagina per gentile concessione dell’editore Leg uno stralcio tratto da Giornale di guerra Alto Isonzo - Carnia - Carso (1915-1917) di Benito Mussolini (pagg. 218, euro 22, a cura e con una postfazione di Mimmo Franzinelli). Il testo di Mussolini non veniva pubblicato dal 1923. L’edizione Leg si avvale del testo originale che uscì durante la guerra sulle pagine del quotidiano Popolo d’Italia ed è accompagnato da un vasto apparato fotografico e di note che consente di contestualizzare appieno lo scritto. Nel passo che abbiamo scelto, Mussolini riflette sulle caratteristiche dei suoi commilitoni e del soldato italiano in generale. Corridoni è caduto sul campo di battaglia. Onore, onore a Lui! Scrivo alcune righe per il Popolo dedicate alla sua memoria. Ho comunicato la notizia al mio commilitone, il gasista milanese Pecchio. Sulle prime era incredulo. Quando gli ho mostrato la prima pagina del Popolo ha creduto ed ha pianto. Nevica rabbiosamente. Tutti i monti sono già bianchi: ordine di affardellare gli zaini e di tenersi pronti per partire. La nostra Compagnia deve sostituire la 9a che si trova già da cinque giorni ai posti avanzati. Dopo due mesi comincio a conoscere i miei commilitoni e posso esprimere un giudizio su di loro. Conoscere è forse troppo dire. Le mie conoscenze sono limitate al mio plotone e un poco alla mia Compagnia. La trincea nell'alta montagna costringe ogni soldato a vivere da solo o con qualche compagno, nella propria tana. Cerco di scrutare la coscienza di questi uomini, fra i quali, per le vicende guerresche, io debbo vivere e chissà... morire. Il loro morale. Amano la guerra, questi uomini? No. La detestano? Nemmeno. L'accettano come un dovere che non si discute. Il gruppo degli abruzzesi che ha per capo o comparo il mio amico Petrella, canta spesso una canzone che dice: E la guerra s'ha da fa, Perché il Re, accussi vuol. Non mancano coloro che sono più svegli e coltivati. Sono quelli che sono stati all'estero, in Europa e in America. Hanno letto prima della guerra qualche giornale. In guerra sono anti-tedeschi e belgofili. Quando il soldato brontola, non è più per il fatto guerra, ma per certi disagi o deficenze ch'egli ritiene imputabili ai capi. Io non ho mai sentito parlare di neutralità o di interventismo. Credo che moltissimi bersaglieri, venuti dai remoti villaggi, ignorino l'esistenza di queste parole. I moti di maggio non sono giunti fin là. A un dato momento un ordine è venuto, un manifesto è stato affisso sui muri: la guerra! e il contadino delle pianure venete e quello delle montagne abruzzesi, hanno obbedito, senza discutere. Nei primi tempi della guerra, i bersaglieri hanno valicato il confine, cogli inni sulle labbra e la fanfara alla testa dei battaglioni. Dopo due mesi di sosta a Serpenizza, venuto finalmente l'ordine di riprendere l'avanzata, i bersaglieri hanno conquistato al passo di corsa, malgrado un turbine di cannonate la Conca di Plezzo e si sono trincerati a quattrocento metri oltre la città, che gli austriaci hanno poi quasi completamente distrutta colle granate incendiarie. Quando i bersaglieri narrano gli episodi di quell'avanzata, vibra ancora nelle loro parole la soddisfazione e l'entusiasmo della conquista. La vita di trincea monotona e aspra contrassegnata soltanto dallo stillicidio quotidiano dei morti e feriti, indurisce i soldati. Parlar loro non si può. Riunire gli uomini, in prima linea, per tener loro un discorso, significa esporli a un sicuro immediato massacro da parte dell'artiglieria nemica. È il nemico, la presenza del nemico che spia e spara a cinquanta, cento metri, ciò che tiene elevato il morale dei soldati: non i giornali che nessuno legge; non i discorsi che nessuno tiene...Sono religiosi questi uomini? Non credo troppo. Bestemmiano spesso e volentieri. Portano quasi tutti al polso una medaglia di santo o madonna, ma ciò equivale a un porte-bonheur. È una specie di mascotte sacra. Chi non paga il suo tributo alle superstizioni delle trincee? Tutti: ufficiali e soldati. Lo confesso: porto anch'io nel dito mignolo un anello fatto con un chiodo di ferro di cavallo...Questi soldati sono nella loro grandissima maggioranza solidi, sia dal punto di vista fisico che morale. Se il vecchio Enotrio Romano tornasse al mondo, dinanzi a questi uomini meravigliosi nella loro tenacia, nella loro resistenza, nella loro abnegazione, non direbbe più come un tempo: La nostra Patria è vile! Quale altro esercito terrebbe duro in una guerra come la nostra?
Il regime fascista? Fu una rivoluzione non conservatrice. Renzo De Felice per primo studiò a tappeto anche i documenti del Ventennio. E arrivò a conclusioni "eretiche" per la sinistra, scrive Francesco Perfetti Sabato 28/11/2015 su "Il Giornale". In uno dei suoi ultimi corsi universitari era il gennaio 1991 Renzo De Felice, raccontando agli studenti come e perché aveva cominciato a interessarsi di fascismo, parlò del proprio stato d'animo di studioso alle prime armi. Si era ritrovato ad ascoltare dai suoi maestri discorsi carichi di passionalità e a leggere opere che sembravano, tutte, scritte da una generazione troppo partecipe degli eventi. Gli era sembrato di assistere non a un dibattito storiografico ma a un confronto tra posizioni personali: «Ricorderò sempre che a me giovane neolaureato, che cominciava a muoversi in questo ambiente di studi storici la discussione sulla prima guerra mondiale (dalla quale discendeva poi la discussione sul fascismo) apparve come una discussione fra protagonisti. Sembrava che ci si trovasse nella stessa situazione del 1914-1915. Anche studiosi di notevole statura cercavano, sì, di trovare addentellati di tipo storico, ma in realtà discutevano come avevano discusso fra loro nel 1914-1915. Erano tipici fino ad apparire a noi più giovani, che li ascoltavamo, quasi come macchiette due storici, Luigi Salvatorelli e Piero Pieri, uno neutralista giolittiano, l'altro interventista democratico. Le loro discussioni assumevano subito toni estremamente eccitati, che, per un verso, spiegano l'impatto che ancora avevano certi problemi e quanto erano tuttora sentiti, e, per un altro verso, mostrano il collegamento che più o meno correttamente, non nella sostanza ma nella forma, veniva stabilito fra le vicende della prima guerra mondiale e il sorgere del fascismo in Italia. Ma, al di là di questo, quelle discussioni mostravano l'impossibilità di fare effettivamente la storia di un periodo non ancora concluso: a quell'epoca la prima guerra mondiale era finita da decenni e anche la seconda si era conclusa, il fascismo e il nazismo erano stati sconfitti, tuttavia non si poteva dire che, nella seconda metà degli anni quaranta e negli anni cinquanta, il periodo storico che aveva caratterizzato l'Europa, oltre che l'Italia, per trenta e più anni, fosse un periodo concluso». La nascita della nuova Italia, democratica e antifascista, costruita sul mito legittimante dell'«unità della Resistenza» a guida comunista, non aveva segnato, se non in apparenza, la chiusura di un ciclo storico: del fascismo non era lecito né opportuno parlare se non in termini generali e con un giudizio aprioristicamente negativo. La voglia di conoscere la verità aveva spinto il giovane storico a dedicarsi allo studio della vicende contemporanee che ancora facevano discutere i suoi maestri. Del fatto che l'impresa non fosse facile egli era consapevole come, ancora, ribadì ai suoi studenti in quella ricordata conversazione: «Credo che sia inevitabile che un periodo storico non possa essere visto dai contemporanei, da coloro che lo hanno vissuto anche quando si tratta di storici di grande valore in una prospettiva effettivamente di tipo storico. Finché il periodo non è chiuso, finché non si è aperta una nuova fase storica, è molto difficile affrontare certi problemi con quel minimo di oggettività che, bene o male, è sempre necessario per chi voglia fare storia, per chi voglia affrontare la ricostruzione in termini storici della realtà di un periodo e quindi offrirne una spiegazione in termini storici». Quando cominciò a interessarsi di fascismo De Felice fu subito guardato con sospetto. Come era mai possibile che un giovane studioso volesse affrontare un tema tabù, come quello del fascismo, del quale, in fondo, non si poteva e non si doveva che dir male? Come era possibile, poi, che egli decidesse, per la prima volta, di prendere in considerazione documenti archivistici, memorie, materiali, insomma, ufficiali di parte fascista? Queste domande, retoriche all'apparenza, erano, in realtà, il frutto di una mentalità antistorica, cresciuta e cullata all'insegna dell'ideologia, una mentalità che rifiutava l'idea stessa che il fascismo, «male assoluto», potesse essere preso in considerazione come un «problema storico». De Felice, come avrebbe ricordato Piero Melograni, pur vivendo in un paese nel quale «egemonizzavano il mondo della cultura» ebbe «la fortuna di non vivere in una nazione comunista, altrimenti non sapremmo quale sarebbe stato il suo destino»: del resto soltanto l'intervento nel momento di più intensa aggressione mediatica e politica alle sue tesi, in particolare quelle sul «consenso» del paese al fascismo di un comunista della statura di Giorgio Amendola lo salvò da un vero e proprio linciaggio. Eppure, sempre per usare le parole di Melograni, il fatto stesso di «vivere in una nazione fortemente ideologizzata rese il suo lavoro difficile e al tempo stesso appassionante» dandogli, in un certo senso, «la soddisfazione di comportarsi come un eroe della verità in un mondo in cui questi eroi erano davvero pochi». Per la prima volta, suscitando scandalo, De Felice utilizzò, quei documenti di parte fascista che i sostenitori della «vulgata» ritenevano «intoccabili». Pur sottoponendoli al vaglio critico proprio di uno studioso cresciuto sui banchi della grande storiografia italiana, De Felice ne sostenne la rilevanza nella presunzione che per capire un fenomeno storico fosse necessario analizzarlo «dall'interno» e non guardarlo con le lenti della ideologia. Tale approccio consentì a De Felice di leggere criticamente tutta la precedente letteratura storiografica sul fascismo. Ma gli consentì, anche, di giungere a conclusioni, ormai generalmente acquisite, sul collegamento, per esempio, fra la genesi del fascismo e lo sconvolgimento, non soltanto politico ma anche morale e psicologico, provocato dalla Grande Guerra. E gli consentì, ancora, di far capire come e perché il consenso al regime oltre che al suo capo sotto forma di «mussolinismo» abbia potuto radicarsi e durare a lungo. Uno dei punti emersi dal lavoro di De Felice e, comprensibilmente, irritante per l'egemonica cultura storiografica gramsci-azionista, fu proprio sulla base dell'analisi della fenomenologia del consenso la conclusione che il fascismo rappresentava un tipo di regime diverso rispetto a quelli conservatori e autoritari. Questi ultimi, infatti, avevano sempre teso a demobilitare ed escludere le masse dalla partecipazione attiva alla vita politica «offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentato nel passato» cui veniva «attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria». Il fascismo, invece, puntò a suscitare in esse «la sensazione di essere costantemente mobilitate, di avere un rapporto diretto con il capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non a una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tutti i limiti e l'inadeguatezza storica, bensì a una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale, migliore e più giusto di quello preesistente e, soprattutto, mai sperimentato prima». Conclusioni innovative, certo, e storiograficamente rivoluzionarie ma inoppugnabili.
Così il regime fascista diede voce (politica) alla piccola borghesia. I ceti medi emergenti non avevano mai avuto una vera rappresentanza: ci pensò Mussolini a fornirgliela, scrive Francesco Perfetti Sabato 12/12/2015 su "Il Giornale". Nella celebre Intervista sul fascismo, rilasciata nel 1975 allo storico americano Michael Arthur Ledeen, Renzo De Felice sintetizzò la sua posizione interpretativa sul fascismo propriamente detto, quello italiano, e sul «fenomeno fascista», in generale. Il linguaggio divulgativo e la stessa tecnica dell'intervista consentirono allo studioso il quale, dopo la pubblicazione di Gli anni del consenso 1929-1936, stava già lavorando al tomo dedicato a Lo Stato totalitario 1936-1940 di fissare alcuni punti fermi cui era giunta la propria ricerca e di sottolinearne così, sia pure implicitamente, la portata rivoluzionaria in campo storiografico. Le tesi contenute nell'intervista, infatti, dimostravano l'inconsistenza delle conclusioni di gran parte della storiografia precedente che, condizionata da una visione ideologica e moralistica, partiva dall'idea che il fascismo fosse stato soltanto un movimento brutale e violento, incolto e nemico della cultura, profondamente reazionario. La distinzione operata da De Felice tra fascismo movimento e fascismo regime modificava tutti quei discorsi che presupponevano la convinzione che il fascismo fosse un fenomeno unitario da valutarsi en bloc. Essa, infatti, non soltanto enucleava fasi o momenti della vicenda storica del fascismo ma ne individuava e caratterizzava le componenti. Il fascismo movimento rappresentava «una costante della storia del fascismo», un «filo rosso» che collegava il marzo 1919 all'aprile 1945 ed esprimeva «quel tanto di velleità rinnovatrice, di interpretazione di certe esigenze, di certi stimoli, di certi motivi di rinnovamento». Esso insomma, individuava «la vitalità del fascismo» laddove il fascismo regime ne costituiva «per certi aspetti la negatività» in quanto risultato della politica di un Mussolini capo del governo, che faceva «del fatto fascismo solo la sovrastruttura di un potere personale, di una dittatura, di una linea politica». Dalla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime discendeva, poi, l'idea della esistenza di una componente rivoluzionaria di sinistra all'interno del fascismo, retaggio del sindacalismo rivoluzionario e dall'influenza di questo su Mussolini e su parte del nucleo dirigente del movimento fascista. Questo fascismo movimento era, secondo De Felice, «in gran parte l'espressione di ceti medi emergenti» ovvero di quei ceti che, «essendo diventati un fatto sociale», cercavano di ottenere peso, potere e partecipazione politica. Man mano che si andavano ingrossando le sue file e pur aprendosi a tutti gli ambienti sociali, il fascismo si era caratterizzato sempre più «in senso piccolo-borghese». In tal modo esso era diventato «il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che aspiravano ad una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, settori che non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la legittimità di governare, e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava». Ancora più dirompente di questa analisi centrata sulla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime apparve il discorso sulle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo: discorso non solo indigesto ma eretico per quanti volevano vedere nei due regimi manifestazioni di un medesimo fenomeno e consideravano l'alleanza italo-tedesca come un esito obbligato. Per De Felice c'era, tra i due movimenti o regimi, una differenza di natura si potrebbe ben dire culturale: il nazionalsocialismo guardava al passato remoto, al recupero della tradizione dei valori germanici in contrapposizione al mondo moderno; il fascismo faceva propria l'idea di «progresso» e postulava la creazione di un «uomo nuovo». Non era una differenza da poco: il fascino di Sigfrido e degli eroi della mitologia nordica contrapposto alle seduzioni della modernità e dell'utopismo rivoluzionario. C'erano, ancora, differenze profonde sul ruolo del partito, perché il fascismo perseguì la depoliticizzazione del Pnf e la sua subordinazione allo Stato, mentre il nazionalsocialismo si fondò proprio sulla preminenza del partito sullo Stato. Infine c'era una diversità nel grado di realizzazione del totalitarismo, dal momento che il regime nazionalsocialista fu uno Stato totalitario nel senso proprio del termine, mentre quello fascista non perse mai alcuni caratteri dello Stato di diritto. Tutto ciò spiegava anche come e perché Mussolini e il fascismo (o gran parte di esso) non avessero nutrito grande simpatia per Hitler e il suo movimento, almeno fino a quando, dopo la guerra di Etiopia e la guerra di Spagna, la situazione internazionale aveva finito di fatto per imporre una sorta di «rovesciamento delle alleanze», peraltro non da tutti ben digerito. Prima di allora, l'attività diplomatica dell'Italia fascista si era mossa, pur con una diversità di «stile», lungo le linee direttrici dell'Italia postunitaria e liberale. Del resto, la «politica del peso determinante», teorizzata da Dino Grandi per indicare la necessità che l'Italia dovesse far valere il suo «peso specifico» nella bilancia dei rapporti internazionali, altro non era se non una traduzione aggiornata della classica «pendolarità» della politica estera italiana dell'età postrisorgimentale. L'Italia fascista, insomma, era più proiettata verso la ricerca di accordi e di collaborazione con i suoi alleati all'epoca della Grande Guerra, in particolare con la Gran Bretagna, che non con i nazionalsocialisti, come si era potuto verificare in più occasioni, a cominciare dall'invio delle divisioni italiane al Brennero all'epoca della crisi per il primo e non riuscito tentativo di Anschluss. Questa lettura della politica estera del fascismo proposta da De Felice nella sua opera principale non poteva, naturalmente, che apparire eretica a quanti, storici e non, sulla base di una semplificazione ideologica, si ostinavano a leggere la storia del fascismo come quella di una dittatura incolta e brutale votata inevitabilmente alla guerra per la guerra. Ma era (ed è, tuttora) una lettura aderente ai fatti e capace di spiegare, per esempio, la logica ma anche i limiti, le illusioni, le ingenuità e, quindi, il fallimento dell'idea mussoliniana di imbarcarsi furbescamente nel 1940 in una «guerra parallela» cioè in una guerra «breve» da combattersi non «con» i tedeschi né «per» i tedeschi ma «a fianco» dei tedeschi.
La storia libera dall'ideologia Ecco il fine del "revisionismo". Il fascismo fu un fenomeno contiguo al leninismo in cui convivevano movimento e regime. La Resistenza? Coinvolse la minoranza del Paese, scrive Giampietro Berti Venerdì 06/11/2015 su "Il Giornale". La storiografia, per natura, non può che essere revisionista, se per revisionismo s'intende il continuo esame dei giudizi precedenti a fronte delle nuove acquisizioni della ricerca. Ciò è banale. Come aveva giustamente sentenziato Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, dato che ogni generazione rilegge il passato in base al presente. Poiché questo muta - cioè mutano i valori, gli interessi, gli orientamenti - allora non può non mutare anche il giudizio storico. Ha scritto Marc Bloch: «il passato è, per definizione, un dato non modificabile, ma la conoscenza del passato si trasforma e si perfeziona incessantemente». Premettiamo queste elementari considerazioni alla nostra riflessione sul revisionismo storiografico di Renzo De Felice perché egli era sostanzialmente concorde con tali premesse. A più riprese affermò infatti che la ricerca storiografica doveva rimanere «estremamente aperta a tutte la più varie suggestioni interpretative e pronta a non scartare aprioristicamente nessuna ipotesi». Si dimostrava perciò molto tiepido verso ogni forma di generalizzazione astratta incline a filosofeggiare sulla storia, mentre era propenso ad un lavoro storico fondato su una minuziosa e scrupolosa ricerca. Questa doveva essere fondata sulle fonti - soprattutto inedite - in grado di portare sempre più avanti la conoscenza storica, la quale doveva attenersi soprattutto alla successione cronologica degli eventi, rifiutando una spiegazione causale; insomma, un'indagine la più neutra possibile. Quando intraprese la sua grande ricerca sul fascismo lo stato dei lavori risultava profondamente condizionato da un giudizio politico radicalmente negativo e da una condanna morale senza appello. Le interpretazioni maggiori possono essere riassunte così: il fascismo era stato una parentesi, una «malattia morale» (interpretazione liberale: Croce); il fascismo era stato l'«autobiografia della nazione» (interpretazione democratico-radical-progressista: Gobetti); il fascismo era stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista (interpretazione marxista: Gramsci, Togliatti, ecc.). Insomma in tutti i casi la ricerca storica sul fascismo discendeva dai canoni politici e morali dell'antifascismo. Ora De Felice, consapevole della complessità e anche dell'eterogeneità del fenomeno, voleva rifuggire da ogni idea generalizzante; intese, invece, avviare degli studi in grado di portare il fenomeno fascista «ad una misura esclusivamente storica», sottraendolo ad ogni preoccupazione di altro genere e ad ogni sistematicità». Precisò che la sua ricerca non perseguiva «finalità politiche che non competono allo storico». Il suo voleva essere un approfondimento critico, escludendo che ciò portasse «a una sorta di revisionismo storiografico» diretto «alla riabilitazione del fascismo e del suo capo». Naturalmente non possiamo non osservare -per inciso- che questa separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore diventa di difficile attuazione quando si affrontano i problemi storici, dal momento che i fatti sono sterminati e il compito degli storici consiste, per l'appunto, nel decidere innanzitutto quali sono importanti e quali no. E con ciò gli stessi storici immettono, inevitabilmente, un giudizio di valore. Di qui l'ovvia conclusione, e cioè che lo storico sceglie i suoi fatti. Detto questo, entriamo nel merito delle più importanti acquisizioni della ricerca defeliciana, sottolineando, per quanto ci riguarda, che essa ha dato un contributo fondamentale a quel giudizio storico di natura liberale che valuta sostanzialmente equivalenti i totalitarismi rossi e neri. Il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario che affondava le sue radici nella tradizione giacobino-blanquista -dunque di sinistra- e ciò lo rendeva per certi versi contiguo al leninismo. In tutti i casi la sua natura eclettica non era classificabile come un fenomeno puramente reazionario, ma piuttosto come un insieme di componenti socialiste, corporative e nazionali e questo lo differenziava alquanto dalle dittature di destra. Aveva lo sguardo rivolto al futuro perché voleva forgiare l'«uomo nuovo», diversamente dal nazismo il cui sguardo era rivolto al passato, dato che intendeva ripristinare l'«uomo ariano». Mussolini rimase sempre, in sostanza, un rivoluzionario, anche quando il fascismo passò da «movimento» a «regime». Certamente il fascismo fu anche una reazione al movimento operaio e socialista sostenuta da una parte del padronato, ma la sua vera natura non va ricercata nella piccola borghesia, ma nell'avvento dei ceti medi volti a spodestare la vecchia classe dirigente; il suo totalitarismo risultava imperfetto perché non riuscì ad eliminare la monarchia e, soprattutto, la Chiesa (di qui la sua diversità dal comunismo e dal nazismo), anche se una maggiore accentuazione totalitaria può essere registrata nella seconda metà degli anni '30. Ovviamente il fascismo, il nazismo e il comunismo erano costitutivamente propensi alla creazione di una società organica, la cui profonda natura andava ravvisata senz'altro nel rifiuto della modernità laica, edonistica e individualistica prodotta dal capitalismo ed espressasi ideologicamente nella «democrazia dei moderni» costituita sulla divisione liberale fra sfera pubblica e sfera privata. Sebbene inizialmente confuso e contraddittorio, il fascismo espresse una sua specifica identità ideologica e una sua cultura. Esso però fu indisgiungibile dal mussolinismo e ciò spiega le diverse fasi biografiche della sua storia, così come vengono presentate anche dai titoli dei vari volumi defeliciani: il rivoluzionario, il fascista, il duce, l'alleato. Vi fu un sostanziale consenso al regime, specialmente dopo il Concordato. Il consenso era riscontrabile più nei ceti popolari che nella borghesia. Il razzismo si manifestò tardi e va visto più come un fatto di importazione, che come un elemento costitutivo. La Resistenza coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una «zona grigia». Questo non significava assolutamente sottovalutare la sua importanza, né tantomeno disprezzarla. La Resistenza, affermò De Felice, «era stata un grande evento storico». Come si vede, siamo di fronte a un rovesciamento delle precedenti interpretazioni. Soprattutto per la storiografia di sinistra -di gran lunga maggioritaria- era inaccettabile che il fascismo avesse avuto una originaria matrice rivoluzionaria di sinistra, che godesse di un ampio e innegabile consenso, che la Resistenza, infine, non potesse essere considerata propriamente un fenomeno popolare. Di qui le interminabili polemiche contro il suo lavoro e la sua persona, che oggi appaiono per quello che furono: faziose, ideologiche e prive, in gran parte, di vera sostanza storica. Qualunque sia il giudizio che si vuole dare su De Felice, la ricerca storiografica sul fascismo da allora non poté più prescindere dalla sua opera (gigantesca).
Quella guerra civile che venne travestita da "guerra di classe". Altro che "secondo Risorgimento", la Resistenza non fu un movimento di massa, scrive Francesco Perfetti Giovedì 24/12/2015 su "Il Giornale". L'ultimo tomo dell'opera di Renzo De Felice su Mussolini e il fascismo fu pubblicato postumo nel 1997 con il titolo La guerra civile 1943-1945 come secondo volume di Mussolini l'alleato 1943-1945. Esso è rimasto incompleto per la morte dell'autore, ma alcune delle tesi in esso contenute o che avrebbero dovuto essere dimostrate o sviluppate nelle parti non ancora scritte dell'opera furono anticipate in un piccolo libro-intervista dal titolo Rosso e Nero (1995), importante sia per le suggestioni interpretative proposte, sia per certe indicazioni metodologiche di ricerca storiografica, sia, ancora, per i chiarimenti sulla posizione «revisionista» dell'autore stesso. Eppure, malgrado la sua incompiutezza, il volume su La guerra civile 1943-1945 è da considerarsi uno dei più importanti della serie, se non addirittura dei più belli, almeno dal punto di vista dell'importanza dei risultati della ricerca e della corposità del discorso interpretativo che stabilisce un nesso fra passato e presente. Da un punto di vista contenutistico esso tratta del periodo che va dalla caduta del regime ai primi travagliati mesi di esistenza della Rsi e affronta temi scottanti: la prigionia di Mussolini, la sua liberazione da parte dei tedeschi, la catastrofe nazionale dell'8 settembre 1943, la contrapposizione tra fascisti, repubblicani e partigiani, il dramma vissuto dagli italiani durante la guerra civile, le vicende della Rsi dall'autunno 1943 alla primavera 1944. Particolarmente intense sono le pagine in cui De Felice analizza il significato e gli effetti dell'armistizio dell'8 settembre sullo stato d'animo e sui comportamenti delle masse e dell'esercito. Quella data, l'8 settembre 1943, assume per lui un forte valore simbolico quello della «morte della patria» e dello «svuotamento del senso nazionale» e diventa una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano. La dissoluzione dell'esercito «come neve al sole» dopo la diffusione della notizia dell'armistizio ha il suo riscontro nello stato d'animo complessivo del Paese e in particolare della borghesia, un ceto che in gran parte aveva creduto in larga misura nel fascismo e nell'immagine dell'Italia da esso proposta e che era stata provata dagli effetti devastanti di tre anni di guerra. Proprio il desiderio di uscire finalmente dall'incubo della guerra un desiderio «ingenuo e irrazionale quanto si vuole» ma «non per questo meno potente» è la chiave per comprendere le reazioni della grande maggioranza degli italiani alla notizia dell'armistizio. Ma il desiderio di veder finire l'incubo della guerra si accompagnava a «un sentimento diffuso di paura e di incertezza» che, per molti, si traduceva non già nell'idea di una «scelta di campo», quanto piuttosto «nella preoccupazione della propria sopravvivenza» e nel desiderio di «defilarsi rispetto a tutti» nell'attesa che giungessero la fine dei sacrifici e la pace. Sono intense e drammatiche le pagine in cui De Felice dimostra come, dopo la nascita della Rsi, la maggioranza del Paese, ancora una volta, cercasse di non rimanere coinvolta dagli avvenimenti e di assestarsi in una sorta di «zona grigia» che includeva individui appartenenti a tutti i ceti sociali, dalla borghesia alla classe operaia, preoccupati solo di sopravvivere. Sui motivi della ricomparsa di Mussolini sulla scena politica, De Felice sposa la tesi per cui questi, pur riluttante, avrebbe accettato di riassumere il potere nella convinzione, in primo luogo, che solo così sarebbe stato possibile evitare che Hitler facesse dell'Italia occupata una sorta di Polonia e, in secondo luogo, che la sua presenza avrebbe potuto rendere meno pesante il regime di occupazione e impedire l'annessione di territori italiani al Reich. Con la nascita della Rsi tali obiettivi vennero, almeno in parte, raggiunti, ma i costi furono elevati: la «guerra civile», per esempio, insanguinò le regioni occupate dai tedeschi, dividendo profondamente gli italiani e scavando solchi di odio che avrebbero condizionato la vita italiana nei decenni successivi. Inoltre, la Resistenza che, senza la Rsi, avrebbe avuto «un carattere essenzialmente nazional-patriottico, di lotta di liberazione contro l'occupante tedesco» fu egemonizzata dai comunisti che la caratterizzarono come una «guerra di classe». Detto questo sui «costi» politici della creazione della Rsi, De Felice contesta duramente la qualifica di «secondo Risorgimento» per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli «ideali civili» (sintesi di «nazione», «patria», «libertà») del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto «secondo Risorgimento». La Resistenza, per De Felice, contrariamente all'immagine veicolata dai custodi della vulgata antifascista, non fu affatto un «movimento popolare di massa» se non in alcune limitate zone e le sue file si ingrossarono soltanto nelle settimane immediatamente precedenti la capitolazione dei tedeschi, quando cioè la vittoria degli Alleati era considerata ormai certa. Della Resistenza (e della sua memoria) si impadronirono comunisti e azionisti che mal sopportavano le formazioni autonome per i quali essa era un fatto rivoluzionario, anzi il vero fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega, secondo De Felice, l'importanza attribuita, anche nel dopoguerra, dal Partito comunista alla «unità della Resistenza» e, soprattutto, alla «unità delle sinistre» nel quadro di un disegno rivoluzionario che nel concetto di «democrazia progressiva» elaborato da Togliatti aveva il suo cavallo di Troia. Per quanto incompiuto, l'ultimo volume dell'opera di Renzo De Felice è, dal punto di vista della interpretazione storiografica della storia nazionale più recente, fondamentale per comprendere anche talune caratteristiche dell'Italia postfascista, costruita sul mito della Resistenza unitaria e a guida comunista e per spiegare, altresì, come e perché la vulgata storiografica non sia più sostenibile.
Così De Felice ha battuto l'ideologia. "Mussolini e il Fascismo" ha aiutato il Paese a cambiare e a ripensare il suo passato recente, scrive Francesco Perfetti Sabato 14/11/2015 su "Il Giornale". Una volta, già al culmine della sua notorietà e al centro delle polemiche, Renzo De Felice affermò che il difetto maggiore della storiografia contemporaneistica italiana era quello di essere affetta da una sindrome di eccessiva sicurezza. Aggiunse, con una battuta, che lo storico non deve rimanere attaccato come un'ostrica al suo guscio se non vuole trasformarsi in un teologo o in un politico. Lo storico precisò non dovrebbe fornire interpretazioni precotte da sottoporre all'adorazione del pubblico, ma dovrebbe invece procedere ad acquisizioni continue senza curarsi del fatto che tali acquisizioni possano rivelarsi scomode e mettere in discussione giudizi storiografici apparentemente consolidati. Poche battute che a leggerle come devono esser lette sono una garbata lezione di metodologia storiografica. De Felice si era già scontrato, agli inizi della sua carriera di studioso, quando si occupava di giacobinismo italiano e di albori di Risorgimento, con i custodi di una «verità storica rivelata» che, nella fattispecie, si rifaceva alla forte tradizione storiografica giacobina e marxista sulla Rivoluzione Francese e sulle sue conseguenze: una tradizione egemone nella cultura politica italiana (e, forse, anche europea) del tempo. Le sue ricerche sul triennio giacobino in Italia, apparse in piena guerra fredda e tutt'altro che in linea con la versione ufficiale radical-marxista del fenomeno, scatenarono un vero e proprio putiferio. Talune sue affermazioni vennero considerate eresie politicamente «pericolose» soprattutto laddove finivano per sottolineare il carattere utopistico e messianico di alcuni filoni radicali dell'illuminismo e per suggerire una sorta di ideale continuità fra la «democrazia diretta» di Rousseau e la «democrazia totalitaria» del ventesimo secolo. L'ostracismo contro De Felice fu massiccio e, se di esso non v'è memoria al di fuori degli ambienti accademici, ciò fu dovuto al fatto che l'argomento attorno al quale si concretizzò, il giacobinismo italiano, era un tema elitario. Le cose, com'è noto, cambiarono a partire dalla metà degli anni sessanta, quanto De Felice scelse, come peculiare terreno d'indagine, il fascismo: un argomento, cioè, che si riallacciava per certi versi agli studi precedenti, ma che a distanza di qualche decennio, appena, dalla fine del regime e in un paese nel quale l'antifascismo era stato scelto come valore fondante della carta costituzionale era comprensibilmente delicato. Fino ad allora, del fascismo, si avevano visioni molto diverse, talora suggestive e cervellotiche, comunque tutt'altro che «storiche» nel senso proprio del termine. Aveva avuto successo, sia pure elitario, la cosiddetta interpretazione «liberale», quasi prerogativa esclusiva dell'alta cultura europea, secondo la quale il fascismo sarebbe stato la «malattia morale» che aveva colpito la civiltà europea. Accanto ad essa s'era diffusa la cosiddetta interpretazione «marxista» la quale, pur attraverso diversi e tortuosi percorsi argomentativi, concludeva nell'idea che il fascismo fosse il «canto del cigno», l'ultimo sussulto cioè della declinante e fatiscente civiltà capitalista, ovvero, se lo si preferisce, una «controrivoluzione preventiva» per ritardare l'inevitabile trionfo del comunismo. E poi c'era stata quella «interpretazione radicale» che aveva presentato il fascismo come la cartina di tornasole rivelatrice delle tare ereditarie e dei difetti stratificatisi nella storia del Paese. Si potrebbe proseguire a lungo e De Felice, in effetti, l'avrebbe fatto, più avanti, in un volume, intitolato Le interpretazioni del fascismo, che metteva a confronto queste e altre visioni del fenomeno, tutte peraltro parziali. Di fronte a tutti questi approcci, De Felice si rese conto che del fascismo cosa esso fosse realmente stato, quale rapporto avesse davvero avuto con Mussolini e via dicendo si riusciva a capire ben poco. Ogni discorso interpretativo si rivelava inadeguato a cogliere una realtà cangiante. De Felice fu colpito da una affermazione di Angelo Tasca scrittore, storico e polemista ma anche militante politico tra i fondatori del partito comunista poi divenuto feroce antistalinista secondo la quale «definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia». Questa affermazione, contenuta in un bel libro di Tasca dal titolo Nascita e avvento del fascismo, De Felice la fece sua, assumendola come guida per ricostruire, del fascismo, in dettaglio gli avvenimenti, le idee, i propositi. Si trattava di una precisa scelta metodologica, alla quale De Felice sarebbe rimasto incrollabilmente fedele. Uno studioso che ne fu amico oltre che collega, Piero Melograni, disse che, con tale scelta, De Felice si era liberato dall'ideologia ed era diventato un filologo a tempo pieno. Ecco le sue parole: «Alcuni furono cavalieri dell'ideologia, ma Renzo De Felice fu un cavaliere della filologia. La filologia è la ricerca della verità, mentre l'ideologia è la ricerca delle illusioni. La ricerca arricchisce le nostre conoscenze se ha come fine la verità. L'ideologia, al contrario, tende a difendere un castello, molto spesso un castello in aria, ci impoverisce e fa regredire la conoscenza. Per questa ragione porrei De Felice dalla parte del progresso e dei progressisti, mentre definirei i suoi avversari reazionari». Al di là di quel tono, volutamente ma garbatamente, provocatorio, la battuta di Melograni sul connotato anti-ideologico della ricerca storiografica di De Felice è esatta. Come, pure, è esatta un'altra sua osservazione: «De Felice, quando è stato storico del fascismo e dell'antifascismo, ha aiutato tutti a cambiare, sia nella destra, sua nella sinistra». Meglio, e più lapidariamente, non si poteva sintetizzare il lascito morale ed etico-politico, oltre che storiografico, di Renzo De Felice.
Il viaggio solitario di De Felice nel Paese del "tutti a casa". Lo studioso capì per primo che fu l'andamento delle vicende belliche, non l'antifascismo, ad allontanare la nazione dal regime fascista, scrive Francesco Perfetti Sabato 19/12/2015 su "Il Giornale". Dall'ultimo scorcio degli anni '80, mentre stava preparando i volumi dedicati a Mussolini l'alleato, Renzo De Felice cominciò a riflettere sempre più sul tema della nazione. Voleva capire in qual modo potesse essere maturato il processo di delegittimazione del regime che, iniziato prima della guerra con la stipula dell'alleanza con la Germania e l'adozione della politica razziale, aveva portato alla catastrofe. Si rese presto conto che determinante, ai fini del tracollo, era stato il cattivo andamento delle operazioni belliche: ben poco, infatti, aveva pesato l'antifascismo. Il regime aveva cominciato a vacillare quando si era diffusa la convinzione - sull'onda delle pessime notizie militari che continuavano a giungere e soprattutto a seguito dei bombardamenti alleati sulle principali città italiane - che le sorti del conflitto erano ormai segnate. Si succedettero, a cascata, il collasso del fronte interno, la crisi militare e politica del luglio 1943, la caduta di Mussolini, la costituzione del governo Badoglio, l'armistizio e il trauma dell'8 settembre 1943. Proprio questa data assunse, agli occhi di De Felice, un valore simbolico, di catastrofe nazionale destinata a riflettersi sul futuro del Paese anche in epoca post-fascista. Quel giorno divenne per lui una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano: allora si consumò la «morte della patria» e iniziò un processo di «svuotamento del senso nazionale». Si vide, infatti, come la maggioranza del Paese - dalla borghesia agli operai - non optasse, se non in minima parte, per precise scelte politiche o di impegno civile, ma cercasse di non rimanere coinvolta e di non prendere una posizione chiara attestandosi in una sorta di «zona grigia», preoccupata di sopravvivere alla tempesta. Era stato, forse per primo, un grande giurista e fine scrittore, Salvatore Satta, in un saggio intitolato De Profundis, a parlare, con riferimento all'8 settembre, di «morte della patria» e quindi, implicitamente, di morte della nazione, nella misura in cui la nazione identifica il vincolo di appartenenza a una realtà etico-politica. Poi, a sottolineare l'entità dello sbandamento morale e del disastro materiale, erano venuti il cinema si pensi a Tutti a casa di Comencini e la letteratura. Le pagine, per esempio, ciniche e sofferte, dedicate da Curzio Malaparte nel romanzo La pelle alla giornata dell'8 settembre sono inquietanti, con quella rappresentazione plastica di ufficiali e soldati i quali, alla notizia dell'armistizio, facevano a gara «a chi buttava più eroicamente le armi e le bandiere nel fango». Una rappresentazione conclusa da Malaparte con l'amara e moralistica riflessione: «è certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla». Per De Felice il giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, diventò «la data simbolo del male italiano», la data che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo». Quel trauma non aveva avuto precedenti. L'altra data tragica della storia contemporanea italiana, quella della sconfitta di Caporetto, era stata riassorbita dal Paese e dalla classe dirigente e si era annullata nella grande offensiva finale di Vittorio Veneto. Nel caso dell'8 settembre le cose si svolsero altrimenti. Erano venuti meno, secondo De Felice, gli «anticorpi» perché «il monopolio fascista del patriottismo», realizzato con l'identificazione del «primato della nazione col primato del regime», aveva minato fin dalle origini quella «mitologia della nazione» creata da Mussolini e precipitata il 25 luglio. Il fascismo-regime aveva puntato sulla carica emotiva del sentimento nazionale come strumento per «accelerare la nazionalizzazione delle masse, per omogeneizzare la borghesia, per integrare nello Stato fascista quei ceti che erano stati esclusi dallo Stato liberale, per alimentare il consenso in pace e la mobilitazione in guerra». Il disastroso andamento del conflitto, prima, e la disfatta militare, poi, travolsero, insieme al regime, anche l'idea di nazione «come valore unificante di tutti gli italiani». Questa analisi di De Felice che collega l'idea della «morte della patria» all'indebolimento etico-politico del Paese si connette alle riflessioni dello studioso sulla crisi dell'idea di nazione e alle sue considerazioni sulla crisi funzionale della democrazia nella società contemporanea, in particolare nell'Italia post-fascista. Nel dopoguerra si affermò una vulgata storiografica, preoccupata di «legittimare con la vittoria antifascista il nuovo Stato» e «depurare dai veleni del nazionalismo la politica del dopoguerra e la ricostruzione democratica». La guerra fredda aggiunse alla dicotomia fascismo-antifascismo quella comunismo-anticomunismo. Tutto ciò ostacolò in Italia la costruzione di una democrazia compiuta basata sul confronto fra destra e sinistra, sull'alternanza fra moderati e progressisti, sul ricambio delle classi dirigenti. La democrazia italiana nacque, insomma, bloccata. Per questo De Felice, alla metà degli anni '90, poco prima della morte, riconobbe che in Italia si registrava una situazione di «crisi di democrazia» non tanto, com'era avvenuto in epoca pre-fascista e fascista, nel senso che i «valori democratici» fossero contestati, ma nel senso che la democrazia italiana non assolveva a tutte «le nuove necessità del paese». Pur rimanendo «sempre l'unico sistema valido», per lui, essa andava riformata perché non riusciva a tenere «il passo con la situazione, con il progresso tecnologico, con lo sviluppo economico, con la necessità di rapide decisioni, con il tecnicismo di scelte efficaci». La prima cosa da fare sarebbe stato, però, il recupero del sentimento della nazione. A chi gli obiettava che l'idea di nazione era stata surrogata, dopo l'8 settembre 1943, dal cosiddetto «patriottismo della Costituzione» come fondamento della nuova repubblica democratica, De Felice rispondeva che «senza la Nazione non ci può essere Costituzione» perché i valori che danno corpo e sostanza al «patriottismo della Costituzione» sono espressi non da un'astrazione giuridica ma dalla storia, dalla cultura, dalle vicende del Paese. Il sentimento nazionale, l'idea di nazione, era dunque, per De Felice, la premessa essenziale e ineludibile per un'autentica e compiuta realizzazione dello Stato democratico. Discendono da qui le affermazioni, contenute in particolare negli ultimi tomi dell'opera su Mussolini e il fascismo, su natura e significato della Resistenza, sul rapporto tra antifascismo e Resistenza, sulle origini del sistema partitocratico italiano, sulla prima repubblica. Affermazioni che non erano dettate da retropensieri di natura politica, ma concludevano un lungo, coerente e sofferto itinerario di ricerca storiografica, che ha sempre avuto presenti i temi di nazione e democrazia.
Così iniziò il linciaggio di De Felice. Il suo studio sul Duce dimostrò il consenso degli italiani al regime. Gli intellettuali di sinistra non glielo perdonarono, scrive Claudio Siniscalchi Mercoledì 04/11/2015 su "Il Giornale". «Non penso sia esagerato sostiene Emilio Gentile affermare che Renzo De Felice è forse lo storico italiano del Novecento più noto in Italia e nel mondo». Non c'è nulla di esagerato. È la verità. Così come è incontrovertibile un'altra verità. Lo storico italiano più importante del Novecento è stato vittima di un'ostilità a tratti feroce, prolungata, che non si è placata neppure con la morte. Lo scontro fra la storiografia di sinistra e De Felice prende avvio con il 1965, data della pubblicazione del primo tassello della biografia di Mussolini: il «rivoluzionario». Tesi troppo innovativa per l'epoca. Mussolini un «rivoluzionario»? Ma scherziamo! La «vulgata antifascista», come De Felice definiva la storiografia dominante di stampo marxista, spesso collaterale al Pci, avvertì immediatamente il pericolo. Nel ventennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, il Partito comunista aveva esercitato una egemonia sulla cultura italiana, riuscendo a condizionare anche larghi settori della cultura cattolica e liberal-democratica. Era giunto il momento di scardinare questa «vulgata». E De Felice la scardinò. Pezzo a pezzo. Lo fece attraverso migliaia di pagine dattiloscritte, battendo i tasti di una vecchia Olivetti portatile. Lavorando come un monaco, unendo artigianato e arguzia, la ridusse in poltiglia. Innanzitutto sotto il peso dei suoi volumi su Mussolini, sempre più densi, ai quali si unirono altre pubblicazioni e iniziative collaterali, e con l'aggiunta del suo magistero intellettuale. Il fuoco di sbarramento contro De Felice partì da subito. All'inizio assunse la fisionomia del fuocherello. Ma mentre la biografia di Mussolini cresceva a dismisura, diventando mastodontica, le fiammelle si trasformavano in incendio. Contro di lui si scatenò una campagna pubblicistica, storiografica, universitaria, politica tambureggiante e aggressiva. Al primo volume del Mussolini De Felice ne fece seguire altri due: stavolta sul «fascista» (1966-1968). Il punto di non ritorno arrivò con il 1974, anno della pubblicazione del primo volume di Mussolini «il duce», dedicato agli «anni del consenso» (1929-1936). Un tomo di novecentocinquanta pagine zeppe di documenti e note, corredato da una corposa appendice. L'obiettivo storiografico di De Felice era «comprendere» il fascismo non «condannarlo». Per la «vulgata» la questione del «consenso» era vitale. Gli italiani non avevano mai espresso alcun «consenso» nei confronti di Mussolini, che si era impossessato del potere con la forza e l'inganno. Occorreva reagire, poiché stava aprendosi la breccia decisiva. Dopo 10 anni di ricerche attorno al pianeta Mussolini, il vento delle polemiche investì De Felice. E lui giocò d'anticipo. Un altro mattone della storia del fascismo e dell'Italia fascista era stato piazzato. Ma per mettere definitivamente le carte in chiaro aveva bisogno di uno strumento agile. Lo trovò nell'intervista sul fascismo rilasciata ad un brillante storico americano, Michael A. Ledeen. Un volumetto essenziale 115 pagine uscito presso Laterza nel luglio del 1975. Una bomba! Un successo editoriale, a dicembre giunto alla quinta edizione. Le «vestali della vulgata» persero il controllo, riempiendo le pagine dei giornali di indignati commenti. Si poteva far finta di ignorare, o rintuzzare blandamente, la tesi che il fascismo fosse un regime «rivoluzionario». Ma la questione del «consenso» era troppo. Il sociologo Franco Ferrarotti su Paese sera rimproverò De Felice di considerare il fascismo un capitolo concluso del Novecento. Grave errore, perché De Felice con la sua idea di «fascismo marmorizzato» non vedeva le diramazioni politiche e le relative conseguenze politiche sull'Italia del 1975. Trattare il fascismo asetticamente, alla maniera di De Felice, era un errore. L'interpretazione defeliciana venne bollata da Leo Valiani, sul Corriere della sera, di insensibilità morale. Paolo Alatri sul Messaggero imputò a De Felice incompetenza storiografica. Il colpo più duro lo assestò Nicola Tranfaglia. Su Il giorno scrisse che nell'intervista De Felice sosteneva tesi pericolose, capaci di indurre nelle giovani generazioni gravi guasti. La rivista Italia contemporanea promulgò addirittura un appello contro la «storiografia afascista» e il «qualunquismo storiografico» di De Felice, «ritenendoli indizio di un orientamento storiografico e culturale che ormai scopre apertamente i suoi risvolti politici, travasando nel campo storiografico le strumentalizzazioni della teoria degli opposti estremismi». Insomma, per farla breve, dietro le tesi di De Felice si nascondevano oscure mire politiche. A partire dalla riabilitazione storica del fascismo. In realtà De Felice metteva nero su bianco verità oggi consolidate. Ma che all'epoca erano, per il settore dominante della cultura storica e politologica italiana, insopportabili. De Felice divenne così il mostro da abbattere; l'intellettuale da emarginare. Nasce da lì, da quell'astiosa polemica, il ritratto del pericoloso «revisionista». Lo «scandaloso biografo» di Mussolini subì contestazioni di ogni genere. Giornali, riviste, saggi, cattedre universitarie: tutto venne impiegato contro De Felice. Chi scrive è stato suo studente nei primi anni '80 a Scienze politiche all'Università La Sapienza di Roma, e ricorda il diffuso fastidio di molti studenti, le frequenti interruzioni delle lezioni con domande polemiche, fogli e cartelli denigratori nelle bacheche, sino alle aperte contestazioni. Ormai gravemente malato lo storico subì un attentato incendiario nella sua casa di Roma, a Monteverde. La schiera degli avversari di De Felice era composita. E rumorosa. Ma De Felice non se ne preoccupò. Il prestigio suo e delle sue ricerche cresceva in Italia e all'estero. Quello intellettuale e morale dei suoi avversari si sbriciolava. A rileggere certe sciocchezze scritte su De Felice viene da sorridere. Sotto le macerie del crollo del comunismo c'è rimasta la «vulgata», le sue bugie e la sua arroganza. Dopo l'intervista sul fascismo De Felice iniziò ad intervenire su due piani: quello solito della ricerca sui documenti; e quello della presenza mediatica. Lo fece con l'intervista a Giuliano Ferrara per il Corriere della sera nel 1987; con il libro Rosso e Nero con Pasquale Chessa nel 1995; con l'appoggio incondizionato a François Furet per il suo saggio Il passato di un'illusione nel 1995. Scatenando sempre risposte astiose, ma sempre più prive di credibilità. Oggi De Felice è un «classico», un «maestro», un intellettuale da ammirare per l'impegno nella difesa del proprio lavoro e della propria indipendenza. Balbuziente, De Felice non balbettò mai al cospetto dei suoi avversari. La qualità della ricerca ha fatto diventare giustamente Renzo De Felice lo storico italiano più importante del XX secolo. Ma un ruolo essenziale lo hanno avuto anche il coraggio e l'onestà intellettuale.
Il Duce governò col consenso. E De Felice lo ha dimostrato. Il monumentale studio del ricercatore risultò ben documentato e inaccettabile. Ma negli anni '70 era inaccettabile. Pansa e Pavone ne hanno seguito le orme, scrive Giordano Bruno Guerri Giovedì 05/11/2015 su "Il Giornale". Sono pochissimi i libri di storia diventati essi stessi un fatto storico. È il caso della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, uscita in otto volumi da Einaudi fra il 1965 e il 1997 (l'ultimo, postumo e incompleto). Più che una biografia è una storia del fascismo, e il grande merito di De Felice fu basare i suoi studi sui documenti e non su pregiudiziali ideologico/politiche, pro o contro. Sembra ovvio, trattandosi di storia, ma all'epoca non lo era. I primi tre tomi (Il rivoluzionario e Il fascista, dal 1883 al 1929) avevano semplicemente disturbato la dominante storiografia di sinistra. Il quarto ebbe un effetto dinamitardo: le quasi mille pagine di Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 1929-1936 uscirono nel dicembre del 1974 e la loro tesi di fondo provocò polemiche a non finire. Vi si sosteneva, e vi si dimostrava, che il regime godette per un lungo periodo di una straordinaria partecipazione popolare. Oggi è un dato acquisito (malvolentieri) anche dalla storiografia più schierata a sinistra, però a quei tempi De Felice venne addirittura accusato di filofascismo: lui, ebreo liberale che fino a allora si era occupato soprattutto della Rivoluzione francese. Visto che non tutti potevano affrontare quelle mille pagine, nel 1975 De Felice volle pubblicare Intervista sul fascismo (Laterza, a cura di Michael Arthur Ledeen), dove spiegava in sintesi il proprio pensiero, a partire dall'inedita distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento. Il primo ebbe sostanzialmente funzioni conservatrici, il secondo aveva forti aspirazioni di modernizzazione: «Il movimento è l'idea della realtà; il partito, il regime, è la realizzazione di questa realtà, con tutte le difficoltà obbiettive che ciò comporta». E continua: «Con tutti i suoi innumerevoli aspetti negativi, il fascismo ebbe però un aspetto che in qualche modo può essere considerato positivo: il fascismo movimento aveva sviluppato un primo gradino di una nuova classe dirigente». Fondamentale è anche l'individuazione dell'elemento che distingue il fascismo dai regimi reazionari e conservatori, ovvero la mobilitazione e la partecipazione delle classi: «Il principio è quello della partecipazione attiva, non dell'esclusione. Questo è uno dei punti cosiddetti rivoluzionari; un altro tentativo rivoluzionario è il tentativo del fascismo di trasformare la società e l'individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata». In più De Felice sostenne, per primo, che fascismo e comunismo erano entrambi figli della rivoluzione francese, e avevano quindi un codice genetico simile. Per la sinistra era (non lo è più così tanto) un'affermazione inaccettabile. Il Pci aveva da poco lanciato l'idea del «compromesso storico» con la Dc e si sentiva minacciato nella sua egemonia culturale da un libro che appena dieci anni prima avrebbe semplicemente ignorato. L'unico comunista che difese, in parte, le posizioni di De Felice fu Giorgio Amendola, uomo coraggioso e onesto. Riguardo agli effetti che ebbe il lavoro di De Felice, posso ricordare un episodio personale. Studiavo a Milano, quindi non ero un suo allievo quando nel 1974 mi laureai con una tesi su Giuseppe Bottai, un fascista critico: dove dimostravo appunto che Bottai era stato un modernizzatore e che erano esistiti una cultura fascista e intellettuali fascisti di valore. La tesi venne pubblicata nel 1976 addirittura da Feltrinelli, grazie a un direttore editoriale illuminato come Gian Piero Brega: non credo sarebbe stato possibile senza il varco aperto dal docente romano, ma l'accoglienza non fu diversa da quella del libro sul consenso. De Felice veniva cucinato a fuoco vivo e lento per avere sostenuto in sostanza che gli italiani erano stati fascisti. Nessuno riusciva a contestare seriamente le sue tesi, perché non si poteva, e però fioccavano allusioni e accuse sulla sua onestà intellettuale, sulle sue capacità storiografiche, sulle sue tendenze politiche: specialmente con quell'atroce sospetto di filofascismo. Fino a tutti gli Anni Settanta, infatti, fascista! era l'offesa più di moda e più violenta, tutto ciò che di male esisteva nell'universo era fascista, persino le prevaricazioni amorose e i comportamenti automobilistici. Dunque, per contrastare le tesi di De Felice si arrivò addirittura a sostenere che avrebbero finito per rafforzare il neofascismo italiano, ovvero il Movimento Sociale. I risultati delle elezioni politiche di quegli anni dimostrarono il contrario, per non dire che quasi vent'anni dopo il Movimento Sociale si autodissolse a Fiuggi e che il suo erede, Alleanza Nazionale, si sarebbe fuso con il liberale Popolo delle Libertà. Agli storici i loro studi dovrebbero servire non soltanto per capire il passato, ma anche per interpretare il presente e intuire il futuro. Per i contestatori di De Felice non fu così. Lontani dal capire il presente e dall'interpretare il futuro, lasciarono a bande di studenti il compito di dare del fascista a uno storico più bravo di loro e rispolverarono per lui e per chi la pensava come lui un termine da tempo fuori moda e fuori uso: «revisionista». La definizione fu appioppata per la prima volta al socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein, che nel 1899 sostenne la necessità di rivedere alcune tesi di Marx (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia). Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, «revisionista» diventò sinonimo di eretico, nemico, e così furono bollati tutti i capi comunisti che accennarono a deviare dalla linea del Cremlino.Applicata agli studi è una definizione malsana, visto che uno storico, come ogni altro studioso, non può che essere revisionista. Qualsiasi scienza, qualsiasi attività umana progredisce in quanto non si accontenta dei risultati raggiunti. Cioè: se gli architetti non fossero revisionisti, staremmo ancora nelle grotte; se i medici non fossero revisionisti, saremmo ancora a farci operare dai barbieri. Gli storici devono essere revisionisti perché non si debbono accontentare di quello che è già acquisito. Sergio Romano nel 1998 pubblicò Confessioni di un revisionista (Ponte alle Grazie), con una definizione esemplare: i revisionisti sono semplicemente «coloro che mettono in discussione, con nuovi documenti e nuove prospettive, l'antica versione di un avvenimento». Senza questo continuo andare oltre, la storia sarebbe ridotta a leggenda, cronaca o propaganda politica. Purtroppo De Felice non fece in tempo a terminare i suoi studi, altrimenti avrebbe con ogni probabilità realizzato lui il nuovo filone di revisionismo sulla guerra civile 1943-45, inaugurato da Claudio Pavone (Una guerra civile, Bollati Boringhieri 1991) e proseguito da Giampaolo Pansa con Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer 2003). Due libri che hanno provocato le stesse polemiche del saggio sul consenso: a dimostrazione che De Felice vinse la sua battaglia, ma non la guerra contro chi guarda la storia con i paraocchi dell'ideologia.
Le ultime ore di vita di Benito Mussolini in anteprima al Torino Film Festival. La pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori, scrive Adriano Palazzolo Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Gli ultimi minuti vissuti da Benito Mussolini e Claretta Petacci, prima di essere fucilati. È una storia inedita, raccontata per la prima volta da chi visse in prima persona quei momenti dell'aprile 1945, "Tragica alba a Dongo", il cortometraggio di Vittorio Crucillà presentato oggi in anteprima al Torino Film Festival. Girato nel 1950, il cortometraggio venne bloccato dalla censura e mai distribuito. Ritenuto perso per decenni, è stato ritrovato in una cantina austriaca dai proprietari, la famiglia Paternò di Pinerolo, e restaurato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino presso il laboratorio L'Immagine Ritrovata di Bologna. "Un documento storico, straordinario ed emozionante, che abbiamo restaurato per il suo grande valore di testimonianza", sottolinea il direttore del Museo del Cinema, Alberto Barbera. Una produzione semi-amatoriale, della durata di 38 minuti, girato dal giornalista Vittorio Crucillà, che di cinema ne sapeva poco. "Il suo intento - spiega lo storico Giovanni De Luna - era raccontare un fatto su cui il governo italiano non amava soffermarsi. Andreotti lo bloccò con la censura per ben tre volte. Senza contare che anche la famiglia di Mussolini si era opposta. E così aveva fatto pure il Comune di Dongo, nel comasco, per non venir tacciato di efferatezza". la pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori. Alcuni di questi ultimi sono gli stessi partigiani che bloccarono il convoglio tedesco che trasportava Mussolini, oltre ai coniugi Di Maria nel cui casolare Mussolini e la Petacci vennero rinchiusi a poche ore dalla morte. I loro primi piani arrivano al cuore dello spettatore di oggi: non dicono una parola, si muovono come degli automi, quasi incapaci di cogliere la grandezza di quelle ore.
Il docufilm (censurato) sulle ultime ore del Duce. "Tragica Alba a Dongo" fu girato nel 1950 con testimoni diretti. E bloccato più volte, scrive "Il Giornale" Martedì 24/11/2015. Si pensava che fosse ormai perduto, un documentario semi-amatoriale inedito, una testimonianza sulle ultime ore di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Ieri Tragica Alba a Dongo è stato presentato al Torino Film Festival, recuperato e completamente restaurato: un cortometraggio di 38 minuti, girato da Vittorio Crucillà nel 1950, che è dedicato proprio alla fine del Duce, agli ultimi momenti sul lago di Como fra il 27 e il 28 aprile del 1945. Il documentario di Crucillà fu fermato dalla censura più volte: «Fu Andreotti a bloccarne la distribuzione, e a più riprese: nel 1950, nel 1953 e ancora negli anni '60» ha spiegato il direttore del Museo nazionale del Cinema di Torino Antonio Barbera. La motivazione, ogni volta, era la stessa: «C'è il rischio di danneggiare moralmente l'immagine del Paese». Perciò gli italiani non hanno mai potuto vedere questo cortometraggio in bianco e nero, che ricostruisce «artigianalmente» gli ultimi episodi della vita di Mussolini, attraverso riprese nei luoghi reali e attori non professionisti: alcuni testimoni degli eventi; altri sono gli stessi partigiani che bloccarono il convoglio tedesco che trasportava il Duce; poi i coniugi Di Maria, proprietari del casolare in cui Mussolini e la Petacci furono rinchiusi prima della morte. Immagini (incluse quelle della fucilazione) che la censura ha considerato, per anni, troppo forti; perfino il comune di Dongo si era opposto alla distribuzione del cortometraggio, per non essere accusato di «efferatezza». Insomma Crucillà, che era un giornalista e non un regista, era riuscito a scontentare tutti: «Il suo intento era raccontare un fatto su cui il governo italiano non amava soffermarsi - ha aggiunto lo storico Giovanni De Luna - Anche la famiglia di Mussolini si era opposta». Dato ormai per perso, il «docufilm» di Crucillà è stato ritrovato in una cantina austriaca di proprietà della famiglia Paternò di Pinerolo e poi restaurato dal Museo nazionale del cinema di Torino, presso il laboratorio L'Immagine ritrovata di Bologna.
"Ecco come ho trovato il Diario inedito del Duce". Il direttore di Storia In Rete spiega in che modo è venuto in possesso di un'agenda del 1942. E perché è plausibile considerarla copia fedele di un originale, scrive Luca Gallesi Sabato 27/06/2015 su "Il Giornale". A settant'anni dalla morte, «il più grande statista del secolo» (copyright Gianfranco Fini) sembra emergere anche come il più prolifico scrittore del '900: oltre ai 45 volumi della sua Opera Omnia, di Benito Mussolini vanno conteggiati i carteggi con Churchill e numerosi diari (veri o presunti) che periodicamente vengono scoperti, compresi quelli riportati dal numero di Storia In Rete oggi in edicola. Il direttore Fabio Andriola spiega di cosa si tratta.
Che origine ha il Diario del Duce pubblicato dal mensile da Lei diretto?
«Appartiene a un collezionista svizzero che l'ha acquistato anni fa da un venditore italiano che non ha nulla a che vedere - mi assicurano - con la persona che vendette altre presunte agende mussoliniane a Marcello Dell'Utri. Probabilmente, proviene dalla diaspora di documenti in possesso della famiglia Panvini cui, pare, vennero affidati dal ministro degli interni della RSI, Paolo Zerbino, poi fucilato a Dongo. Il punto è stabilire se si tratta di un documento originale o di un falso. E, in questo secondo caso, di che tipo di falso: un documento completamente inventato oppure una copia più o meno fedele di un originale?».
Perché il Diario è plausibile?
«Dando per scontato che difficilmente si potrà arrivare a una prova certa in un senso o nell'altro (la storia delle perizie sui Diari è lunga e contraddittoria sia per le perizie tecniche che per quelle che puntano all'analisi interna del testo) ci sono, a mio avviso, alcuni elementi che dovrebbero far riflettere. Uno su tutti: sappiamo che i Panvini fecero fare delle agende degli anni '30 dove poi trascrivere - così dissero fino alla fine - i diari autentici che avevano avuto in custodia. Bene, non solo far fare quelle agende con le precise caratteristiche richieste era costosissimo, ma sarebbe stato inutile fare più copie della stessa annata, visto che per anni si cercò di vendere i diari a vari editori, italiani e stranieri. Che senso poteva avere l'offrire a due diversi acquirenti lo stesso anno? Eppure, per la prima volta nella storia dei Diari di Mussolini, ci troviamo, ora, davanti a due copie dello stesso anno, il 1942: una copia, completa a eccezione delle prime 16 giornate di gennaio, che è quella di cui parla Storia In Rete; e un'altra, di cui abbiamo una dozzina di fotocopie di altrettanti giorni e un testo dattiloscritto. In questo secondo caso, si tratta di materiale offerto in vendita a un quotidiano inglese nel '67 e di probabile provenienza panviniana. Ora, la sorpresa sta nel fatto che, mentre la grafia è evidentemente diversa, i testi coincidono con una particolarità: il testo del diario inedito è più lungo, quello proposto nel '67 è più corto. In pratica il “falsario” non potendo dare alla scrittura la stessa cadenza dell'originale che evidentemente stava copiando, arrivato a fondo pagina e non avendo più spazio per le ultime frasi semplicemente non le trascriveva...».
Che c'è di nuovo nel Diario del '42?
«Più che di novità parlerei di conferme: troviamo un Mussolini sempre più insofferente dei tedeschi, tutt'altro che ottimista sulle sorti della guerra, diffidente verso i suoi, a cominciare da Ciano, ma con un vero e proprio astio per Hitler. È un dittatore ripiegato su stesso che, la notte del 31 dicembre scrive, sottolineandolo: “Ora sotto di me si è aperto il precipizio”».
Cosa differenzia questo Diario dagli altri già pubblicati?
«Dietro questo Diario non ci sono intenti speculativi. Inoltre, a quanto mi risulta, per nessun'altra annata di un diario mussoliniano era mai stata fatta una comparazione su svariate pagine con un'altra copia sicuramente apocrifa. Ed è nelle differenze che indicavo prima che potrebbe esserci quell'errore fatale, “la prova delle prove” che lo stesso De Felice indicava nell'errore del falsario. Un falsario che potrebbe aver avuto di fronte un originale da copiare ma che non sapeva riprodurre fedelmente al 100%, come evidenzia il raffronto tra le due versioni che pubblichiamo. E questo potrebbe portare a riconsiderare anche il materiale pubblicato negli anni passati. Infatti, fra tante teorie abbastanza assurde che si sono accavallate negli anni (dal Mussolini che avrebbe copiato se stesso alla famigliola di Vercelli che si sarebbe scoperta capace di creare ex novo intere annate di diari mussoliniani solo con l'aiuto della biblioteca locale) perché non accettare, almeno come ipotesi, che davvero si provò a copiare qualcosa di già esistente? Da una lettera a un'amica scritta da Amalia Panvini nel '57 emerge lo stupore che la donna aveva provato nel possedere “una cosa di cui nessun altro può pensare di avere il possesso. Di avere una ricchezza che potrebbe sconvolgere la mente a tanti...”. Parole che c'entrano poco con una fredda ed enorme operazione di falsificazione studiata a tavolino».
Perché il Diario è stato nascosto fino ad adesso?
«Ci sono varie ragioni. Una è sicuramente che è in mano a un collezionista e non a uno speculatore, per cui non c'era tutta questa esigenza di pubblicizzarlo. Poi, il riserbo e la scarsa volontà di essere triturato dalla macchina mediatica: la gestione dell'operazione Dell'Utri non è stata particolarmente saggia e ha finito per gettare, oggettivamente, ulteriore discredito e scetticismo su una vicenda che già aveva inanellato diverse “cadute” dagli anni '50. Ma la cosa più curiosa è che, a differenza di altre carte mussoliniane, nessuno contesta che i diari di Mussolini ci siano stati realmente...».
"A NOI!". COSA CI RESTA DEL FASCISMO NELL’EPOCA DI BERLUSCONI, GRILLO E RENZI. Nella lingua italiana c’è una parola che, da più di novant’anni, non è mai passata di moda: “fascismo”. Definisce il Ventennio di Mussolini da cui, già nel ’45, abbiamo preso espressamente le distanze. Eppure da allora non abbiamo mai smesso di utilizzare l’aggettivo “fascista” per bollare uomini politici, movimenti, ma anche gruppi sociali e persino comportamenti comuni. In questo saggio, Tommaso Cerno parte da una semplice osservazione linguistica per riflettere sull’Italia di oggi. Perché continuiamo a usare un termine legato a un periodo storico ormai morto e sepolto? Vuol forse dire che qualcosa, di quel periodo, è rimasto nel modo di essere di noi italiani? Unendo analisi storica e interpretazione dell’attualità, Cerno va alla ricerca di figure carismatiche, scelte politiche e fenomeni sociali che mostrino una matrice comune con l’era del Duce. È solo un caso che Craxi e Berlusconi, come Mussolini, abbiano frequentato una scuola religiosa per poi concludere gli studi in un istituto laico? E, ancora scavando nelle vite dei nostri leader, cosa possiamo capire dal loro rapporto con mogli e amanti? Ma l’analisi di Cerno non si ferma alle biografie: interpreta gli stili di comunicazione, dai comizi al balcone del Duce agli hashtag di Renzi; sfata l’idea che certi comportamenti siano tipici del nostro tempo (che cosa successe dopo il terremoto nel Vulture del 1930? E dopo quello dell’Aquila nel 2009?); individua pregiudizi e forme di discriminazione che portano dal Ventennio all’affare Boffo. E che dire dei disinvolti ribaltamenti di potere, dalla notte del Gran Consiglio del Fascismo a #enricostaisereno? Basato su un’accurata ricerca storica, ma raccontato con ritmo battente, A noi! è un’acuta e originalissima lettura della nostra Storia e del nostro presente. Che ci fa capire chi siamo stati, chi ci ha governato e ci governa. E soprattutto chi siamo, noi italiani.
Ecco "A noi!" di Tommaso Cerno, la storia degli italiani eterni conformisti: dentro di noi il dna del duce. Tommaso Cerno e il popolo del tricolore: sensibile al richiamo dell’uomo forte pronto a rottamare, a predicare bene e razzolare male, soprattutto a non cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “Il Messaggero Veneto” il 19 novembre 2015. Esce in libreria “A noi!” (240 pagine, 19 euro) il libro di Tommaso Cerno che indaga sui conformismi della società italiana e s’interroga su “cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi”. "Un fascistello dormicchia in noi. Subdolo e silente. Ma pronto a saltare fuori quando c’è da prendere posizione, partecipare a una svolta politica o di costume. Perché a quel punto ecco l’irresistibile richiamo dell’uomo forte, dell’urlo della piazza, della rottamaziome di massa. E non basta. C’è qualcosa di piú profondo nel Dna dell’Italietta e che, per esempio, l’ha fatta essere dall’oggi al domani tutta fascista e poi tutta antifascista: il conformismo. L’essere italiani, insomma, prevale su qualunque scelta di campo e la precede, la giustifica, la rende possibile. In un turbinìo di luoghi comuni che ben fotografano l’italico carattere: o Francia o Spagna purché se magna, saltare sul carro del vincitore, predicare bene e razzolare male, si fa ma non si dice...Per raccontare la stagione in cui ci è dato vivere, interpretarne gli umori e trovare un filo che ne leghi le vicende, Tommaso Cerno - giovane e sensibile cronista del dramma Englaro, poi giornalista politico dell’Espresso con brillanti incursioni in tv e oggi direttore del Messaggero Veneto - ha scelto una strada volutamente provocatoria, ma certamente illuminante. Che si fonda su una tesi netta: dal Ventennio gli italiani non sono cambiati, si comportano piú o meno allo stesso modo, e germi del fascismo che ha segnato drammaticamente la nostra storia e condizionato istituzioni, costume, economia, sono arrivati pari pari da allora a oggi, a noi, come con doppio rimando recita il titolo di un pamphlet che deve molto a Longanesi e a Flaiano (“A noi!”, Rizzoli editore). Certo, Cerno sta bene attento a distinguere: c’è stato il fascismo storico, «la dittatura, le leggi razziali, la guerra, i drammi umani e le sciagure militari»; e l’altro, che in questo caso lo interessa di piú perché oggetto della sua indagine: il fascismo degli italiani «un po’ opportunisti che di fronte all’uomo forte salvarono guicciardianamente il proprio “particulare” e si schierarono in un batter d’occhio». E continueranno a fare cosí: «Siamo un popolo di fascisti tra i fascisti, democratici fra i democratici, bigotti fra i bigotti. Siamo un popolo di conformisti», osserva amaramente Cerno che per dare spessore alla sua tesi ripercorre i momenti salienti della piú recente politica italiana. Evidenziando caratteri che si ripetono simili, pur se via via adattati, nei protagonisti di ieri e di oggi. Prendiamo quella certa voglia di decisionismo che percorre da sempre il sogno nascosto degli italiani parallelamente a quello di liberarsi di ogni personale responsabilità. A ben vedere, nota Cerno, c’è un filo che lega l’uomo «delle decisioni irrevocabili» e che voleva fare della Camera un bivacco per i suoi manipoli, il Bettino Craxi che entra a gamba tesa nel teatrino della politica italiana consociativa e compromissoria, il Silvio Berlusconi che s’immagina amministratore delegato dell’Azienda Italia e non convocherà mai un congresso di partito, e il Matteo Renzi che scala il Pd e mette in discussione i poteri costituti di parlamentari e sindacalisti. E l’antipolitica che diventa essa stessa una politica? In fondo, il primo Mussolini fece piazza pulita del linguaggio e del ceto politico d’inizio Novecento; Craxi debuttò liberandosi di parole e ambiguità e finirà processando un Parlamento per mendacio e ipocrisia; Berlusconi ha portato “in campo” i funzionari di Publitalia e Renzi, addirittura, è diventato segretario e premier promettendo la “rottamazione”. E si potrebbe andare avanti, come Cerno fa alla ricerca di una continuità che non registra cesure, proprio come nella pubblica amministrazione e nella magistratura nell’immediato dopoguerra: il delitto politico da Matteotti a Moro; le bombe dal Teatro Diana a Piazza Fontana; le ruberie e la corruzione da famiglie e gerarchi del Regime a Mafia Capitale; i nani e le ballerine dai convegni privati nella sala del Mappamondo al bunga-bunga di Arcore; la violenza del linguaggio razzista, xenofobo, omofobo dai cori della milizia alle piazze di Grillo e Salvini. Fino al trasformismo e al tradimento, cuore dell’italianità, stigmate che ci accompagna da Ciano a Scilipoti. Insomma - è la tesi di questo saggio sincero, dolente e divertente - c’è almeno un elemento comune tra la fine di Mussolini, la caduta di Berlusconi e la defenestrazione di Enrico Letta: le grandi svolte, scrive Cerno, mancano di pathos, avvengono nel Palazzo, ieri per ordini del giorno ieri oggi via tweet, mai per volontà popolare; e i toni sono non da dramma shakespeariano, ma pirandelliano. Dopo di che, gli italiani sono «oggi fascisti, domani antifascisti. Tutti democristiani, poi tutti anti-sistema. E ancora berlusconiani, renziani. In pratica, i soliti equilibristi». Una conclusione amara? Forse sí, ma se non si esagera un po’, non si riflette a fondo. E non si cambia.
Gli italiani? Sono fascisti dentro. Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese, scrive Tommaso Cerno il 20 novembre 2015 su “L’Espresso”. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19). Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia? Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi. In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare. Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà. Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord. La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti. Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare. Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo. Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.
Atac: partecipanti corteo Fiom hanno preso metro senza pagare. L’azienda capitolina aveva anche allestito una biglietteria mobile per agevolare l’acquisto dei ticket. «Denunceremo in procura l’episodio». La critica di Pedica (Pd): «È nato il sindacato dei “portoghesi”?», scrive "Il Corriere della Sera” il 21 novembre 2015. Numerosi manifestanti, giunti a Roma in occasione del corteo Fiom, hanno rifiutato di pagare il biglietto per accedere ai servizi di trasporto e hanno forzato i varchi presidiati in metropolitana: è quanto denunciato dall’Atac, l’azienda del trasporto pubblico della Capitale. E dei tanti arrivati, solo in 500 avrebbero acquistato il bit da 1,50 euro dalla biglietteria mobile attrezzata dall’azienda dei Trasporti romana. La notizia dei varchi forzati ha indignato il deputato dem Stefano Pedica: «Dopo Coalizione sociale, Landini si prepara anche a guidare il sindacato dei “portoghesi”? Il leader della Fiom spieghi ai suoi manifestanti che il biglietto della metro e dell’autobus si paga e che Roma non è un porto franco. Nella Capitale, così come in tutte le città d’Italia, le regole vanno rispettate. Mi auguro - aggiunge - che gli organizzatori del corteo della Fiom, oltre a dare una bella strigliata a tutti i manifestanti che oggi hanno forzato i varchi della metropolitana, senza pagare il ticket, facciano anche il buon gesto di pagare di tasca propria per il danno fatto all’Atac». «Atac ha anche messo a disposizione un servizio di biglietteria mobile all’esterno della stazione Subaugusta proprio per favorire la corretta fruizione dei mezzi pubblici» ha aggiunto la stessa azienda, stigmatizzando «tale comportamento che rivela una concezione profondamente sbagliata della fruizione del servizio di trasporto pubblico. Atac ricorda che pagare il biglietto è un dovere civico e che l’unico modo legittimo di fruire dei pubblici servizi è averne il titolo. In conseguenza dell’accaduto l’azienda procederà a formale denuncia contro i responsabili di tali fatti». Anche Eugenio Stanziale, segretario generale della Filt Cgil Roma e Lazio, che rappresenta il settore dei trasporti, commenta il caso dei manifestanti Fiom che si sono rifiutati di pagare i biglietti della metro: «In genere quando ci sono grandi manifestazioni come Cgil, chiediamo al Comune, all’Atac e al prefetto di garantire l’esenzione dei biglietti del trasporto pubblico locale dei manifestanti, anche per una questione di ordine pubblico se ci sono grandi flussi. Non so se in questo caso sia stata avanzata. Se così non fosse e se i manifestanti arbitrariamente non hanno pagato il biglietto pagheranno la multa. Non è certo colpa degli operatori dell’Atac che stavano facendo il loro lavoro».
Il sindacato vince i ricorsi e fa perdere la fiducia. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 21 Novembre 2015. Si potrebbe tirare in ballo anche in questo caso la facilità con cui in Italia i Tribunali del Lavoro danno sempre ragione ai dipendenti. E di sicuro la storia raccontata da Ernesto Menicucci sul Corriere di giovedì scorso ne offrirebbe una facile occasione. Accade infatti che il suddetto Tribunale annulli il sacrosanto obbligo alla rotazione delle zone di competenza imposto ai vigili urbani di Roma dall’ex sindaco Ignazio Marino. Obbligo, peraltro, al quale si era arrivati anche in seguito a un pronunciamento dell’autorità nazionale anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone. La ragione della rotazione è intuitiva: un vigile che presta servizio per troppo tempo nello stesso territorio può essere più facilmente indotto in tentazione. Si tratta dunque di una misura tesa non solo a ostacolare la corruzione spicciola ma anche a tutelare l’onorabilità degli stessi vigili urbani, preservando i valori etici. La cosa però non è piaciuta ai sindacati. I quali, non potendo per evidenti ragioni eccepire nel merito, si sono appigliati alla forma. E il giudice ha dato loro ragione condannando il Comune per «comportamento antisindacale»: non aveva informato il sindacato prima di approvare il Piano anticorruzione nel quale era prevista la rotazione dei vigili, ma soltanto il giorno dopo. Non fa una grinza. Così ora si può festeggiare: per le vecchie e rassicuranti rendite di posizione il pericolo è cessato. Complimenti dunque al Tribunale. Ma complimenti anche a chi al Comune ha alzato il pallonetto ai sindacati, non rispettando per filo e per segno le procedure: un comportamento tanto maldestro da far pensare a una mossa studiata. Soprattutto, però, complimenti alla Uil che ha promosso il ricorso. Se servivano altre ragioni per affossare di più la fiducia dei cittadini italiani nel sindacato, eccole.
GLI ITALIANI: TRA I POPOLI PIU’ IGNORANTI.
Nel suo annuale sondaggio Ipsos Mori, società di ricerca inglese, chiede alle persone di diversi paesi di rispondere a domande sulla società in cui vivono. E gli italiani sono tra quelli che sbagliano di più, scrive Mauro Munafò il 23 dicembre 2015 su "L'Espresso". "Gli italiani sono tra i popoli più ignoranti al mondo. E' questo il risultato della ricerca annuale di Ipsos Mori, società inglese che nel suo annuale " Perils of perception " chiede a centinaia di persone di 28 paesi di rispondere ad alcune domande sulla propria nazione: quanti hanno acceso a internet, quante credono in Dio, quanti sono gli immigrati e molto altro ancora. Queste risposte vengono poi messe a confronto con i dati reali per determinare quanto, in media, le varie popolazioni sbaglino le risposte. E così si scopre che un po' tutti tendono a sovrastimare il numero di immigrati nel proprio paese, così come la ricchezza percepita dai benestanti o i giovani che abitano ancora con i genitori, mentre sottostimano, ad esempio, il numero di persone in sovrappeso.
Mauro Munafò scrive il 29 ottobre 2015 su "L'Espresso". Gli italiani sono il popolo più ignorante d'Europa. E vivono in un mondo pieno di immigrati e musulmani che non esistono. Gli italiani credono di essere circondati da musulmani, di essere stati invasi dagli immigrati, di essere tutti disoccupati, di avere troppi vecchi in giro e pensano (anche) che moriranno presto. Una bella ricerca Ipsos Mori fatta nel Regno Unito dimostra come il nostro sia il Paese più ignorante d'Europa, nel senso che "ignora" (cit. Aldo, Giovanni e Giacomo) la reale dimensione di alcuni fenomeni e vive nella reale convinzione che tutto vada drammaticamente peggio. La ricerca in questione fa vedere come un po' tutti nel Continente tendano a credere che ci siano più immigrati o musulmani del reale, ma come la spariamo grossa noi davvero nessuno. Alcuni numeri credo meritino davvero di essere sottolineati. Nel nostro Paese si crede che il 30 percento della popolazione sia composta da immigrati (in realtà è il 7), che il 20 siano musulmani (sono appena il 4), che il 48 percento siano over 65 (sono in realtà il 21) e che i disoccupati siano il 49 percento (sono il 12). In pratica viviamo in un incubo. Da questi numeri credo siano chiare due cose:
1) La politica degli allarmi, delle emergenze, del "ci stanno invadendo", del "moriremo tutti", attecchiscono dannatamente bene e non esiste dato statistico in grado di smentirle. Ed è ovvio quanto faccia comodo a certi partiti;
2) C'è una gigantesca responsabilità del sistema dell'informazione (di cui anche il sottoscritto fa parte) che si dimostra assai inadeguato nel descrivere la realtà e preferisce cavalcare ogni allarme.
Se ne può uscire in qualche modo? Non sono particolarmente ottimista...
Quanto conosci davvero la sinistra (e le sue mille divisioni). Abbiamo eliminato il nome dai simboli di 18 partiti e movimenti di sinistra e centro sinistra, di oggi e di ieri. Mettetevi alla prova e cercate di riconoscerli tutti, scrive Mauro Munafò l' 11 dicembre 2015 su "L'Espresso". La lettera dei sindaci Doria, Pisapia e Zedda ha riaperto in questi giorni il dibattito sulla sinistra e sulla necessità dei partiti che la rappresentano di presentarsi uniti alle prossime elezioni. La tendenza alla scissione dei movimenti di area ha infatti origini storiche ed è quasi impossibile elencare tutti gli episodi trascorsi: dalle liti nel Pci fino agli ultimi addii dal Pd targati Sinistra Italiana e Possibile. Per mettere alla prova i nostri lettori abbiamo creato il gioco che vedete qua sotto: abbiamo rimosso il nome dai simboli di 18 partiti di sinistra oggi e di ieri e vi sfidiamo a riconoscerli tutti. Sarete all'altezza o anche voi vi siete persi qualche scissione?
Analfabetismo finanziario, una piaga italiana. Secondo uno studio di Standard and Poor's, solo il 37 per cento degli italiani adulti può essere considerato “financially literate”, meno del Camerun e del Togo (38 per cento) e di Mauritius (39), laddove Francia è al 52 e Germania al 66 per cento, scrive Paola Pilati il 22 dicembre 2015 su "L'Espresso". Una ricerca pubblicata poche settimane fa da Standard and Poor's, la famosa agenzia di rating, ha fatto una fotografia dell'analfabetismo finanziario in giro per il mondo. L'Italia ne esce maluccio, visto che il tasso di educazione ai termini e ai meccanismi dell'economia della popolazione adulta è, tra i paesi occidentali e quindi anche tra i più ricchi, dei più bassi. Solo il 37 per cento degli italiani adulti può essere considerato “financially literate”, meno del Camerun e del Togo (38 per cento) e di Mauritius (39), laddove Francia è al 52 e Germania al 66 per cento. Non c'è da stupirsi quindi che da noi ci siano periodicamente scandali a danno dei risparmiatori, come s'è visto con il caso dei bond subordinati venduti a ignari pensionati, che del termine “subordinato” non conoscevano il rischio. E ai quali non è squillato nessun campanello d'allarme quando le autorità hanno annunciato la partenza del “bail in”, in cui appunto quel tipo di obbligazione è sulla prima linea della perdita assicurata. Ma non è solo colpa dell'analfabetismo diffuso. Come si può pretendere che uno presti orecchio se anche le massime autorità fanno a gara per non farsi capire, per parlare difficile, per edulcorare la realtà? Possibile che nessuno abbia trovato una traduzione al termine inglese “bail in”? E che nessuno, dal presidente del Consiglio al ministro dell'Economia al governatore della Banca d'Italia si sia preso la briga di mettere in chiaro con quali nuovi pericoli il povero risparmiatore dovrà avere a che fare dall'inizio del 2016 (con l'assaggio di questi giorni)? La cosa è tanto più stupefacente in quanto le pletoriche strutture costruite in Europa dopo lo scoppio della crisi finanziaria con l'obiettivo di tenere il mercato nel mirino, il loro lavoro in fondo lo fanno. Report, studi, analisi, ingolfano i siti delle authority e basta solo andarseli a leggere. Un po' indigesti, è vero, non roba da grandi divulgatori, ma almeno non reticenti. Capita proprio in questa fine d'anno che sia l'Eiopa che l'Esma abbiano tirato le fila del lavoro dei propri uffici studi – molto internazionali, molto ben pagati, molto élite culturale – con dei risultati che al pubblico potrebbero essere utili. Ma intanto diciamo chi sono l'Eiopa e l'Esma, due sorelle che hanno il nome di mostri mitologici come Scilla e Cariddi, ma che sono invece due authority di calibro europeo: European Insurance and occupational pensions authority la prima, European securities and markets authority la seconda. Ebbene, nel suo ultimo Trend Report Eiopa i suoi allarmi li lancia. Quali? I consumatori non sono sempre messi in condizioni di comprendere, complici anche slogan pubblicitari ambigui, qual è la copertura assicurativa che sottoscrivono, e che soprattutto prodotti di assicurazione sulla vita detti “unit linked” (quelli che combinano una copertura assicurativa ma anche una componente di investimento), molto cresciuti ultimamente, sono talmente complessi che spesso che li stipula non è in grado di capirli. Non solo, ma se con la digitalizzazione crescente del settore e con l'uso dei Big data la profilazione del cliente da parte delle compagnie diventa sempre più affinata, se combinata con l'innovazione finanziaria in costante evoluzione, può dare luogo a prodotti con un grado di complessità molto rischioso. Come dimostra il crescente spostamento dalle polizza sulla vita con garanzia a formule di polizza senza garanzia. Se ne saranno accorti proprio tutti i sottoscrittori? Per non parlare delle assicurazioni sanitarie, su sui si concentrano, in Europa, il maggior numero di reclami. Insomma, un panorama che fa tremare al pensiero che molte di queste polizze hanno ormai sostituito in portafogli di medio peso le forme di investimento tradizionali come i titoli di Stato. E vogliamo vedere che messaggio lancia ai consumatori Esma? Il suo ultimo “Risk Dashboard”, prospetto di rischio, non è rassicurante: con una serie di bollini dall'intensità crescente di colore da giallo all'arancio al rosso (il più pericoloso) vede un “alto livello di rischio” per investitori, infrastrutture e servizi e sistema finanziario nel suo complesso. Insomma, non si salva nessuno. Le cause: il livello del debito sovrano a rischio in molti paesi, la pressione deflazionistica, i tassi bassi che spingono a cercare investimenti redditizi ma sempre più al limite. Un quadro che evoca uno stress di sistema sempre possibile, non appena qualcosa vada storto, a cominciare dal default delle infrastrutture tecnologiche su cui si muovono i mercati, come è avvenuto in parallelo con il crollo delle Borse a fine agosto. Conclusione, a nessuno piace fare l'uccello del malaugurio, soprattutto a fine anno. Ma neanche tenere la testa sotto la sabbia ci dovrebbe fare contenti. Perciò non scordate, ogni qualvolta ascoltate le sirene del mercato, di ricordare i moniti di Eiopa ed Esma.
IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.
L’ignoranza d’Italia tutta nella domenica del pallone, scrive il 23 novembre 2015 Angelo Forgione. Verona-Napoli la portano a casa gli azzurri. Una partita in cui si è specchiato un Paese che nel proprio campionato impone la bandiera francese in bella mostra e l’ascolto de “la Marsigliese”, in segno di solidarietà per le morti di Parigi. Giusto e sacrosanto commemorare delle vittime innocenti, ma quando ciò avviene solo in ricordo di un popolo e non di tutti quelli coinvolti in luttuosi eventi si finisce per esprimere un messaggio politico. Avremmo preferito la bandiera multicolore della pace e l’esecuzione di Imagine di John Lennon, ma evidentemente il cocchiere guida il carrozzone in una strada a senso unico. A Verona, poi, non per colpa degli innocenti ragazzini deputati a mostrarla, è venuto fuori persino un tricolore francese ribaltato (che nei paesi del Commonwealth significa arrendevolezza) e nessuno dei commissari di Lega ha pensato di far rettificare il senso. Sugli spalti, appena terminata l’ultima nota dell’inno di Francia sono ripresi i cori razzisti contro Napoli, e tutti a sdegnarsi, a partire da Paolo Condò su Sky, la cui denuncia veniva condivisa da Ilaria D’Amico. Ma ci vogliamo forse stupire per l’ipocrisia nazionale e per l’incoerenza dei tifosi del Verona, da sempre eccessivamente animosi nei confronti dei napoletani? Non un comportamento diverso dal solito, e certamente non peggiore di quello avuto dai bolognesi il 31 maggio 2013, durante Italia – San Marino, partita dedicata alla lotta al razzismo, quando intonarono a sproposito “stonati” cori contro il popolo partenopeo. Sul campo del Bentegodi, il più bersagliato è stato, neanche a dirlo, il napoletanissimo Lorenzo Insigne. E proprio lui ha infilato il primo pertugio aperto nella difesa gialloblu, ha baciato più volte la maglia azzurra all’altezza dello stemma, è corso ad abbracciare il napoletano-toscano Sarri ed è stato travolto dai napoletani dello staff, a partire dal medico sociale De Nicola, passando per il massaggiatore Di Lullo, per finire con il magazziniere Tommaso Starace, lo stesso di trent’anni fa, quando fu Maradona a fargli giustizia sullo stesso campo. Lorenzo ha dedicato il goal alla sua città e la sua rivalsa da scudetto è finita in copertina, con più risalto di quanto non ne ebbe lui stesso due stagioni fa e, in Serie B, l’ex compagno di squadra a Pescara Ciro Immobile, che le offese dei veronesi se la legò al dito, così come l’altro conterraneo Aniello Cutolo, che restituì i ceffoni al Bentegodi con tutto Mandorlini. La domenica calcistica è finita come era iniziata. Nello stesso stadio in cui, nel 2007, fu sonoramente fischiato l’inno di Francia, a dieci minuti dal termine di Inter-Frosinone, con i padroni di casa in gloria, i tifosi nerazzurri si sono proiettati allo scontro al vertice di lunedì 30 al San Paolo e hanno pensato bene di vomitare il loro repertorio razzista all’indirizzo dei napoletani. Tanto per non farsi mancare nulla. Bandiere rovesciate, ipocrisie e scontri territoriali; questo è lo spettacolo che va in scena sui palcoscenici della Serie A. Non c’è affatto da meravigliarsi. Lo faccia chi non sa che l’Italia è un paese profondamente ignorante – tra i primi al mondo per odio razziale – che ignora la reale connotazione dei fenomeni immigratori e li rende negativi anche quando non lo sono. Insomma, Italia regno dei pregiudizi. C’è qualcuno – la Ipsos Mori in Gran Bretagna – che qualche tempo fa si è preoccupato di certificare il dato con una ricerca in 14 paesi del mondo con cui si evince che gli italiani hanno la più scarsa conoscenza di temi di pubblico interesse ed esprimono giudizi e sentimenti dalle deboli fondamenta. Insomma, italiani tutt’altro che brava gente. E allora non stupiamoci del razzismo negli stadi e nemmeno degli inciampi del presidente della FIGC Carlo Tavecchio. Ce lo meritiamo.
Verona-Napoli: prima la Marsigliese, poi i cori razzisti, infine Insigne. Dov'è finito il vero tifo? Scrive Giuseppe Annarumma su “Napoli Sport” il 23 novembre 2015. Ogni qualvolta che il Napoli affronta una trasferta a Verona è vittima dei cori razzisti dei tifosi avversari che inneggiano il Vesuvio e offendono i partenopei. Il problema è che oggi questi episodi non accadono solo al Bentegodi, ma anche a Milano, a Torino, a Bologna, a Bergamo, a Roma, a Firenze e chi più ne ha più ne metta. Nel match di ieri gli spalti dello stadio di Verona si sono colorati di vergogna e di incoerenza, visto che prima della partita tutti i presenti hanno espresso solidarietà nei confronti delle vittime di Parigi applaudendo la Marsigliese che ha accompagnato i calciatori prima del fischio iniziale, ma poi durante la gara i tifosi scaligeri non hanno risparmiato al Napoli i classici cori razzisti. L’anno scorso al Bentegodi Lorenzo Insigne pianse a fine partita, deluso dalla sconfitta e dalle offese ricevute, ancora una volta, e ieri ha ben pensato di reagire ai cori con il gol che ha portato gli azzurri in vantaggio, spianando la strada verso la vittoria finale. Cosa c’è di meglio per un napoletano doc come Lorenzo di segnare, interrompere le offese zittendo il pubblico di casa e regalare tre punti importantissimi al Napoli? Così dopo la rete lo ‘scugnizzo’ ha prima baciato la maglia azzurra, poi ha abbracciato colui che sta permettendo all’ambiente partenopeo di sognare lo Scudetto, Maurizio Sarri. La squadra risponde così ad ogni futile insulto razziale, secondo posto in classifica e lunedì, in caso di vittoria nel big match contro l’Inter, il Napoli potrebbe ritrovarsi a guidare la classifica del campionato italiano in solitaria. Già una volta un napoletano doc aveva zittito il Bentegodi, toccò ad Aniello Cutolo, il 16 settembre del 2011. L’attaccante partenopeo vestiva la maglia del Padova e i tifosi del Verona non gli risparmiarono i cori razzisti che in molti riservano ai calciatori napoletani. Al 29′ minuto del primo tempo, col Verona in vantaggio, Cutolo si inventa un gol fantastico e esulta correndo verso la curva dei padroni di casa con le mani dietro le orecchie, classico gesto per stizzire il pubblico avversario, zittendo anche Mandorlini con un gesto clamoroso verso l’allenatore. Un’esultanza polemica che gli valse il cartellino giallo ma che scaturì dagli insulti e dalla conseguente rabbia verso i tifosi veronesi, tra l’altro ex pubblico di Cutolo, visto che il giocatore aveva vestito la maglia scaligera in passato. Insomma di episodi di razzismo se ne contano tanti ma ciò che fa rabbia è che questi non vengono puniti, lasciando sempre correre, quando invece dovremmo soffermarci di più su questo aspetto vergognoso del tifo italiano.
Condò: “Perché a Verona cantano Marsigliese e poi Vesuvio lavali?” Scrive Alessandra La Farina il 22 novembre 2015 su “Calcio Mercato”. “Perché a Verona cantano Marsigliese e poi Vesuvio lavali?”, è la domanda che si pone il giornalista Sky Paolo Condò al termine di Verona-Napoli 0-2. Se da un lato allo stadio Bentegodi, prima del fischio d’inizio del match, i tifosi dell’Hellas cantavano la Marsigliese in ricordo delle vittime degli attentati in Francia, il coro “Vesuvio lavali” contro i napoletani (oggi loro avversari sul campo) cozza un po’ con quello che doveva essere il significato della “Marsigliese” a inizio di ogni partita di Serie A in questa tredicesima giornata. A sottolineare il totale controsenso dei tifosi veronesi è per l’appunto il giornalista di Sky Paolo Condò che, conclusa la partita, ha voluto accendere i riflettori su quanto accaduto sugli spalti nel corso dei novanta minuti. “È incoerente” grida il giornalista. E come dargli torto? I cori contro i napoletani, divenuti ormai scontati quanto fuori da ogni logica, appaiono oggi più che mai fuori luogo. Ricordare le vittime francesi per poi inneggiare la morte: qual è il senso logico? Un altro episodio di razzismo, l’ennesimo. Il “terrorismo” degli ultras.
"Napoli colera", siamo alle solite a San Siro: cori razzisti si levano dalla Curva Nord dell'Inter. Non solo Verona. Il cattivo gusto si è spostato anche allo stadio San Siro di Milano. Al minuto 82 di Inter-Frosinone si sono sentiti i soliti cori razzisti e discriminatori nei confronti della città partenopea: "Napoli merda, Napoli colera". L'atto vergognoso è partito dalla Curva Nord, già sanzionata in passato con pesanti ammende. Chissà cosa s'inventerà questa volta il giudice sportivo Tosel? E' giunto il momento di prendere provvedimenti drastici.
Napoli. Mandorlini e quell'insulto a Sarri: «Veste solo in nero e porta male», scrive Angelo Rossi. Non si sono mai presi. Ma si sono incrociati più volte. Nelle varie categorie e sempre a debita distanza, ognuno seduto sulla propria panchina. Salvo poi quando uno s'intromise nei fatti dell'altro. Storia di Mandorlini e di Sarri, semplici colleghi, non amici. Un feeling per niente sbocciato, colpa della lingua biforcuta del primo. «Sarri non porta bene», per intenderci lo etichettò come jettatore. Uscita inopportuna, sgradevole, di cattivo gusto. Un fatto che risale a oltre quattro anni fa, giugno 2011. Erano i giorni caldi dei playoff di Lega Pro. Il Verona fece sua la semifinale contro il Sorrento, la Salernitana la spuntò contro l'Alessandria, allora allenata da Sarri. Il quale si lamentò degli arbitraggi contro la propria squadra: quattro espulsioni in due gare. «Vogliono avvantaggiare formazioni più blasonate» fu il concetto espresso dal toscano per affermare che la finale era già scritta: Verona-Salernitana. E infatti andò così. Mandorlini sulla faccenda entrò a gamba tesa. Come quella volta nel novembre dell'85. Un intervento violento e fuori tempo. Si giocava Inter-Napoli (poi finita 1-1), Bruscolotti espulso per essere venuto alle mani con Altobelli, Garella colpito da una bottiglietta e partita sospesa, il solito ambiente ostile all'interno del quale l'entrata di Mandorlini a centrocampo fece la sua bella figura. Il centrocampista azzurro Ruben Buriani ci rimise tibia e perone, il suono sinistro del crac salì fin sulle tribune di San Siro. La carriera del centrocampista napoletano finì quel pomeriggio, Mandorlini si scusò in maniera gelida. «Non volevo fargli male», rispose a Maradona che chiedeva conto di quel comportamento. A parole quattro anni fa non è stato meno inopportuno riferendosi a Sarri nel 2011. «A me non piace parlar male di allenatori ma so che Sarri è uno che veste di nero e non porta proprio bene. Vede le cose negative»: uno schiaffo alla carriera di un collega fatta di sacrifici e costruita sulla passione. Dichiarazioni intempestive perché quella sterile polemica riguardava il tecnico toscano, gli arbitri e l'Alessandria. L'allenatore del Napoli sorrise senza replicare. Ha le sue scaramanzie, tra queste c'è quella di indossare spesso il nero. Alternandolo al blu. Insomma gli piace vestire scuro, un look che ha fatto suo da quando ha intrapreso la carriera in panchina. Ma quella non fu l'unica uscita infelice di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
E Ilaria D’Amico strizza l’occhio ai razzisti legittimandoli, scrive il 22 novembre 2015 su “Soldato innamorato”. “Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. E la colpa è di chi, pur avendo responsabilità per il ruolo che ricopre, anche mediaticamente, soffia sul fuoco invece che cercare di educare i tifosi ai valori dello sport. Per carità nello sport conta pure vincere, oggi noi napoletani ci saremmo inquietati non poco se gli azzurri non fossero riusciti a scardinare la difesa veronese. Però, prima di tutto, ci sono dei criteri di civiltà che non possono essere dimenticati. I napoletani vanno in tutti gli stadi del nord a beccarsi questo genere di razzismo. Ormai è diventata una moda. E’ vero pure che ingigantire questo fenomeno è sbagliato: pure io allo stadio canto Roma o Milano in fiamme, poi ho tra i miei amici sia romani che milanesi e mai mi sognerei di augurargli il male. Ma il razzismo verso i napoletani dura da troppi anni e non si può derubricare a semplice “coro da stadio”. Resiste in troppe città italiane questo pregiudizio nei confronti dei meridionali, altrimenti non si spiegherebbe nemmeno il motivo per cui in Italia esista ancora un partito denominato Lega Nord che basa la sua politica proprio con l’odio verso chi viene dal sud. Tutto questo sentimento insopportabile alimenta (anche in me, non lo nascondo) un sentimento di anti-italianità da parte dei napoletani. E pensare che l’Unità d’Italia è avvenuta oltre 150 anni fa. E sorvoliamo sulle modalità di questa annessione perché altrimenti non la finiremmo più. Se però questo razzismo continua è anche grazie ai vertici del nostro sport che mostrano una totale incapacità nel punire certi comportamenti. Oggi a Sky, dopo che Condò ha fatto notare i soliti cori contro i napoletani, Ilaria D’Amico non ha potuto dire o biascicare nulla di più intelligente di “Vabbé succede anche a Napoli in particolare più volte”. Il tutto per strizzare l’occhio, in nome del Dio Denaro, a quella parte di pubblico (E SONO TANTI) che proprio non sopporta i napoletani. Qui a Napoli, anche attraverso il nostro sito con diversi articoli, non lodiamo i comportamenti beceri dei nostri ultrà quando commettono gesti incivili o intonano cori disdicevoli. Però questo lavoro va fatto ovunque, altrimenti la vinceranno sempre questi buzzurri che con lo sport non hanno nulla a che fare. I media, gli addetti ai lavori, la politica. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Cori, sfottò e insulti: Verona-Napoli, la storia infinita che vale uno striscione, scrive La testa è altrove, a ciò che è accaduto a Parigi e a ciò che sta accadendo in giro per l'Europa. Sarebbe superfluo parlare di altro, ma si cerca di andare avanti e farlo nel rispetto di chi in questo momento non c'è più, che ha perso la vita per colpa di alcuni sciagurati. Ma gira e rigira, Verona-Napoli con cui riprenderà il campionato a tinte azzurre, domenica alle ore 12:30, può essere definita una partita che vale uno striscione. Quanti ce ne sono stati, da quanti anni, al di là delle scaramucce che ci sono tra le due tifoserie che proprio non si amano e che, forse, mai lo faranno. Si parte nel 1983 quando Dirceu si trasferì dall'Hellas Verona al Napoli e fu accolto da un: “Ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Poi ci fu la prima di Maradona, letteralmente massacrato al Bentegodi da Briegel, con i padroni di casa che vinsero per 3-1 e, a fine stagione, conquistarono lo scudetto. Ma gli striscioni orribili sono all'ordine del giorno a Verona, dal: “Vesuvio lavali col fuoco”, passando per“Napoli colera, la vergogna dell’Italia intera”, o ancora “Napoletani, stessa fine degli ebrei”: vero e proprio razzismo allo stato puro. Aggiungiamo a questi un “Benvenuti in Italia”, che fece scattare la grande magia delle menti napoletane, quello striscione della curva B, quel famoso, esilarante, divertentissimo striscione passato alla storia: “Giulietta è ‘na zoccola”. Finito qui? Per niente ci fu il seguito con 'offesa' shakespeariana: “Romeo è cornuto”. Anno 2001, gennaio: «Acqua e saon par el teron», tradotto: acqua e sapone, il resto è noia, recitava una canzone di diversi anni fa. Anno 1992, il Verona retrocede in B, a Napoli si festeggia: «Coloro che vogliono festeggiare si trovino oggi alle 19,30 in piazza del Plebiscito». Come in un vecchio film di Woody Allen, «Amore e Guerra», togliamo l’amore ed ecco cosa vi rimane: la storia di una fiamma belligerante mai spenta. «Facciamo il gemellaggio?», qualcuno dalla parte partenopea, ancora oggi, ci prova sui social network. Sì, certo, come no, ma bisogna cambiare sesso: ci vogliono le donne, quando a Verona, prima del match tra il Bardolino e il Napoli Carpisa Yamamay, al fischio finale ci furono applausi, brindisi e strette di mano con zero scherni in tribuna. Un gesto molto bello, portato avanti, nemmeno a farlo apposta dalla gialloblù Melania Gabbiadini (la sorella di Manolo, attaccante del Napoli). Un messaggio per tutti...
Verona-Napoli storica sfida tra striscioni e razzismo: da Dirceu all'offesa shakespeariana, su "Il Mattino del 16 novembre 2015. Gira e rigira, Verona-Napoli con cui riprenderà il campionato degli azzurri (domenica alle 12,30) è una partita che vale uno striscione. La prima stoccata è del 1983 quando Dirceu, il delizioso brasiliano di Curitiba, si trasferì dal Verona al Napoli. Lo striscione scaligero che accolse Dirceu in azzurro recitò: “Ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. L’anno dopo andammo in paranza al Bentegodi perché il campionato cominciava con la prima partita di Maradona in maglia azzurra. Il pibe fu massacrato da Briegel, il Verona vinse 3-1 e, a fine stagione, conquistò lo scudetto. Al Bentegodi si sprecavano gli striscioni orribili. “Vesuvio lavali col fuoco”. “Napoli colera, la vergogna dell’Italia intera”. “Napoletani, stessa fine degli ebrei”. Razzismo puro. L’ennesimo striscione del Bentegodi, “Benvenuti in Italia”, provocò l’immediata reazione, una genialata tutta partenopea dei ragazzi della Curva B del San Paolo presenti sugli spalti veronesi. Essi srotolarono il più famoso, spiritoso e incisivo striscione mai apparso in uno stadio: “Giulietta è ‘na zoccola”. Le partite fra Verona e Napoli sono questo. Fino alle ventimila banane di cartone giallo esposte al San Paolo in curva B, il giallo col blu è il colore delle maglie veronesi, accompagnate da una ulteriore “offesa” shakespeariana: “Romeo è cornuto”.
VERONA-NAPOLI, COME È NATO L’ODIO TOTALE. Era il nulla, per i tifosi partenopei: una squadretta del Nord. Con una tifoseria che però proprio per questo si rivelò più provinciale e razzista delle altre. E così, dopo gli striscioni “Benvenuti in Italia” e “Lavatevi”, cambiò tutto, scrive Errico Novi il 10 gennaio 2014 su “Extranapoli”. Perché proprio con il Verona? Cos’hanno di speciale gli scaligeri per suscitare un odio così viscerale? A poche ore dal ritorno di una partita che manca da 7 anni (in serie A addirittura da 13) qualcosa in proposito va detta. Innanzitutto che ai napoletani non gliene importava un tubo, del Verona e dei veronesi. I nemici erano altri: Juve, Inter, Milan (seppure ci fosse stato un timido tentativo di gemellaggio tra Blue Lions e Brigate nei primi anni Ottanta), al limite la Lazio. Ma il Verona, cosa significava per i partenopei? Niente. E in realtà fu proprio l’effetto sorpresa di quel 16 settembre 1984, prima partita di Maradona in serie A, a cambiare le cose.
Il primo conato gialloblù. Negli anni Settanta il Bentegodi è terra di conquista. I napoletani ci arrivano a frotte e occupano tutti i settori dello stadio. L’impianto è piuttosto capiente per una squadra di provincia, oltre 40mila posti (quanti ne fa oggi lo Juventus stadium), ma i supporters locali non riescono a riempirlo mai. Tra l’82 e l’84 però il club partenopeo conosce una grave crisi di risultati, ne risente anche il seguito che gli azzurri hanno in trasferta. E per partite come quella di Verona si muovono molti meno napoletani che in passato. Finisce così in secondo piano un primo conato fortemente razzista della curva sud del Bentegodi: che dopo il passaggio di Dirceu in azzurro dedica al campione brasiliano lo striscione “ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Se ne accorgono in pochi. Passa meno di un anno ed ecco la scena madre. La prima di campionato 84-85 è Verona-Napoli. È arrivato Diego, ha appena segnato in Coppa Italia alcuni dei suoi gol più incredibili, a cominciare dalla rovesciata di Pescara. Il Napoli è incompleto, schiera a centrocampo un metodista ormai avanti con gli anni come Walter De Vecchi, ma i tifosi azzurri hanno occhi solo per Lui. Nell’impianto scaligero sono almeno 15mila. I veronesi prendono male l’invasione. Il Veneto dei primi anni Ottanta non è il Nordest di oggi. È una provincia chiusa e povera rispetto alle ricche Milano e Torino, dove i meridionali sono entrati a far parte ormai anche della classe dirigente. Brigate e inferni gialloblù vari scaricano contro i tifosi partenopei cori xenofobi che neppure a San Siro o al Comunale di Torino si sentono: “Terremotati”, “benvenuti in Italia”, “quanto puzzate”. La tensione è accresciuta dalla vittoria per 3-1 che l’Hellas riporta sul campo. Molti supporters azzurri tornano a casa e raccontano la sconcertante accoglienza. Ma la delusione per il risultato anche stavolta oscura almeno in parte l’accaduto.
I cori razzisti in sovraimpressione sulla Rai. Un effetto in realtà c’è: l’anno dopo, è il 23 febbraio dell’86, a Verona non ci sono i gruppi ultras del San Paolo. Arrivano circa tremila tifosi azzurri da varie parti del Nord. Ma l’atteggiamento dei veronesi non cambia. Riecco gli insulti razzisti sugli striscioni: “Benvenuti in Italia” e “Lavatevi”. Stavolta la cosa non sfugge alle telecamere Rai. E così il servizio su Verona-Napoli 2-2 messo in onda alle 20 da Domenica sprint mostra non solo i drappi ma fa ascoltare ben bene anche i cori. E non solo: perché mentre va in onda sulle note di Guantanamera la canzoncina delle Brigate gialloblù Quanto puzzate, terroni quanto puzzate, la tivù di Stato mette addirittura le parole in sovraimpressione. Finalmente scoppia il putiferio. Non si parla d’altro per una settimana. E così la successiva partita in casa, Napoli-Torino, viene preceduta da quasi mezz’ora di cori di protesta scanditi dalle due curve del San Paolo.
Verona diventa il nemico. Solo a questo punto i napoletani, che l'anno dopo avrebbero festeggiato il primo scudetto, cominciano a mettere i veronesi in cima alla lista dei nemici. Prima di milanisti e juventini. Il prepartita di quel Napoli-Torino è una specie di rivelazione collettiva. In curva A compare uno striscione di risposta che non conquisterà la fama del ben più tardivo “Giulietta è ’na zoccola” (1996). Il drappo ideato dai Blue Lions di Tony Faiella, scritta rossa su fondo bianco, recita “Veronesi, torneremo per farci lavare le palle”. Violento, volgare, senza dubbio. Ma a noi quasi quasi piace più di quell’altro.
VERONA-NAPOLI, STORIE DI ODIO E DI ULTRAS. La rivalità con gli scaligeri, acquisita tra le più irriducibili d’Italia, passa anche per l’affronto dei tifosi azzurri che invadono il campo e corrono a far gestacci sotto la curva sud. Fino al famoso epitaffio a Giulietta, continua Errico Novi. Nella saga di Verona-Napoli si intromettono citazioni di ogni tipo: non c’è opinionista sportivo che manchi di ricordare lo striscione su Giulietta, ma spesso si confondono le date e i contesti. Sta di fatto che la rivalità viene annoverata ormai tra quelle storiche del calcio italiano. Con qualche buona ragione, evidentemente.
Il campo del Verona violato dagli ultras azzurri. Resta memorabile per esempio un’altra trasferta dei partenopei al Bentegodi, quella del 10 settembre 1989. Siamo a inizio campionato e gli azzurri si presentano privi di Diego (che alla fine della stagione precedente ha chiesto inutilmente di essere ceduto al Marsiglia). Il seguito di tifosi è massiccio ma ora prevalgono i gruppi ultras, rispetto all’eterogenea massa di aficionados che aveva invaso Verona nell’84. Una parte della tifoseria napoletana si sistema nell’anello inferiore della curva nord. Alla fine della partita, vinta per 2-1 dal Napoli, decine di ultras partenopei scavalcano le barriere e invadono il campo: non vanno a caccia di magliette e souvenir feticisti, e infatti Careca, Mauro e gli altri azzurri tornano abbastanza tranquillamente negli spogliatoi. I supporters napoletani vanno dritti verso la curva sud trascinati da un orgasmo adrenalinico a fare ogni genere di gestacci sotto il naso dei veronesi. E le immagini che postiamo sotto questo articolo mostrano come i butei impazziscano di rabbia con inutili invettive sacramentali all’indirizzo dei nemici. L’onta del terreno di gioco violato entra negli annali.
Le ventimila banane e i veronesi invisibili. C’è da dire che a Napoli non viene quasi nessuno in trasferta. Nell’anno del nostro primo scudetto, per esempio, si ricordano solo i romanisti da tempo gemellati (che si sistemano infatti a piccoli gruppi in vari settori del San Paolo, confusi senza problemi tra i tifosi del Napoli), i davvero eroici atalantini, che seppure in poche decine si appostano coraggiosamente nell’anello inferiore della curva A, e i viola che assistono alla festa tricolore del 10 maggio 1987. Veronesi non pervenuti neppure il 21 gennaio del 1990, quando la curva B accoglie i gialloblù con ventimila banane di cartone e il coro “veronese ciuccia la banana”. Ad apprezzare lo spettacolo sono appunto solo i giocatori di Osvaldo Bagnoli: di tifosi scaligeri non ce n’è manco mezzo. Le cose cambiano dopo i Mondiali del ’90. Strane coincidenze spianano la strada alla pay-tv con un’impressionante militarizzazione degli stadi. Da una parte seguire la propria squadra fuori casa inizia a richiedere la disponibilità ad essere sequestrati dalla polizia nel settore ospiti per almeno un paio d’ore oltre il 90°. D’altra parte tifoserie che si sentivano troppo esposte in determinati campi prendono coraggio proprio per il rafforzamento delle scorte ordinato dal Viminale. Succede anche ai veronesi, che si presentano al San Paolo in genere in un paio di centinaia.
Vengono giù dai monti del Tirolo. Di sicuro il campionario dei cori veronesi è tutto particolare. È sempre stato così, almeno da quando esiste il fenomeno ultras. La curva sud scaligera spedisce avanguardie a osservare le gesta delle firms d’Oltremanica e poi importa il repertorio al Bentegodi. Sono i primi a cantare l’inno inglese, per esempio. E quando tutte le curve d’Italia ancora adottano l’ecumenico “Alé-oò”, loro rivisitano il coro per farne esclusivamente un inno a un loro giocatore, Domenico Volpati. Negli anni questa ricercatezza si complica. In una delle prime apparizioni a Fuorigrotta, siamo nel settembre del ’91, i gialloblù esibiscono bandiere austriache e si lasciano scappare un “veniamo giù dai monti/ dai monti del Tirolo”. Se qualche napoletano si avvicina al divisorio del settore, loro gli cantano “facci la pizza/ terrone facci la pizza”. Una fantasia dark, diciamo. Quella partenopea è decisamente più lineare e divertita.
E venne il giorno di Giulietta. E così nella sfida che si gioca a Fuorigrotta a inizio dicembre del ’96 la curva B ripropone la coreografia delle banane ed espone l’ormai celebre striscione: “La storia ha voluto: Giulietta zoccola e Romeo cornuto”. Simboli apotropaici e citazioni shakespeariane portano bene: il Napoli vince quella partita per 1-0 con una bomba di Mauro Milanese a pochi minuti dalla fine. Balza al secondo posto in classifica: una specie di miracolo ad opera del serafico Gigi Simoni. Ma l’Italia s’accorge soprattutto dello sfottò su Giulietta e legittimamente ride. Gioco, partita e incontro, si direbbe. Eppure no, la storia va avanti. Dopo qualche anno infatti i gialloblù saranno i primi a cantarci Oj vita oj vita mia in segno di scherno.
’O surdato ’nnammurato in veronese. Ferlaino caccia Simoni pochi mesi dopo quell’1-0 contro gli scaligeri. Sì, il rendimento degli azzurri se n’è sceso, la zona Uefa scappa via, ma in un’indimenticabile notte di febbraio gli azzurri conquistano la finale di coppa Italia, con una vittoria ai calci di rigore contro l’Inter. Il presidente del Napoli accusa però l’allenatore di essere troppo distratto dall’accordo che lo porterà ad accasarsi a fine stagione proprio con i nerazzurri. E lo esonera. È l’inizio del nostro travaglio. Che conosce uno dei passaggi più dolorosi nel torneo 2000-2001, l’ultimo in serie A prima dell’avvento di De Laurentiis. Mondonico sembra aver risvegliato la squadra ma l’illusione si spegne proprio al Bentegodi, il 14 gennaio 2001. Azzurri in vantaggio a un quarto d’ora dalla fine con un capolavoro di Bellucci da 25 metri, poi frana tutto e il Verona rimonta: 2-1 finale e i gialloblù travolti dall’emozione intonano a squarciagola Oj vita oj vita mia. La cantano in ventimila, il coro rimbomba come un incubo nella testa dei cinquemila partenopei. Ma di lì a poco avremo ben altro di cui preoccuparci. E lo stesso Verona tornerà opportunamente in serie B.
La farsa del volantino. Ottobre 2002, Verona-Napoli è di scena nel campionato cadetto. Una settimana prima si gioca Napoli-Sampdoria al San Paolo, e gli ultras della curva A espongono uno striscione: “Tutti a Verona”. Diffondono pure un volantino con il testo di un coro, che non è molto conosciuto se non dai direttivi dei gruppi. Il motivetto è quello di “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e poveri, adattato così: “Passamontagna/ bastone nella mano/ È il momento/ che noi aspettavamo/ E col Verona/ c’è un odio che non muore/ Non ce ne frega/ di andare in prigione…”. Sì, pesante, ma l’idea è semplicemente quella di far cantare a tutti una canzoncina metricamente ben riuscita ed eccitare i dubbiosi sulla trasferta della domenica dopo. La Digos invece trova che il coro non suoni bene e individua nel volantino non uno spartito ma un dispaccio militare con invito ad armarsi di passamontagna e bastone. Vengono arrestati alcuni capitifosi azzurri. Al Bentegodi comunque si presenteranno quattromila partenopei, in gran parte partiti in treno da Napoli: un record di presenze per una trasferta così lontana e per una squadra che galleggia a metà classifica in serie B. Segno che l’obiettivo del volantino era semplicemente la mobilitazione di un numero più alto possibile di tifosi.
Bye bye Verona. Ci vogliono altri cinque anni per incontrarsi di nuovo. E sarà una goduria per noi indimenticabile. La fine di anni di sofferenze sportive, culminate nel fallimento del club e nella discesa in serie C. Il 26 maggio 2007 il Napoli va a prendersi a Verona 3 punti decisivi per il ritorno in A, e prefigura agli scaligeri la loro retrocessione in terza serie. Lì l’Hellas resterà per tre stagioni. L’1-3 del Napoli al Bentegodi è contrappuntato però anche dalle violente intimidazioni che alcuni telecronisti napoletani ricevono da esagitati scaligeri in tribuna numerata. Vecchi reduci delle Brigate che trovano doveroso accomodarsi nelle poltrone centrali, lontani dalle gradinate di un tempo. Carlo Alvino e altri colleghi vedono messa a rischio la loro incolumità. Ma in modo del tutto volontario la mette in pericolo anche l’attore veronese-partenopeo Francesco Brandi. Anche lui è in tribuna, in mezzo ai gialloblù. Al gol dell’1-3 di Dalla Bona, restituisce in versi tutte le maleparole udite in anni di becerume. E, come potete leggere nel suo splendido racconto pubblicato su #chevisietepersi del nostro Boris Sollazzo, comincia a correre per la felicità.
Verona-Napoli, la storia della lunga sfida tra razzismo e risposte geniali. E quelle parole di Maradona…Tra le due tifoserie c'è sempre stata ostilità, i napoletani hanno spesso risposto in maniera geniale, scrive il 15/03/15 “IamNaples”. La trasferta di Verona storicamente è sempre stata insidiosa per i colori del Napoli, sia dal punto di vista prettamente sportivo che da quello ambientale. In ogni trasferta, i partenopei sono stati sempre accolti nella città scaligera con un clima molto ostile tanto da attirare l’attenzione dei media anche a fatti extracalcistici. Nel tempo la sfida è diventata molto sentita da entrambe le tifoserie tanto da beccarsi reciprocamente con cori e striscioni molto offensivi. Anche dal punto di vista dell’inventiva, però, i napoletani hanno avuto la meglio con risposte su striscioni che hanno fatto il giro del mondo tanto da meritare una propria frase un titolo ad un libro sul mondo delle tifoserie. Andiamo con ordine. La fantasia prettamente napoletana si è spesso trasferita ed ha avuto una voce alquanto potente sugli striscioni esposti specialmente al San Paolo, soprattutto per rispondere a “messaggi” troppo spesso offensivi esposti dai sostenitori delle squadre avversarie, spesso striscioni ispirati al razzismo rivolti alla nostra amata terra. Intendiamo riferirci ai tifosi di Bergamo, Como, Brescia, Milano, Roma e Verona su tutti. Clima che molto spesso può far degenerare in scontri non solo verbali, ma il tifo napoletano cerca spesso di rispondere con ironia al torto subito, condannato soprattutto ora da quasi tutte le tifoserie europee. Verona spesso ha fatto registrare striscioni con su esposte le scritte: “Lavatevi”, “Vesuvio lavali col fuoco”, “Benvenuti in Italia”, “Vesuvio pensaci tu”, “Forza Vesuvio”. In occasione proprio della gara di andata della stagione 1988-1989 Verona – Napoli comparve questo striscione e dipinto sull’autostrada alle porte di Verona, con l’auspicio di un’eruzione distruttrice. Per la cronaca la sfida venne disputata l’11 dicembre 1988, diretta dall’arbitro Baldas. Il primo tempo finì a reti inviolate. Scocca il 53’: punizione dalla lunga distanza calciata da Renica che colpisce il palo e sul rimbalzo arriva in tuffo Crippa che ribatte di testa spedendo in fondo al sacco il gol partita. La gara però degenera non solo sugli spalti ma anche in campo. Al 78’ Crippa viene espulso per fallo da rigore su Galderisi che lo stesso tira. Giuliano, l’ex di turno, si supera deviando il calcio di rigore in corner. Nel finale viene espulso per gioco violento il tedesco Berthold. A fine gara Maradona si esprime così: “Abbiamo vinto meritatamente perché il Napoli è stata una squadra intelligente in campo. Vale molto questa vittoria perché l’anno scorso abbiamo perso lo scudetto proprio perdendo in questo campo”. Nella gara di ritorno, in una giornata piovosa, avviene la risposta dei tifosi partenopei che così accolgono gli scaligeri: curva B tutta “colorata di banane gialle” ed uno striscione inequivocabile che fa andare su tutte le furie il popolo gialloblu: “La storia ha voluto: Giulietta è ‘na zoccola e Romeo cornuto”. Per la cronaca la sfida venne giocata alla vigilia della finale di Coppa Uefa con lo Stoccarda, ossia il 10 aprile 1989 con il Napoli che vinse con il minimo scarto con una rete di Alemao. La sfida sugli spalti però non si conclude così ed i veronesi meditano ad una risposta su “pezza” per cercare di vendicare il loro onore e quello di “Sheakespeare”. La frase “Giulietta è na zoccola”, risposta geniale ed irridente nei confronti anche della letteratura, ha fatto il giro del mondo tanto da essere considerato lo striscione più divertente mai apparso al mondo sugli stadi. Qualche anno più tardi i veronesi si vogliono vendicare dell’affronto subito ed espongono un altro striscione ma fanno un autogol clamoroso senza meritare una risposta su pezza da parte del tifo partenopeo: “Siete tutti figli di Giulietta”. L’intento dei supporters scaligeri era quello di offendere il popolo napoletano, ma il fatto stesso ammette implicitamente l’ammissione originale dello striscione dei tifosi napoletani. La genialità dei napoletani continua qualche anno dopo. Il 5 maggio 1997 in Verona – Napoli segna per gli scaligeri De Vitis e dalle tribune compare lo striscione “Terroni, terroni”. La risposta non tarda a venire. I partenopei si vendicano il 17 gennaio 1999. Al San Paolo i tifosi azzurri rispondono così: “Giulietta, t’avevo lasciata zoccola e ti ritrovo puttana”. Per completare la storia delle sfide al Bentegodi vogliamo lasciare due ricordi. Uno riguarda Maradona che qualche anno dopo il suo esordio con la maglia azzurra in campionato proprio a Verona mette in evidenza la diffusa abitudine malsana del tifo becero di molti stadi italiani, il secondo riguarda uno dei tanti doppi ex che ci ha lasciati prematuramente, ossia Giuliani. Diego Armando Maradona esordisce con la casacca del Napoli nel 1984 proprio a Verona perdendo per 3-1. Di quella gara, dopo qualche anno, fece queste considerazioni: “Nel 1984, il mio primo campionato italiano, debuttammo a settembre in trasferta contro il Verona. Ce ne fecero tre. Loro avevano il danese Elkjaer Larsen e il tedesco Briegel. Il tedesco mi diceva “taci!”, e mi buttava a terra o fuori del campo. Ci ricevettero con uno striscione che mi aiutò a capire di colpo che la battaglia del Napoli non era solo calcistica: “Benvenuti in Italia” diceva. Era il Nord contro il Sud, i razzisti contro i poveri. Chiaro il messaggio. Loro finirono vincendo il campionato e noi ci salvammo nel girone di ritorno. Ma quello striscione di Verona che mi aveva colpito nella mia prima partita della carriera in Italia, non lo avevo dimenticato. Per quel “Benvenuti in Italia” indirizzato ai napoletani arrivò però subito il momento della rivincita, la vendetta. Accadde nel febbraio del 1986, il campionato successivo. Tutta la curva del “Bentegodi” gridava “Lavatevi! Lavatevi!”. Ci stavano battendo per 2 a 0, i napoletani erano offesi ed indignati. Ad un certo momento, nella ripresa, ci meritammo un rigore ed io spiazzai Giuliani e segnai. Poi a pochi minuti dalla fine, toccai io la palla, pim!, un difensore sbagliò, ancora un mio gol ed ecco il 2-2. Festeggiammo come se avessimo vinto la Coppa dei Campioni. E aggiungo che tutti quelli del Napoli che stavano in panchina, invece di venire ad abbracciare noi, andarono a mettersi sotto la curva che più di tutti aveva gridato “Lavatevi! Lavatevi!”. Eravamo così, così era la squadra e così era la città dove giocavamo e vivevamo”. Giuliano Giuliani nasce a Roma il 29 settembre 1958. E’ stato il portiere del Napoli dello scudetto 1989-1990 e sempre con il Napoli ha conquistato una Coppa UEFA nella stagione 1988-1989. Giuliani è stato un buon portiere, un pararigori, il primo con la maglia dei scaligeri fu parato proprio a Maradona la stagione precedente prima di passare al Napoli. Proprio con gli azzurri difende il successo della stagione 1988-89, parando il rigore a Galderisi, facendo rimanere il risultato di 0-1 con gol di Crippa. Cresciuto nell’Arezzo, ha esordito in Serie A nella stagione 1980-1981 con la maglia del Como. Nel 1985 è passato al Verona e nel 1988 al Napoli. Prima di passare al Napoli, quando ancora giocava con il Verona venne battuto da un pallonetto da centrocampo proprio di Maradona vedendo morire la sfera tra le maglie di una rete. Da centrocampo, infatti, vede la palla che vola sulle teste, supera anche la sua, tocca il palo e fa scendere il cielo. Nella vita privata sposò la showgirl televisiva Raffaella Del Rosario, divenuta poi conduttrice di programmi sportivi. Nel 1993 si ritirò dall’attività sportiva, ma nel frattempo si ammalò di AIDS e dopo una lunga malattia è morto a Bologna il 14 novembre 1996. In una sfida di calcio femminile tra la Bardolino Verona ed il Napoli Carpisa Yamamay è successo che al fischio finale venne effettuato il “terzo tempo” nello stile tipico del rugby. Applausi per tutti, brindisi e strette di mano fra calciatrici e dirigenti, zero scherni in tribuna. “Un gesto molto bello”, disse il sindaco Flavio Tosi prima di consegnare un premio alla gialloblù Melania Gabbiadini (la sorella di Manolo, attuale attaccante del Napoli) e alla collega napoletana Valentina Giacinti. Tosi, sempre lui, aggiunse: “È normale che tra due piazze importanti ci sia rivalità, ma è fondamentale che non si degeneri: l’iniziativa servirà a diffondere questo messaggio”.
Ultras Verona, non solo Lampedusa: trent’anni di striscioni e razzismo, scrive il 7 ottobre Antonio Sansonetti su “Blitz Quotidiano”. Il minuto di silenzio per le vittime di Lampedusa violato all’inizio di Bologna-Verona 1-4 non è la prima discutibile provocazione degli ultras dell’Hellas Verona, curva da sempre di estrema destra. È una storia lunga, i cui primi passi salienti documentati sono negli anni 80. Sono anni indimenticabili per il calcio a Verona. Nel 1985 la squadra allenata da Osvaldo Bagnoli vince lo scudetto, a sorpresa, davanti al Torino, all’Inter, alla Sampdoria e al Milan. Resterà un’impresa ineguagliata del calcio di provincia: mai una società di una città non capoluogo di regione ha vinto lo scudetto. A Verona c’è una tifoseria molto calorosa. Veronesi tutti matti, si dice in Veneto. Dal 1971 è attivo un gruppo ultras: sono le Brigate Gialloblù. Inizialmente apolitiche, si spostano sempre di più a destra a partire dalla seconda metà degli anni 70. Nel decennio successivo lo slittamento a destra è definitivo e i supporter gialloblù si caratterizzano per la loro rivalità con le tifoserie meridionali, Napoli su tutte. Ma ci sono scontri pesanti anche con quelle del Nord: Brescia, Atalanta, Vicenza, Bologna, Juventus, Genoa, Milan, Torino. Nel 1983 il calciatore brasiliano Dirceu (un numero 10 che giocò 3 mondiali e 3 olimpiadi con la Seleçao) passa dal Verona al Napoli. I veronesi lo salutano così: “Dirceu ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel Continente Nero”. La rivalità con il Napoli è fonte d’ispirazione per la goliardia razzista dei veronesi, che sono stati i primi a cantare (poi purtroppo imitati da troppe tifoserie italiane) “Vesuvio bruciali tutti“, o “Vesuvio lavali col fuoco”, esponendo striscioni come “Forza Vesuvio” o “Vesuvio pensaci tu”: I napoletani sono stati accolti con un “Benvenuti in Italia” o “Lavatevi”: Provocazioni alle quali i napoletani hanno risposto con il celeberrimo striscione che attacca uno dei simboli di Verona, il dramma shakespeariano di Romeo e Giulietta: “Così la storia ha voluto: Giulietta è ‘na zoccola e Romeo cornuto“. Un botta e risposta fra veronesi e napoletani c’è anche quando i gialloblù iniziano ad esporre lo striscione “Noi odiamo tutti”: Striscione al quale i napoletani replicano con “Noi amiamo tutti”. Il discorso si fa più pesante quando gli ultras veronesi, che comunque non hanno mai rinunciato ad esporre svastiche e croci celtiche nella loro curva, contestano a modo loro l’acquisto di Maickel Ferrier. È la primavera del 1996 e l’Hellas sta per comprare Ferrier, giovane olandese di origini africane, che sarebbe il primo nero a vestire la maglia gialloblù. In curva compare un manichino di un giocatore nero con la maglia del Verona: è impiccato, sorretto da due tizi “goliardicamente” mascherati coi cappucci a punta del Ku Klux Klan. Ferrier finirà alla Salernitana senza passare dal Bentegodi, se non da avversario. A volte gli ultras Verona sono stati presi di mira in maniera eccessiva, come quando si è visto del razzismo anche nel coro “Ti amo terrone“, che in realtà è una canzone per niente razzista degli Skiantos, storico gruppo punk bolognese. Anche l’allenatore Andrea Mandorlini finì alla gogna perché cantava “ti amo terrone”. Spesso i veronesi scandalizzano non solo il grande pubblico ma anche gli altri ultrà: è successo quando hanno deciso di aderire in massa alla tessera del tifoso, infischiandosene della battaglia contro quella tessera che stanno facendo la stragrande maggioranza delle curve. Dimostrando così una certa astuzia, una certa duttilità tipica di una città di mercanti (lo erano gli Scaligeri, il cui stemma è lo stemma di Verona, lo erano sia i Montecchi che i Capuleti). È l’adesione alla tessera che dà ai veronesi la possibilità di spostarsi ancora in massa in trasferta, come a poche tifoserie è consentito fare. “Guerra al calcio moderno? Scusate non abbiamo tempo”. I veronesi son così: quasi sempre “Soli contro tutti”, spesso sono goliardi come questo ultrà che ha assistito nudo allo spareggio per la B fra Salernitana e Verona. Ma oltre a non rispettare le differenze di razza e di religione, oltre ad essere fascisti e solidali coi neonazisti greci di Alba Dorata gli ultras del Verona passano ogni limite quando non rispettano i morti. Era già successo con Piermario Morosini, il calciatore del Livorno morto in campo, durante Pescara-Livorno, per arresto cardiaco. La curva gialloblù, in trasferta a Livorno cantò “Morosini figlio di p…”. È successo di nuovo con i migranti morti al largo di Lampedusa. Gli ultras veronesi non si sono limitati a violare il minuto di silenzio, per farlo hanno deciso addirittura di cantare un coro funebre: “Io credo, risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvator”: L’allenatore del Verona Mandorlini ha detto che quel coro va interpretato alla lettera: un canto funebre per i poveri morti. Anche se, qualche giorno prima, il 4 ottobre, chi amministra la pagina facebook “Siamo l’armata del Verona” (oltre 5.000 fan) ha commentato così la notizia del disastro al largo delle coste siciliane: “SONO FINITE LE GITE A LAMPEDUSA”. Più di 250 “mi piace” e una dozzina di commenti che apprezzavano la battuta. Difficile interpretarla come solidarietà alle quasi 200 (per ora) vittime del naufragio.
«Che importa che muoia: tanto è un terrone!», scrive Concetta Centonze. Storie di razzismo antimeridionale. Una testimonianza di una meridionale trapiantata in Veneto. AVEVO anagraficamente ventisette anni, ma scarsa esperienza della realtà: avevo sempre studiato. Per questo, quando sono entrata, proveniente da Lecce, in una scuola superiore di San Donà di Piave ho impiegato un po’ di tempo a capire. Io tenevo le mie lezioni di lettere, ero stimata dai miei alunni e dai loro genitori, ma quando mi recavo a supplire in classi diverse dalle mie, in cui non avevo “l’arma” del voto facevo fatica a farmi ascoltare. Non era soltanto questo: le mie entrate e le mie uscite erano accompagnate da risatine. Non mi pareva di essere ridicola: certo non ero alta, portavo gli occhiali, ma sapevo il fatto mio. Ero aliena da ogni pregiudizio giacché, a causa dell’asma della mia sorellina, fin dagli anni cinquanta, la mia famiglia aveva sempre frequentato le Dolomiti: Faé di Longarone, Laggio, Auronzo. Avevamo molto sofferto per la tragedia del Vajont in cui avevamo perduto amici e conoscenti. Bambina ero venuta da turista nel Veneto e, conseguita la laurea, tornavo per lavorarci: mi sembrava logico e normale. Non ero forse italiana tra italiani? Probabilmente a causa di questa buona fede impiegai un po’ di tempo a capire le risatine. Lo capii quando, passando per il corridoio, durante un intervallo, sentii un “Concettina, ah Concettina” pronunciato con un accento che voleva scimmiottare quello di un immaginario meridione. Restai molto colpita dalla scoperta di essere una terrona e di essere oggetto di scherno. Mi tornò in mente di quando un mio cuginetto, colpito a sei anni da un tumore al cervello- erano gli anni 50- era stato portato a Milano per essere curato; era stato poi ricondotto a casa dove morì implacabilmente per il brutto male. Ricordo che i genitori, nonostante il dolore della perdita atroce, raccontavano a noi famigliari che un medico di quell’ospedale di Milano aveva detto ad un collega, riferendosi al loro piccolo e alla sua incurabile malattia: “Che importa che muoia: tanto è un terrone!” Nel corso della mia permanenza nel Veneto, dove ho messo su famiglia, ci sono stati presidi che mi hanno elogiata dicendomi che ero di “sangue buono” nonostante le origini. Altri che hanno affermato nei collegi dei docenti che da Roma in giù regna l’ignoranza più completa. Ho appreso tanti luoghi comuni sul Meridione che hanno piano piano costruito questa leggenda nera di cui io ero parte: sono stata intimamente umiliata. Il massimo della vicinanza umana l’ho percepita in frasi come: “Tu, però, sei diversa! E poi oramai sei Veneta!” Poi è venuta la Lega e la situazione è peggiorata ulteriormente: il pregiudizio strisciante è diventato aperto insulto e razzismo. Le trasmissioni delle radio o delle televisioni locali, i siti di queste organizzazioni sono spaventose per il nazileghismo di cui grondano. Ora ho sessant’anni, sono andata in pensione, osservo con minore sofferenza questo fenomeno doloroso. Da questo nasce il mio desiderio di dire agli italiani attenzione: là dove voi credete di votare per un dirigente liberista come Berlusconi o per un politico conservatore come Fini, in realtà date forza ad una formazione ed una mentalità- il leghismo- che vorrebbe epurare il sud e, per ora, lo riempie di insulti e di minacce di morte. Pensate bene quando voterete: questa destra non è la destra di nazioni come la Francia o la Germania. E’ una destra che vomita odio e per la quale il concetto di identità è sempre più circoscritto. Non c’è verso di far comprendere che il sud non è rappresentato soltanto da Mastella e Cuffaro. Concetta Centonze Martedì, 19 febbraio 2008 San Donà di Piave (VE)
“Africa! Terroni di merda”, foggiani cacciati dalla tribuna del Verona. “Mandati via con frasi oscene”, scrive “L’Immediato” il 16 agosto 2015. “Ieri sera abbiamo assistito alla partita del Foggia allo stadio Bentegodi. Dopo il gol del vantaggio rossonero, io e mio fratello abbiamo esultato e gioito ma in modo contenuto. Dopo qualche minuto, un addetto ci ha chiesto di allontanarci. Premetto che eravamo in tribuna est poltronissime. Da quel momento in poi non abbiamo potuto più vedere la partita. Vi chiedo di dare spazio a questo episodio intollerante, noi lo abbiamo fatto presente alle autorità allo stadio ma nessuno ha mosso un dito”. A scrivere questa segnalazione a l’Immediato è Michele Cocca, originario di Apricena. Lui e suo fratello Graziano, titolari del ristorante “Villa Cocca” a Gavirate in provincia di Varese, sono ancora allibiti dal trattamento ricevuto a Verona. Tre i biglietti acquistati, con loro c’era un bambino. Ma dopo la rete rossonera, uno steward ha preferito allontanarli noncurante del ticket in loro possesso. “Lo steward ci ha mandati via dalla tribuna mentre i presenti inveivano frasi oscene come “Africa” e “terroni di merda” – ci ha aggiunto Michele Cocca -. Abbiamo finito di vedere la partita in fondo alla tribuna est dove non ci si poteva nemmeno sedere. Saremo costretti a presentare denuncia”.
L'astrofisica Margherita Hack: ignoranti, non esiste il Regno di Padania, scrive A. Z. l'8 aprile 2011 su “Il Corriere del Veneto”. Margherita Hack, astrofisica di rinomanza internazionale e donna dichiaratamente impegnata a sinistra, viaggia a vele spiegate verso il traguardo dei novant’anni (li farà l’anno prossimo) ma non ha perso un briciolo della sua grinta. E del suo accento fiorentino, nonostante viva a Trieste praticamente da mezzo secolo: «O che si vuole, tornare all’eta dei ’omuni?», dice al telefono, con un tono a metà tra il beffardo e l’indignato. Perché la professoressa Hack è indignata per davvero. E la scelta degli aggettivi, riferiti ai leghisti trevigiani che si sono inventati la lista fiancheggiatrice con il marchio Razza Piave, è illuminante in tal senso: «Sono dei cafoni, ignoranti e buffoni». Così, tanto per rimanere sul generico. Signora Hack, cosa la disturba nella scelta della Lega di Treviso di denominare «Razza Piave» la lista d’appoggio alle elezioni provinciali? «Quel riferimento alla razza mi disturba parecchio. Ma di che razza parliamo? Mi è tornato alla mente Albert Einstein, costretto a fuggire dal suo Paese perché ebreo, che venne fermato alla frontiera dove i funzionari americani gli chiesero: "lei di che razza è?". E lui rispose: "l’unica razza che conosco è quella umana". Risposta perfetta. Abbiamo tutti lo stesso Dna, le differenze esteriori sono dovute all’adattamento al clima e all’ambiente, sono mutazioni superficiali. La base è uguale per tutti, Piave o non Piave». Le sembra una forma di razzismo elettorale, una lista con quel nome? «È una forma di razzismo, eccome. Questi leghisti, con la loro Padania, il loro Nord, vogliono tornare all’epoca dei Comuni? Oltre che razzisti, sono ignoranti e buffoni: non c’è il Regno di Padania, caso mai esiste la Val Padana». L’espressione, però, ha anche un significato nobile nella storia di queste terre: «razza Piave» erano quelli che, sul fiume trevigiano, difesero l’Italia dall’invasione austro-ungarica nella Grande Guerra. «Ma quelli erano soldati che si sono battuti eroicamente, era gente che veniva da tutta Italia per difendere il proprio Paese. L’esatto contrario di quello che vorrebbe significare il "razza Piave" della lista leghista». Lei conosce il presidente della Regione Luca Zaia? Lui, geograficamente parlando, è un «razza Piave» doc. «No, non lo conosco». È un fatto, comunque, che nella geografia trevigiana il Piave è l’elemento distintivo: da sempre si distingue tra Destra e Sinistra Piave, addirittura il dialetto cambia radicalmente di qua e di là. «Questa del dialetto ’un la sapevo. Sulla connotazione geografica nulla di dire, siamo d’accordo, e il dialetto va benissimo, è una ricchezza, anche a me fa piacere quando sento parlare un fiorentino. Ma questo non vuol dire essere razzisti. E quello dei padani è il razzismo più rozzo che ci sia».
La Lombardia è la regione più razzista, omofoba e misogina d’Italia. Un vasto studio ha analizzato la geografia dei tweet contro il “diverso”, attestando la Lombardia come l’area più degradata d’Italia. Ma perché? Si chiede Michela Dell’Amico su “Wired” il 29 gennaio 2015. Da quando vivo a Milano mi è capitato spesso di difendere la mia città d’adozione, bistrattata come la regione che la ospita: Milano e la Lombardia sono considerate brutte e cattive, abitate da gente scortese, scontrosa e chiusa, mentre la nebbia ti nasconde l’orizzonte e tu – emigrato – ti senti solo e non voluto. Invece per quanto mi riguarda ho solo esperienze positive da raccontare, di gente gioviale, che ama bere, mangiare e divertirsi, e di angoli meravigliosi. E invece. Analizzando per 8 mesi quasi 2 milioni di tweet oltraggiosi verso donne, stranieri, portatori di handicap e omosessuali, un’analisi dell’Osservatorio Vox sui diritti ha stabilito che questi messaggi di odio si concentrano in Lombardia sia per quanto riguarda la misoginia (seguono Friuli, Campania, Puglia) che per l’omofobia e il razzismo (seguono Friuli e Basilicata). Anche i tweet contro i disabili sono più frequenti in Lombardia, Campania, Abruzzo e Puglia. Lo studio è stato condotto dall’Università degli studi di Milano, la Sapienza di Roma e l’Università di Bari, che ha messo a disposizione un software per analizzare il social network, capace anche di tenere in considerazione l’uso di Twitter – certamente minore nelle frazioni rispetto alle città – in relazione al numero di messaggi violenti. “Evidentemente la Lombardia è la regione che esprime di più questa intolleranza comunque molto diffusa”, mi dice Marilisa D’Amico, docente di Diritto Costituzionale all’Università di Milano, fondatrice di Vox, esperta di pari opportunità e discriminazioni, “si vede anche a livello politico e istituzionale. Qui si è fatto meno rispetto ad altre regioni, come ad esempio il Piemonte, la Toscana o l’Emilia, che da tempo attuano politiche culturali e buone prassi contro la discriminazione”. “Qui manca la cultura della tolleranza: si vede anche dai recenti fatti riguardo l’approvazione di una “legge anti-moschee”, discutibile e con problemi di costituzionalità. Si vede dalle polemiche seguite al convegno sulla famiglia. È probabilmente la regione in cui c’è meno attenzione a queste cose. C’è una forte ideologia che spesso porta a enormi contraddizioni. Prendiamo le donne: la Lombardia è molto avanti per numero di donne che si laureano, che lavorano e che ricoprono ruoli di prestigio. Allo stesso tempo però ci sono casi di violenza elevatissimi, e questi risultati che abbiamo visto nel nostro studio. Purtroppo è l’ulteriore conferma che questo genere di ignoranza prescinde dalle classi sociali e dall’evoluzione delle conquiste. E’ una contraddizione enorme e difficile da spiegare: le donne vanno avanti e indietro contemporaneamente”. La mia domanda resta insoddisfatta: sono i lombardi il problema, che con il loro voto scelgono una politica che parla alla loro parte peggiore? Dipende forse dal ruolo particolarmente rilevante che ha qui la religione, rispetto ad altre regioni del Nord? “Quando ho lavorato nel consiglio comunale di Milano – ricorda D’Amico –Pisapia aveva appena stravinto. Abbiamo provato a lavorare a favore della tolleranza, ma ci siamo scontrati contro altri rappresentati, comunque certo specchio della società civile, che erano invece convinti del contrario. Diciamo che ho visto cose che oggi non mi fanno più stupire sul perché, ad esempio, l’Italia non riesca a lavorare a favore delle unioni civili. E questo anche a dispetto del voto dei cittadini”. Che fare? “Come madre posso dire che è importante insistere sull’autostima delle bambine e delle ragazze, è fondamentale stare vicini e far parlare i bambini e i ragazzi vittime di bullismo, e – d’altro canto – far capire loro che le parole non si usano a caso. Quel che serve da parte dei genitori e della scuola è un’educazione mirata all’uso dei social network, evitando magari, come alcuni genitori fanno, di controllare direttamente i figli sui social. Parlare è la risposta, e tenere le antenne alte, sempre. Mia figlia ha frequentato il liceo Parini, forse il più famoso e prestigioso liceo di Milano, ma ha vissuto casi di omofobia e bullismo talmente gravi che ho dovuto ritirarla”.
La teoria razziale dell'inferiorità del mezzogiorno. Il razzismo è una evidentissima defezione da ogni criterio di materialismo storico! Il razzista oggi sostituisce alla parola razza la parola cultura. Per Gramsci, il partito socialista ha anche commesso il gravissimo errore di aver consentito ad un diffuso pregiudizio contro i meridionali tra la stessa classe operaia del Nord. «E' noto - scriveva Gramsci - quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l'esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede tutto il suo crisma a tutta la struttura "meridionalista" della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci... ancora una volta la "scienza" era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta si ammantava dei colori socialisti, pretendeva di essere la scienza del proletariato.» A.Gramsci - Quaderni vol. III A.Gramsci - Alcuni temi della questione meridionale.
Altrove Gramsci ebbe a dire: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti". Ordine Nuovo" 1920 Antonio Gramsci Il Risorgimento Editore Riuniti 1979 pag.98/99
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto piú che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.), assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe cosí una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud (confrontare i libri di N. Colajanni in difesa del Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la persuasione che piú grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc. Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno. SALVEMINI[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81. Lucchese, Salvatore, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini. Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2
E con l’Unità d’Italia nacque il razzismo antimeridionale, scrive Ignazio Coppola il 05 luglio 2012. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che significativamente ed opportunamente avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: Ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare” il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: “In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura è come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a “farsi civili”. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio” a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva. “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene. “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: “Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “la popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa” e poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: “Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese del sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: “La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del nord. Queste non capivano - afferma Gramsci - che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia già direttore della banca nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: “Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questo sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Ma riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente: Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo “Il libro del riso e dell’oblio” un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia, e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri antropologi e criminologi Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella eurafricana (negroide) al sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo in un suo libro del 1898 “L’Italia barbara contemporanea” descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica ma del fatto che i meridionali sono di per se incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere cartelli come questi “vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali” e ancora “non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni farebbero bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due Italie. Quella del Nord civile e progredita. Quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?
Joseph Stalin si è spento dopo quattro giorni di agonia, scrive Giovanni Artieri il 16 giugno 2014 su “Il Tempo”. Radio Mosca comunica che Stalin è morto alle 21,50 ora di Mosca, pari alle 19,50 ora italiana. L’annuncio è stato dato alle 2,07 (ora italiana), nella trasmissione in lingua russa di una speciale stazione di Radio Mosca. Il Comitato Centrale del partito Comunista, il consiglio dei Ministri e il Presidium del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica hanno emanato un comunicato indirizzato a tutti gli iscritti al partito e a tutti i lavoratori dell’URSS. L’annunzio ufficiale dice: «Cari Compagni ed amici, il Comitato Centrale del partito Comunisto dell’Unione Sovietica, il consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica e il Presidium del Consiglio Supremo dell’Unione Sovietica annunciano con profondo dolore, al partito ed a tutti i lavoratori dell’Unione Sovietica che il 5 marzo alle 21,50 dopo una grave malattia, è morto il presidente del Consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica e Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunisto dell’Unione Sovietica, Joseph Vissarionovich Dzougashvili. Il cuore del compagno del compagno Joseph Vissarionovich Dzougashvili, ispirato continuatore della volontà di Lenin, saggio maestro e condottiero del Partito Comunista e del popolo sovietico ha cessato di battere». Dopo aver esaltato l’opera di Stalin il comunicato interpreta il dolore del popolo sovietico, e afferma: «In queste tristi giornate tutti i popoli del nostro Paese si stringono più vicini in una grande e fraterna famiglia sotto la provata guida del partito Comunista, creato ed accresciuto da Lenin e Stalin». Dopo aver esaltato la funzione del Partito nello stato Sovietico, ed aver affermato che l’esattezza della politica del Partito Comunista è stata dimostrata da decenni di lotta il comunicato così prosegue: «Il popolo sovietico sa che la capacità difensiva e la potenza militare dello stato sovietico stanno crescendo e rafforzandosi, e sa che il partito rafforza in ogni modo l’esercito, la marina, e i suoi istituti culturali, mirando al costante progresso della nostra preparazione, allo scopo di poter respingere decisamente qualsiasi aggressione». Infine il comunicato conferma la politica «pacifista» del partito Comunista Sovietico ed esprime sentimenti di fraterna amicizia ai popoli satelliti e ai lavoratori dei paesi capitalisti e coloniali. È stato annunciato che la salma del maresciallo Stalin sarà esposta nella Sala Delle Colonne del Palazzo dei Sindacati di Mosca. Chi è l’erede di Stalin? In materia di successione dei dittatori non si hanno riferimenti sicuri. Mussolini se ne preoccupò vagamente verso il 1932 e ne tenne discorso con il Ludwig in uno dei famosi «Colloqui». Nominò due o tre di coloro che riteneva suoi «discepoli», ma, più tardi, quando un sanguigno tramonto l’avvertì della prossima fine, ebbe il buon senso di dichiarare lui stesso la inutilità di un «erede». Hitler fu più formale; dopo di aver nettamente designato Rudolf Hess, dovette sconfessarlo, quando l’«erede», in preda ad una crisi di coscienza, scappò in Scozzia con un aeroplano da caccia. Il posto di Hess fu occupato da Goering e tenuto, durante tutto il resto della guerra, sino alle settimane dell’assedio di Berlino. Goering, com’è noto scappò prima in Baviera e poi raggiunse gli Alleati sul Mare del Nord. Hitler dal fondo del suo «bunker» corazzato nei sotterranei della Cancelleria, dopo di aver sposato Eva Braun, regolarizzò anche la successione. Goering fu additato all’obbrobbrio dei nazisti come traditore. Capo del moribondo Terzo Reich venne indicato prima Goebbles che rifiutò dichiarando di voler seguire sulla strada del suicidio il Fuhrer; e poi Martin Bormann, ultimo segretario del partito nazional-socialista. Bormann, dopo di aver assistito alla morte di Goebbles e della sua famiglia, di Hitler e di Eva; dopo di aver provveduto al bruciamento dei corpi, uscì dal «bunker» e si perse nelle strade di berlino. La sua sorte è sconosciuta. A Stalin seguita una prassi simile? A egli, come Mussolini e Hitler, indicato un suo successore? Sino ad esso non si sa. Forse non lo ha fatto. L’erede di Stalin è, dunque, il Consiglio Ristretto dei Capi dell’URSS e del Comunismo mondiale noto col nome di Bolitburo. Da questo ristretto senato dovrà uscire il nome del Primo Ministro; a meno che forze esterne, i militari, per esempio, non vogliano intervenire. Stalin, com’è noto, non era il capo dello stato russo, e neppure più segretario del Partito Comunista. A quest’ultima carica che gli era servita dalla morte di Lenin in poi come una leva potente, inflessibile e insostituibile per dominare l’immenso ingranaggio della burocrazia sovietica, egli aveva rinunciato durante la seconda guerra mondiale. Con la vittoria gli era venuto il titolo di Generalissimo delle forze di terra, di cielo e di mare. Era questa la dignità principale sulla quale riposava il controllo della intera vita russa e la sicurezza del suo potere. Come presidente del Politburo Primo Ministro e Generalissimo (qualche settimana fa un giornale comunista francese adoperò addirittura il termine di «Maresciallissimo») Stalin s’era situato ad una quota irraggiungibile. Dall’alto delle sue dignità egli guardava persino il Capo dello Stato, il modesto Shwernik, succeduto al modesto Kalinin: una specie di re al quale non era, e non è dato, nè di regnare, nè di governare. Assai più che dai titoli ufficiali Stalin ripeteva il proprio prestigio dall’essere diventato, traverso una faticosa aggiustatura della storia scritta, traverso centinaia di milioni di rubli spesi in sempre nuove e sempre «aggiornate» edizioni della storia contemporanea, sia russa che del Partito Comunista, il «solo» vero creatore dell’Unione Sovietica. Come Stalin si preoccupasse della storia è dimostrato dalla fortuna politica toccata ad un uomo, il Beria, che oggi si trova allineato nella lista dei suoi successori. Poiché occorreva dimostrare la parte preminente avuta da Stalin nelle rivolte del Caucaso del 1905-07, revocata in circostanziato dubbio dai trotzskisti, l’oscuro funzionario della G.P.U., Laurenti Beria, scrisse un volumetto il cui titolo inglese è «On the History of the Bolscevic Organizzation in Transcaucasia»., di pura e solida apologia (...) (...) Erano gli uomini con i quali Stalin si era trovato faccia a faccia, nel suo lento ma fatale, ma pesante, ma inarrestabile ascendere dalla carica di Segretario del Partito, insignificante mentre vivevano Lenin e gli uomini che avevano prima teorizzata e poi realizzata la rivoluzione; divenuta la piattaforma del potere, quando - morto Lenin - Stalin con una genialità asiatica, lenta e tortuosa, ma fatale operò al «interno» del regime una specie di silenziosa rivoluzione. Sulla trasformazione del Politburo da organo costituzionale sovietico, in strumento della dittatura. Il Politburo era nato durante la guerra civile, dalle necessità urgenti e a volte angoscianti della lotta per la conservazione della rivoluzione di ottobre. Lenin «scelse» un gruppetto di uomini al quale venivano deferite le decisioni di rapida e massima responsabilità.
Guareschi, un emarginato da Nobel per la letteratura. Nel 1965 l'Accademia di Svezia voleva premiarlo. Per i conformisti di casa nostra invece non era degno di nota..., scrive Daniele Abbiati Mercoledì, 06/01/2016, su “Il Giornale”. Sarà provinciale dirlo, ma molto spesso il Nobel per la Letteratura è un premio al milite ignoto (o quasi). Quando poi si pensi che esiste un esercito di generali, condottieri e in qualche caso autentici eroi del romanzo che non lo hanno vinto, tipo Tolstoj, Proust, Borges e compagnia scrivendo...Un provinciale ben più nobile di noi (da Nobel, appunto...), anzi il provinciale per eccellenza, di penna e di gloria, ahinoi e ahilui quasi tutta postuma avrebbe potuto vincerlo, il premio dell'Accademia Svedese. Lo rivelano proprio gli archivi del sancta sanctorum scandinavo risalenti a mezzo secolo fa, anno di disgrazia (per il Nostro) 1965. Ebbene sì, Giovannino Guareschi figurava nelle nominations, accanto a nomi grossi come Anna Akhmatova, Marguerite Yourcenar, Ezra Pound, Georges Simenon, Giuseppe Ungaretti e molti altri. Il suo sponsor? Mario Manlio Rossi, all'epoca professore di filosofia e letteratura all'Università di Edimburgo. Non a caso, un italiano all'estero. Perché l'Italia di cinquant'anni fa, l'Italia poverella del boom economico e ricca d'inventiva ma governata dai monocolore democristiani, l'Italia della commedia all'italiana, aveva messo la sordina al dramma del papà di Peppone e Don Camillo. In fondo, dieci anni prima era stato in galera per la nota questione del «Ta-pum del cecchino» non gradita a De Gasperi, e dunque non era percepito come uno stinco di santo, nonostante l'intercessione del suo amico parroco. Pensate, in occasione della sua messa al gabbio, durante un'allegra cena conviviale al «Bagutta» di Milano affollato di bella gente, s'era addirittura brindato alla lieta novella, presente fra gli altri, come relazionò Indro Montanelli sul Candido, il sommo poeta Eugenio Montale. «Guadagnati coi libri dei quattrini - ricordava nel '65 Guareschi - ho tentato di fare l'agricoltore e l'oste, con lacrimevoli risultati per me, per l'agricoltura e per l'industria turistico-alberghiera del mio paese. Adesso sono pressoché disoccupato, perché nessuno in Italia, eccettuato un amico di Roma, ha l'incoscienza di pubblicare i miei articoli e disegni politici. Ma io non mi agito e mi limito ad aspettare tranquillamente che scoppi la rivoluzione». Alle Roncole aveva aperto un piccolo ristorante e collaborava con la Paul Film scrivendo testi per i caroselli pubblicitari...Morirà tre anni dopo, Giovannino, il 22 luglio del '68 (22 luglio, come Indro). E Baldassarre Molossi, sulla Gazzetta di Parma, fu tra i pochissimi a ricordarne come si doveva la grandezza: «Giovannino Guareschi - scrisse il 25 luglio - è lo scrittore italiano più letto al mondo con traduzioni in tutte le lingue e cifre di tiratura da capogiro. Ma l'Italia ufficiale lo ha ignorato. Molti dei nostri attuali governanti devono pur qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali, ma nessuno di essi si è mosso. Nessuno di essi si è fatto vivo . Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L'abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita di due mani». C'erano infatti Nino Nutrizio, Enzo Biagi, Enzo Ferrari. Gli altri, non pervenuti. L'infarto che si era portato via il deus ex machina di un Mondo piccolo ma anche grande era stato derubricato a lieve infreddatura, giudicando dai titoli di alcune testate. «Malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto», borbottò in stile trinariciuto l'Unità. Ma i cattolici non furono da meno, tutt'altro. Il Nostro Tempo, espressione diretta della curia di Torino, lo omaggiò con l'elegantissimo titolo «Guareschi diede voce all'italiano mediocre». L'articolista, Elidio Antonelli, incominciò così il suo pezzo: «Era un uomo finito». E lo concluse così: «Fu in definitiva un corruttore». Evidentemente, contava di cavarsela con due Ave Maria e un Pater noster. Poco lungimirante, oltre che poco informato, don Lorenzo Bedeschi sull'Avvenire: «Peppone e don Camillo sono premorti al loro autore». Insomma, prima di ringraziare a posteriori l'oscuro professor Mario Manlio Rossi per la candidatura di Giovannino, e prima di chiederci se ce lo siamo davvero meritati, uno scrittore come Guareschi, testimone e custode di un'Italia orgogliosamente provinciale e onesta di qualsiasi colore fosse, il nostro Bernanos al lambrusco, il nostro Turgenev in bicicletta, dovremmo chiederci che cosa abbiamo fatto di male per aver avuto questi tromboni che suonavano lo spartito del regime. Del resto, se le colpe dei padri ricadono sui figli, quelle dei nonni mettono ko i nipoti. Nel '65, il premio Nobel per la Letteratura andò al russo Michail Aleksandrovic olochov, autore di Il placido Don. Il Don sarà anche placido, ma il Po è ancora lì che piange la morte di Guareschi.
Don Camillo bombarolo fa esplodere i comunisti. Avversari sempre, nemici mai. Nelle sceneggiature inedite un'Italia divisa ma rispettosa, scrive Egidio Bandini Domenica, 26/07/2015, su “Il Giornale”. «Al caro amico Guareschi/ sperando che un eventuale quarto/ Don Camillo lo possa compensare/ delle delusioni dei primi tre», firmato: Angelo Rizzoli. Data: 20 ottobre 1955. Questa dedica, che il commendator Rizzoli scrisse di suo pugno sulla copertina dell'opuscolo fotografico dedicato al film Don Camillo e l'onorevole Peppone, pubblicato dall'ufficio stampa della D.E.A.R. Film, basterebbe da sola a far capire, pure al più sprovveduto dei lettori, quali fossero i rapporti fra Giovannino Guareschi e il cinema. La dedica, tra l'altro, suona quanto mai inadeguata perché fu proprio l'eventuale quarto Don Camillo a far andare Giovannino su tutte le furie, sino a dare le dimissioni dal Candido e provocare, indirettamente, la chiusura del settimanale satirico più famoso d'Italia. Ma perché Guareschi cercò, sempre senza successo, di ribellarsi a produttori, sceneggiatori e registi per come venivano tradotti in immagini i suoi racconti di Mondo piccolo? E, soprattutto, perché Giovannino se la prese tanto con quelli che chiamava, poco amichevolmente, i «cinematografari», visto che i film ebbero un successo straordinario, capace di far ricredere chiunque sulla loro validità, al punto che, ancor oggi, a 60 anni di distanza, fanno ascolti da record ogni anno sulle reti televisive nazionali? Occorre procedere con ordine: sin dal 1951 Guareschi scrisse di proprio pugno - meglio, di proprie dita, visto che usava la macchina per scrivere - le sceneggiature originali dei film, su richiesta dello stesso «Commenda» e le scrisse, non solo scegliendo fra i racconti pubblicati sul Candido o nei volumi della serie «Mondo piccolo», ma addirittura inventando nuove storie, nuove situazioni, in grado di reggere la trama di un lungometraggio, dove i protagonisti dovevano essere, sempre e comunque, il pretone e il grosso sindaco della Bassa. L'intento di Guareschi era quello di far giungere agli spettatori lo stesso, identico messaggio che era giunto a milioni di lettori con i racconti della saga di Peppone e don Camillo, come egli stesso scriveva, spiegandone le motivazioni: «In un mondo carico d'odio, la gente sogna di poter vivere lottando, sì, ma in modo che gli uomini, pur rimanendo avversari fierissimi, non diventino nemici. E, all'ultimo momento, la passione politica sia vinta dal buon senso. E l'ultima parola, in ogni conflitto, sia quella della coscienza». Per coscienza, Giovannino intendeva, naturalmente, la voce del Cristo dell'altar maggiore, quella che egli stesso definiva «la voce della mia coscienza». Tutto ciò, evidentemente, urtava con gli intendimenti di Angelo Rizzoli e dei vari registi che si succedettero alla guida dei film: Julien Duvivier per i primi due, Carmine Gallone per il terzo e il quarto, Luigi Comencini per il quinto, l'ultimo girato Guareschi vivente. Sta di fatto che leggendo, come ha fatto il sottoscritto, le sceneggiature originali, scritte da Giovannino per ognuno dei film di don Camillo, si scopre qualcosa di assolutamente nuovo, cinque film mai visti, da immaginare con gli immancabili Fernandel e Gino Cervi nei panni di don Camillo e di Peppone: cinque storie per la maggior parte del tutto inedite, insomma, un Don Camillo scritto da Giovannino Guareschi e che nessuno ha mai letto. Innanzitutto la scaletta, la successione degli episodi, completamente diversa da quella che abbiamo visto anche in questi giorni in tv: ad esempio, il ritorno al paese di don Camillo nel secondo film, che Giovannino aveva immaginato a seguito dell'alluvione e che, invece, nel lungometraggio sceneggiato da René Barjavel arriva giusto alla fine del film. Poi gli episodi stessi, le scene, alcune escluse da registi e sceneggiatori, alcune addirittura girate e non montate all'interno del film, come quella che pubblichiamo, per gentile concessione di Alberto e Carlotta Guareschi, ovvero la scena della «bomba pasquale», realizzata per il film Don Camillo e l'onorevole Peppone e non inserita da Gallone. A provare il fatto la prima locandina del film (non utilizzata) e la foto di scena di don Camillo che solleva la bomba per lanciarla ai piedi di Peppone & Co. Stessa sorte nel quarto film, Don Camillo monsignore, ma non troppo toccherà alla scena del trattore sovietico, inserita a viva forza da Guareschi ne Il compagno don Camillo dal quale, però, Comencini epurò la vicenda del «compagno padre», cui Giovannino teneva moltissimo. A proposito, poi, del film Don Camillo e l'onorevole Peppone, girato mentre Guareschi era in carcere a Parma, è illuminante quanto scriveva, dalle patrie galere, lo stesso Giovannino ad Alessandro Minardi: «Accordo per il 3° Don Camillo da realizzare su soggetto e sceneggiatura di Giovannino Guareschi sotto il titolo: L'on. Peppone ... alle seguenti condizioni: Soggetto, “sceneggiatura base” e dialoghi dovranno essere opera del sign. Guareschi e solo del sign. Guareschi. La lavorazione del film in parola potrà essere iniziata solo e quando la “sceneggiatura tecnica” definitiva, elaborata dal regista, abbia la approvazione del sign. Guareschi. Il film non potrà essere proiettato al pubblico qualora non abbia l'approvazione del sign. Guareschi. Il titolo del film dovrà essere quello proposto dal sign. Guareschi e precisamente L'onorevole Peppone ... Il comm. Angelo Rizzoli, e non il Regista o altri, è responsabile di ogni violazione del presente accordo». Le cose, come sappiamo, andarono in modo diverso, ma Giovannino, nonostante tutto si limitò, dopo aver assistito alla prima del film a «dire alcune cose sgradevoli al signor Gallone». E questo è soltanto un assaggio di ciò che furono i rapporti di Guareschi con il mondo del cinema: un confronto (per non dire un conflitto) fatto di rinunce, prese di posizione, lettere e telegrammi che, davvero, servirebbero a scrivere una storia nella storia, un romanzo di «cappa e spada» con protagonisti Giovannino Guareschi nei panni del moschettiere D'Artagnan, Angelo Rizzoli in quelli di Richelieu e, volta a volta, Julien Duvivier, Carmine Gallone, Luigi Comencini, René Barjavel e gli altri sceneggiatori nelle vesti delle guardie del cardinale, eterni nemici di D'Artagnan e soci. Mancano, però, tre personaggi a questo novello romanzo di Dumas: Athos, Portos e Aramis. Sì, perché nessuno, almeno all'interno di tutto il variegato mondo che girava attorno a Cinecittà, prese mai le difese di Guareschi.
Leo, Curzio, Indro e Giovannino I film girati con la mano destra. Tra il 1943 e il 1963 Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi furono registi della loro prima e unica pellicola, raccontando con originalità momenti cruciali della storia d'Italia, scrive Giancarlo Mancini Domenica 23/08/2015, su “Il Giornale”. Il grande racconto dell'Italia del dopoguerra, anche al cinema, l'hanno realizzato quattro conservatori doc come Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi. Intellettuali che per tutta la vita sono stati indisponibili a raccontare quello che i grandi partiti o i salotti volevano far sapere al grande pubblico. Erano anticomunisti, certo, ma non per questo erano disposti a lesinare critiche ai partiti di governo. Parteggiavano per la borghesia ma verso quella italiana nutrirono perplessità e ne rilevarono le mancanze. I loro film (Dieci minuti di vita, Cristo proibito, I sogni muoiono all'alba e La Rabbia) messi assieme vanno a formare un racconto inedito, scritto con la mano destra anziché con la sinistra, della storia italiana nel ventennio che va dal 1943 al 1963. Si tratta di quattro «opere prime» rimaste tali. Ognuna affronta un nodo nevralgico della nostra storia recente, dalla caduta del fascismo alla guerra civile, dai fatti d'Ungheria con i loro tragici risvolti per la sinistra italiana al boom economico. Snobbati dai manuali di storia del cinema, spesso ignorati dai divulgatori «ufficiali», questi film non solo ci raccontano la Storia con la S maiuscola da un'altra angolazione, ma sono una vera contro-scuola di pensiero libero. Ma come mai questi intellettuali, così impegnati nel giornalismo, nella scrittura, nella comunicazione, decidono ad un certo punto di fare un film? Partiamo da Longanesi, il cui interesse per il cinema inizia molto tempo prima di girare Dieci minuti di vita. Siamo verso la fine degli anni Venti. L'autore del Vade-mecum del perfetto fascista e del motto «Mussolini ha sempre ragione» si concede la libertà di dire che se il fascismo vorrà davvero imporsi come un modo nuovo di vivere e di guardare le cose, se si vorrà completare la rivoluzione iniziata con la Marcia su Roma, allora il regime (e Benito Mussolini in primis) dovrà radicalmente ripensare al ruolo del cinema. Con una serie di articoli pubblicati su L'Italiano, la rivista da lui fondata e diretta, Longanesi avvia una martellante campagna per il rinnovamento del cinema italiano. Scrive Longanesi: «Avete mai visto un film italiano? Vi siete mai accorti che i nostri attori escono dalle risse, dai temporali e dalle battaglie più cruente sempre con l'abito nuovo? Per loro ciò significa “conservare la linea”». Via i dandy alla Gastone, via gli estetismi dannunziani, via gli orpelli, le baracconate da fiera circense, la proposta di Longanesi è orientata verso il cinema dal vero: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si perde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una “sua verità” che il cinema assai di rado riesce a mostrarci». La straordinaria capacità intuitiva porta Longanesi a «pronosticare» con parecchi anni di anticipo alcuni dei capisaldi del neorealismo, poetica su cui la sinistra edificherà la propria egemonia, ponendo anche un'ipoteca politica che ha avuto esiti disastrosi per il cinema italiano. Ma le radici del neorealismo, evidentemente, affondano negli anni del regime...La passione di Longanesi per il cinema non si esaurisce, anzi, inizia a scrivere brevi soggetti, collabora con sceneggiatori come Ivo Perilli e Piero Tellini, medita di andare negli Stati Uniti per apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Insomma, ci sono tutte le premesse per diventare regista, cosa che avviene nel momento più delicato per la vita dell'Italia, del fascismo e di Mussolini. Siamo nell'estate del 1943 e mentre il regime sta crollando a pezzi, Longanesi è finalmente pronto per girare il suo primo e unico film, una satira sull'Italia di quegli anni. Protagonista è un anarchico scappato da un manicomio che, minato un palazzo, vuole osservare come ogni inquilino spenderà i suoi ultimi minuti di vita terrena. C'è il gerarca che si è arricchito in modo abbastanza equivoco, ci sono gli estenuati amanti dannunziani che si crogiolano sul modo migliore per togliersi la vita, c'è il marito che trovata la moglie a letto con l'amante... la lascia nell'appartamento che sta per esplodere. Con la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943 e l'imminente occupazione delle truppe tedesche di Roma, Longanesi decide di fuggire a Napoli, lasciando incompleto il film di cui, dopo varie peripezie, sono sopravvissuti appena 36 minuti praticamente inediti al di fuori di una ristrettissima cerchia di cultori. Ma è un lascito che unito ai suoi scritti cinematografici è oggi fondamentale riscoprire e rivalutare. Passano pochi anni e tocca a Curzio Malaparte, altro intellettuale non etichettabile secondo i rigidi canoni del dopoguerra, raccogliere il testimone lasciato da Longanesi e mettersi dietro la macchina da presa. Dopo aver scritto i suoi due libri più conosciuti (La pelle e Kaputt ), nel 1950 lo scrittore toscano si mette al lavoro su un tema che come pochi altri brucia sulla pelle degli italiani: la guerra civile. L'argomento è tabù, né la Democrazia cristiana al governo né le sinistre hanno voglia di rievocare quei giorni in cui si sono susseguiti i rastrellamenti, le vendette incrociate, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, le foibe. Il protagonista di Cristo proibito si chiama Bruno, è appena tornato dalla Russia, al suo arrivo a casa scopre che il fratello è stato fucilato dai fascisti. Da quel momento una sorta di demone della vendetta si impadronisce di lui. Nonostante i genitori lo spingano a dimenticare, Bruno non riesce a mettere da parte il desiderio di conoscere il nome della persona responsabile della morte del fratello. Malaparte non si accontenta di raccontare l'Italia del dopoguerra con i suoi tormenti e le sue ferite; vuole metterne in risalto anche i valori che la possono far rinascere. «È un fatto - dice Malaparte - che il popolo italiano reagisce alla Storia di cui è protagonista in modo molto diverso da quello di altri popoli. Vi reagisce anche sul piano morale oltreché su quello del costume. Coloro che parlano di amoralità del popolo italiano non capiscono l'Italia e gli italiani». Il film è ambientato nella sua Toscana, si vede la piazza di Montepulciano, Cetona, il gioco della croce, un rito antico di secoli dove un vecchio contadino dopo aver a lungo portato la croce cerca tra la folla qualcuno che possa sobbarcarsi il sacrificio di espiare le colpe di tutti. Il significato cristiano del film è in effetti il lascito di quest'opera di Malaparte in cui sacrificio, perdono, compassione sono valori di cui è impregnata la carne viva dei personaggi. Presentata al festival di Cannes del 1951, la pellicola riceve una accoglienza positiva ma questo non la protegge dalle accuse della stampa di sinistra. Infatti, nonostante Malaparte in quegli anni si sia pubblicamente avvicinato al Partito comunista italiano, e in particolare a Togliatti, le riviste capofila del marxismo ortodosso come Cinema nuovo non risparmiano critiche al film e al regista. Pochi sembrano disposti a «perdonare» a Malaparte la libertà di rappresentare un Paese diviso tra chi si illude di poter dimenticare la morte dei propri figli e chi cerca a tutti i costi la vendetta. Passano una decina d'anni ed eccoci al terzo capitolo del nostro racconto. Stavolta è Indro Montanelli a mettersi dietro la macchina da presa. Il film è I sogni muoiono all'alba, realizzato nel 1960 con l'ausilio tecnico di Mario Craveri ed Enrico Gras. La sceneggiatura è tratta da un dramma teatrale scritto dallo stesso giornalista qualche tempo prima e ambientato in un albergo di Budapest durante i giorni della rivolta che nell'ottobre del 1956 venne schiacciata dall'Urss con l'invio dei carri armati. Protagonisti sono quattro giornalisti italiani inviati nella capitale magiara per raccontare quello storico momento e rimasti intrappolati in albergo a causa dell'incrudelirsi degli scontri tra quanti sono rimasti fedeli a Mosca e quanti invece sostengono il programma riformista di Imre Nagy. Il titolo riprende quello di una canzone che i patrioti ungheresi, ostili alle intromissioni di Mosca, cantavano in quei giorni tremendi e crudeli. Sergio, Franco, Alberto ed Andrea non sono solo quattro giornalisti, sono degli uomini con passioni politiche e umane. Mentre discutono, litigano, si accapigliano, vengono rievocati alcuni snodi cruciali del nostro dopoguerra, le epurazioni nei giornali (evento che aveva riguardato lo stesso Montanelli), le delazioni, i tradimenti. Nella capitale ungherese il sogno di molti patrioti sta per scontrarsi con la dura repressione dei sovietici. «Ci avete rintronato la testa con questi sogni ma la volete guardare in faccia questa realtà?», dice ad un certo punto uno dei personaggi. Montanelli non nasconde la simpatia per i rivoltosi ungheresi. Altrettanto sincero, ma impietoso, è il suo giudizio verso le ipocrisie, le reticenze, le bugie di cui molti, sia fra i giornalisti sia fra i militanti del Pci, si servirono per «giustificare» l'invasione dell'Armata rossa. Anche in questo film, come in quelli di Longanesi e Malaparte, Montanelli vuole aiutare lo spettatore a guardare oltre i luoghi comuni e a raccontare quello che sta succedendo davvero, senza accontentarsi delle versioni ufficiali, né delle verità preconfezionate. Quando molti anni dopo un lettore gli chiese come mai avesse deciso di realizzare I sogni muoiono all'alba, il giornalista di Fucecchio rispose così: «Io non mi proponevo di fare un film spettacolare di bombe e sangue, ma soltanto di dimostrare due cose: che quella rivolta non era nata fuori, ma dentro il Partito comunista, e quali effetti aveva sortito sulla coscienza degli osservatori comunisti (parlo, si capisce, di quelli in buona fede) che si trovarono coinvolti in quell'avvenimento». E infatti I sogni muoiono all'alba è importante oggi proprio perché ci aiuta a capire il peso che gli eventi del 1956 hanno avuto nel nostro Paese. Nonostante gli sforzi di Togliatti di giustificare l'intervento sovietico anche in Italia in molti iniziarono a rendersi conto di quello che significava vivere oltre la cortina di ferro. Dentro al Partito comunista serpeggiava un dissenso che esplose pubblicamente e portò alle prime fuoriuscite. Era iniziato il lungo cammino della sinistra italiana verso la verità sui regimi dei Paesi socialisti. L'ultimo tassello della nostra storia è l'episodio de La Rabbia di Giovannino Guareschi. Un film di montaggio in due parti, una affidata a Pier Paolo Pasolini e l'altra, appunto, all'inventore di Don Camillo. Siamo nel 1963, l'anno di massimo splendore della rinascita italiana, in pieno boom economico. Anche in Italia come nel resto del mondo occidentale si sta aprendo l'era del consumo di massa. Frigoriferi, lavatrici, televisori. La sfida all'Unione sovietica si gioca anche sulla capacità delle democrazie occidentali di diffondere il benessere in modo capillare. Dal punto di vista politico siamo in un clima sospeso tra il rinnovamento portato da Kennedy negli Stati Uniti, gli ambigui tentativi di Krusciov in Urss e il crescere di nuove tensioni razziali e politiche. Guareschi osserva con preoccupazione al nuovo mondo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ama i giovani che si dibattono freneticamente sulle piste da ballo, la corsa al consumismo, la crisi di istituzioni come la famiglia. Le sue sono le parole di uno scettico radicale: «Tutto è facile. Per farsi una famiglia basta consultare un catalogo di elettrodomestici, c'è una macchina per ogni cosa eccetto purtroppo quella per educare i figli. È facile farsi una famiglia, è facile disfarla. Il benessere che, facendo entrare 13-14 mesi in un anno, ci ha dato il mese corto, ci ha dato anche il matrimonio corto. È l'ora dei miracoli, il miracolo automobilistico, per cui camminare a piedi è diventato un lusso, il miracolo petrolifero per cui dai pozzi emiliani sgorga petrolio russo così l'Italia ha il suo carburante nazionale». Il suo film è una rivisitazione dei grandi rivolgimenti avvenuti dalla fine della guerra al 1963. Guareschi, che è stato imprigionato in un campo di concentramento tedesco, commentando le immagini di piazzale Loreto e il vituperio sui corpi di Mussolini e della Petacci, parla di una «vendetta barbara». Ma non mancano gli affondi pieni di ironia e di sarcasmo, degni dell'inventore di Don Camillo e Peppone, le due maschere simbolo dell'Italia del dopoguerra. A Louis Aragon poeta comunista e stalinista non pentito, Guareschi dice: «Krusciov non gli ha ancora detto quale criminale fosse da vivo l'uomo del Cremlino». Questo film, come gli altri che abbiamo ricordato, non godrà di una eccessiva fortuna al botteghino, forse le verità e le idee di questi quattro grandi intellettuali erano troppo laceranti per l'Italia di quegli anni. La loro lezione di libertà e di coraggio è sempre utile. Per questo sarà giusto ricordare accanto ai loro libri e articoli anche queste quattro opere rimaste per tanto, troppo tempo, nel dimenticatoio.
Il progressismo reazionario di Umberto Eco, ovvero le basi della saggezza del Professore. Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, Eco è stato capace di fare il rottamatore negli anni Sessanta e così come di difendere la tradizione negli anni Duemila. Il segreto: 4 solide basi su cui costruire la propria saggezza, scrive Andrea Coccia su “L’Inkiesta” del 5 Gennaio 2016. Da quando, nel 1963, pubblicò alcuni dei suoi saggi più acuminati nella prima edizione dei Diari minimi ed entrò nell'avanguardistico Gruppo 63, sono passati più di cinquant'anni, e Umberto Eco ha fatto parecchia strada. Ha venduto milioni di libri, ha vinto un premio Strega con uno dei più grandi bestseller di sempre, si è visto assegnare 39 lauree honoris causa da altrettante università sparse per il mondo — da New York a Uppsala — ha tenuto lezioni almeno nel doppio delle scuole, ma soprattutto è entrato a gamba tesa in incontentabili dibattiti. Negli anni Sessanta, in quei dibattiti, ci entrava con il piglio progressista del rottamatore e dell'innovatore, prima sdoganando una bella fetta del pop — da Franti del libro Cuore a Mike Bongiorno — poi decretando contemporaneamente nascita e morte del postmoderno con Il nome della rosa; negli ultimi anni, invece, le sue entrate in scivolata sono state caratterizzate da un piglio un po' più, permettetemi il termine, reazionario, il piglio del censore, quello di chi ammonisce, di chi avvisa che, continuando in questa direzione, ci andiamo a sfracellare. La doppia faccia di Eco, quella progressista degli anni Sessanta e quella censoria degli ultimi anni, potrebbe apparentemente sembrare una contraddizione. Ma il cambio della guardia tra il pensiero avanguardistico giovanile e quello retroguardistico senile, non è affatto un cambio, è semplicemente il risultato della strenua fedeltà del Professore a se stesso e al proprio pensiero, intriso da sempre di filosofia medievale e strutturalismo. Proprio dal quel connubio tra la solidità medievale di un Tommaso d'Aquino e quella moderna di un Vladimir Propp, oggi Eco, che festeggia la veneranda età di 84 anni, è un campione di una sorta di progressismo reazionario. Un'etichetta bizzarra e un po' contraddittoria, le cui basi sono le seguenti, tutte legate tra loro.
A. Metodo. Tra i libri più letti di Umberto Eco, subito dopo Il nome della rosa, c'è un saggio che tutti coloro che hanno frequentato un'università negli ultimi quarant'anni hanno avuto per le mani almeno una volta. Si tratta di Come si fa una tesi di laurea, edito da Bompiani nel 1977. Il segreto di ogni solidità, infatti, sta alla base, ovvero alla struttura, e per costruirla ci vuole metodo. Una lezione che Eco ha appreso proprio dai medievali, e che non si è mai stancato di ripetere.
B. Memoria. Esattamente due anni fa, il 3 gennaio del 2014, Eco scriveva su L'Espresso una lettera a suo nipote in cui si raccomandava l'allenamento della memoria attraverso l'imparare “par coeur” qualsiasi cosa, dalla formazione della propria squadra di calcio fino alla Vispa Teresa, se servisse. Da quando abbiamo tutti un computer in tasca a forma di telefono, tendiamo a non ricordarci più nulla, delegando la nostra memoria a una ricerca su Google. Scrive Eco: «Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa». Ha ragione da vendere, e ammetterlo non significa essere un nostalgico dei tempi dell'Enciclopedia Britannica, ma semplicemente sapere quanto conta avere una base solida di nozioni da cui partire.
C. Pertinenza. Il terzo cardine del progressismo reazionario di Eco è la competenza e uno dei fortini di competenza che più strenuamente difende è la grammatica. Una delle ultime sortite sferrate durante una Lectio Magistralis dal Professore per alleggerire l'assedio al fortino grammaticale è stata quella contro l'uso improprio del Tu, ovvero contro la tendenza degli ultimi anni di dare del Tu a chiunque. Un problema che parte dalla grammatica ma che va ad intaccare tutto il cucuzzaro: «Il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati». Memoria, grammatica, pertinenza, competenza. Nel mondo di Eco, ovvero nel mondo della saggezza, tutto si tiene.
D. Competenza. L'ultimo ingrediente della saggezza di Umberto Eco è l'assoluta fedeltà alla competenza, il cui nemico più poderoso, di questi tempi, è proprio quell'internet che spesso il Professore ha attaccato. Ma attenzione, Eco non è di quelli che scambiano il contenuto con il contenitore, e non attacca mai internet in quanto tale, bensì chi su internet ci si perde, chi, pur non sapendo un acca di qualcosa, su quel qualcosa pontifica, o ancor peggio, chi pur non essendo capace di discernere tra una fonte autorevole e una fonte pataccara, affida la costruzione delle basi del proprio pensiero a qualche “scemo del villaggio portatore di verità”. Eco, che nel suo immaginario ha sempre coltivato la fantasia del Complotto, da buon maestro sa che per progredire i maestri servono. E i maestri bisogna saperseli scegliere, se no si resta una flotta di imbecilli che credono a qualsiasi cosa leggono su internet.
Le persone di sinistra sono più intelligenti? Si Chiede su “La mente è Meravigliosa”. “Tutti i giorni la gente si sistema i capelli, perché non il cuore?” Vi sembra una frase intelligente? Queste parole sono state formulate dalla mente di Ernesto Che Guevara, il famoso rivoluzionario. Ci sono molte altre citazioni epiche di questo mito che sono sopravvissute fino ai giorni d’oggi. Ciò ha forse a che vedere con la sua ideologia di sinistra? Uno studio della Brock University sostiene di sì. Lo studio della Brock University nell’Ontario, Canada. Secondo i risultati ottenuti dai ricercatori della Brock University, nell’Ontario, Canada, coloro che sono meno intelligenti già durante l’infanzia sviluppano un’ideologia di destra e tendenze razziste e omofobe, rispetto alle ideologie di sinistra, che sono più aperte e comprensive. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori si sono basati su studi condotti negli anni 1958 e 1970 nel Regno Unito. Questi studi analizzarono il livello d’intelligenza di migliaia di bambini tra i 10 e gli 11 anni, che poi risposero a domande di politica una volta raggiunta l’età di Cristo, 33 anni. Tra le domande poste ai bambini ormai adulti, c’erano questioni riguardo i pregiudizi di vivere affianco a vicini di una razza diversa o sulle preoccupazioni che sorgono quando bisogna lavorare con qualcun altro. Altre domande alle quali dovettero rispondere i soggetti riguardavano l’ideologia politica conservatrice, come rendere più severe le pene dei criminali o mostrare ai bambini la necessità di ubbidire all’autorità. Le persone di sinistra sono davvero più intelligenti? Alcune delle conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della Brock University sostengono che i politici conservatori facilitano la nascita di pregiudizi. Basandosi sui risultati delle ricerche inglesi, i ricercatori sostengono che le persone meno intelligenti si localizzano nello spettro della destra politica, perché qui si sentono più sicuri. Secondo i creatori di questo studio, è l’intelligenza innata a determinare il livello di razzismo di una persona, molto più dell’educazione e dell’istruzione. Nemmeno lo status sociale ha un ruolo importante a proposito. Semplicemente affermano che l’ideologia conservatrice è la via giusta per trasformare bambini che hanno difficoltà a ragionare in persone razziste. Le capacità cognitive sono fondamentali per avere una mente aperta. Ciò significa che coloro che hanno capacità cognitive ridotte o molto ridotte tendono ad adottare ideologie conservatrici per la sensazione di ordine che implicano. Questa è un’altra delle conclusioni dello studio. Intelligenza innata. Secondo le ricerche condotte dalla Brock University, tutto ciò significa che l’intelligenza innata ha un ruolo determinante nell’ideologia ultima adottata da un individuo. Questo significa che essere di destra è sinonimo di stupidità? Assolutamente no. Oggigiorno, in tutto il mondo le ideologie politiche sono un po’ ingarbugliate. Niente è più ciò che sembra. Possiamo definire un regime comunista come quello imposto in Corea del Nord di sinistra? Qui, i cittadini si sono abituati a vivere sotto gli ordini di un dittatore che si definisce d’ideologia progressista, ma che manipola i destini di milioni di persone con un pugno di ferro. Esistono altri esempi di paesi in cui si è tentato di stabilire un regime di sinistra e comunista, ma senza successo. Russia o Cuba, per esempio, hanno sofferto terribili repressioni popolari durante la fase della dittatura del proletariato, che alla fine si è trasformata nel mandato di un singolo leader come Stalin o Castro, con accesso limitato alla libertà o al pensiero. Ciò significa che, tra i partiti della sinistra mondiale, c’è gente camuffata che in realtà è di destra? È possibile che nell’ideologia progressista si siano infilate persone poco intelligenti che in realtà sono conservatori? Non esiste una risposta chiara a questo tipo di domande, poiché le ideologie hanno sempre meno peso in un mondo mosso meramente da interessi economici e dei partiti. In realtà, ciò che importa è avere una mente aperta e curiosa. Imparate da tutti coloro che hanno qualcosa da apportarvi nella vita. Se non avete un’intelligenza innata che apra la vostra mente, almeno stimolate la vostra intelligenza emotiva. Siate sensibili a qualsiasi tipo di tendenze e modi di essere e adottate una vita piena e felice. Come diceva Ernesto Che Guevara, se siete in grado di avere capelli splendenti, siete anche capaci di avere un cuore nobile e buono.
Quell'ossessione dello Stato di regolare la nostra vita. In Italia, sul cibo, c'è la stessa ossessione regolamentatrice dell'Unione Sovietica, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". L'idea che si possano, anzi, si debbano, regolamentare i comportamenti sociali, non lasciando il minimo spazio allo spontaneismo individuale e collettivo è l'ossessione di ogni politica. Particolarmente affetto ne è quel filone della politica, eredità del razionalismo settecentesco, che si è storicamente incarnato nella sinistra dopo la Rivoluzione bolscevica e la nascita dell'Unione Sovietica. Ho ritrovato, e osservato, tale ossessione in due Paesi che hanno interpretato la politica da versanti opposti, pervenendo a risultati profondamente diversi. In Unione Sovietica non c'era ambito della società civile che la politica non volesse regolamentare e non regolamentasse. Il risultato era stata l'estrema esasperazione del sistema politico totalitario che aveva soffocato l'intera società civile russa, mentre, di converso, lo spontaneismo sociale promuoveva quella cinese, empirica e sperimentale. In Cina, la convinzione che solo lasciando alla società civile ampi ambiti di autonomia, soprattutto economica, il Paese sarebbe uscito dal dirigismo maoista e decollato verso la modernità e la crescita, ha dato i suoi frutti; oggi, la Repubblica popolare cinese è uno dei Paesi al mondo esemplari di più felice combinazione fra spontaneismo sociale e sviluppo economico, modernizzazione, crescita economica e sociale. Ricordo che, quand'ero in Cina, avevo osservato, e apprezzato lo spirito di iniziativa di certi cinesi, maschi e femmine, che avevano affrontato l'avventura liberista, godendo e approfittando della libertà che la politica lasciava loro di intraprendere e commerciare. Ho ritrovato la stessa ossessione regolamentatrice sovietica, da noi, in Italia, da parte soprattutto di quel filone politico, terreno di sperimentazione, da parte del Partito comunista, che aveva guardato all'Urss come ad un modello da imitare, e, entro certi limiti, da parte della cultura politica e sociale di matrice religiosa, non meno autoritaria di quella comunista. È stata la grande illusione razionalistica prodotta e diffusa dalla Rivoluzione francese con la pretesa di creare, e far crescere, la «società perfetta», dove nulla era lasciato al caso e tutto dipendeva dalla previsione e dalla programmazione politica. Non credo di sbagliarmi dicendo che l'Italia è il Paese al mondo col maggior numero di permessi, licenze, e divieti e anche quello dove queste forme di razionalismo condizionano la società civile e le impediscono di sviluppare autonomamente le proprie potenzialità. Il guaio è che l'ossessione regolamentatrice fa crescere la domanda di regolamentazione, e, quindi, di politica e di burocrazia ogni volta che si rivela inadeguata ad assolvere le funzioni che le sono impropriamente assegnate...Personalmente, sono cresciuto culturalmente all'ombra dell'empirismo anglosassone generatore dell'Illuminismo scozzese che si è distinto dal razionalismo francese proprio grazie al suo scetticismo rispetto alle virtù salvifiche della regolamentazione e della conseguente previsione-programmazione razionalistica. Sono liberale grazie anche a questa formazione culturale della quale sono debitore ad uno dei miei maestri all'Università di Torino di formazione anglosassone e col quale mi sono laureato, Alessandro Passerin d'Entreves, e ho imparato da Norberto Bobbio, l'altro mio grande maestro, a leggere i classici della cultura politica moderna, evitando, allo stesso tempo, di diventare prigioniero del positivismo politico, non meno di quello giuridico, cui era afflitto Bobbio, lui sì convinto erede del razionalismo francese. Grazie a Bobbio, ho letto David Hume e sono entrato in familiarità con l'empirismo anglosassone e l'Illuminismo scozzese. Detesto ogni pretesa previsionale e programmatrice proprio a ragione della loro scarsissima prevedibilità e capacità di programmazione razionale, e coltivo, con l'empirismo, un sano scetticismo sulle capacità razionali dell'uomo. Per intenderci: non vado in giro con la Dea Ragione sulle spalle come amano fare i razionalisti di tutte le tendenze e, in particolare, quelli di formazione transalpina. Ho imparato che il mondo è popolato da individui, ciascuno dei quali persegue i propri fini, con i propri mezzi, che coincidono solo inconsapevolmente con quelli degli altri - attraverso quell'empatia della quale parla Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali - in modo spontaneo ricercando il proprio Utile senza attenersi a calcoli previsionali e programmatici altrui... Se c'è qualcosa - diciamo pure molto! - che non va nella politica italiana è la convinzione si possano regolamentare i comportamenti sociali attraverso permessi, licenze, divieti che, poi, si rivelano l'ostacolo a quello spontaneismo che sta a fondamento della dottrina liberale e della nostra civilizzazione. Mi auguro, come ho scritto recentemente, che Berlusconi faccia iniezioni di empirismo e di liberalismo nella propria cultura politica e in quella di Forza Italia. Ce n'è effettivamente bisogno...
Mille euro al minuto a un comunista. L'ex ministro greco Varoufakis ospite da Fazio per 24mila euro. Il canone serve a questo? Si chiede Alessandro Sallusti su "Il Giornale" del 29/10/2015. Mille euro al minuto. È quanto la Rai ha pagato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco, per sparare pirlate a «Che tempo che fa», il salotto televisivo personale di Fabio Fazio. Ventidue minuti, andati in onda il 27 settembre, che urlano vendetta. Non è la cifra in sé, 24mila euro appunto, più viaggio aereo pagato in prima classe, ma lo sperpero di denaro pubblico. Con in più la beffa che a staccare l'assegno è stato il più moralista dei conduttori tv a favore del più comunista dei politici europei, quello che aveva fatto accorrere ad Atene a osannarlo una nutrita pattuglia della sinistra italiana a inneggiare agli eroi di Tsipras. Lungi da noi cadere nel facile moralismo. Se uno ha mercato è giusto che incassi il dovuto. Non ci formalizziamo. È che non capiamo che mercato possa avere mister Varoufakis, economista messo al bando sia dall'Europa sia dal suo Paese. Lo hanno cacciato e a quanto risulta, nel suo girovagare per tv e salotti di mezzo mondo, noi italiani siamo stati gli unici a pagare per godere del suo verbo. Il che stride con il pianto, anche quello greco, di chi ci governa e lamenta mancanza di liquidità. Si tolgono soldi ai pensionati e poi, via Rai, si sprecano euro con i comunisti chic. Si sfora il debito e il premier si compra un nuovo lussuoso aereo. Si spendono 3 miliardi per l'emergenza immigrati e non c'è un soldo in più per i terremotati dell'Emilia e gli alluvionati della Campania. Se è così che Renzi e i neo-nominati vertici della Rai pensano di usare i soldi di quella nuova tassa occulta che è il canone in bolletta Enel, allora siamo alla truffa. Sanno gli italiani che la Rai spende due dei loro milioni ogni anno per pagare Fabio Fazio? E sanno che Luciana Littizzetto, spalla del conduttore buonista, è ricompensata con ventimila euro a puntata? Credo che a molti verrebbe voglia di farsi staccare la luce da Renzi, piuttosto che vedere buttati così i propri risparmi. Che tanto, per sapere «Che tempo che fa» basta leggere le previsioni o guardare fuori dalla finestra.
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia: Caro Dago, le consuete diatribe su quanto o quantissimo vengono pagate le star televisive sono davvero male impostate. Ci sono personaggi della televisione che marchiano a fuoco il programma da loro condotto. Lo faceva Michele Santoro, bravissimo nel suo genere (che non è il mio); lo fa Barbara D’Urso, irresistibile nei confronti del suo pubblico meridiano (i cui gusti sono distantissimi dai miei); lo fa Massimo Giletti, da anni ostinatissimo nel sorreggere lo “share” della domenica pomeriggio di Rai1. Se qualcuno obiettasse sui compensi di personaggi siffatti, io direi che non sanno di che cosa stanno parlando. Se una trasmissione di quelle che ho nominato fa o faceva due punti percentuali di ascolto in più, erano soldoni che venivano dalla pubblicità e che compensavano alla grande i cachet. La televisione funziona così, e quella pubblica e quella privata. Se paghi lautamente un ospite che ti fa scena e “ascolto” sono soldi spesi benissimo, e sta a zero l’invidia (inevitabile) di gente e scribacchini. Il caso Varoufakis è profondamente diverso. E’ figlio di una di una dinamica completamente diversa. Tanto è vero che solo alla Rai e in una televisione giapponese, il noto motociclista è stato trattato talmente con i guanti: e tanto più se stiamo parlando della Rai, di un’azienda in un cui un comune mortale tratta alla morte se avere trenta euro in più o in meno per una prestazione professionale. I 24mila euro netti (e dunque 50mila lordi) pagati all’ex ministro greco hanno tutt’altra logica. Nascono dalla necessità spasmodica di buona parte del palinsesto di Rai3 di “offrire” qualcosa di sinistra al suo pubblico che ne arde. Che di meglio di uno che da ministro greco faceva l’orgogliosissimo nel momento in cui il suo governo e il suo Paese chiedevano all’Europa i soldi di che sopravvivere sino al giorno dopo in ragione dell’Himalaya di debiti che avevano accumulato. Voi ricordate i commenti di tanti al risultato grottesco del referendum greco, all’annuncio che i greci non ne volevano sapere di pagare i loro debiti. Dio che orgogliosi, commentarono subito alcuni quaquaraquà del pronto intervento ideologico. E chi meglio del motociclista, che è poi un gran rivale di Fabrizio Corona quanto a turgore maschile, poteva rappresentare quell’orgoglio in una delle case madri della superiorità razziale della sinistra, ossia la trasmissione garbatamente condotta su Rai3 da Fabio Fazio? L’ho visto quando Varoufakis si è presentato e seduto. Da soli quella posa e quell’atteggiamento valevano i 24mila euro. Dio che cipiglio, Dio che turgore. Fuffa ideologica, la migliore di tutte. Non ha prezzo perché è una merce che ha un pubblico imponente, non meno grande di quello di Barbara D’Urso. Cappello. Che poi la Luciana Litizzetto abbia in quella trasmissione un cachet di 20mila euro a botta, davvero non so giudicare. Io non ho mai riso una volta nella mia vita alle sue battute. La mia compagna Michela sì, quasi sempre. Non so, davvero non so.
Pansa intervista Pansa su “Libero Quotidiano”: "Devo tutto alla guerra".
Caro Giampaolo, come ti senti adesso che hai compiuto gli ottant' anni?
«Tutto sommato, mi sento bene, a parte qualche acciacco inevitabile alla mia età. Ma il resto funziona e non posso che ringraziare il Padreterno. La testa è ancora lucida e la voglia di scrivere tanta. Devo confessare che il piacere di scrivere, invece di diminuire, con l'età è cresciuto. La mattina mi alzo presto e una delle prime cose che faccio è accendere il computer. Poi mi dedico a un articolo, al capitolo di un mio nuovo libro, a una lettera da inviare a un amico. Impegnarmi ogni giorno in questo esercizio mi gratifica molto. E mi ricorda che sono sempre stato un uomo fortunato».
In che cosa consiste la tua fortuna?
«Prima di tutto, nella data di nascita. Sono un ex ragazzo del 1935. L' essere venuto al mondo in quell' anno mi ha regalato molte opportunità. La prima è stata di vedere con i miei occhi il disastro di una guerra mondiale. È iniziata nel 1940 quando avevo cinque anni ed è finita nel 1945 quando mi avviavo a compierne dieci. Quello che ho visto, sia pure con lo sguardo di un bambino, mi ha insegnato che non bisogna mai lamentarsi di quanto ci accade, perché il peggio può sempre arrivare».
Il tuo ricordo più orribile del tempo di guerra?
«I bombardamenti aerei. Casale Monferrato, la mia città, non era un obiettivo strategico, ma aveva due ponti sul Po, uno pedonale e l'altro ferroviario, abbastanza vicini al centro. A partire dall' estate del 1944, gli apparecchi angloamericani tentarono di distruggerli come avevano iniziato a fare con tutti i ponti della Pianura padana. Nella convinzione che, dopo la liberazione di Roma, la guerra stesse per finire e dunque fosse necessario ostacolare la ritirata dei tedeschi. Il ponte pedonale lo colpirono subito, quello ferroviario mai. Per questo i bombardieri alleati ritornavano di continuo all' assalto».
E allora?
«Allora ho nella memoria lo schianto delle bombe. Un rumore da film degli alieni, che si insinuava dentro di te, si impadroniva del tuo corpo e ti faceva temere di morire. Invece l'andare nei rifugi antiaerei durante la notte, per me era divertente. Può sembrare una bestemmia, lo so. Ma da ragazzino precoce mi sentivo attratto dalle donne sempre un po' discinte. Se qualcuno mi chiedesse quando ho cominciato a osservare l'altro sesso, risponderei: nel grande rifugio della marchesa della Valle di Pomaro, situato a cento metri dal nostro appartamento, un palcoscenico straordinario di varia umanità».
Ma non avevi paura?
«Dopo il primo bombardamento sì, ho provato il terrore di essere ucciso. Poi mi sono abituato. Tanti anni dopo, nel leggere quel che era accaduto in Gran Bretagna, ho compreso che l'Italia, soprattutto nelle piccole città, era stata una specie di paradiso. Gli abitanti di Londra e di altri centri inglesi, come Coventry avevano vissuto l'inferno dei continui bombardamenti tedeschi. Gli inglesi stavano assai peggio di noi. Hanno sofferto la fame, da loro il tesseramento è rimasto in vigore sino agli anni Cinquanta. Noi ce la siamo cavata molto meglio».
Che cosa dicevano i tuoi genitori della guerra?
«La consideravano un castigo di Dio e speravano che finisse presto. Ma non hanno mai lasciato trasparire le loro paure con me e a mia sorella Marisa. Mio padre Ernesto, classe 1898, da giovanissimo si era sciroppato gran parte della Prima guerra mondiale, nel Genio radiotelegrafisti della III Armata, quella del Duca d' Aosta. E aveva visto gli orrori di quel conflitto. Gli inutili assalti alla baionetta, i cadaveri straziati dalle cannonate, i tanti feriti, i mutilati, i soldati con la malaria e il colera abbandonati in lazzaretti di fortuna. Era un uomo buono e pessimista, rimasto orfano di padre da bambino, insieme a cinque tra fratelli e sorelle. Mia madre Giovanna, invece, era una donna ottimista. Aveva un negozio di mode in centro, guadagnava tre volte lo stipendio di papà, operaio guardafili delle Poste. Insieme mi hanno insegnato come si deve stare al mondo».
Quando hai scoperto che ti piaceva scrivere?
«Alla conclusione della terza media. Eravamo nell' estate del 1947 e avevo dodici anni e mezzo, poiché nelle elementari avevo fatto insieme la quarta e la quinta. Come premio per un'ottima pagella, papà mi regalò una macchina per scrivere di seconda mano: una Underwood del 1914, fabbricata in America. Ho imparato subito a usarla e mi sono accorto di avere una vocazione: quella di diventare un giornalista. Cominciai presto a collaborare al settimanale della mia città, Il Monferrato. Non mi pagavano, però mi lasciavano fare. Quando sono andato all' università di Torino, a Scienze politiche, ho dedicato tutto il mio tempo alla tesi di laurea. L'argomento era la guerra partigiana tra Genova e il Po. L' avevo iniziata per partecipare a un concorso indetto dalla Provincia di Alessandria. Divenne un malloppo pazzesco, di ottocento pagine».
E che cosa accadde?
«Mi laureai con il massimo dei voti e la dignità di stampa. Era il luglio del 1959 e avevo 23 anni e nove mesi. Nel novembre del 1960 la mia tesi vinse il Premio Einaudi che mi fu consegnato dall' ex capo dello Stato, Luigi Einaudi, nella sua villa di Dogliani, con una cerimonia solenne. Quel premio convinse il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti, a convocarmi per capire che tipo ero. Il nostro incontro durò meno di un quarto d' ora. E lui mi assunse, come in seguito fece con altri giovani laureati. Voleva svecchiare la redazione, così mi venne detto».
Un altro colpo di fortuna…
«Sì. Ma anche il risultato di una serie di circostanze che non riguardavano soltanto me. Quando iniziai a lavorare alla Stampa era il gennaio 1961. L' Italia era appena uscita del suo primo boom economico. I grandi quotidiani andavano a gonfie vele. A insidiarli non esisteva la televisione e meno che mai il maledetto web. Vendevano molte copie, raccoglievano tanta pubblicità, avevano la cassa piena di soldi».
Condizioni oggi irripetibili...
«Non c' è dubbio. Gli stipendi erano più che buoni, compresi quelli dei redattori alle prime armi. In compenso bisognava lavorare, o ruscare come diciamo noi piemontesi. Dieci ore di presenza dalle due del pomeriggio a mezzanotte. Nessuna settimana corta. Un rigore assoluto, garantito dai capi servizio, a loro volta onnipotenti. De Benedetti era un dittatore indiscusso. Quando entrava nella grande sala della redazione, tutti ci alzavamo in piedi. Soltanto quando Gidibì ringhiava: "Signori, seduti!", il lavoro riprendeva».
Fammi un esempio del rigore della «Stampa»…
«Eccone uno. Lavoravo da parecchio al notiziario italiano, quando Carlo Casalegno, il giornalista assassinato nel 1977 dalle Brigate rosse, mi chiese una recensione per la terza pagina, quella culturale. Riguardava un libro appena uscito in Italia: Il giorno più lungo di Cornelius Ryan, sullo sbarco alleato in Normandia nel giugno del 1944. La scrissi e la riscrissi con il cuore in gola. La consegnai al direttore e Gidibì la tenne nel cassetto per una settimana. Poi mi convocò e ruggì: "Questa non è una recensione, ma una cattiva cronaca dello sbarco in Normandia". Quindi iniziò a stracciarla in pezzi sempre più piccoli. E li fece nevicare sotto gli occhi».
Poi hai lasciato la «Stampa». Come mai?
«È un altro esempio della fortuna che assisteva un ragazzo del 1935. Negli anni Sessanta, un direttore che apprezzava il tuo lavoro aveva il potere assumerti da un giorno all' altro. Una circostanza irreale se guardiamo ai giorni nostri. Italo Pietra, allora direttore del Giorno, nel 1964 mi offrì un contratto da inviato speciale. Mi chiese: "Dove vuoi essere mandato in servizio: a Voghera o nel Golfo del Tonchino dove sta per cominciare una guerra che si estenderà al Vietnam?". Da monferrino sveglio risposi: "A Voghera, direttore". Pietra sorrise: "Risposta esatta. Ti assumo. Ecco il contratto da firmare. Se dicevi il Tonchino, non ti avrei mai assunto"…».
Quanto sei rimasto al «Giorno»?
«Sino alla fine del 1968. Poi Alberto Ronchey, il successore di Gidibì, mi rivolle alla Stampa, sempre come inviato. La mia base era Milano, una metropoli sconvolta dalla violenza e dagli attentati. Cortei militanti a tutto spiano, l'omicidio dell'agente di polizia Annarumma, la strage di Piazza Fontana, la fine oscura dell'anarchico Pinelli, l'arresto di Valpreda, i primi segni di vita delle Brigate rosse. Ho imparato a conoscere l'Italia, un paese ingovernabile, travolto dall' estremismo politico».
Se non sbaglio, nel 1973 sei passato al «Messaggero» dei Perrone…
«Sì, a fare il redattore capo, un mestiere che non era il mio. Ma la fortuna continuò ad assistermi. Piero Ottone mi volle al Corriere della sera. Ci rimasi sino al 1977, poi Eugenio Scalfari mi assunse a Repubblica, nata l’anno precedente. Rimasi con Barbapapà un'infinità di tempo. Quindi andai all' Espresso con Claudio Rinaldi, ero il suo condirettore. Nel 2008 lasciai il gruppone di Scalfari e mi arruolai nel Riformista di Antonio Polito. Di lì sono passato a Libero, dove sto con grande soddisfazione mia e, spero, del direttore Maurizio Belpietro e dell'editore Giampaolo Angelucci».
In tanti anni di professione, immagino che tu sia stato costretto ad affrontare non poche delle emergenze che hanno tormentato l'Italia. Quale di loro ricordi?
«Almeno tre. La prima è il terrorismo, soprattutto quello delle Brigate Rosse. Oggi non ce ne ricordiamo più, ma è stata una seconda guerra civile durata quasi un ventennio. Con un'infinità di morti ammazzati, centinaia di feriti, allora si diceva gambizzati, e un delitto che ricordo come fosse avvenuto ieri: il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Tuttavia l'aspetto peggiore, e infame, di quel mattatoio fu il comportamento di una parte importante della borghesia di sinistra. Eccellenze della cultura, dell'università, del giornalismo, delle professioni liberali. E della politica comunista e socialista. Per anni negarono l'esistenza del terrorismo rosso. Sostenevano che si trattava di fascisti travestiti da proletari. Soltanto qualcuno ha fatto ammenda di quella farsa tragica. Ma pochi, per non dire pochissimi. Molti pontificano ancora e si considerano la crema dell'Italia».
E la seconda emergenza?
«È la corruzione, un cancro che intacca, con una forza sempre più perfida, partiti, aziende, pubblica amministrazione. È un virus che si estende anno dopo anno. Ha avuto un picco al tempo di Mani Pulite o di Tangentopoli. Era il 1992 e allora sembrò che le indagini del pool giudiziario di Milano avessero la meglio. Invece era soltanto una pausa breve. Infatti tutto è ricominciato alla grande. Devo dire la verità? L' Italia è una repubblica fondata sulla mazzetta. Non può consolarci il fatto che tante nazioni siano uguali a noi».
La terza emergenza?
«È il discredito sempre più devastante che ha mandato al tappeto il sistema politico italiano. Per anni ho seguito da vicino e ho raccontato la crisi dei nostri partiti. Li ho visti ammalarsi, peggiorare, arrivare vicini all' estinzione. Adesso mi sembrano malati terminali. Molte parrocchie politiche sono già morte. E altre moriranno. Alla fine resteranno in piedi soltanto pochi personaggi, i più scaltri, i più demagoghi. È facile prevedere che saranno loro a comandare in Italia».
Stai pensando a Matteo Renzi, il nostro presidente del Consiglio?
«Certo, penso al Fiorentino, ma non soltanto a lui. Renzi oggi comanda e temo che continuerà a comandare per parecchio tempo. Avremmo bisogno di un nuovo De Gasperi, ma l'Italia del 2015 è messa peggio di quella del 1948. Allora eravamo un paese senza pace, alle prese con tutti i guai del dopoguerra. Ma avevamo fiducia in noi stessi, voglia di rinascere, capacità di sacrificio, entusiasmo politico, anche faziosità all' ennesima potenza. Oggi siamo una nazione di morti che camminano, non parlano, non si occupano di quello che un tempo veniva chiamato il bene pubblico. Prevale la paura di diventare sempre più poveri».
Come vedi il futuro dell'Italia?
«Buio e tempestoso. Adesso qualche gregario di Renzi dirà che sono un vecchio gufo menagramo, ma è proprio il personaggio del Fiorentino a indurmi al pessimismo. Non è un leader politico poiché non ha la statura intellettuale e umana per esserlo. È soltanto l'utilizzatore finale di una crisi antica della Casta dei partiti, cominciata molti anni fa. Renzi sta dominando su uno scenario di macerie. A lui interessa soltanto il potere. Non è un generoso come sanno esserlo i veri numero uno. È un piccolo demagogo, egoista, vendicativo, che si è circondato di una squadra di yes man incompetenti, pronti a obbedirgli e a seguirlo fino a quando resterà in sella. Nessuno lo scalzerà dalla poltrona e lui seguiterà a vincere per abbandono di tutte le controparti».
Nemmeno il centrodestra riuscirà a scalzare Renzi?
«Ma non raccontiamoci delle favole! Il centrodestra mi ricorda l'ospizio dei poveri della mia città. Sono convinti, o fingono di esserlo, che soltanto loro abbatteranno il Fiorentino. Ma è un pio desiderio, nient' altro. In realtà tutti i capetti di una volta si combattono per spartirsi il poco che è rimasto dell'impero di Silvio Berlusconi. Giocano con il pallottoliere e, sommando una serie di piccoli numeri, si illudono di sconfiggere Renzi. Il loro futuro è persino più nero di quello italiano. Ce lo conferma la crisi drammatica del Cavaliere. Ha un anno meno di me e nel 2016 taglierà il traguardo degli ottanta. Gli auguro di conservare la villa di Arcore e di non sentire che un giorno, all' alba, bussa alla sua porta qualche scherano di Renzi con un'ordinanza di sfratto».
Sei certo che gli oppositori attuali di Renzi non siano in grado di fermarlo?
«Forse potrebbe farcela un'alleanza che oggi sembra una chimera. Quella fra Grillo, Salvini, la Meloni e quanto resta di Forza Italia. Ma nel caso molto improbabile che questo asse prenda forma, chi può esserne il leader? Viviamo in un'epoca che considera la figura del capo un fattore indispensabile per contendere il potere politico, con la speranza di conquistarlo. Però dove sta il nuovo leader del centrodestra? Io non lo vedo».
E del centrosinistra che cosa mi dice?
«Che sta peggio del centrodestra. Quando esisteva ancora la Democrazia cristiana, un anziano deputato doroteo di Caltanissetta mi disse: "Il mio partito ricorda la masseria dello curatolo Cicco: il primo che si alza, pretende di comandare". Non rimpiango di certo la scomparsa del Pci, ma la sua fine ha lasciato un vuoto enorme. Si sta realizzando una profezia del vecchio Pietro Nenni: rischiamo di diventare una democrazia senza popolo. È quello che accade in Italia, pensiamo al grande numero di elettori che non vanno più alle urne».
Nella prima e nella seconda Repubblica tu hai votato sempre a sinistra, se non sbaglio…
«Sì, ho votato per il Pci, per il Psi e per i radicali. Poi non sono più andato a votare, da quando ho scoperto la vera natura della sinistra italiana. Me ne sono reso conto del tutto nel 2003, dopo aver pubblicato il mio libro dedicato a quanto era accaduto dopo il 25 aprile 1945: Il sangue dei vinti. Un lavoro minuzioso, che non ha mai ricevuto una smentita o una querela. Posso definirlo una prova di revisionismo storico da sinistra? Eppure la sinistra italiana, in tutti i suoi travestimenti, mi ha maledetto. E non ha smesso di sputarmi addosso nemmeno quando si è resa conto che quel libraccio aveva un successo enorme. A tutt' oggi ha venduto un milione di copie».
Tu fai il giornalista dal 1961, ossia da cinquantaquattro anni. Ha ancora senso questo nostro mestiere?
«Penso di sì, anche se è diventato una professione proibita ai giovani. Nessuno li assume, i compensi per chi vuole iniziare sono minimi. Ma io sono difeso dalla mia età. A ottant' anni mi protegge un antico imperativo del filosofo tedesco Immanuel Kant. Recita: fai quel che devi, avvenga quel che può».
L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.
Frasi, citazioni e aforismi sull’uguaglianza. Pubblicato da Fabrizio Caramagna.
Nasciamo uguali, ma l’uguaglianza cessa dopo cinque minuti: dipende dalla ruvidezza del panno in cui siamo avvolti, dal colore della stanza in cui ci mettono, dalla qualità del latte che beviamo e dalla gentilezza della donna che ci prende in braccio. (Joseph Mankiewicz)
Tutti gli uomini nascono uguali, però è l’ultima volta in cui lo sono. (Abraham Lincoln)
Ognuno è impastato nella stessa pasta ma non cotto nello stesso forno. (Proverbio Yiddish)
Dovunque sono uomini, sono diversità di opinioni, disparità di sentimenti, differenza di umori, tali e tante variazioni temporanee o permanenti, che il consenso perfetto è impossibile, non dico fra tutti o fra molti, ma fra pochi, fra due. (Federico De Roberto)
Equa distribuzione della ricchezza non significa che tutti noi dovremmo essere milionari – significa solo che nessuno dovrebbe morire di fame. (Dodinsky)
L’uguaglianza sarà forse un diritto, ma nessuna potenza umana saprà convertirlo in un fatto. (Honoré de Balzac)
È falso che l’uguaglianza sia una legge di natura: la natura non ha fatto nulla di eguale. La sua legge sovrana è la subordinazione e la dipendenza. (Marchese di Vauvenargues)
L’uguaglianza consiste nel ritenerci uguali a coloro che stanno al di sopra di noi, e superiori a coloro che stanno al di sotto. (Adrien Decourcelle)
Egalitarista. Il genere di riformatore politico e sociale interessato a fare scendere gli altri al proprio livello più che a sollevarsi a quello degli altri. (Ambrose Bierce)
In America tutti sono dell’opinione che non ci sono classi sociali superiori, dal momento che tutti gli uomini sono uguali, ma nessuno accetta che non ci siano classi sociali inferiori, perché, dai tempi di Jefferson in poi, la dottrina che tutti gli uomini sono uguali vale solo verso l’alto, non verso il basso. (Bertrand Russell)
Ci sono due dichiarazioni sugli esseri umani che sono vere: che tutti gli esseri umani sono uguali, e che tutti sono differenti. Su questi due fatti è fondata l’intera saggezza umana. (Mark Van Doren)
Davanti a Dio siamo tutti ugualmente saggi… e ugualmente sciocchi. (Albert Einstein)
Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo. (Michel De Montaigne)
L’uguaglianza deve essere quella delle opportunità, non può essere ovviamente quella dei risultati. (John Dryden)
Ho letto tempo fa che nel futuro gli uomini saranno tutti uguali. Ugualmente ricchi o ugualmente poveri? (Zarko Petan)
Gli uomini sono nati uguali ma sono anche nati diversi. (Erich Fromm)
La figlia del re, giocando con una delle sue cameriere, le guardò la mano, e dopo avervi contato le dita esclamò: “Come! Anche voi avete cinque dita come me?!”. E le ricontò per sincerarsene. (Nicolas Chamfort)
Noi sosteniamo che queste verità sono per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini i governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo diventi perniciosa a questi fini, è nel diritto del popolo di modificarla o di abolirla. (Thomas Jefferson, Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America)
“Libertè, Egalitè, Fraternitè”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, 1795)
Tutta la società diventerà un unico ufficio e un’unica fabbrica con uguale lavoro e paga uguale. (Vladimir Lenin)
Il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’uguale condivisione della miseria. (Sir Winston Churchill)
Allo stato naturale… tutti gli uomini nascono uguali, ma non possono continuare in questa uguaglianza. La società gliela fa perdere, ed essi la recuperano solo con la protezione della legge. (Montesquieu)
La prima uguaglianza è l’equità. (Victor Hugo)
L’uguaglianza ha un organo: l’istruzione gratuita e obbligatoria. (Victor Hugo)
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 3, 1947)
Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela. (Malcolm X).
Finché c’è una classe inferiore io vi appartengo, finché c’è una classe criminale io vi appartengo, finché c’è un’anima in prigione io non sono libero. (Eugene V. Debs)
Le lacrime di un uomo rosso, giallo, nero, marrone o bianco sono tutti uguali. (Martin H. Fischer)
C’è qualcosa di sbagliato quando l’onestà porta uno straccio, e la furfanteria una veste; quando il debole mangia una crosta, mentre l’infame pasteggia nei banchetti. (Robert Ingersoll)
L’uguaglianza non esiste fin a quando ciascuno non produce secondo le sue forze e consuma secondo i suoi bisogno. (Louis Blanc)
Amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. (Martin Luther King)
Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. (William Faulkner)
Fino a quando la giustizia non sarà cieca al colore, fino a quando l’istruzione non sarà inconsapevole della razza, fino a quando l’opportunità non sarà indifferente al colore della pelle degli uomini, l’emancipazione sarà un proclama ma non un fatto. (Lyndon B. Johnson)
Un uomo non può tenere un altro uomo nel fango senza restare nel fango con lui. (Booker T. Washington)
Viviamo in un sistema che sposa il merito, l’uguaglianza e la parità di condizioni, ma esalta quelli con la ricchezza, il potere, e la celebrità, in qualunque modo l’abbiano guadagnato. (Derrick A. Bell)
Se le malattie e le sofferenze non fanno distinzione tra ricchi e poveri, perché dovremmo farlo noi? (Sathya Sai Baba)
Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? (William Shakespeare)
Guardo i volti delle persone che lottano per la propria vita, e non vedo estranei. (Robert Brault)
Qualunque certezza tu abbia stai sicuro di questo: che tu sei terribilmente come gli altri. (James Russell Lowell)
Lo stesso Dio che ha creato Rembrandt ha creato te, ed agli occhi di Dio tu sei prezioso come Rembrandt o come chiunque altro.” (Zig Ziglar)
È bello quando due esseri uguali si uniscono, ma che un uomo grande innalzi a sé chi è inferiore a lui, è divino. (Friedrich Hölderlin)
Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)
Il sole splende per tutti. (Proverbio latino)
La pioggia non cade su un tetto solo. (Proverbio africano)
In quanto uomini, siamo tutti uguali di fronte alla morte. (Publilio Siro)
La morte è questo: la completa uguaglianza degli ineguali. (Vladimir Jankélévitch)
Nella vita si prova a insegnare che siamo tutti uguali, ma solo la morte riesce ad insegnarlo davvero. (Anonimo)
Nella democrazia dei morti tutti gli uomini sono finalmente uguali. Non vi è né rango né posizione né prerogativa nella repubblica della tomba. (John James Ingalls).
Finito il gioco, il re e il pedone tornano nella stessa scatola. (Proverbio Italiano).
L’uguale distribuzione della ricchezza dovrebbe consistere nel fatto che nessun cittadino sia tanto ricco da poter comprare un altro, e nessuno tanto povero che abbia necessità di vendersi. (Armand Trousseau)
L’amore, è l’ideale dell’uguaglianza. (George Sand)
L’amore pretende di parificare, ma il denaro riesce a differenziare. (Aldo Busi)
Noi che siamo liberali e progressisti sappiamo che i poveri sono uguali a noi in tutti i sensi, tranne quello di essere uguali a noi. (Lionel Trilling)
La saggezza dell’uomo non ha ancora escogitato un sistema di tassazione che possa operare con perfetta uguaglianza. (Andrew Jackson)
Nessun uomo è al di sopra della legge, e nessuno è al di sotto di esso. (Theodore Roosevelt)
Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti a coloro che devono applicarla. (Stanislaw Jerzy Lec)
La maestosa uguaglianza delle leggi proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per strada e di rubare il pane. (Anatole France)
Perché in Italia la stupenda frase “La Giustizia è uguale per tutti” è scritta alle spalle dei magistrati? (Giulio Andreotti)
La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori. (Erri De Luca)
Qui vige l’eguaglianza. Non conta un cazzo nessuno!” (Dal film Full metal jacket)
Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. (George Orwell)
Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? (Massimo Gramellini)
La via dell’uguaglianza si percorre solo in discesa: all’altezza dei somari è facilissimo instaurarla. (Conte di Rivarol)
La parità e l’uguaglianza non esistono né possono esistere. E’ una menzogna che possiamo essere tutti uguali; si deve dare a ognuno il posto che gli compete. (Pancho Villa)
Fu un uomo saggio colui che disse che non vi è più grande ineguaglianza di un uguale trattamento di diseguali. (Felix Frankfurter)
Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. (Lorenzo Milani)
Quella secondo la quale tutti gli uomini sono eguali è un’affermazione alla quale, in tempi ordinari, nessun essere umano sano di mente ha mai dato il suo assenso. (Aldous Huxley)
L’uguaglianza è una regola che non ha che delle eccezioni. (Ernest Jaubert)
Nell’incredibile moltitudine che potrebbe venir fuori da una sola coppia umana, che disuguaglianze e varietà! Vi si trovano grandi e piccoli, biondi e bruni, belli e brutti, deboli e forti. Tutto vi figura: il peggiore e l’eccellente, la tara e il genio, la mostruosità in alto e quella in basso. Dall’unione di due individui, tutto può nascere. Punto di congiunzione da cui non si deve sperare tutto e temere tutto. La coppia più banale è gravida di tutta l’umanità. (Jean Rostand)
Anche tra egualitari fanatici il più breve incontro ristabilisce le disuguaglianze umane. (Nicolás Gómez Dávila)
Io non ho rispetto per la passione dell’uguaglianza, che a me sembra una semplice invidia idealizzata. (Oliver Wendell Holmes Jr)
Il significato della parola uguaglianza non deve essere “omologazione”. (Anonimo)
Sì, c’è qualcosa in cui noi ci assomigliamo: tu e io ci crediamo differenti in modo uguale. (Jordi Doce)
Le donne che cercano di essere uguali agli uomini mancano di ambizione. (Timothy Leary)
Assistere l’autodeterminazione del popolo sulla base della massima uguaglianza possibile e mantenere la libertà, senza la minima interferenza di qualsivoglia potere, neppure provvisorio. (Michail Bakunin)
L’uguaglianza non può regnare che livellando le libertà, diseguali per natura. (Charles Maurras)
I legislatori o rivoluzionari che promettono insieme uguaglianza e libertà sono o esaltati o ciarlatani. (Goethe)
Quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata. (Jeremy Bentham)
Una società che mette l’uguaglianza davanti libertà otterrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza avrà un buon livello di entrambe. (Milton Friedman)
Libertà, Uguaglianza, Fraternità – come arrivare ai verbi? (Stanislaw Jerzy Lec)
“Libertà, Fraternità, Uguaglianza”, d’accordo. Ma perchè non aggiungervi “Tolleranza, Intelligenza, Conoscenza?” (Laurent Gouze)
Dicesi problema sociale la necessità di trovare un equilibrio tra l’evidente uguaglianza degli uomini e la loro evidente disuguaglianza. (Nicolás Gómez Dávila)
Credo nell’uguaglianza. Gli uomini calvi dovrebbero sposare donne calve. (Fiona Pitt-Kethley)
Nel mondo contemporaneo l’unico posto dove si realizza la perfetta uguaglianza è nel traffico. (Fragmentarius)
Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l’annua riproduzione si restringe al puro necessario, e l’industria s’annienta, poiché il popolo cade nel letargo. (Pietro Verri)
Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero. (William Butler Yeats)
Chiunque può fuggire nel sonno, siamo tutti geni quando sogniamo, il macellaio e il poeta sono uguali là. (EM Cioran)
Io amo la notte perché di notte tutti i colori sono uguali e io sono uguale agli altri…(Bob Marley)
Il mio diritto di uomo è anche il diritto di un altro; ed è mio dovere garantire che lo eserciti. (Thomas Paine)
Chi vede tutti gli esseri nel suo stesso Sé, ed il suo Sé in tutti gli esseri, perde ogni paura. (Isa Upanishad)
«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso
che se veduto avesse uomo farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso.
(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv.82-84)
L’invidia sociale, scrive Francesco Colonna, su ”Facci un salto”. Si sono impiegati molti decenni per sradicare il tratto fondamentale del marxismo, cioè la lotta di classe. Gli argomenti contrari a quel principio si riassumono in un concetto semplice: la collaborazione è più efficace della lotta. Permette di costruire di più, di fare più cose, di redistribuire meglio non solo i soldi, ma le competenze e la giustizia. Gli argomenti a favore invece erano e sono quella di una divergenza di interessi che si concilia male con l’idea di giustizia sociale. Non importa qui dibattere il tema. Quel che conta è quell’idea non circola più, e infatti nessuno ne parla e nessuno la usa per sostenere le proprie tesi. Di conseguenza, la logica sarebbe questa, tutto dovrebbe essere più tranquillo, una società più conciliante, meno aggressiva, più disposta alla collaborazione, nella quale i problemi si risolvono in modo pacifico e ragionato. E invece a quella ideologia (giusta o sbagliata che fosse non importa) si è sostituito non un pensiero o una filosofia nuovi ma un sentimento: l’invidia, alla quale si può aggiungere l’aggettivo “sociale”. L’invidia nelle sue forme più comuni si riferisce alla cose, invidia per ciò che non ho e altri hanno. Invece nella nostra società fatta di immagine e comunicazione (parole che sembrano sempre sottintendere una falsità o almeno una irrealtà) l’invidia è rivolta all’essere, ai modelli di successo, di fama o di notorietà. E questa invidia prende tante forme: dalla ostilità alla imitazione. E, per capire bene cosa significhi e comporti, basta guardare alla etimologia: invidere in latino vuol dire guardare storto, guardare in modo non corretto. Cioè l’invidia impedisce di vedere giusto e quindi di capire. Ed è trasversale, colpisce ovunque. Mentre la lotta di classe comunque dava una identità, una appartenenza, l’invidia sociale disgrega, atomizza la lotta, relegandola nell’intimo, pur esibendosi poi come ricerca di giustizia sociale. Difficile che in questa luce si possa trovare una strada comune, al massimo si cercano nemici, veri o presunti. Una caccia nella quale brillano il sospetto, la vendetta, il complotto, il pregiudizio. E con questo carico sulla coscienza diviene difficile ragionare e scegliere bene il tipo di società nel quale vivere.
Monti, Bersani, Vendola e Cgil: il club della patrimoniale. La tentazione di patrimoniale è sempre più forte: Bersani ne vuole una light, Vendola punta alle rendite finanziarie, la Cgil sogna una stangata da 40 miliardi, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. E, adesso, patrimoniale. La spinta è forte. In piena campagna elettorale, la tentazione di fare una tentazione extra sui grandi patrimoni sembra impossessarsi trasversalmente sui leader di molti partiti. Il primo a proporla è stata Mario Monti che, nella sua agenda, l'ha inserita (senza farsi troppi problemi) per riuscire a ridurre la pressione fiscale, a partire dal "carico fiscale gravante su lavoro e impresa". In men che non si dica, una schiera di amanti delle tasse hanno subito fatto propria la smania di andare a mettere le mani sui risparmi degli italiani. "I ricchi devono andare all'inferno". Sebbene si riferisse al Gerard Depardieu che, per l'eccessiva tassazione, ha deciso di lasciare la Francia e accogliere il passaporto russo offertogli da Vladimir Putin, l'imprecazione lanciata da Nichi Vendola dà una chiara idea della crociata che, in caso di vittoria alle politiche, la sinistra condurrà contro i beni degli italiani. Dove potrà, razzolerà per far cassa e appianare i debiti di una macchina statale che fagocita tutti i soldi che vengono versati nell'erario pubblico. Nel giorni scorsi, in una intervista a Radio24, il leader del Sel aveva poi spiegato che, quando sarà al governo, andrà a "stanare" la ricchezza che deriva dalle rendite finanziarie. "Se si immagina che quella finanziaria del Paese è stimata in 4mila miliardi di euro e che viceversa meno di mille persone dichiarano nella denuncia dei redditi più di un milione di euro all'anno di reddito, siamo di fronte a una ricchezza largamente imboscata - ha spiegato Vendola - la tassazione alle transazioni finanziarie e sugli attivi finanziari non è una proposta bolscevica". Nascondendosi dietro alla ragione economica tesa alla ricostruzione del Paese, il governatore della Puglia sembra muoversi solo per una ragione di invidia sociale. Il primo a parlare di patrimoniale è stato, però, il Professore. Nell'agenda presentata a dicembre, Monti ha spiegato che è possibile tagliare le tasse a scapito di altri cespiti: "Il carico corrispondente va trasferito su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio". Si legga: patrimoniale e appesantimento dell’Iva sui beni di lusso. Insomma, al premier uscente sembra non bastare l'aver introdotto l'Imu che, è già di per sé, una patrimoniale sull'abitazione. E, su questo punto, si trova in perfetta sintonia con Pierluigi Bersani che ieri sera, negli studi di Ballarò, ha spiegato chiaramente che l’imu non è una patrimoniale "abbastanza progressiva" per i suoi gusti. "Nel prossimo anno non saremo in condizione di ridurre le entrate dell’imu ma potremmo fare un riequilibrio caricando sui possessori di grandi patrimoni immobiliari - ha spiegato il segretario del Partito democratico - a fronte di una detrazione del 5% dobbiamo caricare con un’imposta personale sui detentori di grandi patrimoni immobiliari dal valore catastale di 1,5 milioni di euro". La segreteria di via del Nazareno, modificando leggermente i propositi iniziali vagamente massimalisti, ha fatto balenare una patrimoniale light da applicare agli immobili oltre il milione e mezzo di valore catastale. Lo staff di Bersani ha, invece, specificato che si tratterebbe di circa tre milioni a prezzi reali. Al suo fianco si è subito schierato anche Antonio Ingroia che ha già annunciato di voler togliere l'Imu perché la ritiene "un peso insopportabile e intollerabile". Il progetto del leader di Rivoluzione civile è rendere "il sistema economico più equo" mettendo "una patrimoniale sui redditi più alti e sui patrimoni più consistenti". Il sindacato di Susanna Camusso, che garantisce un’area elettorale decisiva per il Pd, ha preparato una piano fiscale che presenterà a Roma il 25 e 26 gennaio. Piano che fa impallidire gli slogan anti ricchi di Vendola: la Cgil punta, infatti, a reperire 40 miliardi di euro all'anno dalla patrimoniale, 20 miliardi dalla "ristrutturazione della spesa pubblica", 10 miliardi dal riordino dei finanziamenti alle imprese e 10 miliardi dai fondi dell'Unione europea. Gli 80 miliardi rastrellati verrebbero destinati, ogni anno, al lavoro (creazione di nuovi posti, sostegno dell’occupazione e nuova riforma del mercato del lavoro), al welfare e alla "restituzione fiscale" attraverso il taglio della prima aliquota dal 23 al 20% e della terza dal 38 al 36%. Progetto che senza la patrimoniale da 40 miliardi non sta in piedi.
Ci volevate uguali? Ora sim tutti poveri, scrive Mimmo Dato su "L'Intraprendente". In questo nostro bel paese, mio caro Mictel o come ti chiami, abbiamo avuto imponenti correnti d’ispirazione populista, con orientamenti internazionali con sguardo alla sovietizzazione ed al marxismo, forse un po’ radicalizzanti ma certo, a loro dire, pacifisti. Insomma tutta gente all’opposizione che ha vissuto una vita a gridare quanto fosse giusto eliminare le diseguaglianze economiche e ridistribuire le ricchezze, per ovvio sempre prodotte dagli altri e mai da loro; che bisognava aumentare le spese dello Stato per attuare queste pseudo misure egualitarie. Insomma tutti questi contro tutti quelli che non ponevano quale obiettivo principe la massimizzazione dell’uguaglianza. Poi il sogno in Italia si avvera e i governi a marchio populista, pacifista, egualitario si succedono a raffica pur senza che nessuno li elegga ma la Costituzione non viene infranta per questo, per i comunisti il voto non serve, ed eccoci all’oggi, tutti poveri uguale. Tutte le decisioni per la sopravvivenza del paese sono state omesse come qualunque sistema libero e democratico farebbe, tasse da record mondiale, caccia alle streghe, si è omesso di rafforzare le forze di difesa e di cercare le alleanze a garanzia internazionale. Quindi tutte le decisioni sono tendenti alla massimizzazione dell’uguaglianza in povertà contro quelle tese a garantire l’indipendenza e la sopravvivenza del sistema economico e democratico, si legga la nuova legge elettorale che dovrebbe esser varata. Ma allora, caro Mictel, ti chiederai chi erano e chi sono i veri potenti? Forse i ceti abbienti che sostenevano gruppi di maggioranza senza aver avuto, per loro frazionamento ed opportunismo, la capacità di arrestare forme populiste egualitarie o questi ultimi che hanno preso il potere da anni e stanno perseguendo opzioni politiche da disastro, spesa pubblica e disoccupazione al cielo? Vedi Mictel se tu mi fai la domanda, e non me la fai, su come la penso credo che oggi esistano due gruppi di pensatori, quelli che non vogliono l’uguaglianza nemmeno come valore e quelli che pensano che sia comunque impossibile. A questo punto, inutili e terra di conquista, che ci compri la Russia o la Cina. Eppoi il tuo nome sembra americano e mi dici esser cinese. Come ho fatto a non capirlo quando sei sceso da quel macchinone di lusso?
Altro che tutti uguali. Meglio tutti più ricchi. Frankfurt: ridurre le differenze di reddito non è un ideale morale. Il problema è invece che troppi sono poveri, scrive Harry G. Frankfurt Martedì 27/10/2015 su "Il Giornale". In un recente discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Barack Obama ha dichiarato che la disuguaglianza di reddito è «la sfida che definisce la nostra epoca». A me sembra, invece, che la sfida fondamentale per noi non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono ampiamente disuguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere. Dopo tutto, la disuguaglianza di reddito potrebbe essere drasticamente eliminata stabilendo semplicemente che tutti i redditi devono essere ugualmente al di sotto della soglia di povertà. Inutile dire che un simile modo di ottenere l'uguaglianza dei redditi - rendendo tutti ugualmente poveri - presenta ben poche attrattive. Eliminare le disuguaglianze di reddito non può quindi costituire, di per sé, il nostro obiettivo fondamentale. Accanto alla diffusione della povertà, un altro aspetto dell'attuale malessere economico è il fatto che, mentre molte persone hanno troppo poco, ce ne sono altre che hanno troppo. È incontestabile che i molto ricchi abbiano ben più di ciò di cui hanno bisogno per condurre una vita attiva, produttiva e confortevole. Prelevando dalla ricchezza economica della nazione più di quanto occorra loro per vivere bene, le persone eccessivamente ricche peccano di una sorta d'ingordigia economica, che ricorda la voracità di chi trangugia più cibo di quanto richiesto sia dal suo benessere nutrizionale sia da un livello soddisfacente di godimento gastronomico. Tralasciando gli effetti psicologicamente e moralmente nocivi sulle vite degli stessi golosi, l'ingordigia economica offre uno spettacolo ridicolo e disgustoso. Se lo accostiamo allo spettacolo opposto di una ragguardevole classe di persone che vivono in condizioni di grande povertà economica, e che perciò sono più o meno impotenti, l'impressione generale prodotta dal nostro assetto economico risulta insieme ripugnante e moralmente offensiva. Concentrarsi sulla disuguaglianza, che in sé non è riprovevole, significa fraintendere la sfida reale che abbiamo davanti. Il nostro focus di fondo dovrebbe essere quello di ridurre sia la povertà sia l'eccessiva ricchezza. Questo, naturalmente, può benissimo comportare una riduzione della disuguaglianza, ma di per sé la riduzione della disuguaglianza non può costituire la nostra ambizione primaria. L'uguaglianza economica non è un ideale moralmente prioritario. Il principale obiettivo dei nostri sforzi deve essere quello di rimediare ai difetti di una società in cui molti hanno troppo poco, mentre altri hanno le comodità e il potere che si accompagnano al possedere più del necessario. Coloro che si trovano in una condizione molto privilegiata godono di un vantaggio enorme rispetto ai meno abbienti, un vantaggio che possono avere la tendenza a sfruttare per esercitare un'indebita influenza sui processi elettorali o normativi. Gli effetti potenzialmente antidemocratici di questo vantaggio vanno di conseguenza affrontati attraverso leggi e regolamenti finalizzati a proteggere tali processi da distorsioni e abusi. L'egualitarismo economico, secondo la mia interpretazione, è la dottrina per cui è desiderabile che tutti abbiano le stesse quantità di reddito e di ricchezza (in breve, di «denaro»). Quasi nessuno negherebbe che ci sono situazioni in cui ha senso discostarsi da questo criterio generale: per esempio, quando bisogna offrire la possibilità di guadagnare compensi eccezionali per assumere lavoratori con capacità estremamente richieste ma rare. Tuttavia, molte persone, pur essendo pronte a riconoscere che qualche disuguaglianza è lecita, credono che l'uguaglianza economica abbia in sé un importante valore morale e affermano che i tentativi di avvicinarsi all'ideale egualitario dovrebbero godere di una netta priorità. Secondo me, si tratta di un errore. L'uguaglianza economica non è di per sé moralmente importante e, allo stesso modo, la disuguaglianza economica non è in sé moralmente riprovevole. Da un punto di vista morale, non è importante che tutti abbiano lo stesso, ma che ciascuno abbia abbastanza. Se tutti avessero abbastanza denaro, non dovrebbe suscitare alcuna particolare preoccupazione o curiosità che certe persone abbiano più denaro di altri. Chiamerò questa alternativa all'egualitarismo «dottrina della sufficienza», vale a dire la dottrina secondo cui ciò che è moralmente importante, con riferimento al denaro, è che ciascuno ne abbia abbastanza. Naturalmente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia di per sé un ideale sociale moralmente cogente non è una ragione per considerarla un obiettivo insignificante o inopportuno in qualsiasi contesto. L'uguaglianza economica può avere infatti un importante valore politico e sociale e possono esserci ottime ragioni per affrontare i problemi legati alla distribuzione del denaro secondo uno standard egualitario. Perciò, a volte, può avere senso concentrarsi direttamente sul tentativo di aumentare l'ampiezza dell'uguaglianza economica piuttosto che sul tentativo di controllare fino a che punto ognuno abbia abbastanza denaro. Anche se l'uguaglianza economica, in sé e per sé, non è importante, impegnarsi ad attuare una politica economica egualitaria potrebbe rivelarsi indispensabile per promuovere la realizzazione di vari obiettivi auspicabili in ambito sociale e politico. Potrebbe inoltre risultare che l'approccio più praticabile per raggiungere la sufficienza economica universale consista, in effetti, nel perseguire l'uguaglianza. E ovviamente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia un bene in sé lascia comunque aperta la possibilità che abbia un valore strumentale come condizione necessaria per ottenere beni che posseggono, questi sì, un valore intrinseco. Pertanto, una distribuzione di denaro più egualitaria non sarebbe sicuramente criticabile. Tuttavia, l'errore assai diffuso di credere che esistano potenti ragioni morali per preoccuparsi dell'uguaglianza economica in quanto tale è tutt'altro che innocuo. Anzi, a dir la verità, tende a essere una credenza piuttosto dannosa. (2015 Princeton University Press2015 Ugo Guanda Editore Srl)
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
Gli intoccabili. Il caso Saguto e la società delle caste, scrive Pino Maniaci su "Telejato" il 26 ottobre 2015. IL CASO SAGUTO E LA SOCIETÀ DELLE CASTE: L’ANTIMAFIA, I GIUDICI, I BUROCRATI, I POLITICI. E POI LA PLEBE. Di fronte a tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in questi ultimi tempi sul caso della gestione personalizzata dei beni sequestrati da parte di un nutrito numero di magistrati, componenti del CSM, cancellieri, funzionari della DIA, personale giudiziario e amministratori giudiziari, sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Ci chiediamo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti: Se a un comune mortale cittadino italiano fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stato sottoposto agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Ci chiediamo ancora una volta, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che a “Zà Silvana” indossi ancora la toga? È opportuno che tutte le persone coinvolte in favoritismi, raccomandazioni e assunzioni ad amici e parenti restino ancora al loro posto? È opportuno che funzionari della DIA al servizio di questo sistema continuino a svolgere ancora funzioni pubbliche? Non comprendiamo quale sia la differenza tra questi soggetti e chi incassa una tangente. Entrambi utilizzano i propri ruoli istituzionali per rubare soldi pubblici. La giustizia è davvero uguale per tutti? Non ci soddisfano più le assicurazioni che tutto sarà chiarito. Sarà chiarito da chi? Quando e davanti a chi? Tutti invece devono essere immediatamente rimossi dai loro pubblici incarichi, in modo trasparente perché come cittadini abbiamo concesso credito a giudici che abbiamo ritenuto credibili, che abbiamo rispettato per la loro vita blindata, giudici che abbiamo ascoltato e dei quali abbiamo rispettato il lavoro senza alcuna delegittimazione preventiva. Vengano rimossi senza stipendio per rispetto verso tutti quei magistrati che hanno onorato e onorano i valori di autonomia e indipendenza, assicurando credibilità alla Giustizia con i comportamenti di tutti i giorni. Vengano rimossi per rispetto a tutti quei servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere. Vengano rimossi e gli vengano sequestrati i beni per rispetto a tutti coloro che chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria con compiti delicatissimi e complessi lo fanno con coraggio. Pochi giorni fa i deputati della nostra regione hanno approvato in Commissione in tempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle società partecipate dalla Regione e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxicompensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia, Crocettino, è diventato il Santo protettore della casta. Ricordiamo che negli anni ’80, ’90, il sogno di tanti giovani era quello di una società nella quale se sei bravo e se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli antimafia, come se l’antimafia fosse una categoria dello spirito, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. E in quanto tali trattano gli altri con arroganza e sfacciataggine. Ci sentiamo come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che ha detto “Se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo a “Zà Silvana” che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. È la Rivoluzione Francese ai tempi da “Zà Silvana”. Un ultimo e accorato appello a tutte le Associazioni Antiracket e Antimafia che non sentono la necessità di proferire parola neanche davanti a delle gravissime minacce ricevute dal Direttore di Telejato, Pino Maniaci, da parte della Saguto (a “Zà Silvana”) e del Prefetto Cannizzo, che parlando tra di loro hanno affermato: “Pino Maniaci ha le ore contate”. E ai ragazzi di Addiopizzo. Forza ragazzi fate sentire la vostra variopinta presenza e alzate in coro la voce organizzando graziosi sit-in di protesta nelle pubbliche piazze e davanti al Tribunale di Palermo, datevi da fare ad appendere sui pali e le vetrine di Palermo la scritta: “Un Magistrato e un Prefetto che usano il loro potere per fini personali sono persone senza dignità”.
Il caso Saguto e la società delle caste: l'antimafia, i giudici, i burocrati, i politici. E poi la plebe. L'inchiesta che riguarda il giudice Saguto, insieme ad una serie di altri fatti di cronaca mi hanno convinta che viviamo in una società divisa in caste. Da un lato gli intoccabili, i privilegiati, dall'altro la plebe. Ai tempi di Maria Antonietta lei diceva "mangiate biscotti se non avete pane", oggi c'è un giudice che non si accorge di 18 mila euro di conto non pagato al supermercato..., scrive domenica 25 Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. Il caso Saguto non mi ha fatto dormire la notte. Per 10 giorni ho avuto il panico temendo quale cosa raccapricciante avrei letto il giorno dopo a proposito dell’inchiesta su Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione misure preventive del Tribunale di Palermo. L’indagine su quel che accadeva nella gestione dei beni confiscati alla mafia (che in Sicilia rappresentano il 43% del totale) sta facendo emergere di tutto. La Saguto spaziava dalle nomine di amministratori giudiziari nelle società confiscate in cambio di incarichi per il marito, i parenti e gli amici, all’utilizzo dell’auto blindata come taxi per prelevare la nuora e accompagnarla nella villa al mare, o delle sue ospiti per non incappare nel traffico palermitano, oppure dal farsi recapitare a casa per le cene 6 chili tonno fresco, lamponi, (di provenienza da aziende sotto sequestro) al conto da quasi 20 mila euro non pagato al supermercato confiscato (“una dimenticanza, non sono io quella che va a fare la spesa..”). La “zarina” delle misure preventive si è data da fare per la laurea del figlio ottenuta grazie all’aiuto del docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano che in cambio veniva nominato consulente. Il giovane laureato, stando alle intercettazioni, la festa proprio non la voleva “questa laurea è una farsa, gli altri sgobbano per averla” ma il giudice non sentì ragioni e affidò l’organizzazione proprio al professore Provenzano che oltre a scrivere la tesi ha provveduto al menù, così come avverrà per la successiva festa di compleanno della Saguto. Gli agenti della scorta infine venivano utilizzati per andare in profumeria a fare acquisti. Ciliegina sulla torta del dichiarazioni del giudice antimafia a proposito dei figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Anna. Il 19 luglio, anniversario dell’assassinio di Borsellino, Silvana Saguto partecipa come madrina alla manifestazione Le vele della legalità, fa il suo bel discorso antimafia, poi sale a bordo dell’auto blindata ed al telefono dice ad un’amica: “Poi Manfredi che si commuove, ma perché minc...a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff....o". Di fronte a tutto questo sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Mi chiedo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti ma se a Donna Sarina fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stata agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Mi chiedo, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che indossi ancora la toga? La giustizia è davvero uguale per tutti? Leggo anche dell’arresto per corruzione dell’ex direttrice del carcere di Caltanissetta Alfonsa Miccichè. La signora affidava progetti con somme inferiori ai 40 mila euro (quindi non soggetti ad evidenza pubblica) a società che in cambio assegnavano incarichi alla figlia ed al genero. Sempre in questi giorni scopro che al Comune di Sanremo il 75% dei dipendenti è assenteista e c’è chi è stato filmato mentre timbrava il cartellino in mutande e poi tornava a letto o lo faceva timbrare da moglie e figli. Il sindaco di Sanremo dichiara: “sto valutando i provvedimenti da prendere. Forse ANCHE il licenziamento”. A prescindere dal fatto che se licenzi questi ladri di lavoro almeno puoi assumere qualcuno onesto che ti fa funzionare il Comune e adesso è disoccupato, mi chiedo signor sindaco: che significa ANCHE il licenziamento? Che vorresti fare? Premiarli? Che differenza c’è tra questi assenteisti e l’impiegato che incassa la tangente? Entrambi rubano soldi pubblici. Torniamo in Sicilia dove pochi giorni fa i deputati hanno approvato in Commissione intempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle partecipate e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxi compensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia è diventato il Santo protettore della casta. A Roma mentre la sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu viene rinviata a giudizio per peculato per rimborsi da 81 mila euro il presidente del Consiglio Renzi annuncia di voler togliere l’Ici sulla prima casa a TUTTI, sia che abbiamo un castello che un tugurio. E si definisce di sinistra….Ricordo negli anni ’80, ’90, il sogno della Milano da bere era quello di una società nella quale se sei bravo, se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli “antimafia”, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. La Barracciu era la candidata che Renzi voleva ad ogni costo per la presidenza della Regione Sardegna. A causa dello scandalo, ha ripiegato per un posto di sottosegretario. La Barracciu, la Saguto, le leggi ad personam mentre la Sicilia muore di fame. E’ la sfacciataggine degli intoccabili. Mi sento come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che dice “ma se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo il giudice antimafia Silvana Saguto che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. E’ la Rivoluzione Francese ai tempi della Saguto. Rosaria Brancato.
Cultura antimafia con pregi e difetti, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 ore” del 26 Ottobre 2015. I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti – istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi – in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della “mela marcia”. Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo – sostiene Saguto – sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari – anche molto meno esposti di Palermo – che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, gli ammontari, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere «una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta» (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un po’ più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti.
QUESTIONI DI FAMIGLIA. I fatal mariti, scrive Sabato 19 Settembre 2015 Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Silvana Saguto è costretta a lasciare il suo incarico a causa di una indagine che riguarda presunti favori al marito. La corsa di Anna Finocchiaro verso il Quirinale è stata frenata anche dal caso del Pta di Giarre che coinvolse il coniuge. E non sono gli unici casi, dalla consulenza del "signor Chinnici" al ritardo di "mister Monterosso". La moglie di Cesare deve apparire più onesta dell'imperatore. L'immagine è rievocata a ogni scandalicchio e parentopolina. Qualcuno, però, in questi anni ha forse dimenticato i mariti delle imperatrici. Fatal mariti, in molti casi. È il caso di Silvana Saguto, ma non solo il suo. Perché i coniugi delle donne di potere, in qualche caso, hanno finito per frenare e troncare carriere. O, in qualche caso, per trascinare nella centrifuga di polemiche più o meno sensate, le mogli. Ne sa qualcosa, come abbiamo già detto, Silvana Saguto, che ha lasciato l'incarico di presidente della Sezione misure di prevenzione. È indagata per corruzione e abuso d'ufficio. E la questione riguarda anche il marito, appunto. L'accusa al magistrato infatti è relativa ai rapporti con Gaetano Cappellano Seminara, il più noto degli amministratori giudiziari. A lui sono giunti diversi incarichi di gestione di beni confiscati alla mafia. Una fiducia ripagata – questa l'accusa, tutta da dimostrare – tramite consulenze che lo stesso Cappellano Seminara avrebbe assicurato a Lorenzo Caramma, marito della Saguto. Quanto basta, ovviamente, per fare da miccia a un'esplosione di veleni e accuse incrociate che pare ancora all'inizio. E ha già portato all'estensione dell'indagine ad altri tre magistrati. Intanto, la Saguto ha fatto le tende. Attenderà un altro incarico. Ma il “colpo” alla carriera del magistrato è stato durissimo. Marito, fatal marito. Che a pensarci bene, un'altra storia di coniuge “scomodo” potrebbe aver contribuito a chiudere le porte del Quirinale a una donna siciliana. È il caso di Anna Finocchiaro e soprattutto del fatal marito, Melchiorre Fidelbo. Quest'ultimo è infatti finito dentro una inchiesta su un maxi appalto dell'Asp di Catania destinato all'apertura del “Pta” di Giarre: una struttura sanitaria “intermedia” che avrebbero dovuto alleggerire il peso dei grossi ospedali. Fidelbo nell'ottobre del 2012 è stato anche rinviato a giudizio per abuso di ufficio e truffa: è accusato di aver fatto pressioni indebite sui dirigenti dell'Azienda sanitaria con lo scopo di ottenere l'affidamento. Una vicenda ovviamente tirata fuori dai detrattori della Finocchiaro, nei giorni caldi che hanno portato alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Siciliano, ma uomo. Nonostante la Finocchiaro pare piacesse molto anche a Forza Italia. Ma quella storia... Chissà cosa si saranno detti, invece, Patrizia Monterosso e Claudio Alongi, suo marito. E no, non c'entrano nulla i potenziali conflitti di interesse tra un Segretario generale che contribuisce a scrivere le norme sui dipendenti regionali e il commissario dell'Aran che – visto il ruolo – con i dipendenti regionali deve discutere le norme che li riguardano. No, la storia è un'altra. Ed è, in fondo, sempre la stessa. Quella per la quale la plenipotenziaria di Palazzo d'Orleans è stata condannata dalla Corte dei conti a oltre un milione di risarcimento per la vicenda degli extrabudget nella Formazione professionale. Una condanna giunta nonostante l'appassionata difesa del marito-avvocato Claudio Alongi. Anzi, “tecnicamente” proprio a causa dell'avvocato-consorte. Perché il ricorso della Monterosso, al di là delle questioni di merito che, stando ai giudici sarebbero rimaste tutte in piedi, è stato respinto per un ritardo nella presentazione di alcuni documenti. Ritardo dei legali, appunto. Marito compreso. Paradossi delle vite coniugali che si intrecciano con le vite pubbliche. Ne sa qualcosa Caterina Chinnici. Fu lei la massima sostenitrice di una legge sulla trasparenza che finalmente poneva dei paletti (in questi anni a dire il vero, serenamente ignorati) riguardo alla pubblicazione degli atti, degli stipendi e degli incarichi pubblici. Il caso, però, ha voluto che a ignorare quelle disposizioni fosse anche un consulente dell'Asp di Siracusa, Manlio Averna. Marito di Caterina Chinnici. Un caso che creò anche tensioni all'interno della giunta di Raffaele Lombardo, con Massimo Russo, ad esempio, molto critico sulla “dimenticanza” dell'Azienda siracusana. "Non si può addebitare alla sottoscritta – replicò Caterina Chinnici - l'eventuale inadempienza di coloro che dovrebbero controllare”. Polemiche, ovviamente, poco più. Nulla a che vedere col “caso Saguto”, se non il ricorrere di questi “incroci pericolosi” tra il divano di casa e le scrivanie del sistema pubblico. Fastidi, o poco più, in cui il marito non sarà stato “fatale” per la carriera, ma che certamente ha regalato alla consorte qualche minuto o qualche giorno di tensione. Avvenne anche a Vania Contrafatto, attuale assessore all'Energia. E il casus belli fu addirittura una cena, organizzata da Sandro Leonardi, candidato dell'Idv al Consiglio comunale e marito della Contrafatto. All'appuntamento c'erano, tra gli altri, il procuratore Francesco Messineo e gli aggiunti Leonardo Agueci e Maurizio Scalia. Quest'ultimo era il magistrato che coordinava l'indagine sui brogli alle primarie del centrosinistra. Una rivelazione, quella, lanciata ironicamente nel corso di una conferenza stampa da Antonello Cracolici: “Per sapere qualcosa sui presunti brogli alle primarie - disse il capogruppo del Pd all'Ars - forse avremmo dovuto essere a una cena elettorale che si è tenuta sabato a Mondello alla quale hanno partecipato, oltre al candidato sindaco Leoluca Orlando, alcuni pm di Palermo che seguono le indagini sulla vicenda". Orlando aveva denunciato brogli a quelle consultazioni accusando il vincitore di quelle primarie, Fabrizio Ferrandelli. Tutto si sgonfiò presto, con una nota del pm Scalia con la quale il magistrato spiegò di aver preso parte “a un ricevimento in una casa privata di una collega e amica per festeggiarne l'inaugurazione”. Vania Contrafatto, appunto. Una delle cene probabilmente più indigeste per quello che sarebbe diventato il futuro assessore all'Energia. E un marito può essere fatale persino “a costo zero”. Chiedete a Valeria Grasso, nominata da Crocetta Soprintendente della Fondazione orchestra sinfonica. Tra i consulenti, ecco spuntare il marito Maurizio Orlando: “Ma è qui a titolo gratuito”, provò a spiegare l'imprenditrice antiracket. Pochi mesi dopo, Crocetta l'avrebbe rimossa dalla guida della Foss.
Lo scandalo dei beni sequestrati alla mafia e il ruolo della Massoneria, scrive Riccardo Gueci su "La Voce di New York" dekl 29 ottobre 2015. Tutti sapevano come veniva gestita la Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ma nessuno parlava. E il motivo è semplice: perché dietro questo grande affare c’è la Massoneria. I grandi 'numeri' della holding di don Ciotti, Libera: chi guadagna sulle lucrose vendite dei prodotti agricoli di questa associazione antimafia? Sull’indegna questione che ha investito la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo vanno in scena le sceneggiate di tanti protagonisti. Il primo è un esponente del mondo politico. A recitarla è l'onorevole Claudio Fava, membro autorevole della Commissione parlamentare Antimafia. Salvo Vitale - come riportato nella pagina Facebook di Riccardo Compagnino - riprende una dichiarazione del deputato di Sinistra Ecologia e Libertà nella quale si legge: “C'è un punto di cui nessuno ci ha mai parlato, ovvero che il marito della presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, avesse una preziosa consulenza con lo studio del commercialista che si occupa della gran parte dei beni sequestrati”. A questa dichiarazione, Salvo Vitale, con la serenità di chi sa il fatto suo, ribatte: “A parte il fatto che Cappellano Seminara è un avvocato e non un commercialista, non è giusto, né corretto che tu faccia questa affermazione”. E, nel far trasparire che egli con quel deputato ha avuto una qualche frequentazione, continua: “Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi (presidente della Commissione Antimafia, ndr) per 'tutelare' l'immagine di un settore della Procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del Prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c'era sotto, hai abbassato il capo, dicendo che bisognava intervenire, ma forse eri distratto”. Vitale prosegue nella sua replica affrontando un aspetto che, con tutta probabilità, è quello di maggiore rilevanza economica e sociale di questo andazzo affaristico-massonico: il fallimento di aziende, anche quelle sequestrate a gente che è risultata estranea agli affari di mafia. Questa serie di fallimenti ha concorso a determinare l'impoverimento dell'economia di Palermo e della sua provincia, che già di suo non è mai stata prosperosa. “Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura - aggiunge Vitale - cosa peraltro ripetuta dal giudice Morosini - sarebbe stato più utile per la storia che ti porti appresso chiedere di far pulizia all'interno di essa, anche perché la fiducia dei cittadini non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto, quando bisogna far pulizia in casa. Bastava guardare a Villa Teresa (Villa Santa Teresa, clinica privata confiscata all’ingegnere Michele Aiello ndr) - dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Andrea Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili - per renderti conto che la signora Saguto Silvana, il signor Caramma Elio, suo figlio, e il signor Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti sulla lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla signora Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E, invece, non si è fatto niente. E' facile dire che non sapevamo...è difficile crederci”. In sostanza, il deputato di Sel e vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia ha recitato la sua sceneggiata e Vitale con dovizia di particolari e di argomenti l'ha recensita a dovere. Fin qui l'arringa di Vitale. Ma c'è un'altra fonte di notizie che va tenuta in debita considerazione ed è quella di Pino Maniaci, direttore di TeleJato, la testata che per prima ha sollevato il caso. Maniaci è stato intervistato dal nostro Giulio Ambrosetti “per conoscere qualche dettaglio in più e le sue valutazioni sul caso” ed ha avuto modo di annotare alcune sue valutazioni assai interessanti. In particolare su quanto riportato in un articolo del Giornale di Sicilia che rende noti alcuni stralci delle intercettazioni telefoniche tra la dottoressa Silvana Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dove si fa riferimento all'impresa Calcestruzzi. Pino Maniaci, saggiamente, precisa: “Quando si parla di Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere (del Tribunale di Palermo ndr) amministra almeno dodici aziende di calcestruzzo”. Quindi l’affondo: “La dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera. Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”. Ad una seconda domanda generica sulle associazioni antimafia, “parliamo un po' di Libera e di Addiopizzo”, Pino Maniaci puntualmente fa rilevare che “sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta 5/6 euro, un vasetto di caponata 5 euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Sull'argomento ho chiesto un parere a don Ciotti. Ma non ho avuto risposte”. Le tirate moralistiche di don Luigi Ciotti le dobbiamo considerare anch'esse sceneggiate? “Poi c'è la questione legata ai sequestri. Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Matello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”. E sempre a questo proposito, che risulta essere uno dei temi più delicati del sistema delle confische, Maniaci prosegue nel ricordare come in alcune vicende che hanno visto tante imprese avere avuto riconsegnate le loro aziende dopo il sequestro, svuotate di ogni attività, al limite del fallimento. Con questa procedura “è stata distrutta buona parte dell'economia di Palermo e della sua provincia”. Ed aggiunge “sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”. E ricorda la vicenda dell'impresa Niceta che con tutta probabilità chiuderà i battenti: “Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa 50 dipendenti e ne hanno assunti 24. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici del solito giro. L'ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare le teste lasciando il corpo non serve a nulla. A che serve mandare via Virga se poi i coadiutori, nominati dallo stesso Virga, restano?”. E continua: “Dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti”. Fin qui l'intervista a Pino Maniaci. C'è poi un'altra sceneggiata, che sa di paradosso. Stavolta la limitiamo al massimo. La dottoressa Saguto, poverina, a causa del magro stipendio che le passa lo Stato per il suo lavoro di magistrato, si era ridotta a contrarre un debito con il supermercato - sequestrato alla mafia - dove faceva la spesa per sfamare la famiglia. Ed addirittura secondo un articolo apparso sul Giornale di Sicilia, la poverina non aveva i soldi per pagare la bolletta della luce. Le cronache ci consegnano questo quadro, al netto delle intercettazioni telefoniche che riguardano giudizi del tutto gratuiti sui figli di Paolo Borsellino, il magistrato fatto saltare con la sua scorta in via D'Amelio nel 1992, delle quali ci intratterremo in seguito. Queste cronache ci inducono a sottolinearne alcuni aspetti. Il primo riguarda il sistema gerarchico del Tribunale di Palermo. Se la Sezione Misure di prevenzione procede al sequestro di beni per i quali la stessa ‘macchina’ della Giustizia ha escluso la provenienza mafiosa, non c'è in quel sistema gerarchico qualcuno che faccia presente che quel sequestro è illegittimo? La ragione di questa 'assenza' è dovuta ad un potere occulto, che anche i ciechi e i sordi sanno fare capo alla Massoneria. Infatti, tutti gli uffici del Tribunale, specialmente Civile e in parte del Lavoro, sono largamente infiltrati dal potere massonico. Lo sanno tutti, ma nessuno parla. Nel giro è compresa larga parte dell'avvocatura. La cosa non è nuova, basta ricordare quello che è accaduto al dottor Alberto Di Pisa quando, sull'argomento, si 'permise' di esprimere qualche opinione. Ricordate la vicenda del “corvo”? Da allora non è cambiato nulla. Anzi! Non va trascurato il fatto che molto spesso tra la Massoneria e la mafia è esistita una intesa molto stretta. Infatti, tra sette segrete ci si intende più facilmente e si possono curare affari molto lucrosi se si opera di comune accordo. Intanto quelle aziende, affidate alle 'cure' di amministratori di fiducia vengono distrutte e, talora, riconsegnate ai legittimi proprietari semi fallite e con le maestranze licenziate. Con il bel risultato di avere provocato sia un danno all'economia, sia un contributo in più alla disoccupazione. Il secondo fa riferimento alle perplessità manifestate da Pino Maniaci a proposito di Libera, l'associazione creata dal don Luigi Ciotti per amministrare, attraverso un sistema di cooperative, i beni immobili, specialmente terreni agricoli confiscati alla mafia. Maniaci fa riferimento ai prezzi proibitivi dei prodotti agricoli di queste cooperative e di averne chiesto inutilmente le motivazioni a don Ciotti. E rileva che ormai Libera è una vera e propria holding. A proposito di tale questione va ricordato che le cooperative agricole, promosse da Libera, che gestiscono i terreni agricoli confiscati alla mafia sono finanziate con le risorse finanziarie europei dei PON, cioè dei Piani Operativi Nazionali, sezione fondi strutturali europei per la sicurezza. In definitiva quelle cooperative hanno i costi di gestione coperti dai fondi europei e, spesso, utilizzano locali di vendita dei loro prodotti anch'essi confiscati alla mafia. Non solo. Per l'uso dei terreni agricoli non pagano nulla, ancorché in affidamento. Il capitale investito dai loro soci è di entità simbolica. In sostanza, gestiscono soltanto utili. In presenza di queste condizioni irripetibili in nessuna parte del mondo, non si capisce la ragione economica del perché i loro prodotti abbiano questi prezzi proibitivi destinati al consumatore di reddito medio alto. A chi vanno questi ragguardevoli profitti? Un’indagine su costi, ricavi e investimenti delle cooperative di Libera non sarebbe del tutto fuori luogo. Il terzo riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Secondo quanto riferito dalla dottoressa Silvana Saguto, l'organo di autogoverno dei magistrati ha invitato tutti coloro che sono implicati nelle vergognose vicende ricordate in precedenza a chiedere il trasferimento. Questo è un punto delicato per la credibilità della Magistratura che rischia di farla apparire una corporazione al di sopra e al di fuori della legge che vale per tutti gli altri cittadini italiani. La questione, invece, è molto semplice: la dottoressa Saguto, nell'ambito dei suoi compiti d'istituto, ha compiuto quegli atti che le vengono addebitati? Allora: se quegli atti si configurano non conformi alla deontologia professionale o, addirittura, come reati, la dottoressa Saguto e i suoi complici vanno licenziati in tronco alla stregua di qualsiasi altro lavoratore che non svolga i compiti che gli sono assegnati con la dovuta correttezza. In questo caso nella condizione del licenziamento dovrebbe figurare pure il divieto perenne ad entrare in un'aula di qualsiasi Tribunale italiano, neanche come avvocato. Il congresso del sindacato italiano dei magistrati, ove volesse darsi un minimo di dignità, dovrebbe discutere di deontologia e di valori etici nell'esercizio della professione per dare più forza e credibilità alla funzione del magistrato. *Riccardo Gueci è un dirigente pubblico in pensione. Cresciuto nel vecchio Pci, non ha mai dimenticato la lezione di Enrico Berlinguer. Per lui la politica non può essere vista al di fuori della morale (Berlinguer, grande leader del Pci, a proposito della gestione del potere in Italia, parlava infatti di "Questione morale"). Per noi Gueci commenta i fatti legati alla politica estera e all'economia. Oggi affronta il tema delle polemiche che stanno accompagnando la gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Tema che affronta da una particolare angolazione: quella economica, per l'appunto. Sottolineando il ruolo che nell'economia siciliana - spesso in modo occulto - viene svolto dalla Massoneria.
MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.
Una verità alternativa raccontata da Paolo Guzzanti: fu il Kgb ad uccidere Falcone e Borsellino. Una gigantesca operazione di riciclaggio dei soldi dei servizi segreti e del PCUS. I conti della mafia in Italia come “lavatrice” del tesoro sovietico. Un misterioso finanziere italiano. Il gran rifiuto di D’Alema, ma anche, subito dopo la morte dei due magistrati, l’impegno del Pci-Pds-Ds per alzare un polverone e celare la terribile e scomoda verità. L’ex vicedirettore de “il Giornale” e deputato del Partito Liberale Italiano svela al giornale della politica italiana questo misconosciuto “mistero italiano” (e non solo): una vera e propria operazione di guerra, che non sarebbe stata nelle possibilità e nemmeno nella volontà della mafia siciliana, alla base del martirio, possiamo chiamarlo così, di Falcone e Borsellino, che stavano indagando sulla vicenda. Una storia che sfugge al controllo persino di un protagonista della nostra politica della potenza di Giulio Andreotti, che ad un certo punto ammette di trovarsi di fronte a qualcosa di «più grande di me» e invita Giancarlo Lehner a lasciare perdere il progetto di scrivere un libro-denuncia su tutto questo. A distanza di anni, Guzzanti riapre il caso. Un pezzo da non perdere, solo sul giornale della politica italiana, “Il Politico.it”. «Vi spiego perché hanno ammazzato Falcone e Borsellino, e perché nessuno fiata di fronte alla messa funebre solenne approntata alla svelta dal vecchio PCI per imbalsamarli e santificarli a furor di popolo inquadrato per processioni, prima che qualcuno avesse la malsana idea di indagare sulle vere ragioni della loro inspiegabile morte: “Chi ha ammazzato il povero Ivan?». Ecco la vera storia che nessuno ha il coraggio di raccontare perché ancora oggi si rischia la pelle. L’ambasciatore sovietico, e poi russo Adamishin andò da Cossiga e disse: Fermate questa rapina, i soldi russi del KGB e del PCUS stanno transitando in Italia per essere riciclati. Fate qualcosa. Cossiga chiamò D’Alema e gli chiese: State per caso riciclando per conto del KGB su conti gestiti da Cosa nostra? Ohibò, disse D’Alema, assolutamente non io, ma posso dire che un grandissimo finanziere – che se ti dicessi il nome cadresti dalla sedia – mi ha offerto l’affare del riciclaggio e io ho detto di no. Dunque il fatto esiste, ma non sono io. Allora Cossiga disse ad Andreotti, primo ministro: Volete fermare questa porcheria che sta dissanguando la Russia? E Andreotti rispose: NO, perché un gesto del genere sarebbe vissuto dal PCI come aggressivo nei loro confronti e io devo preservare l’equilibrio nel governo. Ma ho un’idea: chiama Falcone e digli di fare qualche passo informale che soddisfi i russi. Cossiga chiamò Falcone e gli spiegò la situazione. Falcone disse: ma io sono ormai soltanto un direttore generale del ministero della giustizia, che cosa posso fare? E Cossiga: incontra questi russi, tranquillizzali, fai vedere che stiamo facendo qualcosa.
Falcone incontrò i giudici russi e organizzò meeting riservati, coperto dalla Farnesina che gestì l’affare. Poi chiamò Paolo Borsellino e gli spiegò il problema che si era creato. Borsellino, vecchio militante del MSI e anticomunista intransigente disse: tu sei un impiegato al ministero, ma io no. Io posso indagare. Aprirò una mia Agenda Rossa su questa faccenda e discretamente cercherò di capire di più. Bum!! Capaci. Borsellino qualche settimana dopo si dette una manata sulla fronte e disse: cazzo, ho capito chi e perché ha ammazzato Giovanni: BUM! Via D’Amelio. Il PCI che sapeva perfettamente la storia, si avventò come un branco di jene sui due morti santificandoli alla svelta con un rito abbreviato e intenso di processioni popolari mummificandoli nella sua glassa mediatica affinché NESSUNO MAI potesse rivangare la verità. E’ come il “missile” inesistente di Ustica. E’ come la strage “fascista” di Bologna. Quando il partito copre la merda, tutti devono dire: che profumo di violette. Giancarlo Lehner voleva scrivere questa storia avendo una moglie russa che aveva parlato con Stepankov, il procuratore di tutte le Russie che aveva trattato con Falcone e che si era subito dimesso per paura: “Io ho famiglia, ho visto quel che hanno fatto a Giovanni”. Giovanni in russo si dice Ivan, e i giornali russi alla morte di Falcone avevano scherzato su “Chi ha fatto fuori il povero Ivan”, sulla falsariga di una filastrocca popolare. Tutti a Mosca sapevano chi e perché aveva fatto fuori il povero Ivan. In Italia nessuno sapeva spiegare perché fosse stato ucciso il povero Ivan. Non era un pericolo attuale per la mafia. E la mafia non uccide “alla memoria” o per vendetta a posteriori. E allora: perché e chi ha ucciso il povero Ivan. Lehner disse a un settimanale del suo progetto di libro sulla morte di Falcone. Andreotti lo mandò a chiamare nel suo studio di piazza in Lucina e gli disse: Voglio aiutarla, spero di recuperare i fonogrammi riservati con cui la Farnesina ha preparato gli incontri segreti con i giudici russi. Quella è la prova del fatto che Falcone indagava, senza averne un mandato, ma era andato molto più avanti del semplice contatto diplomatico con i russi, tanto per far vedere che in Italia il riciclaggio del tesoro sovietico era tenuto sotto osservazione. Poi Andreotti chiamò il giornalista e gli disse: Caro Lehner, butti nel cestino il suo progetto di libro, se non vuole lasciarci la pelle. Come sarebbe a dire?, fece quello. Sarebbe a dire, disse Andreotti, che dalla Farnesina mi hanno risposto che i dispacci si sono persi e che non si trovano più. Questo vuol dire che l’operazione è stata cancellata e le sue tracce distrutte. Dunque ci troviamo di fronte a un nemico più grande di noi due. Lasci perdere la morte di Falcone, dia retta. Alla Camera, in un giorno di votazioni a Camere congiunte, io Lehner e Andreotti abbiamo rivangato il fatto. Giancarlo parlava, Giulio annuiva con un sorriso tirato. Nessuno avrebbe potuto attivare il pulsante di Capaci con la certezza di fare il botto al momento giusto, se non ci fosse stato un emettitore di impulsi sulla macchina. Le due operazioni Capaci e D’Amelio sono operazioni di guerra condotte con tecniche di guerra, del tutto ignote alla mafia siciliana. Il resto sono chiacchiere da bar dello sport. Parola di Paolo Guzzanti.
Tante piste che andrebbero seguite. Come quel "Grande Gioco" che costò la vita al giudice Falcone. Verità analizzato da Daniela Coli su “L’Occidentale”. Ci si lamenta che non c’è più libertà di stampa, si protesta contro la "legge bavaglio", ma in Italia non esiste più nemmeno l’ombra del giornalismo investigativo. Per i delitti comuni, gli articoli dei quotidiani sono quasi sempre simili: il bravo giornalista di cronaca, un po’ detective, è scomparso e ora tutti si adeguano alle tesi del pm di turno, senza farsi, né fare domande, sbattendo in prima pagina il mostro di turno e soprattutto le intercettazioni, quando c’è di mezzo un politico. I magistrati politicizzati poi procedono a colpi di teoremi. Per l’uccisione di Falcone, prima hanno battuto sul teorema di Giulio Andreotti capo della Cupola (come nel Padrino III di Francis Ford Coppola, uscito nel 1990), per abbattere la prima Repubblica. Fallito il tentativo di trovare il capo della mafia in uno statista sette volte Presidente del Consiglio e cinque volte ministro degli Esteri, hanno ripiegato su Berlusconi, che avrebbe usato la mafia, compiuto le stragi del ’92-’93, per creare un nuovo sistema politico e prendersi l’Italia. L’ostinazione con cui la sinistra ripete la trama del Padrino III di Coppola, dove la mafia sicula diretta dal potente Lucchesi-Andreotti, come una piovra è dappertutto, in politica, nella finanza, in Vaticano, col solito Calvi in fuga per Londra, è una fiction scadente. Veltroni rilancia la tesi del Cav. mente delle stragi del ‘92-‘93 e sostiene che furono fatte per sconfiggere gli ex-comunisti. Veltroni non si rende conto che nel ‘94 votammo tutti Berlusconi perché quella fiction non era credibile e per questo i "progressisti" persero. Per chi è abituato a seguire CSI Miami, dove è presente il tema della mafia e del narcotraffico, oppure NCIS, dove Gibbs e i suoi sono come cane e gatto con Fbi e Cia, sa benissimo che i protagonisti indagano a 360 gradi su ogni omicidio, scoprendo per altro traffici d'armi coperti dai servizi segreti. Mentre lavora sulla morte di un grande trafficante d' armi francese, coperto da Cia e Fbi, la battuta più frequente di Gibbs è: "E poi dicono che non riescono a trovare bin Laden…". Gli americani sono più scafati di noi e conoscono quanti strani affari una grande potenza può essere costretta a fare. L’Irangate o l’Iran-Contras affair nel 1985-86 rivelò che alti funzionari dell’amministrazione Reagan erano coinvolti in un traffico illegale d'armi verso l’Iran, paese formalmente nemico degli Stati Uniti dopo i 52 americani tenuti in ostaggio dal 1979 al 1981, ma, benché l’Iran fosse all’epoca in guerra con l’Iraq e violentemente antiamericana, la vendita delle armi all’Iran fu considerata necessaria per liberare gli ostaggi americani in mano agli Hezbollah libanesi, legati all’Iran. L’affare si complicò ulteriormente, perché i ricavati delle armi vendute all’Iran furono usati per finanziare i Contras che stavano combattendo il governo sandinista del Nicaragua. Nell’85-86 a Washington non si parlava d’altro che del colonnello Oliver North e delle tonnellate di crack (droga dei poveri) che i Contras vendevano negli Stati Uniti. L’affare dell’Iran-Contras era un’operazione clandestina, non approvata dal Congresso e coinvolse North, l’ex capo della Cia Casey e molti alti funzionari governativi. Si chiuse quando il presidente Bush senior garantì il perdono a tutti gli indagati per avere agito nell’interesse nazionale degli Stati Uniti. Una insufficiente cultura investigativa induce alcuni magistrati a costruire teoremi sulle stragi del ‘92-‘93 sullo schema del Padino III e a derubricare la morte di Falcone a "strage di Stato", un concetto che in Italia sembra far luce su qualsiasi mistero e che dimostra solo il disprezzo per lo Stato del quale i giudici si proclamano enfaticamente servitori. I media italiani, diversamente da quelli americani, si limitano a ripetere questi teoremi politici, mettendo in evidenza il degrado del giornalismo. Non c’è più uno Sciascia, né un direttore del Corriere come Piero Ostellino pronto a pubblicarlo. Chissà cosa avrebbe detto Sciascia dei teoremi sulla morte di Falcone. Dal Padrino I (1972), ispirato dal romanzo di Mario Puzo, a La Piovra (1984-2001), si sono riproposti rozzamente i temi della saga del Padrino e non si distingue più tra fiction, letteratura e realtà. È strano come nelle indagini sulla morte di Falcone i magistrati si affidino ai pentiti, alle intercettazioni e non si siano mai soffermati sulle indagini internazionali di Falcone. Sollecitato dal giudice Chinnici, il cui maggiore onore era essere stimato dagli americani, Falcone aveva cominciato ad indagare su Rocco Spatola e, recandosi negli Stati Uniti nel 1980, iniziò a lavorare con Victor Rocco, investigatore del distretto di New York est. Falcone era convinto dell’esistenza di uno stretto rapporto tra mafia americana e siciliana. Lavorava su un traffico di morfina che dalla Siria e l’Afghanistan era approdato tramite un trafficante turco a Palermo nel 1975 e la città era diventata una raffineria che riforniva di eroina gli Stati Uniti. Le indagini si svolsero negli anni dell’occupazione russa dell’Afghanistan, mentre gli Stati Uniti appoggiavano i mujaheddin contro i sovietici, la Cia li riforniva di armi e ai funzionari della Dea (Drug Enforcement Administration) fu chiesto di chiudere un occhio sul traffico di oppio afghano. Prima di morire Falcone si occupava di riciclaggio di denaro in Svizzera. Denaro proveniente dal traffico d'armi e di droga. E proprio i dollari finiti nelle banche svizzere avevano impressionato gli americani, che all’inizio non avevano dato importanza alle sue indagini. Falcone collaborò all’operazione "Pizza Connection" con Louis Freeh, capo del FBI nominato da Clinton. Louis Freeh è finito poi indagato dalla commissione d’indagine sull’11 settembre per non avere tenuto conto delle segnalazioni del controterrorismo e di un agente del Fbi di Phoenix, che nel luglio 2001 fece rapporto su membri di Al Qaeda che frequentavano una scuola di volo: tra loro c’erano alcuni terroristi dell’attacco alle Twin Towers. Il rapporto di Freeh con Clinton, tanto sbandierato dalla sinistra, era tale che, scaduto il mandato al Fbi, Freeh rimase per non dare a Clinton la possibilità di nominare il nuovo capo del Bureau. Il processo di "Pizza Connection" del 1984, dove fu condannato Rosario Gambino, implicato anche nel presunto rapimento Sindona, consolidò il rapporto tra Freeh e Falcone. Gli Stati Uniti hanno sempre avuto attenzione per la Sicilia. Lo stesso Sindona, come altri mafiosi italo-americani e siciliani, aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia, fu arruolato nella Cia, andò negli States e fu per anni un rispettato banchiere. Anche la Sicilia indipendentista di Salvatore Giuliano aveva guardato all’America. Per la posizione geopolitica dell’isola, il rapporto degli Stati Uniti con la Sicilia attraverso gli immigrati siculi e le loro relazioni con amici e parenti siciliani è sempre stato importante. Anche Falcone riteneva fondamentale il rapporto con gli Stati Uniti. Fu grazie ai rapporti stabiliti con l’Fbi con "Pizza connection" che Falcone ottenne il trasferimento di Buscetta in Italia. Boss del narcotraffico, Buscetta fu arrestato in Brasile nel 1983, Falcone andò a trovarlo nelle carceri di San Paolo per chiedergli se era disposto a collaborare con la giustizia italiana. Buscetta fu estradato negli Stati Uniti nel 1984, collaborò con l’Fbi, che gli fornì una nuova identità e nel luglio dello stesso anno fu estradato in Italia. Buscetta, primo mafioso pentito, ebbe un feeling particolare con Falcone e fece rivelazioni esplosive, fino a indicare in Giulio Andreotti il referente principale di Cosa nostra, proprio come nel Padrino III e ne La Piovra. Dopo le dichiarazioni di Buscetta e il maxiprocesso di Palermo, Falcone divenne famoso e fu chiamato a partecipare al talk show di Maurizio Costanzo. Il magistrato aveva rapporti con Carla Dal Ponte, il giudice svizzero amica di Madeleine Albright, e nel 1991 scrisse un libro sulla mafia con Marcelle Padovani, del Nouvel Observateur, la poliedrica giornalista mitterandiana all’occorrenza rivoluzionaria e guerrigliera, amica di Régis Debray. Falcone, che nel suo studio aveva una fotografia insieme a Bush senior e Peter Secchia, era diventato ormai un magistrato di fama internazionale. Fiero di essere stimato da Bush senior, il presidente della prima Guerra del Golfo del ’90-91. Bush dichiarò lutto nazionale il giorno della morte di Falcone l’accademia dell'Fbi a Quantico gli dedicò persino un monumento. Il presidente degli Stati Uniti in visita a Roma nel 1989 volle incontrarlo e gli riservò un’ora di colloquio. L’ambasciatore Secchia non faceva mistero della stima per Falcone a Roma per collaborare con Martelli, lo immaginava come un futuro possibile ministro. Bush, Louis Freeh e Rudy Giuliani lo stimavano e, secondo alcuni, pensavano a lui anche come primo ministro. Si è anche fantasticato di un patto tra Falcone e gli Stati Uniti per sbarazzarsi di Craxi dopo Sigonella e della politica filoaraba di Andreotti e si è sbandierata l’ipotesi che sia stato ucciso a Capaci prima dai soliti Andreotti e Craxi e ora da Berlusconi per impedirgli di essere un protagonista della seconda Repubblica. È nota l’amicizia dei Bush per Silvio Berlusconi, gli inviti alla Casa Bianca, al Congresso americano: se vi fosse stata anche soltanto l’ombra di una qualche implicazione nella strage di Capaci questo speciale rapporto col Cavaliere non vi sarebbe stato. Paradossalmente, coloro che oggi ricordano la stima dei Bush per Falcone, fanno parte della sinistra che manifestava contro la Guerra del Golfo di Bush e dava del fascista a Bush jr per la guerra in Afghanistan e in Iraq. Purtroppo non c’è stato un Gil Grissom, né un Gibbs a indagare a 360 gradi sulla morte di Falcone. Alla sinistra faceva comodo dare la colpa ad Andreotti nel ’92-93 e ora fa comodo creare polveroni su Berlusconi. Forse, invece, proprio Falcone ha dato la chiave del suo assassino. "Si muore generalmente perché si è rimasti soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande". Falcone con le sue indagini era entrato davvero senza volerlo nel Grande Gioco e pare avesse anche temuto l’alleanza di servizi segreti stranieri con la mafia. Invece di fissarsi su teoremi italiani, forse sarebbe il caso di vagliare ipotesi alternative. A uccidere Falcone potrebbe essere stato qualche servizio segreto orientale, qualche gruppo del narcotraffico, ma pure anche chi temeva le indagini sul flusso di rublo-dollari che giungevano in Italia attraverso i canali di vecchi compagni del Pci, soldi che venivano riciclati in tutta Europa. Falcone aveva già incontrato il magistrato russo Valentin Stepankov e doveva incontrarlo nel maggio del ’92, se non fosse stato ucciso. Ad assassinare Falcone potrebbe anche essere stato qualche servizio segreto occidentale che operava in Medio Oriente e non gradiva un giudice troppo attento ai traffici di armi e droga. Falcone potrebbe anche essere stato cinicamente ucciso da chi voleva destabilizzare la politica italiana, aiutato da qualche sinistro cervello italiano. Fu ucciso in maniera spettacolare in Sicilia, non a Roma, dove sarebbe stato più facile colpirlo, per inviare un messaggio chiaro alla Dc, mentre in Parlamento si votava per il Presidente della Repubblica. Il nuovo presidente doveva essere Andreotti e si elesse Scalfaro, un magistrato, due giorni dopo la morte di Falcone. Nel giugno del ’92, in certi ambienti di Londra, si parlava di regime change per l’Italia e di un'imminente rivoluzione dei giudici. Però, la corte d'Assise di Roma, pochi giorni, fa ha preso in considerazione anche l’ipotesi che Roberto Calvi sia stato ucciso dai servizi segreti inglesi, perché aveva venduto armi all’Argentina durante la guerra delle Falkland. Falcone e Calvi erano diversissimi, ma avevano in comune il problema che tanti li volevano morti. Dopo la morte di Falcone si sono scoperti tutti falconiani, pochi però hanno indagato davvero sulla sua morte, limitandosi soltanto a riproporre il vecchio film di Francis Ford Coppola. E’ noto che dopo l’uccisione di Falcone gli agenti del Fbi si precipitarono subito sulla scena del crimine di Capaci, raccolsero mozziconi di sigaretta nel luogo dove fu azionato il pulsante del detonatore che provocò l’esplosione di tritolo, che investì le auto della scorta e di Falcone. Il Dna delle prove raccolte dal Fbi non corrispondeva però a quello di Giovanni Brusca, il pluriomicida pentito, che ha goduto di un trattamento carcerario estremamente leggero. In qualsiasi giallo, questo dato provocherebbe qualche dubbio. Forse, chissà, tra una ventina d’anni sapremo qualcosa di più sulla morte di Giovanni Falcone, un uomo coraggioso che non meritava di essere sepolto sotto la retorica del santino buono per tutte le stagioni.
Un’altra verità la racconta Gennaro Ruggiero. Geronimo, alias Paolo Cirino Pomicino, nel suo libro bomba “Strettamente Riservato”, fa alcune considerazioni. In pratica si sofferma su alcune coincidenze molto preoccupanti. Infatti, pare che Giovanni Falcone, avrebbe dovuto incontrare, qualche giorno dopo la sua morte, il procuratore di Mosca Valentin Stepankov, che indagava sull’uscita dalla Russia di grosse somme di denaro esistenti nelle casse del PCUS. Tutto confermato da Valentin Stepankov, il quale ha detto anche che, dopo la morte di Falcone, nessuno gli ha mai più chiesto nulla. Eppure Falcone aveva informato allora Andreotti che il suo interessamento era stato sollecitato dal presidente Cossiga qualche mese prima. Falcone, venne ucciso a Capaci, in una strage in cui furono utilizzati materiali abbastanza insoliti per la mafia e più consueti, invece, per le centrali del terrorismo internazionale. Tutte le conoscenze che Falcone aveva sui flussi di denaro sporco passarono allora a Paolo Borsellino che, a sua volta, secondo l’annuncio dato da Scotti e Martelli in Tv, avrebbe dovuto assumere la guida della Procura nazionale antimafia. Fu la sua condanna a morte. Due mesi dopo Borsellino saltò in aria alla stessa maniera di Falcone. Il Giornale il 3 novembre 2003, raccontava che Giovanni Falcone, il simbolo della lotta alla mafia, prima di morire si stava occupando dei finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano: o meglio del riciclaggio di soldi, tanti soldi, che nella fase di dissolvimento dell’Urss lasciavano Mosca attraverso canali riconducibili al Pci. Per questo motivo Falcone si era già incontrato con l’allora procuratore generale russo Valentin Stepankov che su questo stava concentrando tutta la sua attività. Falcone è stato ucciso alla vigilia di un nuovo e decisivo incontro sollecitato dallo stesso Stepankov. Ci sono telegrammi con oggetto: «Finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano».
L’ambasciatore Salleo comunica al Ministero a Roma: “Il Procuratore generale della Federazione russa, Stepankov, mi ha fatto pervenire lettera con cui, facendo riferimento a colloqui da lui a suo tempo avuti con i magistrati Falcone e Giudiceandrea (il procuratore capo di Roma) mi informa della sua intenzione di effettuare nel periodo 8-20 giugno una missione di cinque giorni a Roma nel quadro della inchiesta sui finanziamenti del Pcus al Partito comunista italiano”. C’era solo un motivo per cui il magistrato russo sollecitava la collaborazione di Giovanni Falcone; dopo averne apprezzato la competenza negli incontri precedenti: Falcone era l’unico in grado di accertare l’eventuale coinvolgimento della «criminalità organizzata internazionale», cioè della mafia (o delle mafie), nel riciclaggio del tesoro sovietico. Falcone, vale la pena ricordarlo, da poco più di un anno ricopriva il ruolo di direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia. Era stato chiamato da Claudio Martelli, allora Guardasigilli. Da quel momento attorno gli era stato fatto il deserto. Quei mesi prima della strage di Capaci, Falcone aveva visto bruciare la sua candidatura a procuratore nazionale anti mafia dai suoi nemici al Palazzo di giustizia di Palermo e dentro la magistratura: al Csm al momento di scegliere il «superprocuratore» tre membri laici del Pds gli preferirono Agostino Cordova. I due governi, vale sempre la pena di ricordare, presieduti da Giulio Andreotti dal ‘90 al ‘92, con il ministro dell’Interno Enzo Scotti e i due ministri socialisti alla Giustizia, prima Giuliano Vassalli e poi Martelli che aveva voluto Falcone al suo fianco, avevano emanato un numero impressionante di provvedimenti contro la mafia. Per ricordarne alcuni: dal mandato di cattura per decreto legge che riportò dietro le sbarre i grandi mafiosi del primo maxi processo istruito a Palermo dallo stesso Falcone, alle norme anti-riciclaggio, al varo della Dna, la Direzione nazionale anti mafia. Curiosamente gli uomini di questi due governi che più si erano esposti nella guerra dichiarata dallo Stato alla mafia, con la sola eccezione di Vassalli, saranno tutti travolti da Tangentopoli, e il premier, Andreotti, addirittura accusato di essere il baciatore di Totò Riina, il puparo della mafia e il mandante di un omicidio (quello di Mino Pecorelli). Da quando Falcone aveva accettato l’incarico al ministero, Martelli si era trovato a sostenere uno scontro pressoché quotidiano con il Consiglio superiore della magistratura. Questo era il clima che ha avvelenato la vita di Falcone, prima di Capaci.
Racconta Enzo Scotti: «Lo aveva visto pochi giorni prima che partisse per Palermo, era giù di tono. Era stanco e avvilito. Finora degli incontri tra Falcone e il giudice Stepankov si era saputo per sentito dire. Il primo a parlarne è stato l’ex ministro dc Cirino Pomicino nel suo libro “Strettamente riservato”. «L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga » spiega Cirino Pomicino «mi ha raccontato che fu lui a chiedere a Falcone di indagare, su quel flusso di denaro del Pcus che usciva dall’ex Unione sovietica ».
Andreotti ha confermato di aver visto i «telegrammi riservatissimi» giunti alla Farnesina nel maggio del ‘92. Adesso c’è la prova documentale. Nel primo, quello dell’11 maggio, è indicato con precisione il periodo in cui Stepankov intendeva venire in Italia, tra «l’8 il 20 giugno», per indagare su finanziamenti de Pcus, mafia e Pci. Il procuratore generale russo rispondeva positivamente anche alla richiesta di assistenza giudiziaria avanzata dal magistrati romani che indagavano su Gladio Rossa (inchiesta poi frettolosamente archiviata). Per l’incontro con Falcone non ci sarà tempo, poco prima delle 18,30 del 23 maggio una gigantesca carica di esplosivo lo ha fermato per sempre. Del 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la carneficina, è il secondo telegramma «urgentissimo» e «riservatissimo» dall’ambasciata di Mosca alla Farnesina, questa volta firmato da Girardo. Valentin Stepankov non può far altro che esprimere l’«amarezza» e il «profondo dolore », e prega di portare le condoglianze ai parenti delle vittime. Ma tramite la nostra ambasciata, dopo aver sottolineato come fosse stato in programma di lì a poco il loro incontro, Stepankov non rinuncia a ricordare Falcone «quale degno cittadino dell’Italia, uomo di alto impegno professionale e morale». Peccato che i due telegrammi «urgentissimi» non abbiano mai attirato l’attenzione della commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Luciano Violante e Vice presieduta dal democristiano Paolo Cabras: nel ‘93 preferirono mettere sotto processo la Dc e Giulio Andreotti. E oggi si vuole accusare Silvio Berlusconi e i suoi fedelissimi. Ma allora tutta la storia, perché è di storia che stiamo parlando non di leggenda, che fine ha fatto? Allora è vero che c’è una regia politica dietro tutta la vicenda Spatuzza & Co. Purtroppo stavolta non ci sono Falcone e Borsellino, magistrati veri ed imparziali, ci sono solo quelli che come allora accusarono a vuoto Andreotti; ma adesso chi salterà in aria? E chi lo farà, visto che l’unione sovietica è morta? Ma non è morto anche il comunismo? O ci sono i residui bellici ancora vivi? Lascio al lettore analizzare le notizie storiche che mi sono permesso di riportare in questo resoconto.
"Il viaggio di Falcone a Mosca. Indagine su un mistero italiano", il libro di Francesco Bigazzi, Valentin Stepankov. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci (...) Dopo il fallito golpe di Mosca dell'agosto 1991 e l'affidamento a Stepankov della relativa inchiesta, la visita del procuratore russo a Roma nel febbraio 1992 e l'incontro con Falcone costituiscono il primo atto di un'intesa destinata a interessanti sviluppi e formalizzata dalla promessa di un imminente viaggio del magistrato siciliano in Russia. Ma quella data, già appuntata nell'agenda delle due Procure, viene letteralmente cancellata dal più devastante attentato mafioso della storia, attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta... Contributi di Carlo Nordio e Maurizio Tortorella.
I misteri dell'ultimo viaggio di Falcone a Mosca. In un libro-intervista al procuratore della Russia postcomunista, il possibile movente politico-economico per la morte del magistrato: l'oro del Pcus al Pci, scrive il 30 ottobre 2015 Maurizio Tortorella su "Panorama". Il 23 maggio 1992, nella strage di Capaci, sparirono Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Ma anche l'inchiesta internazionale che il magistrato aveva iniziato a seguire sull'Oro di Mosca: rubli e dollari versati segretamente al Pci per un valore di oltre 989 miliardi di lire tra il 1951 e il 1991. Nel libro Il viaggio di Falcone a Mosca: chi furono davvero i mandanti della strage di Capaci? (Mondadori, 152 pagine, 20 euro), Francesco Bigazzi e l’allora procuratore generale della Federazione russa Valentin Stepankov ricostruiscono quelle indagini e ipotizzano che gli assassini di Falcone, o meglio, i loro mandanti, vadano ricercati tra coloro che guardavano con terrore all’inchiesta più esplosiva del secolo: Pcus, mafia, l’oro di Mosca e i “partiti fratelli”. È stato più volte smentito che il magistrato, in quel momento direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia, potesse essere stato incaricato di coordinare le indagini su un colossale riciclaggio dei fondi del Pcus, arrivati segretamente in Italia. Ma Stepankov conferma autorevolmente il fatto. Del resto, anche Il Corriere della Sera del 27 maggio 1992 riportò la notizia: "Tra la fine di maggio e i primi di giugno Falcone sarebbe dovuto venire a Mosca per coordinare le indagini sul trasferimento all’estero dei soldi del Pcus". Nel libro, la cui uscita è prevista per martedì 3 novembre, Stepankov racconta a Bigazzi di avere avuto subito la sensazione che dopo Capaci le inchieste avviate sarebbero finite su un binario morto. Venuto a mancare Falcone, del resto, nessuno si curò più di collaborare con la Procura russa. Il libro ricostruisce anche come, nel corso del tempo, quattro diversi ministri (Claudio Martelli, Giulio Andreotti, Paolo Cirino Pomicino e Renato Altissimo) abbiano dichiarato pubblicamente che Falcone, nel giugno 1992, avrebbe dovuto recarsi in Russia per confermare una cooperazione giudiziaria sul tema, parlandone (e non era la prima volta) con Stepankov. Tra la metà del 1991 e i primissimi mesi del 1992, sostengono tre di quei quattro ministri, Falcone aveva ricevuto direttamente da Cossiga l’incarico di seguire l'inchiesta dal versante italiano.
Il viaggio di Falcone a Mosca. Un filo rosso intessuto di tradimenti di Stato, trame dei servizi segreti, e soldi, tanti soldi, sembra legare indissolubilmente la strage di Capaci del maggio 1992, in cui furono uccisi Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e gli agenti della scorta, ai nuovi poteri, soprattutto criminali, nati nel vuoto istituzionale e nell'instabilità politica generati dal crollo dell'ex Unione Sovietica. Un anno prima il procuratore generale della Federazione Russa, Valentin Stepankov, aveva iniziato a collaborare con il magistrato italiano nella comune indagine sugli aiuti finanziari concessi dal Pcus al Pci e sul ruolo giocato da mafia internazionale e...
Falce, Falcone e martello. Falcone è stato ucciso da Cosa Nostra, o forse no. Mai la giurisprudenza ha seguito la "pista russa". Oggi esce in Italia un libro che cerca di fare luce sulla vicenda: "Il viaggio di Falcone a Mosca", scrive Paolo Guzzanti su "Il Giornale”. Nessuno ha mai saputo dire per quale motivo preciso Giovanni Falcone fu assassinato. Leggeremo il libro di Valentin Stepankov, ex procuratore russo e amico di Falcone, e del giornalista Francesco Bigazzi «Il viaggio di Falcone a Mosca» (Mondadori) con nuovi documenti sullo scenario che in sede giudiziaria italiana è stato evitato come la peste. Sostenere che Cosa Nostra abbia ucciso Falcone perché era «il più grande nemico della mafia» è puerile, ma anche fraudolento: Cosa Nostra non dà premi Oscar alla carriera. La mafia è una macchina per fare soldi, non per vendette teatrali. Quando Cosa Nostra uccide, c'è sempre un motivo gravissimo e immediato. Dunque: per schivare quale pericolo imminente fu assassinato Falcone? Quando arrivò a Mosca la notizia della sua morte, il procuratore Valentin Stepankov ebbe un collasso, disse di aver capito l'antifona e lasciò il suo posto, ufficialmente per dissensi politici. Tutti coloro che in Italia dovrebbero sapere, sanno della pista seguita da Falcone «following the money», ovvero seguendo il cammino in Italia del tesoro del Kgb e del Pcus. L'ambasciatore russo Anatolij Adamiscin supplicò Cossiga di intervenire. Cossiga si rivolse ad Andreotti che suggerì Falcone come investigatore non ufficiale. Non aveva poteri di magistrato inquirente, ma li aveva il suo amico e confidente Paolo Borsellino. Falcone non fece in tempo ad andare a Mosca e il 23 maggio 1992 fu Capaci. Seguì, dopo meno di tre mesi, via D'Amelio.
Rubli, falce e tritolo. Le lunghe ombre russe sulla morte di Falcone. Nuove carte svelano gli intrecci tra mafia dell'Urss, Cremlino e Pci. Il magistrato doveva recarsi a Mosca per indagare sui finanziamenti ai partiti "fratelli". Ma non fece in tempo..., scrive Dario Fertilio su “Il Giornale”. Un secolo e mezzo fa, per Marx, l'ideologia era «la falsa coscienza della classe al potere». Mai l'autore de Il Capitale ne avrebbe immaginato una versione aggiornata così: «l'ideologia comunista è la falsa coscienza della mafia al potere». Eppure, anche in termini rigorosamente marxiani, questa conclusione pare ineccepibile dopo aver letto Il viaggio di Falcone a Mosca, saggio firmato da Francesco Bigazzi e Valentin Stepankov in uscita per Mondadori (pagg. 156, euro 20). Perché l'immagine degli ultimi giorni dell'Urss e di quelli immediatamente successivi, impressi nei nuovi documenti raccolti dal giornalista italiano, già autore con Valerio Riva del fondamentale Oro da Mosca, e dal primo procuratore della Federazione Russa dopo il crollo del gigante totalitario, mostrano un panorama di macerie impressionante: senza nulla di grandioso, e invece percorso da torme di criminali e lezzo di corruzione che soltanto i compartimenti stagni del regime avevano saputo fino all'ultimo dissimulare. Non bisogna pensare che il termine mafia sia metaforico: qui batte il cuore di tenebra dell'Urss, centro propulsore di una criminalità organizzata prima sotto le insegne della falce e martello e poi, strappate le insegne di partito, alleata dei malavitosi di tutto il mondo, da Cosa Nostra alla Yakuza giapponese, dalla Triade cinese alle famiglie di New York. I documenti mettono in luce la stretta continuità fra la gestione segreta del denaro statale al tempo del potere sovietico, il suo utilizzo all'estero sotto forma di finanziamento ai partiti fratelli - primo fra tutti il Pci - e il programma di sopravvivenza al crollo del sistema: una trama di conti segreti, tra cui l'ingegnoso quanto spregiudicato utilizzo di aziende partecipate dai partiti comunisti stranieri - di cui il sistema delle cooperative del Pci rappresentava un modello - e il possibile riciclaggio di quegli ingenti «contributi» da parte di organizzazioni criminali. E qui entra in campo il nome di Giovanni Falcone richiamato nel titolo: non solo nel suo ruolo simbolico di nemico numero uno della mafia italiana, assassinato a Capaci, ma anche in qualità di investigatore a tutto campo, teso a scoprire i segreti dei legami tra il Pci e il Pcus, in particolare quelli riguardanti i finanziamenti a Botteghe Oscure e le cosiddette «attività speciali» di Mosca all'estero. È Falcone che, durante una visita a Roma del collega russo nel maggio del fatale 1992, scopre un'affinità elettiva con Valentin Stepankov, al punto da programmare con lui un successivo viaggio a Mosca. Le loro strade erano fatte per incrociarsi: Falcone, rivela Stepankov, aveva tra l'altro il compito di accertare se, nell'ambito dei finanziamenti inviati dal Pcus al Pci, fosse stato istituito un canale per finanziare anche le Brigate rosse e la cosiddetta «Gladio rossa», un'organizzazione clandestina tesa al sovvertimento violento della democrazia in Italia. A sua volta, Stepankov si aspettava dal collega italiano un aiuto di fondamentale importanza per rintracciare il percorso dell'«oro da Mosca», volatilizzatosi proprio nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe comunista contro la nascente democrazia. Stepankov era convinto che per portare a termine questo compito fosse intervenuta una cooperazione tra mafia italiana e «alcuni personaggi del Pci». Non il partito in quanto tale, piuttosto suoi singoli esponenti collusi con la criminalità organizzata. Per non perdere tempo, l'intrepido Stepankov inviò anche alla Procura di Roma tutta la documentazione, e una parte dell'istruttoria raccolta per il processo che doveva essere intentato agli autori del fallito golpe.Una simile coppia di ferro costituiva un pericolo mortale per la nomenklatura sovietica alleata di Cosa Nostra. Venne spezzata dai cinque quintali di tritolo fatti esplodere a Capaci il 23 maggio del 1992.Tutto, o quasi, oggi si conosce sull'identità degli esecutori. Ma l'attentato venne attuato con una tecnica militare così raffinata da far apparire subito la sua matrice quantomeno sospetta. E Stepankov, che se ne intende, non manca di farne notare l'effetto principale: le inchieste avviate con Falcone finirono su un binario morto. Aggiunge la sensazione che il collega italiano possa «essere stato danneggiato dalle attività» che stava conducendo al suo fianco. E conclude: gli attentatori hanno raggiunto «l'obiettivo di impedire il suo viaggio a Mosca».La collaborazione italo-russa, in realtà, continuò, ma il vento della politica stava cambiando. Lo stesso Stepankov, dopo aver sfidato il presidente Boris Eltsin condannando il bombardamento della sede dove si erano asserragliati i parlamentari ribelli della Duma, fu costretto a dimettersi. Fine della storia? Non del tutto, anche se l'«oro del Pcus» svanisce nel nulla, in un vorticoso valzer d'investimenti immobiliari, nascite e morti di società fittizie. Proprio come - rivelano i documenti - sognava a suo tempo il tesoriere del Pcus, Nikolaj Krucina.E l'insegnamento che se ne trae? Se dietro a ogni sistema totalitario si nasconde una piovra mafiosa, non basta tagliarne alcuni tentacoli per farla morire. Il diritto sovietico, fino alla caduta, si basava sul teorema Pashukanis: un reato si giudica principalmente secondo il grado di pericolosità per il regime. Il «ladro in legge» (in russo, vor v zakone) aveva poteri più grandi del padrino in Sicilia: come se avesse ricevuto una delega dallo Stato, controllava tutte le attività criminali e doveva rispondere solo ai capi dei servizi di sicurezza. Il bilancio del Pcus era per così dire in nero, sottratto senza controllo a quello ufficiale. E il suo «tesoro», nonché i beni dell'Urss rimasti all'estero - il ricchissimo patrimonio immobiliare sparso in tutto il mondo e i fondi clandestini che per decenni erano stati messi a disposizione non solo del Kgb, ma anche di altri servizi segreti militari e politici - diventarono la grande torta da spartire e proteggere a colpi di mitra e pistola Makarov. E, forse, anche di tritolo.
58 giorni. Cossiga va da Borsellino: “Sei tu l’erede di Falcone”, scrive il 15 giugno 2013 Giovanni Marinetti su “Barbadillo”. 13 giugno 1992. Cossiga incontra Borsellino. L’ex presidente della Repubblica giunge a Palermo per rendere omaggio alle vittime della strage di Capaci. Accompagnato dal prefetto Mario Jovine, Cossiga mostra il suo cordoglio ai parenti delle vittime e prega, inginocchiato, assieme alla moglie di Vito Schifani, Rosaria. «Presidente, preghi forte: voglio sentire cosa dice». È Rosaria a chiederlo a Cossiga, e insieme recitano il De Profundis, un Pater e un’Ave. Nel pomeriggio incontra Paolo Borsellino. Sarà lo stesso Cossiga a ricordarlo: «Glielo dissi chiaro e tondo, è inutile che si agiti: lei è il successore e l’erede di Falcone Lei e nessun altro». Sul Corriere della Sera, il ministro Martelli polemizza con i magistrati, che definisce “professionisti dell’Associazionismo”. Mentre il Psi critica la linea politica di Bettino Craxi, iniziando a voltargli le spalle, i giornali riportano la celebrazione che il Wall Street Journal fanno di Antonio Di Pietro. Il Sole 24 Ore, invece, nell’articolo dal titolo “Affari di droga tra mafia e Pcus. Falcone indagava con i russi”, riporta le parole di Teldman Gdlian, ex giudice della Procura generale dell’Urss, che sostiene che il Cremlino ricavava miliardi di lire vendendo in Italia la droga delle repubbliche asiatiche dell’Urss in accordo con la mafia siciliana. Insomma, il viaggio di Falcone a Mosca, dice, non stava bene né alla mafia italiana né a quella russa. 14 giugno 1992. Il governo fatica a vedere la luce, ma i mercati iniziano a “innervosirsi”. Il Giornale: “Traballa anche la lira”. Scrive l’editorialista Giancarlo Mazzuca: «Un superministro per l’economia? Ciampi al governo? Non c’è più tempo, ormai, per i soliti dibattiti: bisogna agire. A cominciare dalle privatizzazioni appena decollate che, anche dal punto di vista psicologico, possono rappresentare il sospirato segnale di svolta». Tutti i quotidiani riportano i risultati di un’indagine sulla criminalità: metà degli italiani vuole la pena di morte contro i boss mafiosi, e nove cittadini su dieci pensano che la mafia sia la più grave delle minacce per il paese. Il clima è questo. E la politica è debolissima, spaventata dalle inchieste milanesi, in continua lite con la magistratura e senza leadership nei partiti.
IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.
"Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c'è solo mafia". Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l'esplosione: "Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi", scrive Raffaella Fanelli su “La Repubblica”. "Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un'enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri...". Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L'ex uomo d'onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. "Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato... Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l'aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l'autostrada Palermo-Punta Raisi, all'altezza del bar Johnnie Walker... Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari... Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera... amuninni a mangiari 'na pizza".
Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell'autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi...
"Degli uomini in mimetica non so niente... Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri".
Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra?
"C'era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri... Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l'infiltrato".
Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi?
"In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l'ho mai riconosciuto... Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate".
Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del '93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso?
"Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l'unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all'Asinara".
Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2.
"So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi... che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità".
La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo?
"Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso... Ma è una mia deduzione".
L'omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere?
"Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C'erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino".
L'omicidio Mattarella?
"Per quel che ne so io, fu voluto da politici".
Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l'omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra...
"Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove".
La strage di via D'Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino?
"Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all'inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l'avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c'è traccia: sono spariti verbali e registrazioni".
Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina... Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi?
"Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra... Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l'estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un'auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L'auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti".
Ha conosciuto il Capitano Ultimo?
"Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l'arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori".
Il cortocircuito del Fatto su Ultimo. Da fiancheggiatore di Riina a giustiziere contro Renzi. Il quotidiano di Travaglio cambia idea: il Capitano dei Carabinieri, prima vituperato e radiato per la vicenda del covo del boss mafioso, diventa ora l'arma per "scardinare il Palazzo" con le intercettazioni tra il premier e Adinolfi, scrive Luciano Capone l'1 settembre 2015 su "Il Foglio". Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo, è tra i pochi eroi viventi del nostro paese. Reso immortale dalla fiction con Raoul Bova, è l’investigatore che si è conquistato l’immensa stima e riconoscenza degli italiani per aver condotto con i suoi metodi innovativi le indagini che hanno portato, dopo la stagione delle stragi, all’arresto di Totò Riina, il Capo dei capi. Questo per la gran parte degli italiani. Per un’altra parte, minoritaria, è considerato una specie di mafioso, una pedina fondamentale della trattativa stato-mafia, il braccio operativo del generale Mario Mori (suo capo al Ros): i due sono stati processati su iniziativa di Antonio Ingroia con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra per non aver perquisito il covo di Totò Riina (una strategia investigativa concordata con l’allora procuratore Giancarlo Caselli), accusa da cui sono stati poi assolti. L’assoluzione definitiva non è servita a Ultimo (e a Mori) a evitare che il suo nome venisse accostato a uno scambio di favori con Cosa nostra e alla Trattativa stato-mafia (una teoria, quella della trattativa, che Ultimo ha definito una “pagliacciata”). Tra quelli che a più riprese hanno accusato De Caprio e il suo ruolo definito ambiguo più che eroico c’è sempre stato Marco Travaglio, che ha sempre creduto più alle parole del pentito Massimo Ciancimino che a quelle del carabiniere. Travaglio si è occupato del tema, e in particolare della mancata perquisizione del “covo” di Riina, in tantissimi articoli, libri, programmi televisivi, monologhi e spettacoli teatrali. “Oggi, con tutto quello che è emerso sulla trattativa e sui mandanti esterni alle stragi, è naturale collegare la mancata perquisizione del covo agli accordi fra i trattativisti e Provenzano. Che aiutò i carabinieri a rintracciare Riina e a eliminare l’‘ala stragista’ di Cosa nostra, ma certo non lo fece gratis”, scriveva il direttore del Fatto quotidiano. E ancora, in un altro articolo: “I due ufficiali (Mori e Ultimo, ndr) non perquisirono il covo, lasciandolo svuotare dalla mafia e ingannando la Procura”. È stato quindi sorprendente pochi giorni fa, il 21 agosto 2015, leggere sul giornale diretto da Travaglio un articolo in cui si prendono le parti del colonnello Sergio De Caprio, esautorato dei suoi compiti operativi al Noe (Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri). Ultimo ha condotto diverse indagini delicate, tra le quali quelle in cui compaiono le intercettazioni tra il premier Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, e proprio questo secondo il Fatto sarebbe il motivo della “purga”: “Colpa del suo spirito indipendente, della sua velocità all’iniziativa individuale – scrive il Fatto - di quella permanente difesa dei suoi uomini e dei suoi metodi di indagine da entrare in collisione con i doveri dell’obbedienza e della disciplina. Già in altre occasioni hanno provato a trasformarlo in un ingranaggio che gira a vuoto”. Ma come, non erano la sua indipendenza e i suoi metodi un punto cruciale della “Trattativa”? “Fin dai tempi remoti dell’arresto di Totò Riina – gennaio 1993 – che gli valse non una medaglia, ma la condanna a morte di Cosa nostra, poi un ordine di servizio che lo estrometteva dai Reparti operativi, poi un processo per “la mancata perquisizione del covo” da cui uscì assolto insieme con il suo comandante di allora, il generale Mario Mori”, scrive Pino Corrias, cancellando in 4 righe anni di teorie sulla Trattativa del suo direttore. Per Travaglio, Ultimo, insieme al suo amico e capo Mori, ha proprio le caratteristiche del delinquente, del fiancheggiatore della mafia, è uno degli uomini chiave degli indicibili accordi tra politica, mafia, terzi livelli e servizi (deviati, ovviamente): "È chiaro che il Ros ha mentito e ha ingannato la Procura. Ora, delle due l’una: o Mori e Ultimo sono due dilettanti allo sbaraglio; oppure hanno agito di proposito per favorire la mafia, o se stessi, o altri uomini dello Stato", scriveva Travaglio. Insomma, Ultimo avrebbe servito Bernardo Provenzano più che lo Stato, si tratta di un traditore, un delinquente che meriterebbe l’ergastolo, altro che la rimozione della “guida operativa” del Noe! Ma il Fatto non si è occupato del colonnello De Caprio solo in quell’articolo, lunedì gli ha fatto una lunga intervista. Quale migliore occasione per mettere alle strette questo personaggio da sempre visto dal direttore come un criminale? Ecco invece come viene descritto: “È il carabiniere che ha arrestato Riina, inquisito Orsi e Bisignani, aperto il fascicolo sulle Coop e intercettato Renzi col generale Adinolfi. Senza troppa reverenza nei confronti del Palazzo. E l’hanno punito”. E ancora: “È stato il protagonista di una lunga serie di indagini. Quelle scomode, soprattutto, portano la sua firma: lui è il colonnello dei carabinieri Sergio De Caprio, conosciuto da tutti come il Capitano Ultimo”. E questo è solo l’inizio, ora arrivano le bordate: “Un uomo costretto a non mostrare mai il suo volto, Ultimo ama più la strada che i palazzi del potere. Semplice, pratico ed irrequieto. Pensa ai risultati, non alla burocrazia: per lui il fine è solo l’utile, i mezzi tutti quelli possibili”. Ma come? E la Trattativa? Provenzano, Mori, il favoreggiamento? E il covo? Ah sì, del covo se ne parla: “Il Colonnello Sergio De Caprio ha iniziato questa intervista in quello che ormai è ritenuto il suo “covo”: la casa famiglia Capitano Ultimo "creata per l’esigenza di aiutare chi è in difficoltà". Ma non aiutava la mafia? Non è che nel suo covo ospita il latitante Messina Denaro? Ma è solo l’inizio, ecco che arrivano le domande scomode, quelle che nessuno gli ha mai fatto: “Quale sensazione ha provato quando ha arrestato Totò Riina, per lei era la fine o l’inizio di qualcosa?”, “Quali attività vengono svolte nella Casa Famiglia Ultimo?”, “All’interno della struttura c’è l’allevamento dei falchi da lei personalmente curato. Perché proprio i falchi?”, “Quanto le è costato trascurare la sua vita privata per il lavoro. È riuscito a conciliare tutto?”. Il paginone dedicato a Ultimo è finito, non c’è spazio per le domande sul covo, sull’accordo con Provenzano per arrestare Riina, sul papello, la trattativa, Ciancimino. Niente. Quello che veniva trattato da mafioso quando arrestava Totò Riina diventa un eroe per aver intercettato Renzi, da fiancheggiatore della mafia a uomo “semplice, pratico ed irrequieto” che “ama più la strada che i palazzi del potere”. In realtà Ultimo è sempre lo stesso, è al Fatto che hanno una lingua per i magistrati di Palermo e una per De Caprio. Nella prossima edizione del suo libro “Slurp”, quello sulla leccaculagine dei giornalisti italiani, il direttore del Fatto potrebbe aggiungere un capitolo su una nuova pratica estrema che pare conoscere bene, il bilinguismo.
Da Riina all'inchiesta nissena. Chi è la signora dei beni confiscati, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Dura e pura. Spigolosa e intransigente. A volte scontrosa nei rapporti umani, anche con gli avvocati che ne contestavano spesso i metodi processuali. Per due decenni Silvana Saguto ha brillato di luce propria nel firmamento dell'antimafia. Niente chiacchiere e molti fatti. Poi, qualcosa si è rotto. Prima il brusio e i sospetti sugli incarichi assegnati dalla sezione Misure di prevenzione da lei presieduta, poi lo scandalo esploso nei giorni scorsi. Perché la Saguto adesso è accusata di avere gestito come se fosse un suo feudo un settore delicato come quello dei sequestri e delle confische dei beni mafiosi. Avrà tempo e modo di difendersi, ma la bomba è scoppiata. La luce propria si è spenta fino al punto che per riaccenderla, sempre secondo i pm nisseni, il magistrato avrebbe fatto filtrare, pochi mesi fa, la notizia che la mafia volesse ucciderla. Anche Livesicilia quella notizia la verificò e la scrisse, avendo saputo che i servizi segreti avevano rilanciato un pericolo segnalato un anno prima. Ora si scopre che, secondo i pm, dietro quell'allarme ci sarebbe stata la regia della Saguto che avrebbe cercato di rispondere alle polemiche che erano esplose attorno alla sua gestione dell'ufficio. Il magistrato, a fine 2013, era già finita su tutti i giornali perché il prefetto aveva deciso di rafforzarle la scorta. Lei stessa aveva preparato un dossier, come riportavano i quotidiani, per raccontare l'escalation di minacce subite assieme ai colleghi della sezione: teste di capretto, telefonate anonime, pedinamenti. Tutto ciò accadeva meno di due anni fa, quando i mugugni sulle Misure di prevenzione erano già forti, eppure sembra che sia passato un secolo. Anche e soprattutto alla luce dell'inchiesta che l'ha travolta. Pesano come un macigno le ipotesi di corruzione e abuso d'ufficio. La gestione dei beni sarebbe divenuta per il magistrato un affare di famiglia visto che sono indagati pure il marito, il padre e il figlio. Nel decreto di sequestro compare anche l'ipotesi di autoriciclaggio forse legata all'anziano genitore. La Saguto oggi siede sul banco dei cattivi. Lo stesso su cui hanno trovato posto coloro che il giudice ha combattuto nel corso di una lunga carriera. Il suo nome è legato ad alcune pagine rimaste nella storia giudiziaria. Ad esempio, non ebbe timore nel 1993, a “sfidare” Totò Riina, quando si sentiva ancora forte l'odore acre del tritolo esploso a Capaci e in via D'Amelio. La Saguto era il giudice a latere - presidente Gioacchino Agnello - nel processo in corte d'assise per gli omicidi di Michele Reina, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Durante una pausa le telecamere in aula restarono accese. E così i magistrati, che si erano ritirati, ascoltarono Riina mentre invitava il pentito Gaspare Mutolo a tornare ad essere il “Gasparino” di sempre. “Farai la fine di Matteo Lo Vecchio”, gli disse il padrino corleonese citando uno dei personaggi del libro “I Beati Paoli” che viene ritrovato impiccato a piazza della Vergogna. E così al rientro in aula la Saguto chiese al padrino corleonese: “Che fine ha fatto Matteo Lo Vecchio, mi interessa”. “Ma non lo so c'è un libro che ne parla”. E la Saguto: “Quindi lei legge libri a metà”. Nessuno un ventennio dopo avrebbe immaginato di ritrovare la Saguto indagata per corruzione. Lo stesso giudice inflessibile che in molti hanno conosciuto quando da Giudice per le indagini preliminari firmava decine di ordini di arresto, oppure infliggeva pesanti condanne in Tribunale. Così come inflessibile è stata nel suo incarico alle Misure di Prevenzione sequestrando miliardi di beni tolti ai più importanti gruppi imprenditoriali palermitani. Tra questi, Niceta, Rappa, Virga. È alle Misure di prevenzione, però, che la stella antimafia della Saguto si oscura.
L'ANTIPOLITICA E L'ASTENSIONISMO.
C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».
M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.
Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
L’antipolitica: le urne sono sempre più vuote, scrive Piero Miolla su “La Gazzetta del Mezzogiorno” I lucani non hanno fiducia nelle autorità locali. La tendenza, comune al resto d’Italia, emerge dai dati resi noti da «Eurobarometro 2015» che, con riferimento alle istituzioni regionali e alle autorità locali, in particolare i comuni, mostrano che il 68% degli italiani non ha fiducia in tali istituzioni: una quota superiore di 22 punti al dato medio europeo, che è pari al 46%. Si tratta, in realtà, di un trend discendente, poiché nella precedente rilevazione «Eurobarometro», relativa a novembre 2014, gli sfiduciati erano il 70% e, nel 2013, addirittura il 78. La sfiducia connota il nostro Paese in maniera peculiare, se si pensa che in Francia il dato della sfiducia è al 41%, in Germania al 24 e nel Regno Unito al 42. Il crollo della fiducia rispetto agli attori istituzionali dei territori è in linea con il dato sugli effetti sociali e territoriali della devolution: infatti, il 53,6% degli italiani ritiene che in sanità, assistenza e servizi pubblici, nel trasporto pubblico locale, e più in generale, nel welfare, la devolution come trasferimento di poteri a Regioni e Comuni vuol dire un aumento delle differenze di copertura sociale tra regioni e comuni; questa opinione è fatta propria da oltre il 62% dei residenti al Sud-isole, dal 55 di quelli del Centro e da quote inferiori nelle due ripartizioni del Nord. In buona sostanza, gli italiani ritengono che la devolution finisca per approfondire le disuguaglianze territoriali nel welfare, piuttosto che garantire una modulazione dell’offerta rispetto alla composizione dei bisogni locali. Visti i numerosi casi di cronaca, di cui la «questione romana» è solo un l’ultimo esempio, non sorprende quindi che la sfiducia dei cittadini abbia ormai colpito anche i livelli istituzionali più prossimi con una pericolosa erosione della legittimazione. Di fatto un patrimonio di fiducia localistica è stato dissipato in questi anni da Regioni, Province e anche Comuni, mettendo in pericolosa discussione dal punto di vista della credibilità sociale attori istituzionali fondamentali per la dinamica dello sviluppo locale. Ma la crisi di fiducia coinvolge anche le istituzioni politiche nazionali: del proprio Governo non si fida il 76% degli italiani, e il 63 di quelli europei. Il Parlamento nazionale non suscita fiducia al 73% degli italiani e al 62 degli europei. Dei partiti nazionali non si fida l’85 per cento degli italiani e il 78 degli europei. Nell’ultimo biennio, però, si registra comunque una lieve tendenza alla riduzione della sfiducia, sebbene gli ultimi dati si riferiscano a maggio 2015, vale a dire prima della calda estate romana. Il disincanto cresce invece nei confronti del sistema giudiziario nazionale, verso il quale gli scettici in Italia balzano dal 52 al 60%, mentre in Europa calano dal 49 al 43%. Dalla critica degli italiani si salvano solo poche istituzioni, e in particolare l’esercito, di cui si fida il 62%, e la polizia con una percentuale di stima che si attesta al 61%.
Astensione, l'antipolitica non c'entra, scrive Francesco Jori su “Nuova Venezia” Un pizzico di preoccupazione: q.b., quanto basta; e basta davvero poco. Gli apprendisti masterchef dell'insipida cucina politica italiana non hanno tempo né voglia per dedicarsi a capire come mai metà dei clienti rifiutino il loro sgangherato menu: liquidano la questione con due battute a caldo, sull'onda dei risultati elettorali; poi l'astensione sprofonda in un silenzio tombale. A loro basta essersi garantiti il posto per altri cinque anni; nel corso dei quali continueranno a impiegare gli stessi mediocri ingredienti e a propinare le stesse scadenti ricette. Se la cavano spiegando che all'estero l'indice di gradimento (si fa per dire) è lo stesso. Si guardano bene dall'aggiungere che altrove vigono regole diverse (per esempio, negli Usa bisogna iscriversi al voto preliminarmente, da noi basta andare ai seggi), e soprattutto che i trend di affluenza sono consolidati da tempo; in casa nostra, si è verificato un autentico crollo dalla stagione, tutt'altro che remota, in cui nove elettori su dieci andavano alle urne. E il calo è costante ad ogni livello, politiche comprese che pure sono il momento di massima mobilitazione: dal 93,4 del '76 si è scesi all'87,3 del '92, all'81,4 del 2001, al 72,2 del 2013. Peggio ancora alle europee dell'anno scorso: 58,7. Peggio-bis alle ultime regionali: 52,2. In mezzo, segnali parziali ma inequivocabili: vedi lo choccante 37,7 dell'Emilia nel novembre scorso. Stavolta il turno era parziale (7 Regioni su 20); ma è diventato egualmente significativo, come segnala l'analisi dell'autorevole Istituto Cattaneo. Per la prima volta, infatti, l'astensione è diventata l'opzione maggioritaria o quasi: in nessuna delle sette si è arrivati a quel 60 per cento che nel 2010 era stato superato da tutte e sette. Se poi guardiamo al fenomeno in prospettiva lunga, c'è un aspetto ancor più indicativo che emerge: le elezioni regionali, che un tempo erano quelle con maggior richiamo dopo le politiche, sono diventate le meno attrattive, perfino peggio delle europee che erano tradizionalmente le meno sentite. Il dato emerge in particolare nelle cinque regioni del centro-nord andate domenica scorsa alle urne: di solito le aree con più elevata mobilitazione (tipo la Toscana). D'accordo, è un tracollo sul quale hanno pesato i comportamenti tra il disinvolto e il criminale di tanti, troppi consiglieri regionali di ogni colore e di ogni zona geografica. Ma non basta a spiegare la disaffezione dilagante, specie se la si raffronta con gli altri appuntamenti elettorali. A fronte di questo inequivocabile trend, la reazione di molti professionisti della poltrona è tacciare gli astensionisti di qualunquismo e antipolitica, se non addirittura di autentica ignoranza; naturalmente impartendosi l'auto-assoluzione, e scaricando le colpe sui mass media cinici e bari, sui disfattisti cronici, sugli immancabili grandi vecchi occulti. Nulla di più falso. I cittadini italiani hanno dimostrato e dimostrano di mobilitarsi a colpi di grandi numeri quando c'è da dare prova di impegno civico. L'hanno fatto in tante grandi emergenze nazionali, dai terremoti alle alluvioni; raccogliendo firme a centinaia di migliaia per referendum che magari i partiti boicottavano; rispondendo agli appelli a scendere in piazza quando sono in gioco temi strategici, dai beni comuni al lavoro alla scuola. Lo fanno ogni giorno impegnandosi in massa nel volontariato; di cui, per inciso, il Veneto è primatista nazionale. Oltre 9 milioni di italiani domenica scorsa sono rimasti a casa: tutti qualunquisti, cialtroni, ignoranti? Troppo comodo. Con tutta evidenza, gli odierni mandarini di palazzo confidano che prima o poi si avveri la micidiale battuta di Corrado Guzzanti: se i partiti non interpretano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori. Un fastidio di meno.
Lo sguardo del Colle, scrive Antonio Polito su “Il Corriere dela Sera”. Giorgio Napolitano ha dedicato gli anni della sua presidenza alla difesa della politica democratica. Si capisce dunque che, forse anche cominciando a trarne il bilancio, indichi oggi con toni accorati nell’antipolitica «la più grave delle patologie del nostro vivere civile», e la bolli addirittura come «eversiva». Non è un fenomeno di questi giorni, e non può essere nemmeno esclusivamente identificato con gli ultimi arrivati come Grillo, che se ne è adombrato, o come Salvini, che lo ha fuso in una miscela esplosiva con l’antieuropei-smo, esplicitamente condannata da Napolitano. E infatti il presidente ricorda correttamente come l’antipolitica alberghi tra noi almeno dal 1992, al punto che essa è stata tra le fondamenta su cui è stata edificata la Seconda Repubblica, una Repubblica senza partiti e contro i partiti, il cui frutto non è stato però una rigenerazione democratica ma la degenerazione di una politica che Napolitano ha definito «senza moralità», predatoria, personalistica, non meno ladra di quella che c’era prima, ma per di più scalabile dai poteri criminali, come i fatti di Roma dimostrano. È il punto che merita di essere approfondito nell’analisi del presidente: tra la degenerazione della politica e la degenerazione nell’antipolitica, quale viene prima? E, soprattutto, qual è oggi «la più grave delle patologie»? Napolitano mette l’accento sulla seconda; e sui media, rimproverando loro di essere stati corrivi con l’onda antipolitica, così alimentandola. Ci prendiamo il rimbrotto: perfino in fisica è ormai accertato che l’osservatore modifica la realtà anche semplicemente descrivendola. Ma ci sono davanti a noi numerosi esempi in cui l’antipolitica si è affermata da sola, senza aiuti esterni, e per ottime ragioni, al punto tale da sfociare in una reazione squisitamente politica contro la decadenza morale, come è stato evidente nel voto che gli elettori emiliani hanno dato alla loro Regione, non votando. È difficile perciò sfuggire alla sensazione che Grillo e Salvini siano l’effetto, più che la causa, di quella patologia. L’unico sollievo è che finora l’antipolitica si è rivelata meno violenta di quanto non sia stata la violenza politica in anni non troppo lontani. Del resto perfino nei rimedi che la parte migliore del sistema sta cercando a questa grave crisi della rappresentanza si sentono gli echi di un senso comune antipolitico, che oggi chiede più delega e meno partecipazione, meno eletti e più nominati, più uomini soli al comando e meno minoranze fastidiose. Oggi il successo politico ha bisogno dell’antipolitica, al punto che anche per il prossimo inquilino del Quirinale va di moda fare nomi di non politici. L’allarme lanciato ieri da Napolitano avrebbe dunque bisogno di una discussione spietatamente autocritica da molti versanti per produrre gli effetti di rigenerazione che giustamente auspica. Dobbiamo augurarcela con l’ottimismo della volontà.
"Quando c'era Berlinguer", c'era già l'antipolitica. Quello che Veltroni non dice, scrive Carmelo Palma su "Strade On Line". Più che un ritratto di Berlinguer è l'autobiografia sentimentale di uno dei suoi "ragazzi". La storia del PCI tra l'inizio degli anni '70 e la metà degli anni '80 ridotta ad apologo morale. A prudente distanza dall'attualità e dalla parentela imbarazzante tra il moralismo politico e il qualunquismo antipolitico. Poteva essere un film catartico, invece è solo agiografico. Non ci si sarebbe potuti aspettare da Veltroni un film revisionistico della mitologia berlingueriana che, prima e soprattutto dopo la morte sul campo del segretario del PCI, ha costituito la vera identità morale e politica della sinistra post-comunista. Ci si sarebbe però potuti attendere un film meno autobiografico, meno interessato a raccontare i sentimenti dei "ragazzi di Berlinguer" e degli altri protagonisti di quella stagione politica e più disponibile a indagare la duplice anomalia rappresentata, tra l'inizio degli anni '70 e la metà degli anni '80, da un partito e da un segretario comunisti che si dicevano "diversi", ma che nel prendere (lentamente) congedo da Mosca e nell'accomodarsi disciplinatamente sotto l'ombrello della Nato, non rinunciarono all'intransigenza anticapitalista e all'ostilità nei confronti dell'altra sinistra (quella socialista, liberale, radicale...) e si isolarono in una resistenza antropologica alla modernità (alla società dei consumi e della comunicazione di massa, alla rivoluzione tecnologica, alla personalizzazione del costume sociale, al disgregarsi dell'identità di classe....), così intrappolando la sinistra, anche nei decenni a venire, in un culto della diversità risentito e moralistico e in una scontrosa incomunicabilità con il mondo esterno, proprio come "quando c'era Berlinguer". Un politico meno implicato di Veltroni e più determinato al parricidio avrebbe potuto spiegare come (per usare il lessico della destra) quella berlingueriana sia stata una "mitologia incapacitante", che trattenne gli epigoni di quella stagione dal riconoscere la realtà (e le possibilità per la sinistra) che Berlinguer non sapeva e non voleva vedere e dall'incamminarsi lungo la strada, quella socialista-democratica, ostruita dall'anatema pronunciato, anche in articulo mortis, dall'ultimo grande segretario del PCI. Veltroni, che pure nel film accosta subito la figura di Berlinguer a quella di Pasolini, si guarda bene dall'approfondire le analogie "reazionarie" tra i due personaggi e sceglie una chiave di analisi più indulgente. Berlinguer era il segretario troppo forte di un PCI ormai troppo debole, un'icona comunque capace di trascinare con sé un terzo degli italiani di sconfitta in sconfitta – da quella alla Fiat, con la marcia dei quarantamila, a quella, postuma, sul referendum contro il decreto di San Valentino – conservando un'orgogliosa unità interna e una riconosciuta legittimazione esterna. Il PCI, sembra dire Veltroni, non poteva che essere berlingueriano, perché in caso contrario non sarebbe stato più nulla. Tutti gli errori e le conseguenze di questa scelta rimandano a una necessità storica, come un effetto alla sua causa naturale e dunque non meritano giudizi di responsabilità politica. Era così – questa è la morale di Veltroni – e non poteva essere diversamente. Berlinguer è stato il modo in cui i comunisti hanno potuto continuare a riconoscersi tali – ma soprattutto a sentirsi qualcosa – anche dopo la fine del PCI e dunque non si può far colpa né all'uno, né agli altri di avere voluto serbare quella tenace "diversità" e identificarsi indissolubilmente con essa. Veltroni, che tra i dirigenti ex comunisti è stato probabilmente il meno incline alla nostalgia e il più disponibile a contaminare l'identità della sinistra traghettandola oltre le colonne d'Ercole del separatismo ideologico, si guarda bene dal prendere politicamente posizione sulle ragioni e sui torti di Berlinguer e racconta al contrario la storia del suo PCI come una sorta di apologo morale, rendendo un tributo personale alla grandezza del protagonista. Il film di Veltroni esce a trent'anni dalla morte di Berlinguer e all'indomani delle primarie del PD, che segnano per la prima volta la fine dell'egemonia berlingueriana sulla cultura della sinistra italiana. Si tratta di una svolta non solo generazionale, che però paradossalmente non supera quella peculiare "ideologia del nemico", a cui Berlinguer aveva condannato il PCI e che oggi il PD si trova a dovere fronteggiare non in sé, ma fuori di sé. Un Veltroni più coraggioso, e (possiamo dirlo?) psicologicamente più libero, avrebbe dovuto dar conto dell'imbarazzante parentela tra la politica berlingueriana e l'antipolitica grillina e della trasformazione della cosiddetta questione morale, fondata pur sempre sul culto dell'inestinguibile differenza politica comunista, in un qualunquismo trasversale privo di qualunque connotazione ideologica. Berlinguer, che è diventato segretario quando dall'orizzonte comunista era ormai tramontata la speranza della rivoluzione proletaria, schierò le truppe del partito nella lotta di liberazione dalla mala politica. Il suo PCI smise di minacciare la lotta di classe, ma dichiarò una sorta di guerra civile fredda contro la corruzione, l'abuso dell'interesse privato e i condizionamenti dei poteri forti – in pratica, contro l'intero sistema politico italiano – da cui i comunisti promettevano all'Italia un possibile riscatto umano e civile. Il suo PCI si sentiva e pretendeva di essere riconosciuto – lo scriverà, appunto, Pasolini – come "un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota ...". Era già tutto scritto. A Grillo è bastato aggiungervi l'utopia fantasy e post-democratica di Casaleggio e un sovrappiù di protervia ignorante, per ricavarne un prodotto politico di massa e tornare a innamorare anche milioni di elettori di sinistra pronti a rimproverare al PD il "tradimento di Berlinguer". Sono questi i voti – ricordiamolo – per cui Bersani ha perduto lo scorso febbraio elezioni che sembravano già vinte. Da questo terreno minato Veltroni, che pure ha scritto e diretto un film per l'oggi e non per il passato, e che lungamente racconta il Berlinguer della "questione morale", si tiene però prudentemente alla larga, praticando quella forma di doppiezza che non consiste nel dire il falso in luogo del vero, ma nel tacere la parte più problematica della verità. Insomma, "Quando c'era Berlinguer" poteva essere un film politicamente catartico, un modo per riappropriarsi di un'esperienza ambigua, per prenderne pienamente coscienza e insieme per congedarsi definitivamente da essa. È invece diventato un film agiografico, un modo per rinnovare il rimpianto di "qualcosa", e non solo di qualcuno, che non c'è più e per rimuovere l'effetto fatale di quell'antica illusione.
"L' antipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi", libro di Donatella Campus. Negli ultimi decenni l'antipolitica, ovvero il discorso di leader che si oppongono a un establishment politico tacciato di immobilismo, inettitudine e corruzione, si è diffusa in modo cosi rilevante che sembra ormai rientrare nella "normalità" della democrazia. Ciò induce a chiedersi - come fa Donatella Campus in questo volume - se l'antipolitica sia solo un efficace esercizio di demagogia o possa invece diventare un vero e proprio strumento di governo, al servizio di un progetto capace di trasformare il sistema politico. Fondamentale, da questo punto di vista, è la capacità di utilizzare i mass media, e in particolare la televisione, come tribuna da cui suscitare nei cittadini l'identificazione con una leadership forte e incisiva. Il confronto fra tre leader - de Gaulle, Reagan e Berlusconi - che, presentatisi come outsider, hanno poi ricoperto le massime cariche di governo e lasciato una traccia profonda nella vicenda politica dei rispettivi paesi, permette non solo di comprendere meglio il fenomeno dell'antipolitica, ma anche di tracciare un bilancio inedito del percorso politico di Silvio Berlusconi e della sua, vera o presunta, eccezionalità.
Prima contro i partiti, poi dentro i partiti. Così cambia l'antipolitica. All'inizio era solo di destra e si opponeva, da fuori, al Palazzo Poi diventa di sinistra. E col M5S partecipa alla cosa pubblica, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un estratto del saggio L'antipolitica in Italia. Un tentativo di concettualizzazione del professore Roberto Chiarini che apre il nuovo numero della rivista Nuova Storia Contemporanea diretta da Francesco Perfetti in libreria da oggi (Le Lettere, pagg. 168, euro 12). Ogni democrazia ha dovuto fare i conti con una parte dell'opinione pubblica contraria a un coinvolgimento nelle istituzioni. Si parte con le difficoltà incontrate, ancor prima che a gestire, a capire la complessità della politica. Si continua con la fatica che un'attivazione partecipativa comporta. Si termina con la contestazione della legittimità stessa dell'esercizio della sovranità popolare. Puntualmente tutte queste declinazioni dell'antipolitica si ritrovano nel caso italiano in tutta la storia nazionale, anche se ovviamente dotate di una rilevanza differente a seconda delle varie congiunture politiche. Di massima si può comunque affermare che il rilievo assunto da alcune sue espressioni abbiano raggiunto, comparativamente alle altre democrazie occidentali, livelli da primato. L'antipolitica ha conquistato, comunque, la scena in Italia e, più o meno, in quasi tutte le democrazie occidentali solo negli ultimi decenni. A lungo l'antipolitica si è alimentata prevalentemente dalla protesta contro una politica o troppo partigiana o troppo inefficace o troppo sorda alle invocazioni venute dai ceti in sofferenza, da parte degli interessi locali o settoriali in affanno. Col tempo si è rivolta, invece, contro la troppa politica, una politica non solo ingombrante ma anche invalidante della società civile. Finché dura la Prima repubblica, il tratto distintivo tra politica e antipolitica è la difesa o meno della terna parlamentarismo-proporzionalismo-partitismo. A nulla servono, il riscontro dell'invadenza crescente dei partiti nell'apparato dello Stato o il reiterarsi di scandali che vedono i partiti di governo colti sul fatto nel momento di accaparrarsi risorse pubbliche o di procurarsi finanziamenti illeciti. È lo scandalo di Tangentopoli a chiudere con un botto fragoroso una parabola declinante dei partiti da tempo in crisi di credibilità. In quel momento la critica alla partitocrazia che per mezzo secolo è stata appannaggio quasi unicamente del Msi e della stampa di destra (da Guareschi a Montanelli) fa breccia nell'opinione pubblica e nei media innestando una spirale che si auto-alimenta allargandosi vertiginosamente. L'antipolitica si popolarizza conquistando d'autorità la scena politica nazionale. Riemerge dal confino in cui dal 1947 era stata relegata. Da mass level , risale a élite level , da qualunquistica si fa democratica. La grande stampa (da Il Corriere della sera a Il Giornale), inusitatamente concorde senza distinzioni di proprietà o orientamento politico, nonché la tv, sia pubblica che privata (da Samarcanda e Il rosso e il nero di Michele Santoro o Retequattro con Funari news) conquistano nuova audience e quasi «un'identità» brandendo la «questione morale». L'antipolitica dilaga. Esonda dall'argine della destra e invade redazioni, talk show, salotti, santuari del politicamente corretto. Si assiste a un vero e proprio ribaltamento nella considerazione del ruolo storico assolto dai partiti nella vita della Repubblica. La svolta si consuma nei primi anni '90 quando il movimento referendario di Segni sdogana una battaglia sino allora monopolizzata dalla destra, facendo irrompere sul palcoscenico politico la protesta antipartito. L'imprenditore politico che pionieristicamente avanza un'offerta capace di intercettare la domanda antipolitica ormai dilagante negli anni '80 è la Lega lombarda. Quella della Lega è un'antipolitica, non ipo, ma iper-politica. Non decreta il bando, ma il rientro in grande stile della politica. Boccia «Roma ladrona» ma incorona la Padania industriosa. Invoca le manette per i partiti tutti, tanto di governo quanto di opposizione, ma allestisce l'ultimo partito di massa della storia repubblicana: insediato nel territorio e forte di una militanza di cui s'era persa memoria. La novità degli anni '90 è che si profila «una vasta area di cittadinanza competente» portatrice di una nuova declinazione dell'antipolitica, non più caratterizzata dalla «contestazione dell'autorità», ma dalla critica verso le modalità con cui essa in concreto viene esercitata. La lotta alla partitocrazia diventa la parola d'ordine anche a sinistra. Ma quel che impressiona maggiormente è che le stelle del nuovo firmamento politico sorgono in nome di questa battaglia. È il caso di Antonio Di Pietro. Ma anche le nuove formazioni, per lo più movimentiste, che sul finire del secolo agitano il mondo di sinistra, come i girotondini, il Popolo Viola o la stessa Rete di Leoluca Orlando, fanno del rifiuto delle forme consolidate della democrazia rappresentativa. L'antipolitica domina incontrastata il campo, a destra e a sinistra. Con una differenza significativa. Mentre quella destrorsa viene bollata come populista o plebiscitaria, l'antipolitica «progressista» si mette al riparo dalla delegittimazione auto-qualificandosi «positiva», non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenklatura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica». Da ultimo, l'antipolitica trova una sua nuova espressione nel Movimento 5 Stelle. L'attacco al «sistema dei partiti» risulta ancor più penetrante per le dimensioni inusitate del seguito elettorale raccolto il M5S e per la radicalità delle sue posizioni. Esercita un'antipolitica passiva nel senso che oppone al sistema dei partiti una sorda resistenza, chiamandosi fuori da ogni possibile interlocuzione con qualsiasi forza politica e anche da qualsiasi responsabilità istituzionale. Interpreta un'antipolitica attiva, in quanto si fa proponente di una forma di democrazia diretta tutta nuova, centrata sulla partecipazione attiva dei cittadini via web, postulando con ciò che «l'uomo qualunque» non debba estraniarsi dalla politica ma diventarne addirittura il protagonista assoluto.
L’antipolitica degli italiani è un antico menefreghismo, scrive Marco Milani su “Verona in”. L’antipolitca in Italia viene ontologicamente prima degli scandali e del malaffare, perché è condizione necessaria affinché questi possano avvenire. Quello che il senatore Antonio Razzi diceva a telecamere spente (“fatte licazzi tua”) è in soldoni quello che Silvio Berlusconi ha sempre messo in pratica nella sua vita politica. E nonostante questo fosse evidente, molti italiani gli hanno consentito di farlo, simpatizzando con il suo continuo disprezzo del bene comune. Grillo e Salvini non sono l’antipolitica, perché questa non è quella cosa che è nata dalla cattiva politica. Essi piuttosto usano l’antipolitica, un sentire da sempre presente in molti italiani che non hanno mai riconosciuto fino in fondo l’importanza delle cose comuni, né dell’autorità che promana dalle istituzioni dello Stato. Qualche mese fa, quando i media raccontavano lo scandalo di “mafia capitale”, l’allora capo dello stato in carica Giorgio Napolitano fece un discorso in cui parlò della necessità una grande battaglia contro l’antipolitica. Più di qualcuno sembrò sorpreso e trovò fuori luogo l’obiettivo di quel richiamo. Crozza, come spesso gli accade, puntò deciso sul senso comune degli italiani e ridicolizzò quel ragionamento con la metafora che per curare il cancro non serve a niente abolire l’aspirina. Pare che questi commentatori e comici abbiano identificato l’antipolitca con il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. E quest’ultimo, anche se incapace di cambiare le cose davvero, è visto comunque una reazione quasi fisiologica al degrado etico e civile della nostra classe politica. Questa interpretazione del fenomeno dell’antipolitica è la più diffusa tra elettori, giornalisti e commentatori di destra e di sinistra. Ma è davvero questa l’antipolitica di cui ha parlato Napolitano? Io credo fermamente di no. L’antipolitca in Italia è un fenomeno molto più antico ed esteso di quanto gli italiani vogliano ammettere. Essa viene ontologicamente prima degli scandali e del malaffare, perché è condizione necessaria affinché questi possano avvenire non destando forte allarme sociale. L’antipolitica, in questo senso, è una mancanza di civismo da cui discendono direttamente condotte irrispettose delle regole comuni. Da questi atteggiamenti e comportamenti diffusi discende a sua volta una sfiducia di fondo verso tutte le istituzioni dello Stato. Questo è il nocciolo dell’antipolitica, e ha origini molto più antiche del movimento di Grillo. Essa mina la partecipazione vera dei cittadini alle istituzioni e alla gestione della cosa pubblica. E sullo sfondo di questo atteggiamento diffuso, non c’è meccanismo democratico che si possa salvare. Le preferenze vengono spesso ridotte a un vile commercio di voti, e le elezioni primarie, sempre meno partecipate soprattutto a livello locale, difficilmente potranno sottrarsi a tale destino. Questo antico atteggiamento fa si che gli italiani siano sempre più convinti della necessità di difendere a oltranza i propri interessi personali. Quello che il senatore Antonio Razzi diceva a telecamere spente (ovvero “fatte licazzi tua”) è in soldoni quello che Silvio Berlusconi ha sempre messo in pratica nella sua vita politica. E nonostante questo fosse evidente, molti italiani gli hanno consentito di farlo, simpatizzando con il suo continuo disprezzo del bene comune. I due atteggiamenti che hanno consentito a questo modello di proliferare anche a sinistra sono il coinvolgimento di elettori mossi da interessi personali in comitati elettorali, e il disfattismo dei tanti che evitano la partecipazione perché schifati o perché da sempre distanti dalla politica. È solo con il disinteresse dei molti che i pochi appartenenti a certe consorterie riescono a inquinare partiti dagli ideali ispirati e dall’elettorato per gran parte onesto e consapevole. Il tirarsi fuori dalla discussione politica, il non impegnarsi all’interno di associazioni o partiti, non è un atto neutro. Esso ha un costo, specialmente in un Paese dove molti sono gli appetiti che mirano a deviare il corso regolare delle decisioni pubbliche. Similmente, ha un costo anche votare per salvaguardare in maniera miope i propri interessi immediati. Il votare per interesse non equivale a partecipare. Al contrario, esso è un atto che mira a condizionare i comportamenti di chi ha il potere in maniera non troppo difforme da ciò che fanno i lobbisti o gli imprenditori poco onesti. Dopo che questi atteggiamenti diffusi hanno portato il paese vicino a un disastroso default, ė diventato popolare il M5S. Questo partito, assieme alla Lega di Matteo Salvini, mira a difendere i molti italiani che hanno da molto tempo agito in questa maniera menefreghista ed egoista, scoraggiando, in questo modo, la partecipazione attiva a ogni sorta di dialogo politico democratico. Grillo e Salvini non sono l’antipolitica, perché questa non è quella cosa che è nata dalla cattiva politica. Essi piuttosto usano l’antipolitica, questo sentire da sempre presente in molti italiani che non hanno mai riconosciuto fino in fondo l’importanza delle cose comuni, né dell’autorità che promana dalle istituzioni dello Stato. Ciò che sfugge ai più è il legame forte che c’è tra il “vaffa” e la tangente, tra il linguaggio da bar e la corruzione in politica a tutti i livelli. Ebbene, il legame consiste nel fatto che mentre molti cittadini latrano su internet o al bar contro le istituzioni, c’è qualche altro cittadino che prova a usare i partiti e le cariche pubbliche per i propri interessi, non trovando ostacoli reali alla sua azione. La controprova è che nei paesi dove la corruzione è più alta, in genere la dialettica politica è infarcita di “vaffa” e di “tutti a casa”. Tra il farsi gli affari propri e il farseli a spese degli altri, c’è sì una differenza etica che spesso è anche sancita dalla legge, ma a livello di effetti sulla cosa pubblica essi sono entrambi atteggiamenti dannosi. Questa è davvero l’antipolitica. E’ questa che da sempre lascia il campo libero a gruppi di affari, mafie e consorterie varie mentre l’uomo comune si autoassolve con una scrollata di spalle o una battuta da osteria.
L'antipolitica? Colpa della sinistra! Lo dice Michele Ainis. Che nel suo ultimo libro parla delle ingiustizie che avvelenano la vita. Non si occupa più delle disuguaglianze ma delle poltrone, scrive Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. Per uno che ha fatto del diritto la sua vita, come ricerca ma anche come pubblicistica, l'uguaglianza non è una questione ma «la» questione. Per Michele Ainis, messinese, 60 anni, costituzionalista a Roma Tre e firma del Corriere e di L'Espresso, è così vero che ci ha scritto sopra un libro, appena uscito per Einaudi: La piccola eguaglianza.
Domanda. Professore, lei nella prima parte del libro elenca tanti esempi di diseguaglianza diffusa che possono avvelenarci la vita. Perché?
Risposta. Intanto perché, come tutti, non vivo sulla Luna, ma sulle strade, anche difficili, di una città come Roma. La molla, insomma, viene dal mio vissuto.
D. In che senso?
R. Per esempio, qualche anno fa, per una serie di contravvenzioni non pagate, dato che non mi erano mai state notificate, mi sono trovato la casa ipotecata.
D. All'insaputa...
R. Esatto. L'ho scoperto andando in banca a chiedere uno scoperto irrisorio ma per il quale occorreva al funzionario una visura patrimoniale.
D. E che successe?
R. Che la direttrice mi chiamò dicendomi: «Professore, non possiamo, perché lei ha la casa ipotecata». E quando risposi che ne ero consapevole, avendo acceso un mutuo per acquistare proprio quell'abitazione, la direttrice mi spiegò che si trattava di un'altra ipoteca. Ne scrissi sul giornale e finii in tv per quella vicenda, con l'Agenzia delle entrate che mi rispose. Ho sperimentato anche io la mia dose di ingiustizia.
D. E quindi si è applicato, di buzzo buono, a catalogare un bel po' di misfatti.
R. Sì, ma il senso di questa brutta favola è che molta parte del malanimo e del risentimento del cittadino verso chi ci governa nasce anche dallo stillicidio di vessazioni burocratiche e fiscali, come quelle dei molti casi che cito. Alcune delle quali derivano anche da una falsa idea di eguaglianza, che non distingue fra casi diseguali.
D. Per esempio?
R. Per esempio che se a me fanno una multa da 100 euro e la fanno al pensionato da 500 al mese, la cosa può apparire giusta, ma non lo è.
D. C'è un errore prospettico. Ma lei lo ripete spesso nel libro, quando cita don Lorenzo Milani, il quale diceva che non si può far parti uguali fra diseguali. O Anatole France..
R. Sì, quando diceva che «la legge, nella sua maestosa equità, proibisce tanto ai ricchi quanto ai poveri di dormire sotto i ponti».
D. Esatto.
R. Ma, vede, io vengo interpellato anche due volte al giorno per parlare di legge elettorale.
R. E quindi?
R. E quindi ci sono questioni molto più centrali, come queste, che invece passano in sordina. Ora, è facile dire che la questione non riguarda solo l'Italia ma tutta l'umanità, ma si deve anche ammettere che, se non si affrontano e si temperano il più possibile le diseguaglianze fra Nord e Sud del mondo, avremo guerra, terrorismo e crisi economica. Perché va ricordato che la grande depressione del 1929 la avemmo quando negli Stati Uniti si registrarono punte di diseguaglianza mai viste prima. Senza dimenticare che le eccessive diseguaglianze, all'interno degli Stati sviluppati, generano il fenomeno dell'antipolitica.
D. Ci sono fatti, forse meno drammatici di quelli appena evocati, che sono più avvertiti di altri, in fatto di eguaglianza oggi. Penso alle differenze di genere per le quali oggi, in Italia, c'è una spiccata sensibilità.
R. Noi arriviamo sempre dopo e sempre tardi. E spesso facendo la caricatura di esperienza altrui.
D. Vale a dire?
R. Facciamo l'esempio di questo governo che quando si occupa delle differenze sessuali, meritoriamente peraltro, lo fa promuovendo in posizione apicali molte donne.
D. Allude alle molte ministre dell'esecutivo di Matteo Renzi?
R. Non solo a loro, penso anche ai vertici di Eni, Poste e Enel, con Emma Marcegaglia, Luisa Todini e Patrizia Grieco.
D. Non va bene?
R. Va benissimo, spesso un gesto è piú potente di una legge, perché la parità di genere, quando viene praticata nei fatti, anziché declamata in astratto, esprime un valore pedagogico, concorre a rovesciare il pregiudizio che ha fin qui ostacolato la piena emancipazione delle donne. Purché...
D. Purché?
R. Purché non diventi regola perenne, impermeabile rispetto alle situazioni e alle stagioni della storia. Purché non sia una regola di ferro, senza flessibilità, senza capacità d'adattamento ai casi della vita.
D. Le quote non van bene...
R. Le quote sono offensive perché, alla fine, impediscono la gara. Meglio l'affirmative action, ossia l'azione positiva, che consiste in un vantaggio di legge per la categoria svantaggiata. Ciò permette di rendere quella gara giusta senza negare la competizione.
D. È il sistema, cosiddetto dei goals, ossia nel dare un bonus di partenza in più a chi è penalizzato, per genere o appartenenza etnica.
R. Sì, bisogna battere quel pregiudizio sociale che, come un tarlo, lavora sotto la superficie, per cui una donna non può fare il primario. E il bonus aiuta, dopodiché quella donna deve dimostrare di essere brava.
D. In politica, si è fatto, nei congressi del Pd, ma anche nelle preferenze alle europee, col sistema dei ticket, un uomo-una donna.
R. Forse si potrebbe assegnare un pacchetto di preferenze automatiche alle candidate e poi comunque contare le preferenze complessive, ossia stabilire dei goals anche in quel caso.
D. Sempre in tema di attualità, nel libro lei si spinge a riproporre le gabbie salariali che, nel nome dell'eguaglianza, furono abolite nel 1969.
R. Certo, perché con uno stesso stipendio a Milano o a Ragusa, dove il costo della vita è molto diverso, si finisce per pagare qualcuno il doppio.
D. Lo dice anche la Lega di Matteo Salvini.
R. Massì, perché la sinistra ha scelto da tempo di non occuparsi più di diseguaglianze. Lo scrivo nell'ultimo capito: l'eguaglianza è orfana della sinistra, per cui lascia ai radicali il compito di declinare quel tema in fatto di religione, o a certi circoli liberali quello delle diseguaglianze economiche che hanno a che fare col sistema degli ordini professionali.
D. È accaduto perché la sinistra, sulla via del riformismo, ha finito per smarrire una certa idealità?
R. Temo di sì. Norberto Bobbio diceva che l'eguaglianza è la sua stella popolare e invece la sinistra si occupa ormai del giorno per giorno, della pratica quotidiana, del mettere gli uomini nelle poltrone. E ignora questo tema.
D. Senta, siccome questo profilo di sinistra si presta a evocare Renzi, osservo che con gli 80 euro il capo della sinistra ha fatto, secondo alcuni, una grande operazione di redistribuzione, ossia di giustizia.
R. È vero, stando ai governi a guida di sinistra, nessuno aveva messo in pista un'operazione così imponente, perché si è trattato di alcuni miliardi. Però...
D. Però?
R. Però è anche vero che si è data una banconota a una categoria più garantita di altre. C'è tutta una classe di persone senza reddito, che non incassano gli 80 euro. Come se si trattasse di persone perdute, non recuperabili. A meno che il messaggio non volesse essere anche di dare un po' di ossigeno al ceto medio.
D. Che lei, citando Amartya Senn, ricorda essere il motore della democrazia. Sempre sulla politica, lei rammenta le diseguaglianze diffuse fra elettori ed eletti. E cita il famigerato «uno vale uno» grillino.
R. Un'utopia inattuabile, però non sarebbe male arrivare almeno a «uno e mezzo vale uno», ossia bisognerebbe fare qualcosa per ridurre la distanza fra chi governa e chi è governato.
D. Propone di limitare i mandati, cosa che in Italia non è contemplata.
R. E invece negli Stati Uniti è rigorosa ma lo si potrebbe anche fare armando i cittadini di strumenti di controllo autentici come i referendum abrogativi che, da noi, sono figli di un Dio minore: il voto popolare, come nel caso dell'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti, può essere anche frodato.
D. Lei parla anche del cosiddetto recall, previsto in America e in Svizzera, ovvero la possibilità di richiamare gli eletti, praticamente di dimissionarli, quando indegni o inefficaci.
R. In maniera regolata, con una parte importante, circa un quarto, degli elettori, in modo che non siano a deciderlo tre persone al bar, e in un certo periodo, evitando così che non sia possibile innescare il meccanismo, da parte di chi perde, a pochi giorni dal voto.
D. Le devo fare anche io la domanda sulla legge elettorale, professore.
R. Prego...
D. Che tasso di ingiustizia c'è in questo Italicum, che alcuni vedono come il fumo negli occhi? R. Non entro nelle questione dei premi di maggioranza, ma osservo che avremo un partito col 54%, da una parte, e, dall'altra, una marmellata di partiti di minoranza perché, con una soglia al 3%, potranno entrare in tanti. Sarebbe stato meglio uno sbarramento dell'8%.
D. Ma non sarebbe stato più ingiusto?
R. Avrebbe ridotto e concentrato i partiti di opposizione e quindi creato una possibilità maggiore di controllo e di bilanciamento. Però, da costituzionalista, devo dirle che questa legge ha un altro problema, tale che Sergio Mattarella si potrebbe trovare in difficoltà a firmarla.
D. E quale, professore?
R. Che è tagliata su una camera elettiva quando, a oggi, ne abbiamo due. E la clausola di salvaguardia, che ne prevede l'applicazione solo dopo il 2016, non regge. Nessuno può garantire che, a quella data, la riforma del senato sia andata in porto.
D. Un libro, professore, che contiene molti ragionamenti politici, alla fine.
R. L'altro giorno, presentandolo, Laura Boldrini, Giovanni Pitruzzella e Massimo Giannini mi hanno detto tutti, più o meno, che sembra quasi un manifesto politico.
D. E lei?
R. Ho tranquillizzato tutti. Non fondo un partito (ride).
L’ANTIPOLITICA E LE SUE VITTIME. IL PACIFISMO.
L’antipolitica ha fatto un’altra vittima: il pacifismo, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Non si riesce a capire come mai in Italia non ci sia nessuna reazione politica alla guerra di Israele in Palestina. Non dico a livello di governo, o di diplomazie. Dico in piazza. Dove sono finiti i pacifisti, dove sono i movimenti, le associazioni, il popolo arcobaleno? Svaniti. Eppure l’Italia è sempre stata la terra d’elezione del pacifismo. Dagli anni Cinquanta. Prima perché c’era un fortissimo pacifismo anti-americano, guidato dal Pci, dai socialisti e anche dai radicali e dai laici di Capitini. Poi perché, dopo gli anni sessanta – con il Concilio, con Paolo VI e ancora con Woytijla – era cresciuto enormemente il pacifismo cattolico. Vi ricordate nel 2002 l’oceano pacifista che travolse Roma e scosse persino l’immaginazione del New York Times, che parlò di seconda potenza mondiale? Beh, roba del passato. Come mai? La spiegazione è molto semplice: l’avanzata inarrestabile dell’antipolitica. Noi magari talvolta pensiamo che l’antipolitica sia qualcosa che si oppone alle burocrazie, alle caste. Non è esatto. L’antipolitica si oppone alla politica, a tutta la politica, la detesta, la considera il male dei mali. E l’antipolitica si diffonde, si insinua nello spirito pubblico, lo modifica, cambia il senso comune e il modo di pensare del popolo. Non sono solo i signoroni del governo, i deputati, le vittime dell’antipolitica; sono anche i movimenti, le passioni dei movimenti, le capacità di analisi dei movimenti, delle associazioni, dei gruppi rivoluzionari. Pagano all’antipolitica lo stesso prezzo che pagano i ministri. Non c’è più la mobilitazione civile: c’è il vaffanculo. Non c’è più il grido di lotta, c’è lo sberleffo, la maledizione. Non c’è più il pensiero, c’è l’ira. Non c’è più il manifesto di Rossanda, Pintor, Gagliardi, Parlato. C’è Il Fatto. Guidato da un allievo di Indro Montanelli e del giudice Woodcock.
IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.
50% circa di astensione al voto; 5% circa di schede bianche o nulle; 25% di voti di protesta e non di proposta ai 5Stelle. Solo il 20% di voti validi (forse voti di scambio). Chi governa ha solo un elettore su 10 che lo ha scelto e si vanta pure di aver vinto. Che cazzo di democrazia è?
Elezioni 2015. Il partito invisibile, scrive Alberto Puliafito, direttore responsabile di "Blogo.it" e Carlo Gubitosa su “Polis Blog”. Un viaggio nel mondo di tutti coloro che non vengono raccontati dalla comunicazione politica, che non vengono rappresentati, che non votano. Dopo il voto regionale, la comunicazione politica si è concentrata, come al solito, su "chi vince". E hanno vinto tutti, chi per un motivo chi per l'altro. Noi, per un primo commento, ci siamo concentrati su chi ha perso. E fra i motivi della sconfitta annoveravamo l'impressionante tasso di astensionismo. I dati che proponiamo qui, grazie al lavoro di Carlo Gubitosa, dovrebbero, secondo chi scrive, essere pubblicati ovunque. Il giornalismo dovrebbe, una volta per tutte, dedicare i propri titoli alle rappresentazioni numeriche realistiche della situazione della rappresentanza politica in Italia, invece di rincorrere le dichiarazioni di Renzi, Grillo, Salvini o altri. Invece di pubblicare i tweet con il presidente del consiglio che gioca ai videogiochi, sapientemente diffusi da chi si occupa di comunicazione per conto di Palazzo Chigi, le gallery per fare click potrebbero essere, senza alcun problema – lo sappiamo che i click vanno fatti – gallery di grafici come questi. Guardare quelle fette grigie di non rappresentati fa rabbrividire ma è necessario per impostare una narrazione giornalistica corretta. Ecco perché, quando Carlo mi ha proposto questo lavoro, ho accettato con entusiasmo. Per offrire un servizio ai nostri lettori e per imparare io stesso. Questo è vero data journalism. Per i partiti contano i propri voti, per la politica contano solo i voti validi, per il ministero dell'interno contano solo gli elettori. E se invece provassimo a contare le persone? I grafici che nessuna formazione politica vorrà mai mostrarvi rivelano il peso numerico della "maggioranza invisibile", quella che non può, non vuole o non sa indicare una rappresentanza nelle urne. Sono gli astensionisti, i delusi dalla politica, ma anche gli stranieri e i minori, una fetta di popolazione che diventa “invisibile” nei sondaggi, nel dibattito politico e nelle analisi post-voto. Abbiamo provato ad analizzare i dati ufficiali del voto alle regionali incrociandoli con i numeri dell’ISTAT e aggiungendoci una semplice curiosità di partenza: scoprire cosa succede se oltre ai SEGGI ASSEGNATI e ai VOTI VALIDI misurati dalle percentuali iniziamo a contare anche i VOTI TOTALI (includendo anche chi ha votato scheda bianca, nulla o annullata), il NUMERO TOTALE DI ELETTORI (includendo anche chi è stato a casa), e anche il NUMERO TOTALE DI RESIDENTI, stranieri inclusi (per contare anche chi subisce le conseguenze delle decisioni politiche senza esercitare il diritto di voto). Per semplificare l’analisi del voto, operare una indispensabile sintesi sulla varietà di liste e di coalizioni presenti nelle varie regioni, abbiamo individuato sette macroblocchi politici per il conteggio dei voti validi: Renzisti - Berlusconiani - Salviniani - Grillisti - Sinistra - Destra - Altri. Sono state introdotte delle approssimazioni per eccesso che sovrastimano l’affluenza alle urne, ad esempio contando come due elettori anche il “voto doppio” espresso da una stessa persona per una lista e per il candidato presidente. Anche con queste approssimazioni, tuttavia, la consistenza numerica dei “non rappresentati” resta notevole. Trattandosi di nostre elaborazioni su dati ufficiali (con la fatica di dover trasporre numeri strappati a fatica da PDF, pagine web e ogni tipo di dato in formati non aperti che la pubblica amministrazione e’ stata in grado di produrre) non possiamo escludere refusi ed errori, e ringraziamo in anticipo tutti quelli che vorranno segnalarci eventuali imprecisioni.
La Campania e il partito della scheda bianca. Nel disinteresse generale (tanto le poltrone si sono già spartite) a ben quattro giorni dal voto arrivano i dati definitivi della Campania, dove chi conta le persone e non le poltrone registra 170mila tra schede bianche e nulle, un partito che vale il 7% dei voti validi, ben più del valore previsto dal sistema elettorale campano come soglia di sbarramento per le liste. Potremmo chiederci se questo 7% di Campani è composto da quella gente egoista, pigra e disinteressata alla cosa pubblica descritta dai partiti che fomentano l'astensionismo per poi demonizzare chi lo pratica, o più semplicemente si tratta di persone a cui è negata rappresentanza politica e quel minimo di alfabetizzazione necessaria a non farsi annullare la scheda. Un dettaglio interessante per la Campania è quello della lista "SINISTRA AL LAVORO", l'unica lista tra quelle esaminate finora ad avere un numero di preferenze inferiore a quelle ricevute dal candidato governatore, presumibilmente frutto di un voto disgiunto che ha indicato come candidato presidente quello di un grande partito di massa con maggiori probabilità di vittoria, ma ha voluto comunque esprimere un voto "ideologico" con preferenze di lista collocate nettamente a sinistra. A quanto pare, quando si tratta di scegliere un candidato col voto "utile" l'elettorato si sposta verso il centro e verso i partiti acchiappavoti, ma il nostro panorama politico potrebbe essere ben più variegato se si potesse esprimere un "voto di orientamento" per chi ci convince, in abbinamento al "voto utile" per chi ci dà maggiori probabilità di vincere. E' quello che nell'era pre-italicum e pre-porcellum avveniva col voto proporzionale di lista, che nel vecchio sistema elettorale si affiancava al voto maggioritario come "correttivo".
Il Veneto e il suo invisibile "partito migrante". In Veneto il dato di rilievo è il "partito dei senza voto", quel 21,9% di persone che pur vivendo in quella regione non può votare perché non ne ha ancora il diritto o perché essendo straniero quel diritto non ce l'ha mai avuto. Un blocco di elettori pressoché equivalente al 22,9% di astensionisti, a sua volta speculare al 22,9% di Salviniani, dove la componente migrante pesa per il 12,4% della popolazione residente, più del consenso raccolto dal PD che in questa regione si ferma al 12,1%. Il dibattito politico ci mostra a seconda degli schieramenti il ritratto di una regione Leghista, o di una regione dove trionfa il disimpegno e l'astensionismo, ma nessuna delle "fotografie politiche" mostrate dai mezzi di comunicazione di massa si allarga ai dati sull'intero insieme della popolazione, per mostrare la fotografia di una regione dove un veneto su cinque non può esprimere rappresentanza politica, e il 12,4% della popolazione residente con tutta probabilità sarebbe ben contento di prendere le distanze sia dal blocco leghista che da quello astensionista, esprimendo un "voto migrante" che molti temono, qualcuno auspica, ma nessuno si decide a garantire. Nel frattempo un qualunque italiano che si trasferisce in uno dei paesi dell'eurozona può istantaneamente godere di tutti i diritti civili e politici del paese che lo ospita, anche se non vi aveva messo piede fino al giorno prima, diritti che invece sono negati ai "veneti col passaporto sbagliato", anche se vivono e lavorano in Italia da anni.
Elezioni comunali 2015, l’Italia senza quorum: ecco i paesi allergici alle urne, scrive “Il fatto Quotidiano”. A Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. A Platì e San Luca, due centri reggini sciolti per mafia vince l'astensione: non si presentano candidati, figurarsi gli elettori. Nel Vibonese, a Spilinga, solo uno su dieci va a votare. E il sindaco non viene eletto. C’è un’Italia senza quorum. Mentre si affastellano analisi e reazioni sul dopo voto un piccolo pezzo di Paese ha preso il largo dalla politica. Sono i cittadini di piccoli e medi comuni che nel dieniego dell’urna hanno ingrossato il dato dell’astensione, fino a produrre risultati emblematici e paradossali. Tra i tanti spicca Castelvecchio Calviso, in provincia dell’Aquila, dove si è registrato uno solo voto valido e quattro schede bianche a fronte di 277 potenziali elettori. Cinque voti in tutto. Quorum, non pervenuto. Accade anche questo alle amministrative in Abruzzo: colui che, peraltro, era l’unico candidato, Roberto Di Pietrantonio della lista civica “Tricolore”, ha incassato un solo voto valido, a fronte di 2 schede bianche e 2 nulle. Il piccolo centro montano dell’Aquilano dovrebbe quindi essere retto da un commissario prefettizio reggente fino a nuove elezioni. Non è l’unico caso. Questa tornata è stata un tripudio di candidati, con quasi mille aspiranti consiglieri solo in Puglia. Ci sono comuni con numerosi candidati a sindaco, ma anche tanti comuni dove i candidati si contano sulle dita di una mano e anche meno. In Sicilia, ad esempio, c’è ne sono addirittura due con un unico candidato per comune. Si tratta dei candidati di due comuni del palermitano: Domenico Giannopolo, a Caltavuturo, e Giuseppe Abbate, a Lascari. Per potere essere eletti andava superato il quorum dei due comuni. E il quorum è stato raggiunto in entrambi i comuni del palermitano. Passando alla Lombardia il caso più strano, forse, è quello dei quattro candidati unici nessuno dei quali ha raggiunto il quorum. Sembrava una vittoria facile invece Daniele Boldrini, l’unico candidato sindaco che si è presentato alle elezioni a Brezzo di Bedero, comune con circa 1.200 abitanti della provincia di Varese, non è stato eletto per mancanza del quorum. E lo stesso è accaduto a Claudio Terzi che era l’unico in lizza a Filago nel Bergamasco, a Mario Locatelli, che correva da solo a Locatello (Bergamo) e a Massimiliano Sacchi a Giussago (Pavia). Vai a sapere il perché. Sono invece note le ragioni che hanno portato in Calabria a un risultato pari a zero: nessun sindaco è stato eletto in due comuni sciolti per mafia. Il turno elettorale del 31 maggio non ha portato all’elezione di un’amministrazione comunale a Platì e San Luca, due dei diversi centri reggini dove si tornava alle urne dopo un periodo di commissariamento a seguito dello scioglimento per infiltrazioni mafiose. A Platì non sono state presentate liste, mentre a San Luca ne era stata presentata una ma non ha raggiunto il quorum. Il 43,09 per cento dei cittadini che si è recato alle urne non è stato sufficiente a decretare sindaco Giuseppe Trimboli, a capo di una lista civica. Nell’unico comune capoluogo al voto, Vibo Valentia, a poche sezioni da scrutinare alla fine, Elio Costa si impone con oltre il 50 per cento sugli altri candidati, distaccando di oltre dodici punti il candidato de Pd Antonio Lo Schiavo. Tra i comuni con oltre quindicimila abitanti, a essere eletto con l’82,04 per cento è Pietro Fuda a Siderno (Reggio Calabria). Politico di lungo corso, era sostenuto dal centrosinistra. Primo partito nella cittadina jonica è il Centro Democratico che supera di poco il Pd. Vince l’Italia senza quorum anche a Spilinga, secondo quanto riporta il sito del Ministero dell’Interno, non si è raggiunto il quorum del votanti e le elezioni comunali non sono valide. L’unico candidato sindaco era Francesco Dotro, con la lista civica Insieme per Spilinga. Gli elettori complessivi sono 1.884 ed i votanti sono stati 576, pari al 30,57%. Dotro ha ottenuto 552 voti. Dieci le schede bianche e 14 le nulle. I cittadini, nonostante i movimenti estemporanei come i 5 Stelle che attraggono i voti di protesta, non vanno a votare e molti di quelli che ai seggi ci vanno presentano scheda bianca o, addirittura, annullano la scheda con segni di disapprovazione e scherno. Il messaggio è chiaro. Perché schifati dagli impresentabili presentati e/o da una democrazia ”virtuale” costruita nei salotti televisivi e dai TG in barba a qualsiasi forma di democraticità della comunicazione elettorale. Senza elettori non c’è democrazia e l’attuale offerta politica che c’è sul campo non riesce ad attrarre e a convincere gli elettori che non vanno più a votare. Altre offerte politiche sul campo sono ignorati, pur avendo una specifica proposta politica utile – se solo fosse possibile conoscerla e discuterla – a far uscire il Paese dalla sua ”flagranza criminale”. Vero è come «media di regime asserviti al governo» (ma io direi al regime della partitocrazia), hanno la gravissima responsabilità di negare – in modo sistematico – agli italiani di conoscere le proposte politiche di riforma e le visioni di nuovi leader. Tutto ciò porta il singolo, non avendo la forza dirompente, ad avere disgusto.
Il disgusto che porta a non andare più a votare. L'astensionismo è il vero vincitore delle elezioni regionali. E colpisce anche le regioni rosse, ma sono sempre di più quelli che ritengono la politica italiana impotente e incapace di risolvere i problemi. Mentre i flussi elettorali spiegano che i travasi di voti tra i partiti sono limitati. Il vero vincitore delle elezioni regionali 2015 è stata l’astensione, scrive Alessandro D’Amato su Next Quotidiano”. Su quasi 19 milioni di elettori chiamati alle urne, appena il 45%, 8 milioni e mezzo, ha espresso un voto valido ad una lista; oltre 9 milioni, il 48%, si sono astenuti. E la tendenza al non voto diventa sempre più impressionante nella crescita dei numeri, e comincia a colpire anche le aree più affezionate al rito elettorale. In queste tabelle pubblicate oggi da Repubblica l’Istituto Cattaneo analizza storicamente la crescita dell’astensione al voto dalle Regionali del 2010 fino a quelle del 2015 nelle regioni chiamate al voto. I ricercatori dell’Istituto Cattaneo Dario Tuorti e Maria Regalia hanno messo insieme le serie storiche del voto regionale confrontandolo con quello per le politiche ed europee. E alla fine cifre e grafici rivelano che l’astensionismo alle Regionali è ormai di lunga durata. Ma soprattutto che domenica si è manifestato in maniera più forte nelle “regioni rosse”. Il primato è della Toscana, dove rispetto alle politiche del 2013 c’è un calo dell’affluenza del 30,9%. Il raffronto con le Europee dell’anno scorso dice meno 18%. Anche nelle Marche manca all’appello il 30% per cento dei votanti delle politiche e il 15,8% delle Europee. E in Umbria le due percentuali dicono meno 24,1% e meno 15,1%. E anche in Liguria la disaffezione si è fatta sentire con un meno 10 per cento rispetto alle due precedenti tornate elettorali. Tuorti spiega che «il fenomeno si spiega con il fatto che in queste regioni c’erano aspettative molto elevate che sono state tradite. Ovviamente incidono anche la crisi che va avanti dal 2008 e gli scandali che hanno colpito i consigli regionali, la delegittimazione complessiva dell’istituto regionale». E in effetti, dicono al Cattaneo, anche se potrebbe sembrare un paradosso, gli elettori oramai percepiscono più importanti le elezioni Europee che quelle regionali. Interessante anche il ragionamento dei ricercatori dell’Istituto a proposito delle regioni del sud: «Nel passato – spiega Tuorti . una certa astensione esprimeva una forma di protesta verso il partito di appartenenza, un messaggio di disapprovazione. C’era insomma una forma di partecipazione attiva anche nell’astensione e si poteva tranquillamente tornare a votare al turno successivo». Oggi, continua il ricercatore del Cattaneo «siamo di fronte ad una massa di elettori che scivolano dall’astensionismo “attivo” verso l’altra forma, quella dell’apatia che tende a tenerli costantemente lontano dai seggi. I cittadini cominciano ad essere sempre di più disillusi davanti alla mancanza di risposte».La cosa grave di questo fenomeno -continua il ricercatore del Cattaneo, «è che l’astensionismo non è distribuito equamente fra le diverse fasce degli elettori,ma rappresenta solo certe fasce sociali che coinvolge disoccupati, marginali non garantiti». Ancora più interessante è l’analisi dell’istituto Demopolis presentata ieri a Otto e Mezzo nel Punto di Paolo Pagliaro. Nella prima tabella si nota che anche nel computo dei votanti c’è chi ha scelto di votare solo per il governatore o ha espresso un voto non valido. Si tratta del 7% del computo totale dei voti, e anche qui si tratta di persone che hanno scientemente deciso di non votare per un partito pur presentandosi alle urne. Ancora più interessante è la tabella delle motivazioni che fa parte dell’analisi dell’istituto. Il 40% ha deciso di non andare a votare perché, a suo parere, la politica in Italia non incide più sulla vita reale dei cittadini. E qui sarebbe interessante chiedere a chi ha risposto in questo modo se invece ritiene che la politica europea sia più incisiva di quella italiana nella vita dei cittadini: la sintesi del ragionamento sarebbe stata più interessante. Il 27% invece dice che non si sente rappresentato dai partiti votati in precedenza, mentre il 25% ha scarsa fiducia nei candidati a livello locale. Rimane un buon 8% che dice che l’esito delle elezioni appariva scontato, e quindi probabilmente si presenterà alle urne in occasioni in cui ci sarà un maggiore equilibrio alle urne o si voterà per le elezioni politiche. Infine, l’istituto Demopolis analizza i flussi elettorali del Partito Democratico, del MoVimento 5 Stelle e della Lega di Salvini: Quasi tutte le liste sono risultate fortemente penalizzate dall’astensione in termini di voti assoluti. Secondo l’analisi dei flussi elettorali e sugli spostamenti del consenso, realizzata dall’Istituto Demopolis, su 100 elettori che avevano scelto il PD alle Europee del maggio scorso, 62 hanno rivotato nelle 7 Regioni il partito di Renzi o le liste dei candidati Presidenti; 8 hanno preferito altre liste, 3 elettori su 10 hanno optato per l’astensione. Quadro non dissimile quello del Movimento 5 Stelle: 6 su 10, tra quanti avevano votato Grillo alle Europee, hanno confermato il voto al Movimento alle Regionali, 11 su 100 hanno scelto altre opzioni; 29 su 100 sono rimasti a casa. L’Istituto diretto da Pietro Vento ha analizzato la composizione del consenso al partito di Salvini in base al voto espresso alle Europee: su 100 elettori odierni alle Regionali (quasi un milione e 300 mila incluse le liste Zaia), poco più di 500 mila avevano già scelto la Lega un anno fa. 8 su 100 avevano votato il M5S, 5 il PD, 14 altre liste o si erano astenuti. Secondo l’analisi post voto di Demopolis, 33 su 100 degli attuali elettori leghisti avevano scelto Forza Italia alle Europee. Un flusso che conferma, anche a livello regionale, i mutati equilibri nell’area di Centro Destra.
Vince l’astensione: siamo noi giovani a non votare più. Il partito dell'astensione cresce a ogni elezione di più. Ma è un problema che va affrontato, perché riguarda soprattutto i più giovani. Troppo lontani dalla politica, scrive Michele Azzu su "Fan Page". “Il vero vincitore è l’astensionismo”, anche a queste elezioni regionali ripeteremo questa solita frase fatta per chissà quanto tempo. Frase che, elezione dopo elezione, sembra sempre più veritiera. Alle elezioni regionali di Veneto, Campania, Marche, Umbria, Toscana, Puglia, Liguria ha votato solo il 51.4 per cento degli aventi diritto. Nel 2010 era il 64 per cento: si sono persi il 10 per cento di voti. Una persona su due non ha votato, e questa volta non è stato certo per colpa del bel tempo e delle gite di primavera: nel fine settimana ha piovuto in quasi tutto il paese. È un dato che fa spavento. Confrontiamolo coi dati delle più recenti votazioni del nostro paese. Lo scorso novembre si votava alle regionali in Emilia Romagna e Calabria. Anche in quel caso l’affluenza al voto fu bassissima: in Emilia Romagna votò il 37.7 per cento contro il 68 delle elezioni precedenti, e contro il 70 per cento delle europee di solo sei mesi prima. Sono 30 punti percentuali in meno. In Calabria a votare furono il 43.8 per cento degli aventi diritto contro il 59 per cento del 2010 (15 per cento in meno). Alle scorse elezioni europee, invece, l’affluenza fu più alta: circa il 60 per cento degli aventi diritto. E alle scorse elezioni politiche? Quelle del giugno 2013, in cui vinse per un soffio il PD guidato da Pierluigi Bersani che poi però non andò mai al governo. In quell’occasione, votò il 55 per cento degli elettori rispetto al 62.6 per cento di cinque anni prima, nel 2008. Le elezioni hanno ormai imparato a convivere con alti tassi di astensionismo. E allora, se va così dappertutto, forse è un segno dei tempi. Chi non vota rinuncia coscientemente a un proprio diritto – dirà qualcuno – e allora perché porsi il problema? L’astensionismo è un problema perché il dato della disaffezione al voto riguarda principalmente i più giovani. Certo, è ancora presto per avere i dati precisi da queste votazioni, ma sappiamo già che è a loro che riguarda questo 48 per cento di astensione. Ce lo dicono i dati delle elezioni più recenti. Alle recenti elezioni europee – quelle del tanto sbandierato 41% di consensi al PD – trionfò proprio l’astensione dei giovani. Mentre, come dicevamo, il dato di affluenza rimase discreto, con circa il 60% di votanti, in tutta Europa solo il 28% dei giovani europei andò a votare. “Le elezioni europee del 2014” hanno mostrato che esiste ancora un alto livello di astensione, con solo il 28% dei giovani fino ai 25 anni che si è recato a votare”, commentava Johanna Nyman, presidente dell’European Youth Forum. In Italia solo il 40% dei giovani è andato a votare alle europee. E alle politiche? Secondo il Centro Italiano di Studi Elettorali, alle ultime politiche del 2013 l’astensione ha riguardato principalmente i giovani. “Con l’eccezione di Torino, emerge che i neoelettori sono stati più propensi all’astensione”, scrive l’ente accademico. “In misura marginale nella capitale, più significativa a Milano e Firenze e ancor più spiccata a Palermo. Nel capoluogo siciliano, quasi la metà dei cittadini fra i 18 e 24 anni ha deciso di astenersi”. in foto: l'astensione dei giovani alle elezioni europee 2014 Anche il presidente del Senato Pietro Grasso si è rivolto in questi giorni ai più giovani, invitandoli a votare: "Alcuni di voi domenica saranno chiamati per la prima volta ad esprimere il proprio voto alle elezioni amministrative: fatelo, non lasciate che siano altri a decidere per voi". Ma non c’è niente da fare: ai più giovani votare non interessa. È davvero così difficile capire perché? Così come per la elezione del Presidente della Repubblica, il momento del voto non viene ritenuto capace di cambiare qualcosa di significativo nella vita di tutti i giorni, e viene vissuto come una cosa lontana e irrilevante. Una scocciatura. Ma cosa è ritenuto rilevante dai giovani d’oggi? Se è difficile capire perché i giovani si disinteressano della politica, e del voto, forse possiamo chiederci cosa interessa i giovani. Una recente ricerca del programma Erasmus – che da ormai 20 anni permette ai giovani universitari di studiare per un anno in un altro paese dell’Unione Europea – ha di recente pubblicato i risultati di un sondaggio esteso alla popolazione di ex e attuali studenti migranti. Giovani laureati e di respiro europeo, insomma, proprio quelli da cui ci si aspetterebbe un interesse alla politica. Secondo i risultati del sondaggio le priorità dei giovani Erasmus sono crescita e posti di lavoro, col 60 per cento di preferenze. Al secondo posto vengono le preoccupazioni sui cambiamenti climatici. Al terzo posto la lotta alla corruzione. Dati molto simili a quelli raccolti durante le ultime elezioni politiche italiane dalla campagna “Io voto”, realizzata dall’emittente televisiva Mtv. Secondo cui il 74 per cento dei giovani associa la politica alla corruzione, il 67 per cento a una sensazione di disgusto. Per il 60 per cento la classe dirigente italiana è considerata: “anacronistica e incapace di rinnovarsi”. L’astensione al voto cresce ogni elezione di più. E riguarda principalmente i giovani. Laureati, occupati, disoccupati, nelle grandi città come alla provincia del sud. Cambia poco. Perché ai giovani, oggi, interessa porre fine alla corruzione, interessa trovare lavoro, e migliorare le condizioni in cui si lavora. Ai giovani interessa porre riparo al riscaldamento globale che sta modificando la temperatura del pianeta, e quindi la fuoriuscita dai carburanti fossili, la ricerca di stili di vita più sani. Di tutte queste cose nei manifesti elettorali non si è trovata traccia: non alle europee, non alle politiche più recenti, non a queste regionali. Perché la politica non parla ai giovani, non è fatta dai giovani, e ai giovani non pensa proprio. Non a caso il Movimento 5 Stelle rimane il primo partito fra i giovani. Perché è un soggetto nuovo, che ha fatto della lotta alla corruzione la propria bandiera, così come le battaglie per l’ambiente, e per il reddito di cittadinanza – anche se sul lavoro latita. Ma questo dato di astensione, prima ancora dell’esito negativo della Liguria, Campania e Veneto, non è una grande sconfitta per Matteo Renzi, che ha solo 40 anni e che doveva rottamare la politica dei vecchi e dei poteri forti? E riportare i giovani alla politica? Dalle regioni, fino al governo, passando per le europee, insomma, dove diavolo è la politica che dovrebbe interessare i giovani?
Votano pochi anche in Germania. In Italia non si vota per disgusto, in Germania per noia, scrive Roberto Giardina su “Italia Oggi”. Perché preoccuparsi dell'astensione di domenica scorsa in Italia? Avviene così altrove, perfino in Germania. Metà dei votanti è rimasta a casa? Claudio Velardi cita la Baviera, ma, per la verità, qui in Germania, all'ultimo appuntamento elettorale, l'astensione si è fermata al 46%. Comunque è vero, a casa della Merkel gli elettori sono sempre più pigri, nelle elezioni dei Länder, le regioni, si continua a calare, sfiorando il 50%. Soltanto che qui ci si preoccupa della pigrizia elettorale. I nostri politici fanno finta di niente. Ma le cause sono diverse: i tedeschi disertano le urne per noia, gli italiani, temo, per disgusto e rassegnazione. Nel '72, al primo voto anticipato nella storia della Repubblica Federale, che era una sorta di referendum su Willy Brandt e la sua Ostpolitk, andò a votare oltre il 90%. Nel 2013, al terzo round per Frau Angela, fu il 71,5, un 1,3 in meno rispetto a quattro anni prima. Ma l'esito era scontato: una Grosse Koalition, una grossa coalizione. E se i due grandi partiti si alleano dopo il voto, perché devo andare alle urne? Inoltre, il programma della sinistra socialdemocratica e dei conservatori della Cdu-Csu è diverso soltanto per sfumature. Quanti sperano che se nel 2017 ci sarà un cancelliere socialdemocratico cambierà la politica europea di Berlino, avrà un'amara sorpresa. Un'altra considerazione: la Germania è uno stato federale basato sulla storia. In Italia, la riforma delle regioni è stata abborracciata per populismo e per accontentare Bossi. I Länder corrispondono agli antichi stati tedeschi prima che Bismarck riuscisse a creare il Reich. Alcune regioni come la Baviera sono immense, e il Land meridionale ha un pil superiore a quello di Olanda e Belgio messi insieme. Altre sono minuscole come di Amburgo o di Brema, le città dell'Ansa. Da noi, le Repubbliche marinare hanno forse una coscienza, come dire?, nazionale più antica di un Molise. Dovremmo avere una regione delle Due Sicilie, e anche il Granducato di Toscana, mentre la Padania non è mai esistita (quando lo scrisse mio fratello, lo storico, credendo di dire un'ovvietà, fu minacciato di morte). Infine, le preferenze. Io, come ex abitante di Roma, non ero chiamato alle urne domenica. Ma se avessi dovuto votare in Liguria, o nel Veneto, o in Campania, sarei rimasto a godermi il weekend di tarda primavera a Berlino. Non avrei mai potuto votare per la signora Moretti, né per i suoi avversari. Neanche per la signora Paita a Genova, o per De Luca, in Campania. Anch'io sarei entrato nel branco degli astensionisti, ma per costrizione e non per libera scelta, per noia, o pigrizia. In Germania, a livello nazionale, il sistema del doppio voto è geniale. Il primo, va al partito, e con questo si eleggono i candidati presentati dai partiti, con una lista chiusa come tanto piace ai nostri leader che non sopportano i gusti degli elettori. Ma il secondo voto è personale per un candidato di nostro gradimento, anche di un altro partito. Allora la Cdu o l'Spd devono stare molto attenti nel compilare la loro lista, ed evitare di essere punite alle urne. Infine, il nuovo Senato che Renzi sostiene sfacciatamente di aver copiato dal Bundesrat tedesco, la camera delle regioni. Da noi sarà formato da senatori designati dall'alto, scelti nelle regioni. In Germania vi partecipano i rappresentanti dei Länder, che già fanno parte dei parlamenti regionali, in proporzione ai risultati locali. Il Bundesrat ha diritto di veto su tutte le leggi del Bund, la federazione, che hanno importanza locale. Quindi su quasi tutte, dai trattati firmati a Bruxelles alla proroga o chiusura delle centrali atomiche. Votando nelle regioni in momenti diversi, al Bundesrat si forma, di solito, una maggioranza di segno opposto rispetto al Bundestag, il parlamento federale. Per ogni legge, o quasi, il governo è dunque costretto a sentire il parere dell'opposizione. Si crea una sorta di Grande coalizione non ufficiale. Un voto di Land è influenzato ovviamente dalla situazione locale, ma nessun politico a Berlino oserebbe commentare ciò che non riguarda il governo centrale. Quando Schröder avviò la radicale riforma dello Stato sociale, dovette trattare con i cristianodemocratici. E quando la Merkel lo battè e divenne cancelliera, non poté, e neanche volle, riformare le riforme del predecessore, perché realizzate con il consenso del suo partito. Un sistema che favorisce la continuità. In Germania chi ha la maggioranza non fa quel che vuole, come si sostiene a parole in Italia. Ma questo principio non può essere garantito dalla legge. Dipende dalla coscienza democratica.
I GRILLINI CANTANO VITTORIA. MA ANCHE LORO FAREBBERO BENE A CHIEDERSI PER CHI SUONA LA CAMPANA, scrive Antonio de Martini su “Il Corriere della Collera”. Un lettore mi ha scritto ripetutamente invitandomi a commentare la vittoria del movimento cinque stelle alle recenti elezioni. Turani nel suo giornale presenta questi numeri:
1) Alle elezioni politiche del 2013 , nelle stesse sette regioni in cui si è votato, il movimento cinque stelle raccolse 3.274.571 suffragi.
2) Alle elezioni Europee del 2014 , sempre nelle stesse regioni, gli elettori scesero a 2.211.384.
3) Alle regionali appena trascorse i votanti 5 stelle sono stati 1.320.885.
Sempre che la matematica non sia diventata di parte anch’essa, il movimento 5 stelle non ha avuto un successo, ma una perdita di votanti che si sono dimezzati rispetto alla prima apparizione sulla scena politica. Molti cittadini cercano di illudersi e vedere in “ogni villan che parteggiando viene ” il messia salvatore che rimetta le cose a posto senza che ci si scomodi più di tanto. Un voto, una richiesta di favori e via….Ebbene, non è così. Non è più così. La tendenza chiara ogni giorno di più è che dal 1976 in poi la sola cifra in crescita alle elezioni è quella dei cittadini che si rifiutano di essere presi in giro da questi ladri di Pisa che di giorno litigano e di notte rubano assieme. I cittadini che si astengono dal voto e di cui tutti fingono di non capirne le motivazioni. Il Cardinale Siri ( arcivescovo di Genova, città che si appresta a subire l’ennesima delusione) – mi dicono – ebbe un bon mot: ” esiste personale politico di due tipi: quelli che rubano per fare politica e quelli che fanno politica per rubare. Da un po' vedo in giro solo questi ultimi”. Appunto. Arrestarli? Inutile. Sono più numerosi dei carabinieri e in costante crescita. Per uscire da questo maleolente pantano è necessario che tutti i cittadini – dopo aver fatto il proprio dovere – decidano di esercitare i loro diritti costituzionali partecipando alla vita nazionale in forma attiva, propositiva e continuativa. Ad ogni livello. Fino a che aspetteremo il “deus ex machina”, la “rigenerazione” ed altre minchiate consimili resteremo dove siamo. Tra tutte le soluzioni miracolistiche proposte, quella di far governare l’Italia da un gruppo di giovani somari è la più stravagante. I dirigenti della Nuova Repubblica dovranno essere selezionati uno a uno in base al sapere, all‘esperienza e sopratutto al carattere. Oggi si scelgono in base alla fedeltà, l’ignoranza e alla disponibilità al compromesso. La politica delle etichette (delle camicie, dei distintivi ecc) si addice ai prodotti commerciali, non alle persone.
L'utopia dell'onestà e la demagogia della proposta politica irrealizzabile, presentata come panacea di tutti i mali, sono le prese per il culo che il cittadino non tollera più.
Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite. La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor. Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno. Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte. Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo. A proposito dei rapporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa? Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia. Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.
Onestà (e non solo) la risposta politica contro la corruzione. Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, bisogna chiedersi perché nulla sia cambiato: come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. «Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale. L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica. Dopo vent’anni di inchieste giudiziarie sulle malefatte dei politici e di denunce della corruzione formulate anche in sedi autorevolissime (dai più alti scranni della Repubblica al soglio di Pietro), ancora a questo punto siamo? Questo è ciò che mestamente devono essersi domandati tanti italiani, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa quanto meno ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile ma che andrebbe superato, per cominciare a chiedersi se non ci sia stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui per tanti anni abbiamo evocato la «questione morale». Una parte del mondo politico e dell’informazione, prevalentemente orientata a sinistra, lo ha fatto, ad esempio, accreditando l’idea che ad essere disonesti fossero gli «altri», i politici - e dietro di loro, si lasciava intendere, gli elettori - di centrodestra. Era l’idea di una frattura antropologica tra destra e sinistra che, prima ancora di Mafia Capitale, altri scandali bipartisan si sono incaricati di dimostrare infondata; ma è tuttavia un’idea cui una parte del Paese ha creduto a lungo, evitando anche per questo di riflettere seriamente sulle ragioni per cui in Italia guardiamo spesso con indulgenza e comprensione a certi comportamenti illegali. Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi - appunto - politici. Invece - ecco un altro errore di questi decenni - il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva. Le notizie che si vanno pubblicando sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là di quelle che saranno poi le risultanze finali dei processi e al di là della congruità (per molti dubbia) del riferimento alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivamente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica, che avrà avuto molti difetti ma non questo. Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmente. Tranne evidentemente nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei «capibastone» (il termine era usato tre mesi fa da Fabrizio Barca in quella sua diagnosi sul Pd romano «pericoloso e dannoso» di cui forse i vertici del Nazareno avevano sottovalutato la drammaticità). Se le cose stanno così, i partiti - e in primo luogo, il principale partito di governo - non possono limitarsi alla (ovvia) esortazione affinché la giustizia faccia il suo corso, ma dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolare, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalmente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria. Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.
Nel paese dove è inutile essere onesti. La politica è da sempre incapace di fare pulizia prima che arrivino le inchieste giudiziarie. Così si arriva alle liste compilate con criteri discutibili, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. Elezioni all'insegna del “in fondo sapevamo già tutto”, le Regionali di domenica scorsa. Certo, banalizzare l’esito del voto talvolta può essere un’operazione scontata, ma non in questo caso, in cui le premesse dicevano già molto. Ma non le premesse dei sondaggi, non i dibattiti sui giornali, non i comizi da talk show. Bensì gli umori in strada, i discorsi tra le persone, la delusione da bar. Eh sì, perché ormai le “chiacchiere da bar” è in questo che si sono mutate, in “delusione da bar”. Alla politica ormai si applica la stessa “sindrome Trapattoni” che il nostro paese conosce per il calcio: tutti allenatori e tutti delusi dalla classe politica. Abbiamo letto ancora una volta titoli come “Il vero vincitore è l’astensionismo” che mette in luce quel 52% di affluenza al voto che ormai non scandalizza più. E se in Italia la politica, tutta, non cambia rotta - ma evidentemente non lo farà - è un dato destinato a decrescere soprattutto se alle urne si è chiamati in una domenica di sole, la prima dopo freddo e pioggia. Ma cosa significa cambiare rotta? Significa forse non candidare “impresentabili”? Significa forse smetterla di assecondare le pulsioni più ancestrali come la difesa del proprio nido dallo straniero aggressivo ma soprattutto diverso? Significa smetterla di credere che determinate regole valgano per gli altri e non per noi? Significa pesare ogni parola, ogni esternazione pubblica, e farlo sul serio? Significa iniziare a dialogare con la società civile e farlo non mettendosi alla lavagna, gessetto in mano, a dare lezioni? Tutto questo, ma significa anche non dare per morta una forza politica quando non lo è: per 20 anni in Italia abbiamo visto vincere il berlusconismo senza davvero riuscire a spiegare al paese come potesse accadere. Il voto di scambio non può essere un alibi che la parte “buona” della società, dell’informazione e della politica trova ogni volta per giustificare le proprie incapacità. La vittoria di Giovanni Toti in Liguria dimostra quanto abbiamo visto ormai talmente tante volte da poterlo considerare in fondo un copione già scritto: una forza politica data per morta può farcela contro una forza politica data per viva, ma divisa. Ed ecco che Berlusconi è stato ancora una volta in grado di unire, assecondando utili convenienze come ai bei tempi. Tutti quanti a parole sono contro una fantomatica “Sinistra” che dal 1989 esiste solo nei discorsi e nelle fantasie del satrapo di Arcore. Ed ecco il PD, ancora una volta, ha consapevolmente perso in Veneto e la Liguria e ha vinto in Campania chiudendo tutti e due gli occhi sulla candidatura di De Luca. Ed ecco il M5S, che per la prima volta ha fatto campagna elettorale senza gli eccessi verbali di Beppe Grillo, ha recuperato parte del voto moderato e si è attestata come terza forza politica del Paese. A Napoli con un’unica lista ha sfidato due coalizioni ottenendo risultati encomiabili con 20 mila euro di campagna elettorale provenienti da donazioni private. Come accade che un movimento dato per defunto risorga dalle proprie ceneri, o meglio, dalle ceneri con cui lo avevano erroneamente ricoperto? Il M5S è nato come movimento di protesta e di cambiamento. Non essendo ancora mutato nulla, nonostante la rottamazione, resta un catalizzatore di consenso che si nutre di sfiducia verso tutto il resto. È l’unica forza politica ad aver mantenuto fermo un punto essenziale: candidare solo chi non abbia pendenze giudiziarie. Per un garantista come me non è ammissibile pensare che se sono sotto processo perché il mio cane avrebbe morso un passante e ancora non sono stato né assolto né condannato, questo possa rappresentare motivo di incandidabilità. Ma l’umore in Italia è questo: “Se hai problemi con la giustizia, senza entrare nel merito, noi non ti vogliamo a rappresentarci. Punto”. Alla fine si è diventati più realisti del re, a causa dell’incapacità che la politica italiana ha da sempre di fare pulizia prima che arrivino inchieste giudiziarie o Commissioni parlamentari antimafia. Perché alla fine non basta più il buon senso, ma occorre, per catalizzare fiducia, ricorrere a metodi estremi. E ormai anche io, da osservatore, non so davvero se temere di più la retorica dell’onestà o che si realizzi quanto disse Corrado Alvaro: «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».
La finanza, gli impresentabili e i parrucconi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questo paese di parrucconi è veramente una schifezza. Parrucconi buoni solo a declamare principi favolosi di onestà, correttezza ed eticità ci sono sempre stati per carità. Il problema è che abbiamo sempre pensato che sotto queste profumate parrucche, si celassero solo teste di rapa. Alzi la mano chi è a favore della disonestà? Faccia un passo avanti chi è favore della corruzione? Nessuno è ovvio. Il nostro parruccone moderno fa di più, questiona i quarti di nobiltà. Tipo alla Caccia. Vabbè tutti sapete della genialata democratica della commissione antimafia, guidata da Rosy Bindi. Non è pietanza da Zuppa, ma nel Giornale se ne parla. Eccome. Mentre la Bindi e soci si incipriavano la parrucca, anzi il parruchino, pensando a chi potesse entrare nella lista degli impresentabili, a Roma si teneva l’assemblea dell’Enel. Una delle più importanti società italiane e tra i leader mondiali dell’energia elettrica. Cosa decidevano gli azionisti dell’Enel? I soliti conti e ricchi dividendi. Ma anche (brevina sui giornali) di allentare la cosiddetta clausola di onorabilità dei propri amministratori. In sostanza, fino a ieri, se un membro del cda dell’Enel fosse stato raggiunto da un avviso di garanzia e poi rinviato a giudizio, si sarebbe dovuto dimettere subito dalla società.. Ebbene ieri l’assemblea, quasi al 100 per cento, approvava l’allentamento della norma: non basta il semplice rinvio a giudizio, ma è necessaria almeno una condanna in primo grado. Tutto bene quel che finisce bene dunque. Mica tanto. E così ritorniamo alle parrucche. Questa assurda clausola societaria non è stata introdotta ai tempi del fascismo, ma l’anno scorso dal ministro del Tesoro di Renzi. Gli uomini di Padoan, in rappresentanza appunto delle quote detenute in Enel, Eni, Finmeccanica e Terna, si erano presentati nella primavera del 2014 nelle assemblee delle società partecipate proponendo l’introduzione negli statuti della tagliola. Tutte le più importanti società avevano poi bocciato la proposta del Tesoro in assemblea. All’Enel ciò non avvenne, anche perché in quell’assemblea c’era rappresentato solo il 52% del capitale e il Tesoro da solo ne deteneva più del 30. L’enel fu l’unica dunque a diventare il fenomeno della legalità. La baggianata era talmente grande che i fondi internazionali, quelli che una certa pubblicistica avrebbe voluto a favore di questa norma statutaria, votarono in maggioranza contro alle volonta etiche del Tesoro. Chiunque abbia parlato con questi investitori sa che sono più preoccupati del funzionamento della giustizia italiana (che non nega un rinvio a giudizio a nessuno) che dell’onorabilità dei manager delle grandi società quotate. L’Enel peraltro ha poi applicato questa norma ad un suo consigliere rinviato a giudizio (Salvatore Mancuso) che con il nuovo statuto approvato ieri non avrebbe dovuto fare alcun passo indietro. Ora infatti serve come minimo una condanna. Qual è la morale di questa storia? Da parrucconi. Perché il tesoro del governo Renzi l’anno scorso fa il giustizialista con le sue partecipate (colpo che gli riesce solo all’Enel dove i fondi internazionali non riescono ad opporsi) e dopo solo un anno fa marcia indietro? Non che la norma fosse meno assurda nel 2014: da Scaroni, all’epoca all’Eni, ai grandi gestori dei fondi, tutti avevano spiegato la pericolosità della norma a Renzi&co. Eppure gli uomini di Padoan continuarono per la loro strada, per poi cambiarla, alzando la manina in assemblea, un paio di giorni fa. Ritornando al principio. Viene da pensare che il Tesoro nel 2014 si sia comportato come la Commissione Bindi (quella che si dovrebbe occupare di mafia) si comporta oggi. La stessa commissione che dalla parti di Renzi oggi viene così fortemente criticata. E vai con il cambio di parrucche. Olè.
Il rapporto che fa tremare Angela Merkel: anche i tedeschi imbrogliano l'Europa, scrive Libero Quotidiano”. Non siamo i soli nella lista dei Paesi europei in cui si è registrato e perseguito il maggior numero di frodi a danno dei fondi europei. Con noi ci sono anche Bulgaria, Spagna, Belgio e, sorpresa, la Germania. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) presentato a Bruxelles, dal direttore, Giovanni Kessler. "Nel 2014 - si legge nel rapporto - si sono raggiunti risultati eccellenti nella lotta contro le frodi nell'Unione: un anno record con il numero di raccomandazioni più alto, ben 1417, dalla sua creazione. L'Olaf avvia, in media, il 60% di indagini in più rispetto al 2012. Solo nel 2014 ha raccomandato alle autorità nazionali della Ue il recupero di ben 901 milioni di euro, fondi che dovrebbero essere progressivamente restituiti al bilancio europeo, contribuendo a finanziare altri progetti". Complimenti da Kessler alla nostra Guardia di Finanza: "La nostra struttura ha con la GdF una cooperazione eccellente, ormai tradizionale, che ha portato ottimi risultati. Un rapporto molto forte e proficuo che spiega anche i tanti casi di indagini. Con loro s'è stabilito un circolo virtuoso di scambi di informazioni che purtroppo non troviamo in altri Paesi". Dall'Italia sono arrivate 42 segnalazioni di frode. Ma l'Oscar delle truffe spetta alla Romania, con 79 casi. In classifica Bulgaria (59), Spagna (56), Belgio e Polonia (52), Germania (35), Slovacchia (12). In Estonia e in Svezia non è stata invece riscontrata alcuna irregolarità è stata riscontrata.
"Me lo merito un Rolex?". Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.
Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!
Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e, distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.
Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti. Facciamo di tutto per dimostrare di essere i peggiori, ma in altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre. La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia. Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle. La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.
LA LIBERTA'.
La libertà? Bella storia Iniziata 40mila anni fa, scrive Dino Cofrancesco su “Il Giornale”. Nella Collana dell'Istituto Bruno Leoni, Mercato, Diritto e Libertà, esce in traduzione italiana un saggio davvero esemplare, la Breve storia della libertà di David Schmidtz e Jason Brennan, con una Prefazione acuta e divertente di Guido Vitiello. Il titolo va preso alla lettera, non si tratta di una storia delle teorie sulla libertà ma di una storia della libertà. Nel loro rapido excursus, gli autori cavalcano i secoli con una competenza mai disgiunta da uno stile leggero e da un distacco ironico tipicamente anglosassone: dalla preistoria della libertà al rule of law apparso agli inizi dell'XI secolo, dalla libertà religiosa del secolo XVI alla libertà di commercio del secolo successivo, fino alla libertà civile, trionfante nel '900 e all'ultima frontiera, la libertà psicologica, il lettore entra nel vivo di una vicenda esaltante desinata a non concludersi mai e ne riporta un senso di gratitudine per chi gli ha consentito di chiarirsi le idee e di liberarsi da vecchie idee e inveterati pregiudizi. Schmidtz e Brennan, però, non si fermano alla storia ma nei sei densi capitoli del libro, mettono a fuoco il nucleo centrale della teorica liberale contemporanea in modo da dissipare i tanti equivoci che i fautori della comunità chiusa, soprattutto nel nostro paese, hanno riversato sulla «società aperta», sulla sua natura, sulle sue caratteristiche. A dare l'incipit non poteva non essere l'ombra di Isaiah Berlin, il filosofo delle «due libertà»: la libertà negativa - intesa come non impedimento, libertà da, posta alla base del liberalismo- e la libertà positiva -intesa come dotazione di risorse che consentono di realizzare quanto si desidera, libertà di, posta a fondamento della democrazia. Da tempo immemorabile, i critici del liberalismo vedono nella libertà negativa, nel migliore dei casi, una sorta di visconte dimezzato, riproponendo, senza variazioni sostanziali, lo stesso ritornello: «Io potrei essere libero dalle interferenze dello Stato, libero dall'oppressione di un rigido sistema di caste e così via, eppure potrei restare nell'impossibilità di fare granché a causa della mancanza di ricchezza. La libertà negativa è la libertà di essere poveri, di dormire su un marciapiede pubblico». Schmidtz e Brennan non sottovalutano l'argomento e prendono quasi le distanze da Berlin, citando tra l'altro con rispetto l'inconsistente teorico del neo-republicanism Philip Pettit. Berlin, scrivono, e molti liberali classici «sono sospettosi nei confronti della libertà positiva, pensando che riconoscere il suo valore può essere interpretato erroneamente come un avallo del socialismo, o più in generale, come una licenza che diamo ai burocrati perché ci costringano a essere liberi». Il problema, però, non è quello di negare che non me ne faccio niente della libertà (negativa) di andare a Roma, se mi mancano i soldi (la libertà positiva) per il biglietto, bensì di stabilire chi ce li può dare quei soldi. «Riconoscere semplicemente la libertà positiva come una specie pregiata del genere libertà non ci impegna ad accogliere nessuna particolare idea su quale regime la promuove meglio». In altre parole, si potrebbe scoprire che lavoro, salute, benessere sono più garantiti là dove c'è meno Stato e più mercato. «Le società commercialmente più avanzate di ogni epoca», l'antica Atene, Venezia e Firenze nel Rinascimento, o New York, «non assicurano solo il cibo», ma moltiplicano per tutti le possibilità di vivere una vita più umana e confortevole. Il discorso è convincente anche se non farei troppo affidamento, per confutare i critici del liberalismo, sulla domanda: «Anche la libertà positiva è importante ma la garantisce di più un'economia aperta o un regime collettivista?». In un'ottica liberale, la libertà negativa avrà sempre uno status ontologico superiore giacché se nessuno m'impedisce di fare alcunché ma io non ho i mezzi per farlo, posso sempre rimboccarmi le maniche, organizzarmi con altri per procurarmeli (nessuno, appunto, me lo impedisce) laddove la libertà positiva, rinviando all'eguaglianza anche dei punti di arrivo, per garantire a tutti «dignità e benessere», deve consegnare ad alcuni un potere politico e legislativo così grande da rendere problematica la libertà negativa: più si rendono alcuni individui «eguali», infatti, più diminuisce la sfera di azione di quanti, con la loro abilità e il loro ingegno, potrebbero reintrodurre le diseguaglianze. «Gli ingredienti fondamentali della libertà negativa» scrivono del resto gli autori parlando delle riforme di Turgot, «erano la chiave per stimolare l'ingegnosità e la perseveranza grazie alle quali» i lavoratori «avrebbero potuto liberarsi della deprivazione materiale, e quindi passare dalla libertà negativa alla libertà positiva». Appunto, come volevasi dimostrare.
Il credo liberale di Berlin contro la tirannia delle idee. La convinzione che i conflitti si possano superare e tutti i valori umani siano conciliabili è falsa. Ed è la base dei totalitarismi del Novecento, scrive Giancristiano Desiderio su “Il Giornale”. C'è qualcosa di commovente in questo breve scritto di Isaiah Berlin che Adelphi ha pubblicato: Un messaggio al Ventunesimo secolo. Il volumetto, piccolo e prezioso, è composto di due discorsi: il primo, già pubblicato in Il legno storto dell'umanità , è La ricerca dell'ideale : Berlin lo considerava il suo testamento spirituale e fu pronunciato in occasione della consegna del Premio Giovanni Agnelli nel 1988; il secondo è Un messaggio al Ventunesimo secolo : Berlin in una lettera all'amico John Roberts lo definì «breve credo» e fu scritto nel 1994 in occasione della laurea ad honorem in Giurisprudenza conferitagli dalla Università di Toronto. Il lettore, se accetta un consiglio, inverta l'ordine dell'indice e legga prima il credo e poi il testamento. Il «breve credo» è non solo commovente - un moto d'affetto lo attraversa tutto dalla prima all'ultima riga - ma fulminante e il lettore si troverà davanti il cuore del pluralismo liberale di Berlin e il volto della verità che così si può riassumere: l'idea di conciliare tutti i valori umani è non solo ardua ma falsa e chi la persegue sta riproponendo il totalitarismo del Novecento. Gli uomini si ammazzano da sempre, tuttavia le imprese di Attila, di Gengis Khan, di Napoleone e perfino i massacri degli armeni «impallidiscono di fronte alla Rivoluzione russa e ai suoi postumi». Infatti, l'oppressione, le torture, gli assassinii, gli stermini «di cui si resero responsabili Lenin, Stalin, Hitler, Mao, Pol Pot, e la sistematica falsificazione dell'informazione mediante la quale si occultarono per anni quegli orrori - dice Berlin che fu testimone della Rivoluzione d'Ottobre e attraversò tutto il “terribile Novecento” - sono cose che non hanno precedenti». Perché? Perché gli stermini di massa e l'annientamento dell'umanità sono stati concepiti e realizzati - tenetevi forte - per il bene dell'umanità. È in questo paradiso tramutato in inferno che sir Isaiah si cala per smontare pezzo per pezzo l'insana sintesi di Verità e Potere che l'ideologia per eccellenza della modernità - il marxismo - ha perseguito con ogni mezzo. Una volta Heine disse che se Kant non avesse distrutto la teologia forse Robespierre non avrebbe ghigliottinato il re di Francia. Le idee hanno un gran potere sul potere e le idee del XX secolo sono assassine. I gulag e i lager - dice Berlin - «sono stati causati dalle idee; o meglio, da una specifica idea». Marx, proprio lui che svalutava l'importanza delle idee, ha «provocato con i suoi scritti la trasformazione del Ventesimo secolo, sia nella direzione che egli auspicava, sia, per reazione, nella direzione opposta». Cosa vi era in quegli scritti? Un sogno rivelatosi un incubo: l'idea del compimento necessario della storia umana e della realizzazione della perfezione. È sotto l'influsso di questa idea - o alibi - che gli uomini hanno ucciso e sterminato con la «coscienza tranquilla». È un meccanismo infernale: se hai in mano la soluzione di tutto, allora, nessun prezzo è così alto da pagare per avere il paradiso. Neanche lo sterminio di massa: «Lenin se ne convinse dopo aver letto Il capitale. Predicava risolutamente che se coi mezzi da lui propugnati si poteva creare una società giusta, pacifica, felice, libera e virtuosa, allora il fine giustificava qualunque mezzo, letteralmente qualunque mezzo». Sennonché, questa verità è falsa giacché è falsissimo il convincimento che le domande basilari della vita umana, individuale e sociale, hanno una ed una sola risposta. E così è un dio falso e bugiardo quello che sostiene che i valori fondamentali dell'umanità siano armoniosi mentre sono inconciliabili: sono non conciliabili, per esempio, libertà e uguaglianza, libertà e sicurezza, giustizia e misericordia, ragione e spontaneità, Stato e Chiesa, verità e felicità. L'idea che si possa superare il conflitto è peggiore del (presunto) male: è proprio l'esistenza del conflitto che garantisce la nostra libertà. Dunque, per dirla con Lenin, che fare? Bisogna star calmi, far compromessi, accordi, baratti e - dice Berlin - «so bene che questa non è una bandiera sotto la quale molti giovani idealisti ed entusiasti vorrebbero marciare - è troppo ragionevole, troppo borghese - ma dovete credermi, non si può avere tutto ciò che si vuole, e non solo in pratica, anche in teoria». Insomma, la risposta migliore è la democrazia liberale che, nonostante tutto, si sta diffondendo: «Le grandi tirannie sono cadute, o presto cadranno - anche in Cina il giorno non è troppo lontano».
Croce, quando la libertà viene prima del liberismo. Il "Papa laico" della cultura italiana scomunicò persino Luigi Einaudi in tema di mercato. Ma la sua lezione sui "valori comuni" è attualissima, scrive Dino Cofrancesco su “Il Giornale”. Sessant'anni fa, il 20 novembre 1952, si spegneva, nell'austero Palazzo Filomarino, il Senatore Benedetto Croce, un pensatore epocale, un protagonista unico della storia della cultura occidentale. Unico a prescindere dalla sua concezione del mondo - analizzata, criticata, integrata in una saggistica, italiana e straniera, a dir poco, sterminata - giacché non s'era mai visto uno scrittore capace di far scuola sia nella storia dell'estetica e della critica letteraria, sia nella storiografia politica, sia nella filosofia. Anche nel Settecento, Hume e Voltaire si erano occupati della storia del loro Paese - e il secondo anche di quella svedese e russa - ma non avevano fondato nessun laboratorio di ricerca. Croce, al contrario, tra i suoi allievi non ebbe soltanto filosofi devoti, come il grandissimo Carlo Antoni, ma, altresì, storici tra i maggiori del XX secolo come Federico Chabod, Rosario Romeo, Adolfo Omodeo, Vittorio de Caprariis, Nicola Matteucci, allievi autentici e, in quanto tali, pensosi e problematici, non mere fotocopie sbiadite, se non caricature, del Maestro. Una personalità così ingombrante e multiforme non poteva arare lo scibile umano senza offrire il fianco a critiche e riserve spesso non prive di fondamento. Nelle sue teorie estetiche, non v'era spazio per la comprensione del decadentismo europeo, di Charles Baudelaire, di Gabriele D'Annunzio, di Giovanni Pascoli o di un gigante del teatro contemporaneo come Luigi Pirandello. Nel suo pensiero filosofico venivano liquidati, con eccessiva disinvoltura, non soltanto il vecchio positivismo - oggetto di ironia per il suo versante umanitario e riformista - ma, altresì, il pragmatismo, il neocriticismo e lo stesso esistenzialismo tedesco e francese. Nella sua concezione storiografica, venivano svalutate le nuove metodologie della ricerca che avevano trovato in Italia, nella scuola economico-giuridica, due esponenti di elevata cifra morale e intellettuale come Gioacchino Volpe e Gaetano Salvemini. E nondimeno, tra le tante critiche mosse al filosofo napoletano ve ne sono alcune che il tempo va forse ridimensionando. Il suo liberalismo è decisamente «superato» come hanno scritto politici intellettuali, come Giovanni Malagodi o accademici come Giovanni Sartori? È proprio vero che, nel confronto critico con Luigi Einaudi su liberalismo e liberismo, iniziato nel 1931, lo sconfitto è Croce? Come si ricorderà, la polemica tra i due giganti del liberalismo italiano verteva sul ruolo del libero mercato in una coerente teorica liberale. Per Einaudi, la libertà imprenditoriale è, come la libertà politica e la libertà civile, incorporata nel liberalismo dei moderni; per Croce, al contrario, il liberismo è uno strumento al servizio della Libertà, un mezzo di cui occorre misurare, di volta in volta, l'adeguatezza al fine. «La libertà come la poesia, come la morale, come il pensiero, non si lega mai a nessuna particolare condizione di fatto, istituzione e costume, sistema economico o altro che sia, ma tutti questi adopera secondo la situazione delle cose ossia il corso della storia, come mezzi pratici dell'opera sua». Per noi, le argomentazioni di Einaudi restano ineccepibili: come si può pensare, infatti, una società aperta senza mercato, ingabbiata da uno stato protezionista all'esterno e dirigista all'interno? Sennonché anche le ragioni di Croce cominciano ad apparirci come quegli scogli che dopo essere stati sommersi da ondate di chiacchiere riemergono più irremovibili e saldi di prima. In realtà, il rispettoso interlocutore di Einaudi non era suo contemporaneo ma restava un uomo dell'Ottocento. Alexis de Tocqueville aveva scritto: «Chi cerca nella libertà altra cosa che la libertà stessa è fatto per servire. Essa soltanto è in grado di strapparli al culto dell'oro e alle meschine faccende giornaliere dei loro affari privati, per far loro sentire e vedere, in ogni momento, la circostante e sovrastante presenza della patria; essa soltanto può sostituire di tempo in tempo all'amore del benessere passioni più energiche ed alte, offrire all'ambizione scopi maggiori che non quello di far quattrini, creare la luce che permette di scorgere e giudicare i vizi e le virtù degli uomini». Ebbene, al fondo, non era la stessa libertà di Croce, quella che gli artefici del Risorgimento avevano vissuto come «un principio religioso, che rende forti i cuori e illumina le menti e redime le genti e le fa capaci di difendere i loro legittimi interessi»? Croce ci richiama a una lezione dimenticata: senza valori comuni, in assenza di una identità comunitaria forte - per lui, l'Italia di Cavour e di Giolitti - si costruisce sulla sabbia. Indubbiamente questa idea rischiava di fargli sottovalutare l'analisi puntuale delle istituzioni politiche, economiche, culturali (le a torto detestate sociologia e scienza politica) ma, ad approfondirla, ci spiega assai bene perché sul patriottismo costituzionale alla Jürgen Habermas si fondano solo i villaggi Potemkin delle buone intenzioni.
Un Belpaese dal liberismo impossibile, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Nel Novecento - sulla tracce dei tre totalitarismi che avevano dominato il secolo - era stata la politica a dettare principi e procedure all'opinione pubblica che ad essi doveva adeguare il proprio consenso. Nel secondo millennio, con l'allargarsi della base democratica prodotta dal '68, è il populismo, diffuso soprattutto nelle sfere più basse e meno attrezzate culturalmente, più sensibili alla demagogia della popolazione, a dettare alla politica, che vi si adegua, le condizioni del proprio consenso. È la conseguenza dell'abbandono dello studio della storia - che era stata la base sulla quale si era sviluppata la filosofia politica moderna - che ha fatto perdere di vista i fatti, la realtà effettuale che, da Aristotele a Machiavelli, aveva empiricamente condizionato la diffusione della filosofia politica moderna. Ora, sono posti sotto accusa liberalismo e capitalismo - che pur sono stati fondamento delle libertà e del benessere dei quali ha goduto l'umanità dalla fine del Settecento - in nome di una regressione, se non alla contrapposizione ideologica ottocentesca fra liberalismo e comunismo, quanto meno a quella fra liberalismo e comunitarismo, che è la versione attenuata del collettivismo, condannato e sconfitto dalle «dure repliche della storia». È singolare che istanze collettive, di matrice marxiana, smentite e condannate dalla storia, pretendano di avere il sopravvento sull'individualismo liberale, negandone attualità e validità, per ripristinare contrapposizioni ottocentesche, se non fra liberalismo e comunismo, quanto meno fra liberalismo e comunitarismo. Il fenomeno è soprattutto acuto da noi, in Italia, non a caso il Paese che ha generato, e coltivato, il più forte comunismo occidentale fino alla sua dissoluzione e anche il Paese più in ritardo rispetto ad un approccio empirico di matrice anglosassone. L'Italia paga il prezzo di non aver sviluppato una cultura liberale, quando ce n'erano le condizioni storiche, ai tempi della Riforma protestante, e di essere stata influenzata da una controcultura cattolica, che aveva trascurato il contributo individuale del protestantesimo alla formazione di una mentalità politica liberale diffidente di ogni autorità costituita, compresa quella della Chiesa, oltre a quella dello Stato. Il liberalismo - che con Cavour e i Savoia ha contribuito alla nascita e allo sviluppo dell'unità nazionale - non è contrario allo Stato, come una vulgata popolare tende a far credere in funzione del dominio di una sinistra demagogica, bensì è a favore di uno Stato centrale sufficientemente forte da fissare le regole del gioco alle quali l'opinione pubblica deve poi attenersi. L'esperienza dei Paesi anglosassoni insegna. Il nodo della questione sta tutto nella differenza fra un approccio alla realtà di tipo empirico e uno di tipo ideologico, là dove il primo si fonda sulla realtà storica, sulla realtà effettuale, e genera autonomia e libertà, mentre il secondo su un'idea della realtà come dovrebbe essere, che genera sudditanza.
La libertà non accetta consigli. Nel suo “Saggio sulla libertà”, John Stuart Mill, scrive Mariagrazia Gazzato su “L’Espresso”: " …l’argomento più forte contro l’interferenza del pubblico nella condotta puramente individuale è che, quando si verifica, si verifica con ogni probabilità, sia nei modi sbagliati che nel posto sbagliato. Nella questione di moralità sociale, di doveri nei confronti degli altri, l’opinione del pubblico, cioè della stragrande maggioranza, è più spesso giusta che sbagliata, poiché si tratta soltanto di giudicare sui propri interessi, su come verrebbero coinvolti da un dato comportamento, se venisse consentito. Ma l’opinione di una simile maggioranza, imposta come legge ad una minoranza, in questioni di condotta strettamente individuale, ha uguali probabilità di essere giusta o sbagliata, poiché nel migliore di questi casi, opinione pubblica significa l’opinione di alcuni su che cosa sia bene o male per altri e molto spesso non significa neanche questo, il pubblico con la più perfetta indifferenza, ignora i sentimenti e le esigenze di coloro di cui biasima la condotta e pensa solo alla propria preferenza. Molti considerano lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta che loro dispiaccia e se ne risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti, simili a quel bigotto che, accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli altri, ha ribattuto che sono loro a disprezzare i suoi persistendo nel loro abominevole culto e credo.” E qui seguono vari esempi, ma mi sembra sufficiente per esprimere la mia opinione sul tema della libertà individuale in rapporto ai doveri che ciascuno ha verso la società. E’ fuor di dubbio che qualsiasi azione individuale che non comporti alcun danno a terzi, non possa e non debba essere in alcun modo sanzionata o semplicemente frenata senza incorrere nella limitazione della libertà personale che attiene al singolo giudizio dell’individuo. Non occorre portare esempi, l’attuale società costringe il legislatore ad imporre leggi che limitino azioni che ledono la libertà altrui di godere appieno della propria individualità in base ai gusti, alle preferenze e alla condotta di vita che ciascuno ritiene più idonea per sé. Un caso molto evidente è il reato di stalking come quello di mobbing che, il legislatore, usando due parole mutuate dalla lingua inglese, ha recentemente introdotto nella nostra giurisprudenza. Sono due reati gravissimi perché limitano in maniera ossessiva e sistematica l’altrui libertà di azione. Ma ci sono esempi continui di limitazione della libertà personale anche in casi considerati di scarsa importanza, che non necessitano di una legge per essere regolamentati ma che attengono al generale “buon senso comune” e ad un etica comportamentale della quale alcuni sono completamente digiuni. Alcuni si arrogano (del tutto arbitrariamente) il diritto di giudicare, di consigliare, addirittura in alcuni casi di imporre, comportamenti da questi giudicati più giusti o più consoni per il mantenimento di una dignità nell’ambito societario, più confacente ai propri schemi mentali. Ma imporre i propri schemi mentali mediante suggerimenti o consigli non richiesti, soprattutto quando questo avviene additando palesemente o nascostamente, sconfinando nel pettegolezzo, colui il quale in base al proprio giudizio, si comporta in maniera riprovevole arrivando persino all’estrema ratio (irrazionale) di gridare allo scandalo è, a mio avviso e a giudicare da quanto espresso in uno dei saggi più popolari sul tema della libertà, davvero riprovevole. La cosiddetta dittatura della maggioranza che impone le proprie regole, a volte assurde, a chi non le condivide è una delle storture più evidenti e deformanti della democrazia. Ed è deteriore al punto di frenare le potenzialità individuali che altrimenti si svilupperebbero più armoniosamente e renderebbero un maggior beneficio alla società che dalle differenze, dalle molteplicità di stimoli, dalle diverse opinioni non può che trarre indubbio vantaggio.
LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?
Le piazze si affollano di gente che protesta, le cabine elettorali si svuotano, gli esecutivi si riempiono di tecnocrati. Tutti sintomi del fatto che la forma di governo più amata dall'Occidente versa ormai in crisi conclamata. Come spiegano molti pensatori nei loro libri più recenti, scrive Angiola Codacci Pisanelli su “L’Espresso”. La democrazia? «Non è una vetta conquistata per sempre, ma l’instabile punto d’arrivo di un processo intrinsecamente esposto al rischio di crisi e di catastrofe». Parola di Raffaele Simone, linguista e politologo, che dopo aver messo a fuoco nel 2008 il vero volto della nuova destra in ascesa (“Il mostro mite”), oggi si concentra sulla forma di governo che ancora sentiamo nostra ma che attraversa una fase molto difficile. Una crisi mondiale: dovunque cresce l’astensione e calano le iscrizioni ai partiti, cresce il peso politico di organismi finanziari sovranazionali (Fmi, Bce...) e cala la fiducia nelle istituzioni democratiche, mentre le piazze sempre più piene di proteste testimoniano il senso di distacco dell’elettorato da quelli che dovrebbero essere i loro rappresentanti. Una crisi dimostrata anche in Italia da un ricco filone editoriale - lo si vede in questo articolo, che si limita a citare testi usciti nelle ultime settimane - e da manifestazioni come la Biennale Democrazia che nel marzo scorso a Torino ha festeggiato la quarta edizione. Dove porterà questa fase, la nuova analisi di Simone lo dichiara già dalla copertina: “Come la democrazia fallisce” (Garzanti). Un titolo scelto dall’editore («Io avevo proposto “La fata democratica”, che sarà usato nelle tre edizioni straniere già in corso di stampa») che corrisponde perfettamente all’ultimo capitolo del libro. Dove lo studioso mostra come e perché l’Italia del governo Renzi sta facendo da apripista verso quella «democrazia assertiva» o francamente «autoritaria» che si va delineando in molti stati occidentali. La “Fata democratica” di Simone è il corrispondente “buonista”, progressista e di sinistra, del “Mostro mite” di destra che si è andato affermando negli ultimi anni fino a conquistare seggi su seggi in tutte le recenti elezioni europee. «La democrazia è diventata gradualmente un’entità benefica e onnipotente, una fata alla quale si può chiedere tutto anche a costo di sfiancarla». Il Mostro e la Fata: sembrano due personaggi da commedia dell’arte. E in effetti in tutto il saggio i rimandi allo spettacolo sono frequenti, fin dalla tesi di base: la democrazia si regge non su concetti realmente esistenti ma su finzioni. Solo che, a differenza di uno spettacolo teatrale in cui lo spettatore crede a quello che vede pur sapendo che non è la realtà, nel momento in cui le finzioni della democrazia mostrano la corda, secondo Simone il «gigantesco gioco di simulazione» crolla non come un castello di carte - che implicherebbe un progetto razionale e preciso - «ma come gli stecchini dello shangai». Di legame tra democrazia e teatro avevano già parlato diversi studiosi, da Hans Kelsen a Georges Balandier. Di «palinsesto che Renzi e gli altri insieme e dopo di lui sono chiamati a recitare» parla il politologo Mauro Calise, in un recente saggio sul “Mulino”. «Il titolo di questo palinsesto è lo stesso che, da anni, governa la grande maggioranza dei nostri partner occidentali: siamo diventati anche noi una “democrazia del leader”»: e Calise intitola così un volume in uscita da Laterza nel 2016. Anche Geminello Preterossi, direttore del Festival del diritto di Piacenza, denuncia l’incombere di una «politica come fiction, che distrae dalla consegna della decisione a logiche non democratiche». In “Ciò che resta della democrazia” (Laterza), Preterossi scrive che «l’inaridirsi degli spazi di partecipazione effettiva determina, per compensazione, il bisogno che nutre l’illusione della democrazia “immediata”, “veloce”, “semplice”». Una deriva pericolosa («Lo scivolamento verso una forma di neoautoritarismo elettivo, nell’indifferenza di un’opinione pubblica sfiancata, può essere molto breve») che secondo Preterossi può ancora essere evitata: «Per impedire che questa espropriazione si compia del tutto, occorre interrompere la fiction, tornare alla forza della politica in carne e ossa, come conflitto e alternativa». Simone è meno ottimista: «Del resto la mia è un’analisi, non un libro propositivo», sottolinea, anche per prendere le distanze da chi lo ha definito reazionario. E allora ecco quali sono le finzioni che reggono il “gioco delle parti” democratico: «È fittizia la cessione della sovranità: con il voto io cedo la mia volontà in forma inarticolata - mettendo solo una croce su una scheda - a qualcuno che posso anche non aver mai visto e che fino alle elezioni seguenti, non avendo vincoli di mandato, potrà fare quello che vuole. Non è realistica l’uguaglianza: siamo uguali solo in quanto viene permesso a tutti di mettere una croce sulla scheda, poi l’uguaglianza si esaurisce. Ed è irrealistica la formazione di una opinione pubblica informata, che è il presupposto di una libera scelta politica: noi cittadini in realtà andiamo avanti tra stereotipi, informazioni manipolate, notizie false e non controllabili». Il risultato è una crisi che scatena allarmi in tutto il mondo. In un recente articolo sul “New York Times” che partiva da un sondaggio del World Values Survey sull’importanza dei valori democratici, Roberto Foa e Yascha Mounk hanno collegato al calo di fiducia la tentazione dei cittadini di «lasciar prendere le decisioni al presidente senza preoccuparsi del Congresso e di affidare le decisioni più importanti a esperti e non a eletti, alla Federal Reserve o al Pentagono». Per i due giovani politologi di Harvard, il cuore del problema è economico e può essere risolto con «ambiziose riforme istituzionali che pongano un freno al potere politico dei ricchi». Ma con Donald Trump in testa ai sondaggi per le prossime presidenziali, una proposta del genere sembra arrivare platealmente troppo tardi. Se Foa e Mounk temono che all’orizzonte si stia materializzando un “governo dell’esercito”, altri politologi invece vedono di buon occhio alcune forme di “democrazia senza elezioni”: perfino il sorteggio delle cariche, come propone David Van Reybrouck nel suo libro appena tradotto da Feltrinelli (e recensito da Giuseppe Berta due settimane fa sull’“Espresso”). Reybrouck, che i lettori italiani già conoscono per il magistrale reportage “Congo”, e che anima una piattaforma politica chiamata G1000, in “Contro le elezioni” lancia una provocazione: rinunciare al voto e sorteggiare le cariche, come facevano i greci. Una provocazione stroncata sul “Corriere della Sera” da Luciano Canfora (che alla “Democrazia” ha dedicato un longseller pubblicato da Laterza). «Le cariche decisive della città erano elettive», ha ricordato. Ma Reybrouck - che di formazione è archeologo - lo sa, e da Atene parte per un excursus che passa dalla Venezia dei Dogi per finire nell’Islanda di oggi, dove la costituzione è stata modificata attraverso un lungo processo che ha permesso la partecipazione diretta dei cittadini. Secondo Simone invece «in Italia alla democrazia senza elezioni ci stiamo arrivando a poco a poco. Del resto, da vent’anni non esprimiamo preferenze sui candidati. Il nuovo senato non è eletto dai cittadini e una parte dei deputati saranno nominati dal partito. Il nostro presidente del Consiglio non è stato eletto e la formazione del governo, così ricco di tecnocrati, ricorda la designazione dei componenti di un consiglio di amministrazione». La frecciata contro i tecnocrati ricorda che i veri nemici, secondo Simone, non sono tanto i politici che vogliono tenersi il potere, ma i tecnici. «In astratto i tecnici sono risorse strumentali a cui il politico - che è per definizione un “incompetente”, uno del popolo - si rivolge per affrontare un determinato problema. Oggi però i tecnocrati non si fidano più dei politici e governano da soli. Lo fanno indirettamente - attraverso la Banca centrale europea o il Fondo monetario internazionale, o peggio ancora attraverso lobby invisibili - o direttamente: Dick Cheney, vicepresidente di George W. Bush, era tra i capi di una multinazionale che prima vendeva le armi e poi bonificava i terreni danneggiati dai bombardamenti». Ma forse la crisi della democrazia è una fase di crescita inevitabile: in fondo tanti politologi la considerano solo una fase di un ciclo che per Polibio va dalla monarchia al caos (il “potere della plebe”), per Kelsen da guerra a guerra - una fase che il giurista austriaco misurava in circa 60 anni. «E certo», continua Simone, «non aiuta questo quadro storico eccezionalmente avverso. Gli effetti della globalizzazione, che tolgono sempre più potere e sovranità alle amministrazioni dei singoli Stati. La crescente impossibilità di arrivare a una conoscenza dei fatti che già prima era difficile ma oggi è impossibile per la proliferazione di fonti data dalla Rete. E per finire l’immigrazione di massa, che superata una certa soglia di percentuale di immigrati porta la società al collasso. Un etologo, Irenäus Eibl-Eibesfeldt, ha calcolato il limite sostenibile al 30 per cento. Lui ha studiato i topi, e noi non siamo esattamente uguali ai topi, però...» Simone ricorda che in molti casi la democrazia è «un modo per raggiungere il potere con il consenso del popolo e senza spargimenti di sangue», e in effetti anche la sua crisi ha un percorso bonario: per la sua dissoluzione non serve la violenza, basta la paura. Lo “Stato di paura” che permette di “tenere buoni” i popoli, denunciato da un maestro del thriller come Michael Crichton nel libro che è stato il suo testamento spirituale: «Tutti gli elementi del quadro storico avverso sono elementi di paura», spiega Simone. «E la Grande Paura spinge a destra. Del resto la democrazia presuppone un mondo tranquillo, pacificato. È stato il primo tipo di governo che non solo lasciava vivere i nemici - cosa che colpiva molto i pensatori classici - ma addirittura permetteva loro di alternarsi al potere. Qualche volta, storicamente, è andata male: Mussolini e Hitler sono arrivati al potere con “quasi libere” elezioni». E allora, possiamo solo stare a guardare mentre la democrazia preme verso l’antidemocrazia o il caos?Non è possibile ipotizzare dei “lavori di manutenzione” anticrisi? «Dovrebbe pensarci la scuola, che però in Italia è sempre meno in grado di farlo. Non solo per la cronica svalutazione dell’insegnamento dell’educazione civica, ma anche per le pressioni esterne che spingono verso un insegnamento pratico e non critico». Viene da pensare che tutto si tiene, che un governo che viaggia verso una “democrazia assertiva” ha tutto l’interesse a minare il pensiero critico che dovrebbe essere il frutto di una scuola veramente “Buona”. E anche questo fa sì che, per chiudere come il libro di Simone, proprio in Italia oggi la democrazia appaia così «malconcia, mal coltivata e malprotetta».
CHI TRADI' LE BRIGATE ROSSE? I ROSSI!
In un libro la storia inedita della lotta alle Brigate Rosse. La scrittrice Fabiola Paterniti ricostruisce l'attività investigativa del Nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante gli Anni di Piombo. Il Pci mise in contatto i carabinieri con un infiltrato che consentì l'arresto dei brigatisti. Ma il Viminale sciolse il gruppo di investigatori poco prima del sequestro Moro, scrive Alberto Custodero il 02 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Il terrorismo brigatista vinto grazie al Pci che, dopo l'omicidio di Guido Rossa, chiamò il generale Dalla Chiesa e lo mise in contatto con un "infiltrato" comunista tra le Bierre. C'è anche un'altra verità sugli Anni di Piombo. Quella raccontata dagli uomini ombra del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (ucciso a Palermo dalla mafia 33 anni fa), i carabinieri che sotto copertura facevano parte del "nucleo antiterrorismo". I loro segreti sono stati raccolti dalla giornalista e autrice Fabiola Paterniti nel libro "Tutti gli uomini del generale" - editore Melampo - "la storia inedita della lotta al terrorismo". "Fu Ugo Pecchioli - spiega Paterniti - ministro dell'Interno ombra del Pci, a mettere in contatto il Generale con l'infiltrato che consentì di sgominare le brigate rosse". Un infiltrato il cui nome è ancora oggi coperto dal più totale riserbo. Che cosa faceva quel Nucleo, come si muoveva, che tattiche usava? Tanto si sa sul brigatismo rosso. Ma poco o quasi nulla è emerso negli anni sulla lotta al terrorismo, ovvero sulle modalità operative proprio di quel manipolo di super investigatori "invisibili". Paterniti ci consegna su quei misteri uno squarcio di verità, grazie a una meticolosa ricostruzione fatta intervistando sette di quei carabinieri, e due magistrati, Gian Carlo Caselli che ha coordinato le indagini sulla colonna torinese delle Bierre. E Armando Spataro, sulla colonna di Milano. Raccontano la storia di come funzionasse la macchina investigativa in tutti i suoi ingranaggi, compresi i difficili rapporti con le polizie Oltrecortina, quasi impossibili in quei tempi di Guerra Fredda. Gli uomini di Dalla Chiesa erano la sua famiglia. I suoi angeli custodi. Rischiavano la vita e lavoravano quasi come una sorta di servizio segreto. Vivevano in clandestinità per evitare che le bierre, che avevano un attivissimo servizio di contropedinamento e, per così dire, di controspionaggio, potessero individuarli e ucciderli. Si sottoponevano ad addestramenti estenuanti con tecniche sofisticate per impare anch'essi ad infiltrarsi. Selezionavano il personale presso la scuola sottufficiali di Firenze. Si chiamavano con nomi in codice, Dan, Trucido, Baffo, Ragioniere Severino, Principino. Ancora oggi, per mantenere viva una vecchia abitudine, si chiamano così tra di loro.. Nessuno dei loro congiunti sapeva di quel lavoro segreto. Il Nucleo era espressione diretta della strategia del Generale che faceva un tutt'uno del suo passato di ex partigiano, della sua appartenenza ai ranghi militari e alla sua esperienza di carabiniere. Quegli uomini pedinavano (a volte anche 30 o 40 persone per ogni singolo sospetto), si infiltravano, schedavano, studiavano le tattiche di guerriglia brigatista, elaboravano statistiche, entravano e uscivano dalle carceri svolgendo colloqui riservati coi detenuti, facevano le irruzioni nei covi brigatisti, gestivano i primi pentimenti. L'ufficiale Gian Paolo Sechi fu tra i primi a raccogliere le confessioni del primo pentito, Patrizio Peci (al quale i brigatisti per vendetta e ritorsione trucidarono il fratello Roberto). Ancora oggi, ricorda Sechi, è molto legato all'ex brigatista, che vive in un luogo segreto, tutt'ora sotto protezione. E monitoravano il terrorismo dal punto di vista sociale. Sì, perchè, come ha ricordato l'ex ministro dell'Interno Virginio Rognoni, a preoccupare Dalla Chiesa in quegli anni era soprattutto il sostegno dato al fenomeno brigatista sia da certa popolazione (secondo l'ex bierre Maccari, simpatizzanti e fiancheggiatori erano dai 30 ai 40 mila). Sia da una certa intellighenzia, un mix intellettuali-borghesia-giornalisti. Per il Generale, quella era una vera guerra psicologica, la più difficile da combattere perchè asimmetrica. E per lui ad armi impari. Il libro svela retroscena poco conosciuti, se non inediti, e inquietanti nei rapporti tra la politica e il Generale. Come quando, dopo l'arresto dei big brigatisti Alberto Franceschini e Renato Curcio, il ministero dell'Interno chiuse la struttura di Dalla Chiesa. Inutili le proteste di quegli uomini che, al Capo di Gabinetto del Viminale, fecero presente che i brigatisti avevano in Svizzera armi della Seconda Guerra, che le stavano portando in Italia, in Lazio, a Roma. Non furono ascoltati, nonostante quell'allarme. Il Nucleo fu soppresso. E le bierre tornarono a colpire puntuali e spietate con il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro.
OWENS: ROOSEVELT PIU’ RAZZISTA DI HITLER.
Evitato da Roosevelt, non da Hitler. Un film rivela la verità di Owens. «Race», in uscita a febbraio, fedele alla tesi che Jesse raccontò (inascoltato). Smentita dalla figlia Marlene la bugia del Führer che non volle stringergli la mano, fu invece evitato dall’allora presidente Usa Franklin Delano Roosevelt, scrive Gaia Piccardi il 2 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il neopresidente Seb Coe sempre più accerchiato, la Russia fuori sine die dalle competizioni internazionali, lo scandalo doping che sta per abbattersi su Kenya e Etiopia, dominatrici delle discipline di resistenza - si aggrappa alla leggenda di Jesse Owens, trentacinque anni dopo la sua morte più viva che mai. È Hollywood, con la collaborazione della figlia Marlene Owens Rankin, a essersi incaricata di un’agiografia, «Race», in uscita il 19 febbraio negli Stati Uniti, che scriverà l’ultima verità storica sulla vita di quello che è considerato il più grande atleta della storia. Fulcro dell’azione l’Olimpiade di Berlino 1936, dove Owens si mise al collo quattro medaglie d’oro in sette giorni: 100 metri (3 agosto), salto in lungo (4 agosto), 200 metri (5 agosto) e staffetta 4x100 (9 agosto). Il poker del ragazzo prodigio dell’Alabama (poi trasferitosi a Cleveland, Ohio) nella Germania nazista, a Berlino sotto gli occhi del Fuhrer, ha permesso alla stampa mondiale di creare il caso della discriminazione razziale di Owens, detestato dal ministro della propaganda del terzo Reich Joseph Goebbels («L’umanità bianca si dovrebbe vergognare» scrisse nel suo diario) e snobbato da Adolf Hitler, che si sarebbe rifiutato di stringergli la mano. «In realtà, mio padre non si è mai sentito snobbato da Hitler» ha certificato Marlene agli sceneggiatori del film, Joe Shrapnel e Anna Waterhouse, che hanno corretto nel copione il più celebre e antico fraintendimento della storia dello sport. «In retrospettiva, mio padre fu profondamente ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell’epoca, non l’avesse ricevuto alla Casa Bianca». Per nulla supportato da Avery Brundage, filonazista, all’epoca presidente del Comitato olimpico statunitense (poi numero uno del Cio dal ‘52 al ‘72), Owens si vide cancellare - e mai più riprogrammare - un appuntamento da Roosevelt, impegnato nelle elezioni presidenziali del ‘36 e preoccupato della reazione che avrebbero avuto gli Stati del Sud. Roosevelt verrà rieletto, Owens per reazione si iscriverà tra le file dei repubblicani, facendo campagna elettorale per il candidato Alf Landon. «“Race” è un film che metterà a dura prova l’idea che gli Usa si sono fatti di Jesse Owens» ha scritto The Times. Raccontato sul grande schermo dalla produzione franco-tedesco-canadese, firmato dalla regia dell’australiano Stephen Hopkins, il film è fedele alla narrazione che Jesse Owens ha portato avanti fino alla fine, spesso inascoltato. Di fronte alla vittoria nel lungo contro il migliore atleta tedesco del tempo, Luz Long, si narra che il Führer indispettito se ne sia andato dallo stadio senza degnare di uno sguardo il trionfatore. Falso. «Dopo essere sceso dal podio, passai davanti alla tribuna d’onore per tornare negli spogliatoi. Il Cancelliere mi fissò. Si alzò e mi salutò con un cenno della mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Giornalisti e scrittori dimostrarono cattivo gusto tramandando un’ostilità che, di fatto, non c’era mai stata» scrive nella sua autobiografia «The Jesse Owens Story» (1970). Qualche anno fa l’anziano giornalista tedesco Siegfried Mischner, presente ai Giochi del ’36, diede nuova linfa alla verità raccontando di aver visto con i suoi occhi Hitler stringere la mano a Owens dietro le quinte dell’Olympiastadion: «Owens aveva portato un fotografo e, dopo l’Olimpiade, chiese alla stampa di correggere un errore che si sarebbe trascinato fino ai giorni nostri. Nessuno gli diede retta». Il cast è solido. Jason Sudeikis è l’ossessivo coach Larry Snyder, Jeremy Irons è l’infido Avery Brundage, William Hurt è Jeremiah Mahoney, potente membro dell’Amateur Athletic Union, a cui per un pelo non riuscì di boicottare i Giochi di Berlino, e Carice van Houten è Leni Riefenstahl. «Era importante che i fatti non fossero riscritti per l’ennesima volta» ha detto Marlene, parlando a nome della Jesse Owens Foundation. Ma spesso un’affascinante menzogna è preferibile alla cruda realtà.
A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?
Hitler non è morto nel 1945. Per l'Fbi era in Argentina dopo la guerra, scrive “Libero Quotidiano”. History Channel ha realizzato una serie di documentari sulla presunta fine di Hitler. Il network ha messo insieme un pool di ricercatori davvero particolare. A guidarlo c’è una leggenda della Cia, Robert Baer. Con lui John Cencich, esperto di indagini scientifiche e regista dell’inchiesta internazionale che ha portato all’incriminazione del presidente serboSlobodan Milosevic. Nel gruppo anche un incursore, Tim Kennedy, che ha partecipato alle missioni delle forze speciali in Afghanistan per cercare il rifugio di Osama Bin Laden. Il gruppo ha analizzato file desecretati, tracce, testimonianze per rispondere alla domanda del XX: Hitler è morto nel bunker della cancelleria a Berlilno nel 1945 L’inchiesta si basa sui files resi pubblici dall’Fbi lo scorso anno, in cui si registrano molte decine di segnalazioni sulla fuga di Hitler tra il 1945 e il 1950. Baer le ha analizzate con i programmi informatici usati dalla Cia per scovare i terroristi islamici, incrociandole con le notizie raccolte dagli storici e col database degli interrogatori alleati fino a creare una mappa dei possibili nascondigli. Poi i risultati sono stati verificati sul campo. Il primo passo è come lasciare il bunker della cancelleria senza essere visti. A Berlino c'erano centinaia di chilometri di passaggi sotterranei, gli unici sicuri durante l’assedio dell’Armata Rossa. Dal 1999 questi cunicoli vengono esplorati da un’associazione di speleologi. L’aeroporto di Tempelhof era l’unica installazione nazista risparmiata dai raid alleati e dall'avanzata russa. Qui hangar a prova di bomba proteggevano i quadrimotori Condor, che erano in grado di raggiungere la Spagna senza scalo. Il 21 aprile 1945 ne sono decollati diversi, trasferendo alcuni alti ufficiali in Baviera, baluardo del Reich. Su alcuni velivoli erano imbarcate 'le proprietà personali di Hitler'. Secondo le fonti ufficiali l'ultimo decollo risalirebbe al 23 aprile, mentre altri Condor sono stati presi intatti dai russi cinque giorni dopo. Ma fino ad oggi non era stato individuato un collegamento diretto tra l'ultimo quartier generale di Hitler e questo punto di decollo. Il bunker comunicava con le gallerie della metropolitana. Tutti i superstiti dell’entourage hitleriano hanno negato però l'esistenza di un percorso diretto per Tempelhof. Usando un georadar tattico, il team di History ha scoperto un cunicolo che collega l’aeroporto alla stazione del metro. È bloccato dal 1945 e adesso si attendono le autorizzazioni per demolire gli accessi ed esplorarlo. Restava poi il problema di sparire, cosa non facile per un uomo tanto famoso. L’esame dei files Fbi porta a escludere la rotta sudtirolese, sfruttata da molti nazisti per raggiungere il Sudamerica. La pista dell'Fbi porta nella Spagna Franchista, amica del Reich. Le segnalazioni hanno portato ad un monastero molto particolare, perché unito con un lungo tunnel sotterraneo al comando della polizia militare. Dalla spagna il viaggio sarebbe proseguito verso le Canarie, ultimo approdo degli U-boot che non volevano arrendersi agli alleati: tre salparono dalla Germania dopo la resa, consegnandosi in Argentina quasi tre mesi dopo. È nel paese sudamericano che gli avvistamenti di Hitler si sono moltiplicati. L’analisi dei files ha portato il team in una cittadina isolatissima, Charata, e in un altro bunker. La struttura si trova sotto una fattoria, lontana centinaia di chilometri da tutto. In questo luogo era presente una vasta colonia tedesca che negli anni '40 iscriveva i figli alla locale Hitlerjugend. Ma i dossier dell’Fbi indicano anche un covo a Misiones al confine di tre stati. A Misiones una spedizione archeologica sta esplorando i resti di tre edifici degli anni ’40 nel cuore della giungla. Uno è un’abitazione con finiture di pregio. L’altro un impianto idroelettrico. La residenza era quindi autonoma. In una parete è stata trovata murata una scatola di biscotti. Dentro il contenitore c'erano monete del Terzo Reich e delle foto. Una ritrae una giovanissima recluta delle SS. Un’altra mostra il primo incontro tra Benito Mussolini e Hitler, a Venezia nel 1934: l’unico in cui il cancelliere è in abiti civili. Indizi, ricostruzioni verosimili e segnalazioni che però non sono in grado con assoluta certezza, neppure con le più moderne tecnologie, di stabilire se Hitler sia veramente morto nel 1945 o no.
Mancano prove della morte del dittatore. E gli ultimi dossier Fbi desecretati descrivono la sua fuga da Berlino. History Channel li ha fatti esaminare da un ex agente Cia e da uno dei cacciatori di Bin Laden. Scoprendo che la sua presenza fu segnalata in Argentina negli anni Cinquanta, scrive Gianluca De Feo su “L’Espresso”. Un tunnel dove una persona riesce a camminare solo piegandosi, il segmento finale per completare un puzzle di passaggi sotterranei. E cercare di trovare una chiave nascosta per riaprire il mistero del XX secolo, che resiste intatto da settanta anni. Perché nemmeno le ultime tecnologie riescono a offrire una sola prova oggettiva della morte di Adolf Hitler. Gli storici hanno pochi dubbi. Per loro il führer si è ucciso il 30 aprile 1945 nel bunker della Cancelleria, con un colpo di pistola alla testa e forse una dose di veleno. Anche i testimoni diretti dell’epilogo però sono scomparsi nell’apocalisse del Terzo Reich: restano solo racconti di seconda mano o di figure dall’attendibilità relativa. Nulla che oggi potrebbe permettere a un giudice di attestare il decesso. Dal 26 ottobre al 14 dicembre, ogni lunedì alle 21.00 History Channel (canale 407 di Sky) presenta 'Hunting Hitler' il progetto documentaristico in otto puntate di un'ora sul mistero della morte del dittatore tedesco. Il corpo infatti non fu ritrovato nel bunker di Berlino. Il team di History Channel, che include la 'leggenda' della Cia Robert Baer, ha indagato sui file dell'Fbi sulla presenza di Hitler in Argentina negli anni Cinquanta. Non a caso Thomas J. Dodd, capo delle delegazione americana al processo di Norimberga, ha usato parole chiare: «Nessuno può dire con certezza che Hitler è morto». C’è un vuoto di riscontri, scientifici e fotografici: i resti del dittatore e della donna che aveva sposato alla vigilia della fine sono stati definitivamente inceneriti e dispersi dal Kgb nel 1970. Ventitré anni dopo dagli archivi di Stato moscoviti sono ricomparsi due frammenti di cranio, che il test del dna realizzato nei laboratori americani ha attribuito nel 2009 a una giovane di età compatibile con Eva Braun. In quel teschio però c’è anche il segno di un proiettile in uscita, mentre i racconti tramandati dal bunker hanno parlato sempre di avvelenamento. I documenti desecretati nel corso del tempo non aiutano a fare luce, anzi infittiscono l’enigma. Quelli usciti un anno fa dagli schedari americani sono zeppi di rapporti dell’Fbi consegnati personalmente al gran capo Edgar Hoover che segnalano la presenza del führer in diversi paesi. Come se i detective federali, monopolisti dell’intelligence statunitense nell’immediato dopoguerra, avessero dato fede alle parole di Stalin, a quel “no” con cui durante la conferenza di Potsdam aveva risposto alla domanda diretta del presidente Truman: «Hitler è morto?». Da allora decine di saggisti e romanzieri di alterno valore si sono misurati con l’ipotesi di un’odissea nazista verso un nascondiglio remoto dove attendere la rinascita della follia ariana. Ad affrontare la questione con un approccio diverso arriva adesso un progetto voluto da History Channel, presentato in anteprima a “l’Espresso”. Invece di affidare le ricerche a un pool di accademici, il network dei documentari ha messo in campo una squadra di veri investigatori d’ultima generazione. A guidarla c’è una leggenda della Cia, Robert Baer, che ha ispirato l’agente interpretato da George Clooney in “Siriana”. Un veterano ancora in attività: l’ultima missione è stata a Beirut, indagando sull’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri per conto del Tribunale speciale del Libano. John Cencich invece è un esperto di indagini scientifiche ed è stato il regista dell’inchiesta internazionale che ha portato all’incriminazione del presidente serbo Slobodan Milosevic. Al loro fianco un incursore: Tim Kennedy, un sergente dei ranger statunitensi che ha partecipato alle missioni delle forze speciali in Afghanistan per stanare il rifugio di Osama Bin Laden e in Iraq per catturare Zarqawi. Un pool pragmatico, che si è servito di esperti specializzati per affrontare i singoli problemi: giornalisti investigativi britannici, cacciatori israeliani di criminali, studiosi argentini delle comunità tedesche o ricercatori spagnoli sui rapporti tra Franco e il Reich. Il lavoro di questo pool è durato un anno, con un budget multimilionario e un dispendio di strumenti hi-tech, dai georadar ai droni: dotazioni e risorse che difficilmente i ricercatori universitari possono ottenere. Il risultato è un lunghissimo documentario, “Hunting Hitler”, otto puntate di un’ora che saranno trasmesse su History a partire da lunedì 26 ottobre (ore 21, canale 407 di Sky). La resa televisiva è estremamente dinamica, con un passo da grande film d’azione. Sicuramente troppo movimentata per trovare consensi tra gli storici, ma non si tratta certo di un prodotto di nicchia: è un investimento per catturare pubblici vasti. Il punto è capire se dietro la spettacolarizzazione c’è sostanza, ossia se questo approccio innovativo può offrire un contributo reale alle ricerche. Gli esiti sembrano interessanti, anche se neppure le tecnologie più avanzate e i software elaborati per la sfida mondiale ad Al Qaeda sono riusciti a dare una parola finale sulla sorte di Hitler. È sorprendente ad esempio notare come le ricerche sul campo ancora oggi abbiano dovuto fare i conti con muri di reticenza forti in diversi paesi. E comunque con la volontà di non riaprire un capitolo che si preferisce dimenticare: è il caso degli ultimi familiari di Eva Braun, che non accettano il confronto tra il loro codice genetico e quello dei resti riscoperti a Mosca. «Siamo nati dopo la guerra, per noi quella storia è chiusa», spiegano. L’architrave dell’inchiesta sono i files che l’Fbi ha reso integralmente disponibili lo scorso anno: molte decine di segnalazioni più o meno accurate sulla fuga di Hitler trasmesse tra il 1945 e il 1950. Baer le ha analizzate con i programmi informatici che la Cia utilizza per scovare le tracce dei terroristi islamici, incrociandole con le notizie raccolte dagli storici e col database degli interrogatori alleati fino a creare una mappa dei possibili nascondigli. Per poi andare a verificare sul terreno ogni informazione. Si parte dalle vie per lasciare il bunker della Cancelleria senza essere visti. Nella Berlino dei bombardamenti continui esistevano centinaia di chilometri di passaggi sotterranei, gli unici percorsi sicuri durante l’assedio dell’Armata Rossa. Sono catacombe che dal 1999 vengono sistematicamente esplorate da un’associazione di speleologi. Ma finora mancava l’anello finale dell’itinerario tra la residenza corazzata del führer e l’aeroporto di Tempelhof: l’unica installazione nazista risparmiata dai raid alleati e dalle cannonate sovietiche, con hangar a prova di ordigno che proteggevano i quadrimotori Condor, aereo in grado di raggiungere la Spagna senza scalo. Il 21 aprile 1945 ne sono decollati diversi, trasferendo un manipolo di alti ufficiali nel caposaldo bavarese del Reich: in alcuni di questi velivoli erano imbarcate “le proprietà personali di Hitler”. L’ultima partenza nota avviene il 23 aprile, mentre altri Condor sono stati catturati intatti dai russi cinque giorni dopo. Sotto l’aeroporto c’è un alveare di locali blindati con impianti idrici ed elettrici autonomi, una sorta di monastero di cemento e acciaio, con decine di celle cubiche su tre livelli. In parte custodivano negativi e filmati raccolti dalla ricognizione tedesca: chilometri di pellicole incendiate poi dall’esplosivo dei genieri sovietici nell’ultimo assalto, con un rogo durato giorni che ha incenerito tutto. «Senza vie di fuga, un bunker diventa una trappola», sottolinea Baer. Dal comando della Cancelleria infatti si entrava nelle gallerie della metropolitana. Tutti i superstiti dell’entourage hitleriano hanno negato però che esistesse un percorso diretto per gli hangar di Tempelhof. Usando un georadar tattico, identico a quello impiegato per ispezionare le caverne di Tora Bora dove a lungo si è pensato fosse morto Bin Laden, il team di History ha scoperto un cunicolo che unisce l’aeroporto alla stazione del metro. È bloccato dai giorni della battaglia e adesso si attendono le autorizzazioni per demolire gli accessi ed esplorarlo. In ogni caso, c’erano altri modi per sottrarsi all’attacco sovietico. Robert Ritter von Greim e Hanna Reitsch sono atterrati in una pista improvvisata a pochi metri dalla porta di Brandeburgo e ripartiti il 30 aprile dopo avere incontrato Hitler nei meandri della Cancelleria. Già, ma dove poteva andare un uomo così famoso e così odiato? L’esame dei files Fbi porta a escludere la rotta sudtirolese, sfruttata da molti nazisti per raggiungere il Sudamerica attraverso i porti italiani e la copertura della gerarchia cattolica. Nel caso del führer i rischi dovevano essere ridotti al minimo, contando su rifugi predisposti da tempo in paesi ancora amici. Come la Spagna di Francisco Franco. Lì le segnalazioni raccolte dai detective di Hoover hanno portato la squadra di Robert Baer in un monastero molto particolare, perché unito con un lungo camminamento sotterraneo al comando della polizia militare. Poi le Canarie, ultimo approdo degli U-boot che non volevano arrendersi agli alleati: tre salparono dalla Germania dopo l’annuncio della resa, consegnandosi in Argentina quasi tre mesi più tardi. È nel paese sudamericano che gli avvistamenti di Hitler si sono moltiplicati. L’analisi dei files ha portato il team in una cittadina isolatissima, Charata, e in un altro bunker: una struttura costruita sotto una fattoria, lontana centinaia di chilometri da tutto. Lì negli anni ’40 una vasta colonia tedesca iscriveva i figli a centinaia nella sede locale della Hitlerjugend. Ma i dossier dell’Fbi indicano un altro “covo” ancora più a nord, a Misiones, terra di predicatori gesuiti al confine di tre stati: una posizione da sempre sfruttata per traffici e contrabbandi. A Misiones dallo scorso marzo una spedizione archeologica sta esplorando i resti di tre edifici costruiti negli anni ’40 nel cuore della giungla. Uno è un’abitazione di qualità, con vasca da bagno e decorazioni. L’altro probabilmente un impianto idroelettrico con alcune officine. Insomma, una residenza autonoma: gli scavi finora hanno riportato alla luce riserve di cibi in scatola e medicinali, tutti di quel periodo. In una parete era stata murata una scatola di biscotti, contenente monete del Terzo Reich e alcune foto. Una ritrae una giovanissima recluta delle SS, forse non tedesca, forse uno dei volontari europei accorsi a combattere sotto la svastica. Un’altra mostra il primo incontro tra Benito Mussolini e Hitler, a Venezia nel 1934: l’unico in cui il cancelliere indossa abiti civili. Indizi, piccoli e grandi, di una rete di protezione dei fuggitivi nazisti. Che però non scalfiscono il mistero del secolo.
RISCRIVERE PER DOMINARE. LA STORIA COME ARMA DEI REGIMI.
"Hitler non voleva sterminio ebrei", bufera su Netanyahu. "Olocausto voluto da Muftì". Anp, "vuole cambiare la storia", scrive Massimo Lomonaco su "L'Ansa" il 22 ottobre 2015. Bufera su Benyamin Netanyahu: in un discorso al Congresso mondiale sionista ha addossato la responsabilità della Shoah ai palestinesi. All'epoca Hitler - ha detto il premier - voleva "espellere gli ebrei" non "sterminarli, ma fu convinto alla Soluzione finale dall'allora Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseini, timoroso di un loro arrivo in Palestina sotto mandato britannico. Un'affermazione - poco dopo ha fatto retromarcia - che gli ha tirato contro una valanga di contestazioni interne ed esterne. A partire dai palestinesi: il presidente Abu Mazen, incontrando a Ramallah il segretario dell'Onu Ban Ki moon, ha respinto le dichiarazioni definendole "indifendibili e diffamatorie". "Netanyahu - ha tuonato Abu Mazen - vuole cambiare la storia del popolo ebraico". Anche la Germania - dove per ironia della sorte Netanyahu è arrivato oggi - si è sentita in dovere di intervenire: "non c'è nessun motivo per cambiare la storia - ha osservato il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert - Conosciamo bene l'origine dei fatti ed è giusto che la responsabilità sia sulle spalle dei tedeschi". Il capo dell'opposizione Isaac Herzog ha accusato Netanyahu (figlio di uno storico) di avere compiuto una "pericolosa distorsione storica" e gli ha chiesto di correggerla perchè in questo modo si "minimizza la Shoah". Lo stesso Centro Wiesenthal di Gerusalemme ha parlato di "affermazioni totalmente senza basi": "che il Muftì spingesse sui nazisti e volesse l'invasione della Palestina è fuori discussione, ma Hitler - ha detto Efraim Zuroff all'ANSA - non doveva essere convinto da nessuno". "Non ho avuta alcuna intenzione - ha ribattuto il premier israeliano - di sollevare Hitler dalla responsabilità per l'Olocausto e la Soluzione Finale. Hitler è il responsabile della Soluzione Finale e dell'eliminazione dei 6 milioni di ebrei. Lui ha preso la decisione. Allo stesso modo - ha proseguito - è assurdo ignorare il ruolo svolto dal Muftì di Gerusalemme al-Husseini, un criminale di guerra che incitò, spronò Hitler, Ribbentrop, Himmler e altri a sterminare gli ebrei di Europa". L'analisi storica di Netanyahu (non nuovo a queste uscite) è legata - secondo molti analisti - all'attuale situazione nella regione dove c'è stato un elevato tasso di allarme. Una soldatessa israeliana è stata ferita in modo grave da un palestinese (poi ucciso dalle forze di sicurezza) che l'ha pugnalata nella zona di Ramallah. In mattinata - secondo l'esercito - una palestinese di 15 anni ha provato ad entrare nell'insediamento ebraico di Yitzhar in Cisgiordania per un tentato accoltellamento ma è stata ferita dai soldati. In serata, almeno un razzo lanciato da Gaza è caduto nel Neghev occidentale, nelle comunità israeliane attorno alla Striscia, senza provocare nè danni nè feriti. Ad Hebron un palestinese di 54 anni, secondo fonti palestinesi, è morto per aver inalato gas lacrimogeni durante scontri con l'esercito israeliano. La tensione resta dunque alta in tutta la zona e gli occhi sono puntati all'incontro che domani il segretario di stato Usa John Kerry avra' con Netanyahu a Berlino prima di incontrare Abu Mazen ad Amman. Il ministro Gentiloni ha telefonato a Netanyahu per esprimere la preoccupazione dell'Italia per "la grave violenza". Lo scontro in atto si è spostato anche all'Unesco dove l'assemblea ha votato una risoluzione di condanna della gestione israeliana della Spianata delle Moschee a Gerusalemme ma senza riconoscere, come volevano i palestinesi, il Muro del Pianto come parte integrante della moschea di Al Aqsa, e quindi luogo di culto islamico. Una risoluzione che Israele ha respinto "totalmente" definendola "vergognosa" perchè "mira a trasformare il conflitto israelo-palestinese in uno scontro di religioni".
Netanyahu: Hitler voleva l’espulsione, non lo sterminio degli ebrei. Il premier parlando al Congresso Sionista scarica le colpe dell’Olocausto sui palestinesi: «Fu il gran Muftì di Gerusalemme a chiedere di bruciarli». L’Olp: «Frasi moralmente indifendibili ed infiammatorie». Berlino: «Le responsabilità sono dei tedeschi», scrive “Il Corriere della Sera”. Stanno suscitando scalpore le affermazioni del premier Benjamin Netanyahu secondo cui Hitler all’epoca della Seconda Guerra Mondiale non voleva «sterminare» gli ebrei, ma «espellerli»: fu convinto alla Soluzione finale dal Muftì di Gerusalemme Haj Amin Al-Husseini, il leader palestinese all’epoca della II Guerra Mondiale. «Hitler - ha detto martedì sera al Congresso Sionista - all’epoca non voleva sterminare gli ebrei ma espellerli. Il Muftì andò e gli disse “se li espelli, verranno in Palestina”. “Cosa dovrei fare?” chiese e il Muftì rispose “Bruciali”». L’incontro si è verificato nel novembre del 1941 e, in effetti, Al-Husseini chiese che fosse impedito agli ebrei tedeschi di rifugiarsi in Palestina. Ma diversi campi di concentramento che prevedevano anche esecuzioni di massa erano operativi fin dal 1940, e la gassificazione di massa iniziò con l’operazione Reinhard, nell’estate del 1941. «Non c’è nessun motivo per cambiare la storia», ha detto il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, da Berlino. «Conosciamo bene l’origine dei fatti - ha aggiunto - ed è giusto che la responsabilità sia sulle spalle dei tedeschi». La parziale retromarcia successiva («Non ho avuta alcuna intenzione di sollevare Hitler dalla responsabilità per l’Olocausto e la Soluzione Finale») è arrivata mercoledì e non ha placato le polemiche, subito esplose. Il ministro della Difesa Moshe Yaalon ha commentato: «Naturalmente al-Husseini non ha inventato la soluzione finale - riporta Ynet - La storia mostra chiaramente che l’ha iniziata Hitler e al-Husseini si è unito». Netanyahu ha poi completato la sua correzione precisando: «Hitler è il responsabile della Soluzione Finale e dell’eliminazione dei 6 milioni di ebrei. Lui ha preso la decisione. Allo stesso modo è assurdo ignorare il ruolo svolto dal Muftì di Gerusalemme al-Husseini, un criminale di guerra che incitò, spronò Hitler, Ribbentrop, Himmler e altri a sterminare gli ebrei di Europa». Gli esperti della Shoah hanno reagito accusando Netanyahu di totale inaccuratezza storica. Il leader dell’opposizione Isaac Herzog ha replicato che la sua è «una pericolosa distorsione. Chiedo a Netanyahu di correggerla immediatamente perché minimizza la Shoah... E la responsabilità di Hitler nel terribile disastro del nostro popolo. Il figlio di uno storico dovrebbe essere preciso riguardo alla storia». Herzog ha poi precisato: «Il Gran Mufti diede l’ordine di uccidere mio nonno, il rabbino Herzog, e supportava attivamente Hitler. Ma c’era un solo Hitler, quello che ha scritto il malato “Mein Kampf”. E che nel 1939, quasi tre anni prima dell’incontro con al-Husseini, parlò al Reichstag presentando la Soluzione Finale». Un altro deputato, il laburista Itzik Shmuli, ha chiesto che il premier si scusi con i sopravvissuti all’Olocausto. «Il capo del governo israeliano al servizio dei negazionisti! Questo non si era mai visto finora. Non è la prima volta che Netanyahu deforma la storia però una frottola di questa caratura è veramente nuova». Sulla stessa lunghezza d’onda il Centro Wiesenthal di Gerusalemme: «L’affermazione di Netanyahu è totalmente senza basi», ha spiegato all’agenziaAnsa il direttore Efraim Zuroff: «Che il Muftì spingesse sui nazisti e volesse l’invasione della Palestina è fuori discussione, ma Hitler non doveva essere convinto da nessuno». Non ci è voluto molto perché arrivasse anche una reazione ufficiale palestinese. il segretario generale dell’Olp Saeb Erekat ha sottolineato: «Lo Stato di Palestina denuncia le affermazioni (di Benyamin Netanyahu, sulla Shoah, ndr) in quanto moralmente indifendibili ed infiammatorie. Gli sforzi palestinesi contro il regime nazista sono profondamente radicati nella nostra storia». Rabbiosa anche la reazione di Abu Mazen, che ha sottolineato: «Netanyahu ha esonerato Hitler del crimine contro gli ebrei in Europa e ha accusato il muftì di Gerusalemme? Netanyahu cambiare la storia, la storia del popolo ebraico».
Netanyahu: "Hitler non voleva sterminare gli ebrei, fu il Gran Mufti a dargli l'idea". Il premier israeliano ha pronunciato parole sulla Shoah che stanno facendo discutere. "Così fa il gioco dei negazionisti dell'Olocausto", ha detto il leader dell'opposizione Herzog. Il portavoce della Merkel: "La colpa ricade sulle spalle dei tedeschi". E poi, messo alle strette, cerca di difendersi, scrive “la Repubblica”. Stanno suscitando scalpore le dichiarazioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu: ha detto che Adolf Hitler non aveva alcuna intenzione di sterminare gli ebrei, voleva solo espellerli, ma fu convinto dal gran muftì Haj Amin al-Husseini. Frasi che ovviamente fanno discutere, in Israele e fuori. "C'è un limite alla deformazione della storia" e le affermazioni di Netanyahu "fanno il gioco dei negazionisti dell'Olocausto", ha attaccato il leader dell'opposizione israeliana Itzjak Herzog. Un altro deputato, il laburista Itzik Shmuli, ha chiesto che il premier si scusi con i sopravvissuti all'Olocausto. "Il capo del governo israeliano al servizio dei negazionisti! Questo non si era mai visto finora. Non è la prima volta che Netanyahu deforma la storia però una frottola di questa caratura è veramente nuova", ha affermato, citato dal quotidiano Ynet. In un intervento al congresso sionista mondiale, Netanyahu ha dichiarato ieri che "Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli". Ma in un incontro avvenuto nel 1941 a Berlino, il muftì disse al leader nazista: "Se tu li espelli, verranno tutti qui (in Palestina)". Allora, secondo Netanyahu, Hitler gli chiese: "Cosa dovrei fare con loro?". E la risposta del muftì sarebbe stata: "Bruciali". Come ricorda oggi il quotidiano Haaretz, Netanyahu aveva già sostenuto tale tesi in un discorso tenuto alla Knesset nel 2012, quando definì Husseini "uno dei principali architetti" della soluzione finale. Una ricostruzione avanzata da diversi storici, ha sottolineato il quotidiano, ma respinta dai più accreditati ricercatori sull'Olocausto. Interpellati oggi dal quotidiano Yedioth Aharonot, diversi storici hanno di nuovo respinto tale ricostruzione. Il professore Dan Michman, a capo dell'Istituto per la ricerca sull'Olocausto dell'Università di Bar-ilan, Tel Aviv, e presidente dell'Istituto internazionale per la ricerca sull'Olocausto dello Yad Vashem, ha confermato l'incontro tra Hitler e il muftì, sottolineando però che questo avvenne quando la soluzione finale era già stata avviata. Anche il presidente degli storici dello Yad Vashem, Dina Porat, ha respinto la ricostruzione di Netanyahu: "Non si può dire che è stato il muftì a dare a Hitler l'idea di uccidere o bruciare gli ebrei. Non è vero". "Lo Stato di Palestina denuncia le affermazioni (di Benyamin Netanyahu, sulla Shoah, ndr) in quanto moralmente indifendibili ed infiammatorie". Lo afferma il segretario generale dell'Olp, Saeb Erekat. "Gli sforzi palestinesi contro il regime nazista sono profondamente radicati nella nostra storia" ha affermato Erekat, in un comunicato. "La Palestina non li dimenticherà mai, anche se sembra che il governo estremista di Netanyahu lo abbia fatto". "A nome delle migliaia di palestinesi che hanno combattuto assieme alle truppe alleate in difesa delle giustizia internazionale - ha aggiunto - lo Stato di Palestina denuncia quelle affermazioni, moralmente indifendibili ed infiammatorie". Con le sue dichiarazioni di ieri "Netanyahu ha incolpato i palestinesi dell'Olocausto, assolvendo completamente Adolf Hitler dell'odioso ed inaccettabile genocidio del popolo ebraico". Queste affermazioni, secondo Erekat, "hanno l'effetto di approfondire le divisioni in un momento in cui una pace giusta e durature è più necessaria che mai". Una ricostruzione "storicamente inesatta", "fuori dalla storia" e che "suscita ambiguità". Si aggiunge anche il commento di Marcello Pezzetti, direttore scientifico del Museo della Shoah di Roma. "Fare un'affermazione di questo tipo è un fatto molto forte e bisogna avere un grande senso di responsabilità. I politici facciano i politici, gli storici facciano gli storici", ammonisce il direttore del museo della shoah, che sottolinea come le affermazioni di un politico possano essere spesso "approssimative e superficiali". E aggiunge: "Hitler ed il muftì erano sicuramente alleati, ma il primo incontro che ebbero i due avvene alla fine del novembre del 1941. In quel momento lo sterminio era già in atto, non è quindi certo lui ad aver convinto Hitler alla soluzione finale. Dire che il muftì ha una responsabilità sul processo decisionale è veramente molto azzardato: siamo fuori dalla storia, nel campo delle ipotesi del terzo tipo". Una versione che non convince neanche Berlino. Il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, è stato deciso: "Non c'è nessun motivo per cambiare la storia". E ha continuato: "Conosciamo bene l'origine dei fatti ed è giusto che la responsabilità sia sulle spalle dei tedeschi". "Non ho avuta alcuna intenzione di sollevare Hitler dalla responsabilità per l'Olocausto e la soluzione finale": ha replicato alla fine Netanyahu mentre si imbarcava per un volo diretto in Germania in vista dell'incontro con la cancelliera Merkel. "Hitler è stato responsabile della soluzione finale e dello sterminio dei sei milioni. Fu lui a prendere la decisione", ha detto il premier israeliano, "ma è ugualmente assurdo ignorare il ruolo avuto dal mufti...Che incoraggiò Hitler, Ribbentrop, Himmler e altri a sterminare gli ebrei europei".
“Così il mufti suggerì a Hitler il genocidio”. Polemica sulle parole shock di Netanyahu. Il premier israeliano: «Volò a Berlino. Hitler voleva espellere gli ebrei. Amin al-Husseini gli disse: “Se li cacci, verranno da noi. Bruciali”». Gli storici frenano: ricostruzione falsa, scrive Maurizio Molinari su “La Stampa”. Tempesta su Benjamin Netanyahu per le affermazioni in cui attribuisce al mufti di Gerusalemme, Hajj Amin al-Husseini, l’idea della “Soluzione finale” che portò alla Shoà. Il premier israeliano, intervenendo martedì sera davanti al Congresso Sionista, ha detto: «Il mufti volò a Berlino, all’epoca Hitler non voleva sterminare gli ebrei, voleva espellerli. Hajj Amin al-Husseini andò da Hiler e gli disse “Se li cacci, verranno da noi” Allora Hitler chi chiese “Cosa ne devo fare?” E il mufti gli disse “bruciali”». Netanyahu ha poi aggiunto che «il mufti di Gerusalemme venne perseguito dai tribunali di Norimberga dopo la guerra ma riuscì a sfuggire alla giustizia». La reazione degli storici della Shoà è stata unanime. «Non si può affermare che il mufti nell’incontro del 1941 a Berlino diede a Hitler l’idea di uccidere o bruciare gli ebrei - afferma Dina Porat, titolare degli Studi storici dello Yad Vashem - non corrisponde alla verità». Yehudà Bauer, maggiore storico della Shoà, aggiunge: «Nessuno discute che il mufti di Gerusalemme fosse un violento antisemita e un alleato di Hitler ma quanto detto da Netanyahu non ha basi storiche, disponiamo del resoconto della conversazione fra Hitler e il mufti, Hitler lo vide perché voleva sfruttarlo al fine di divulgare la propaganda nazista in Medio Oriente. Hitler decideva cosa fare, non si faceva dare consigli da nessuno, figuriamoci da un arabo». Meir Litvak, storico dell’Università di Tel Aviv, afferma che «l’idea di sterminare gli ebrei risale al 1939, quando il piano fu di mandare gli ebrei europei a Nord degli Urali per farli morire di malattie ma il piano venne bocciato perché l’Urss non si arrese nel 1941, fu allora che venne l’idea della Soluzione Finale». Molti sopravvissuti alla Shoà hanno telefonato a tv e radio israeliane esprimendo ferma condanna per le frasi del premier, accusandolo di aver «ridimensionato le responsabilità di Hitler» nello sterminio di sei milioni di ebrei. Per il leader dell’opposizione laburista, Isaac Herzog, Netanyahu «è colpevole di una distorsione della Storia». «Il mufti diede l’ordine di uccidere mio nonno, Rabbi Herzog, e sostenne attivamente Hitler - afferma Herzog - e nessuno può insegnarmi quanto odiasse gli ebrei ma c’è stato un solo Hitler». Il negoziatore palestinese Saeb Erakat aggiunge: «Netanyahu odia a tal punto i palestinesi che è disposto ad assolvere Hitler per l’assassinio di 6 milioni di ebrei». La risposta del premier israeliano è arrivata alla partenza per Berlino dove è atteso dall’incontro con la cancelliera Angela Merkel: «Non avevo alcuna intenzione di assolvere Hitler dalla sua diabolica responsabilità per lo sterminio degli ebrei d’Europa, è stato Hitler il responsabile della Soluzione Finale. Al tempo stesso è assurdo ignorare il ruolo avuto dal mufti Hajj Amin al-Husseini, un criminale di guerra, nell’incoraggiare Hitler, Ribbentrop, Himmler ed altri allo sterminio degli ebrei». Il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, stretto consigliere del premier, si distacca da quanto ha detto, correggendolo: «Hajj Amin al-Husseini non ha inventato la Soluzione Finale, l’ha condivisa, e i movimenti jihadisti oggi incoraggiano un antisemitismo di eredità nazista».
Netanyahu “assolve” Hitler: “La Shoah idea dei palestinesi”. Il premier israeliano: voleva solo cacciare gli ebrei, il gran Muftì gli disse di bruciarli. Insorgono storici e politici: «Negazionista». E oggi a Berlino vedrà Merkel e Kerry, scrive ancora Molinari. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu (66 anni, in carica dal 1996 al 1999 e poi dal 2009) con la cancelliera tedesca Angela Merkel. Sopravvissuti alla Shoah, storici del nazismo, leader dell’opposizione, ministri del governo e cittadini comuni: Israele è in rivolta contro il premier Benjamin Netanyahu che ha attribuito al mufti di Gerusalemme la responsabilità di aver suggerito ad Adolf Hitler l’idea di sterminare gli ebrei. Ad innescare la maggiore tempesta politica della sua carriera è quando dice parlando al XXXVI Congresso sionista a Gerusalemme: «Hitler non voleva sterminare gli ebrei all’epoca, li voleva espellere» ma nell’incontro a Berlino alla fine del 1941 «il mufti di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, obiettò “verranno tutti qui” e quando Hilter gli chiese “cosa devo fare con loro?”, il mufti “rispose di bruciarli”». L’intento del premier è indicare nel mufti di allora, padre storico del nazionalismo palestinese, la genesi dell’odio antiebraico che incita i giovani arabi all’Intifada dei coltelli. Ma «riscrivere la storia a fini politici è il più grave degli errori», gli rimprovera Yehuda Bauer, maggiore storico della Shoah, imputandogli «affermazioni senza fondamento» perché «abbiamo il documento su quell’incontro e spiega come fu Hitler a parlare, chiedendo al mufti di fare propaganda nazista in Medio Oriente». Nell’arco di poche ore è quasi l’intero Paese che si solleva, imputando al premier di essere un «negazionista». Dina Porat, a capo degli storici dello Yad VaShem, è lapidaria: «Non si può dire che il mufti diede a Hitler l’idea di bruciare gli ebrei, è falso». Meir Litvak, storico all’Università di Tel Aviv, parla di «bugie» e Moshe Zimmermann, germanista all’ateneo di di Gerusalemme, trae le conclusioni: «Netanyahu si è aggiunto alla lunga lista di coloro che definiamo negazionisti» per aver ridimensionato le responsabilità dei nazisti nella Shoah. È il pensiero che accomuna numerosi sopravvissuti, che affidano a radio e tv la protesta per aver «ridotto le colpe di Hitler». «Netanyahu deve scusarsi con i sopravvissuti - tuona il deputato dell’Unione sionista Itzik Shmuli - è una vergogna che il premier dello Stato ebraico avvalori il negazionismo». Nessuno mette in dubbio che il mufti sia stato «un antisemita violento collaboratore di Hitler - come dice il leader laburista Isaac Herzog - ma c’è stato un solo Hitler che scrisse il Mein Kampf e illustrò la Soluzione Finale al Reichtag». A dare il polso della rivolta popolare è la scelta di Moshe Yaalon, ministro della Difesa e fedelissimo del premier, di correggere Netanyahu: «La Storia è chiara, Hitler iniziò lo sterminio e il mufti si unì». Per Saeb Erakat, negoziatore dell’Autorità palestinese, è l’occasione a lungo attesa di delegittimare l’avversario davanti ai suoi cittadini: «Il premier dimostra di odiare i palestinesi fino al punto da assolvere il più famoso criminale della storia». Netanyahu è accerchiato, appare vulnerabile, in bilico, ma si difende da Berlino, dove oggi vedrà John Kerry: «Non volevo assolvere Hitler ma dimostrare che il padre della nazione palestinese aspirava fin da allora alla nostra distruzione come dimostrano i verbali di Norimberga» con la «deposizione del vice di Eichmann, Dieter Wisliceny, che lo descrisse come colui che incitava ad accelerare lo sterminio».
Hitler e il Gran Mufti: la grande gaffe di Netanyahu. Secondo il premier, fu Hussein a convincere il dittatore a sterminare gli ebrei. Un'opinione che fa a pugni con la storia e con la memoria della Shoah, scrive Paolo Papi su “Panorama”. L'idea che sia stato il Gran Mufti di Gerusalemme,Haj Amin al-Husseini, a convincere AdolfHitler a sterminare il popolo ebraico in Europa può apparire risibile, per chiunque abbia letto anche solo qualche passaggio del Mein Kampf dove il dittatore tedesco non faceva mistero, sin dal 1922, delle sue intenzioni. Eppure, se a sostenere questa tesi è il capo del governo israeliano, e non qualche sperduto professore negazionista americano, qualcuno potrebbe anche chiedersi quali siano le ragioni che abbiano spinto Benjamin Netanyahu a prendere una posizione così controversa, vissuta in patria come una offesa alla memoria dei sopravvissuti, volta quasi a sminuire le responsabilità storiche del Fuhrer. E dunque: perché? Solo per gettare una luce sinistra sulle indubbie responsabilità di quello che è considerato il capo spirituale della Nazione palestinese? La rilettura storiografica piegata alle necessità politiche del momento? Hitler non voleva sterminare gli ebrei, voleva espellerli. Ma Haj Amin al-Husseini andò da Hitler e gli disse: 'Se li espelli, quelli ritorneranno qui (in Palestina, ndr)'. Hitler chiese al Muftì che cosa suggerisse e il Muftì rispose: Bruciali Benjamin Netanyahu. Ogni dubbio è lecito. Tanto più che, in questo caso, come ha lucidamente segnalato Isaac Herzog, il capo dell'opposizione laburista alla Knesset, la provocazione di Netanyahu è anche destituita di qualsiasi fondamento storico. «Nel gennaio 1939, quasi tre anni prima che avvenisse l'incontro tra Hussein e il dittatore di cui parla Netanyahu, Hitler presentò al Reichstag tedesco la Soluzione finale» ha scritto Isaac Herzog in un post su facebook dove ripercorre anche frammenti della vita di suo nonno, Isaac, il primo rabbino capo degli aschenaziti d'Israele che lo stesso Gran Mufti aveva ordinato di uccidere. Nessuno in Israele, più del nipote di Isaac Herzog, ha in qualche modo l'autorità morale e familiare per sostenere, come ha sostenuto, che Netanyahu si sia in qualche modo iscritto, senza volerlo o per un cinico calcolo politico, tra i negazionisti dell'Olocausto. Parole che sono pietre in un Paese come Israele dove la memoria della Shoah è considerata un tabù intoccabile, il vero cemento storico della Nazione ebraica. Zehava Galon, il leader di Meretz, l'ha in qualche modo buttata sull'umorismo nero, quando ha dichiarato che «i 33.771 ebrei uccisi a Baby Yar nel settembre 1941, due mesi prima che Hitler e il Mufti si incontrassero, dovrebbero essere riesumati per ricordare loro che i nazisti non intendevano ucciderli». Ma, battuta a parte, quella frase che Netanyahu ha pronunciato dinnanzi al World Zionist Congress di Gerusalemme («Hitler non voleva sterminare gli ebrei, voleva espellerli. Ma Haj Amin al-Husseini andò da Hitler e gli disse: 'Se li espelli, quelli ritorneranno qui (in Palestina, ndr)'. Hitler chiese al Muftì che cosa suggerisse e il Mufti rispose: Bruciali») è rivelatrice di qualcosa di più profondo, e reale, del negazionismo. Rivela quanto sia pericoloso quando un politico, per necessità tattiche o per attaccare il nemico politico del momento (i palestinesi, ndr), si mette a riscrivere la storia. Quello è un compito che spetta agli storici.
Netanyahu, Hitler, il Gran Mufti e l'uso politico della storia. Sostenere che il “suggeritore” dello sterminio ebraico fosse il Gran Mufti significa offrire il destro ai negazionisti. E servire odio e guerra, scrive Marco Ventura “Panorama”. Una gaffe storica, un’affermazione totalmente scorretta dal punto di vista del politicamente ammissibile. Davanti al Congresso sionista mondiale Benjamin Netanyahu ricostruisce un evento reale, storicamente accertato: l’incontro nel novembre 1941 (e il patto) tra il Gran Mufti palestinese di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, e il capo del nazismo Adolf Hitler. Due campioni mondiali dell’antisemitismo. E dice, il premier israeliano, che all’epoca Hitler non sapeva ancora bene cosa fare degli ebrei: la sua idea era quella di espellerli, non sterminarli. Il Gran Mufti, preoccupato che gli ebrei si rifugiassero tutti in Palestina, gli suggerì invece di farli fuori: “Bruciali!”. Ne consegue che l’ideatore della soluzione finale, il detentore per così dire del copyright dell’Olocausto non fu Hitler, ma il Gran Mufti. Affermazione basata su una parte di realtà, ma anche su una parte non marginale di libera interpretazione neppure nuova. Se ricordo bene, in una sala del Museo-memoriale Yitzhak Rabin a Tel Aviv viene ricostruito in termini analoghi il ruolo che ebbe Haj Amin al-Husseini rispetto agli ebrei europei e al nazismo. Valutazioni simili Netanyahu aveva già esplicitato nel 2012. Adesso, partendo per Berlino sulla scia delle polemiche subito suscitate dalle sue parole, Netanyahu ha precisato di non aver affatto voluto ridimensionare la scelta di Hitler riguardo alla soluzione finale, tanto meno le sue responsabilità, ma sottolineare come in assenza di una minaccia demografica imminente e di una “occupazione” ebraica della Palestina, l’antisemitismo dei palestinesi avesse spinto il Gran Mufti a sposare come complice se non ispiratore il disegno criminale di Hitler. Inevitabile che il portavoce di Angela Merkel intervenisse per dire che i tedeschi sono consapevoli di come tutta la storia sia nata e che la responsabilità maggiore dell’Olocausto è loro, tedesca. Fatica e sofferenza di decenni di elaborazione della colpa non possono essere neutralizzati da una battuta di 40 secondi in un congresso politico...Sono andato a rileggermi “Gerusalemme, una storia”, di Franco Cardini, studioso non anti-arabo né anti-musulmano. Ebbene, scrive Cardini che “a partire almeno dal 1937 il Mufti Husseini, che, pur latitante, continuava a guidare il movimento palestinese antisionista, si andò legando sempre più strettamente alla Germania: questo rapporto avrebbe addirittura dato luogo, durante la guerra, all’immissione di alcuni reparti di musulmani provenienti da vari paesi nelle forze armate del Terzo Reich o in milizie ausiliarie. Il Mufti e il Führer s’incontrarono poi due volte, nel novembre del 1941 e nel luglio del 1942”. Ricostruzione congrua con quella fatta dal premier israeliano. La gaffe di Netanyahu non riguarda tanto il fronte palestinese (gran parte dei palestinesi vorrebbe veder sparire gli ebrei non solo dalla Palestina ma dalla faccia della Terra e questo sentimento anti-ebraico risale indietro nel tempo), quanto lo stesso fronte ebraico, perché la gran parte di ebrei e di israeliani non ammetterebbe mai che il copyright dell’Olocausto e della “soluzione finale” non appartenga a Hitler. Sostenere che il “suggeritore” della soluzione finale fosse il Gran Mufti di Gerusalemme, significa offrire il destro ai negazionisti per spargere dubbi sull’origine di quella decisione (e sulla decisione stessa). Per inciso, non esiste un documento nel quale Hitler metta chiaramente nero su bianco “l’ordine” di sterminare gli ebrei. Ma lo sterminio avvenne realmente, e gli storici hanno ricostruito con una certa precisione passi e passaggi che portarono all’esito tragico fondato su un razzismo millenario: la liquidazione di milioni di persone. Ecco, ciò che non si vuole ammettere, e che Netanyahu ha svelato con la sua storica gaffe (o gaffe storica), è che al fondo della contrapposizione agli ebrei da parte dei palestinesi (e dei loro alleati), e prima ancora della rivendicazione della propria terra “occupata”, c’è un atavico odio razziale. Ma la scorrettezza politica di Netanyahu ha fatto sì che le critiche mosse dai palestinesi si saldassero con quelle del mondo ebraico e israeliano, storicamente assai suscettibile a qualsiasi argomentazione possa anche lontanamente apparire “assolutoria” nei confronti del criminale assoluto, Adolf Hitler. Purtroppo, quando la storia viene usata per fini di politica attuale, se non addirittura quotidiana, finisce col servire soltanto l’odio e la guerra. Mai a ristabilire una verità.
Quello che Netanyahu ha detto di vero sul Gran Muftì, scrive Gianluca Veneziani su “L’Intraprendente”. L’affermazione, d’accordo, è stata strampalata, storicamente infondata, perlopiù propagandistica. Ma nella frase del premier israeliano Benjamin Netanyahu, secondo cui «Hitler non voleva sterminare gli ebrei, all’epoca, voleva espellere gli ebrei. Fu Amin al-Husseini (il Gran Muftì di Gerusalemme, ndr) che andò da Hitler e gli disse: “Se li espelli, verranno tutti qui (in Palestina, ndr). “Cosa dovrei fare con loro?”, chiese Hitler. E il Muftì rispose: “Bruciali”», ebbene in questa affermazione c’è qualcosa di vero. Di certo non il fatto che all’epoca (era il 1941) Hitler non volesse sterminare gli ebrei, tanto è vero che già nel Mein Kampf trova spazio l’idea di una soppressione del popolo ebraico (il futuro Führer parlava dell’esigenza di «tenere sotto i gas gli ebraici corruttori del popolo»), iniziatasi poi a concretizzare nel 1939, all’indomani dell’occupazione della Polonia; né è vero che Hitler volesse solo espellere gli ebrei, tant’è che ancora prima del cosiddetto “progetto Madagascar”, cioè l’idea di un trasferimento coatto degli ebrei in un immenso ghetto rappresentato dall’isola africana, già si erano verificate operazioni di pulizia etnica, come il famoso pogrom del 1938 noto come Notte dei cristalli. Né corrisponde a verità che fu il Gran Muftì di Gerusalemme a ispirare a Hitler il progetto della soluzione finale, visto che – come gli storici quasi concordemente affermano – essa fu figlia di una decisione dell’establishment nazista, che poi trovò compiuta espressione nella conferenza di Wannsee del gennaio 1942. Il punto di verità toccato da Netanyahu è però il fatto che il Gran Muftì condivideva profondamente il progetto di sterminio di massa degli ebrei e ne faceva ragione per offrire il proprio appoggio a Hitler alla guerra in corso in Europa e, allo stesso tempo, per avviare un analogo progetto in Medio Oriente. Come risulta dagli inquietanti documenti rinvenuti dai ricercatori dell’istituto Simon Wiesenthal di Los Angeles, già nel luglio 1934 il Muftì Husseini confermava il proprio appoggio alla Germania nazista, chiedendo al console tedesco di Palestina «fino a che punto il Terzo Reich fosse disposto a sostenere il movimento arabo contro gli ebrei». Nel 1937 poi, su richiesta esplicita di Adolf Eichmann, Husseini si dichiarava «felice di cooperare per il trionfo di una giusta causa», ossia la necessità di debellare il «demone sionista». È però nel 1939 che il suo endorsement a favore della “soluzione finale” diventò esplicito. A inizio anno, dai microfoni di un’emittente segreta, il Gran Muftì invocava «il diritto degli arabi a risolvere il problema ebraico in Palestina e negli Stati arabi con le stesse modalità e gli stessi mezzi adoperati dal Führer», ossia «usando lo stesso metodo saggiamente impiegato per risolvere questa questione nei Paesi dell’Asse Roma-Berlino». E, all’indomani dell’incontro con Hitler avvenuto a Berlino il 28 novembre 1941, chiese al Führer di sottoscrivere una dichiarazione, che impegnava la Germania nazista a sostenere lo sterminio degli ebrei da parte degli arabi in Palestina. Hitler rifiutò di farne una dichiarazione pubblica, ma si impegnò a «intraprendere la lotta fin quando le ultime tracce dell’egemonia comunista ebraica europea non fossero state del tutto eliminate» e, una volta conseguito questo obiettivo, a procedere alla «distruzione dell’elemento ebraico che viveva sotto la protezione britannica nelle terre arabe». Se il Muftì non indusse il Führer allo sterminio, sicuramente ne condivideva l’idea di fondo e intendeva estendere questa delirante missione oltre i confini europei. Una contiguità che mostra le inquietanti corrispondenze tra il progetto nazista di Olocausto e i proclami volti alla distruzione ebraica, allora lanciati dal gran Muftì e oggi condivisi da buona parte dei terroristi palestinesi, ogni qualvolta parlano di «annientare lo Stato ebraico».
Caffè e sigaretta: Netanyahu e il paradosso della storia, scrive Andrea Gatopoulos su “Il Varco”. Netanyahu afferma oggi che, in un incontro avvenuto nel 1941 a Berlino, il muftì di Gerusalemme avrebbe detto ad Hitler: “Se tu li espelli, verranno tutti in Palestina”. Hitler gli avrebbe chiesto: “Allora cosa dovrei fare con loro?” e la risposta del muftì sarebbe stata: “Bruciali”. Quando un’affermazione del genere, intrisa del più palese negazionismo storico dell’intera questione palestinese, suscita lo scandalo delle comunità internazionali, bisogna guardare non tanto al contenuto dell’affermazione in sé, quanto alla sussistenza stessa dello scandalo. Che la storia non fosse un immutabile è una questione ormai scontata per un mondo – quello occidentale – che ha passato l’ultimo secolo a distruggere tutte le istituzioni di pensiero accettate per fede nei suoi precedenti tentativi di far chiarezza sull’oscuro: eppure questo assunto non pare ben metabolizzato al di fuori del suo campo di critici. Ci stupiamo ancora, insomma, che un potente possa far leva sull’indimostrabilità della verità storica dei documenti e delle fonti, quindi sulla sostanza stessa di quel grande e misterioso soggetto chiamato “storia”. Ci stupiamo del fatto che in quest’ottica – pericolosa, certo – qualsiasi “assurdo” diventa “possibile” e qualsiasi “possibile” diventa “assurdo”. É il campo di azione di tutti i complottismi, delle teorie di nuovi ordini internazionali, dell’operare di forze segrete, dell’inutilità della scienza moderna e di tutta una serie di superficialità che hanno però una radice profonda e robusta. É il paradosso per il quale un uomo di potere, da un giorno all’altro, può permettersi di cambiare le regole del gioco delle parti “modificando”, sembra a suo piacimento, ciò che appariva ancora immodificabile, sapendo che nessuna logica potrebbe controvertire oggettivamente la nuova versione dei fatti, così come nessuna logica potrebbe dimostrarla: ciò che rimane è una storia ridotta (o forse lo è sempre stata) ad una versione “democratica” di sé stessa, cioè in mano ai potenti. Eppure è sempre lo stesso choc: lo choc che si ha nel realizzare che non è possibile avere certezza di alcunché, nemmeno del proprio passato e che i confini della nostra società restano indissolubilmente lambiti da un’inesplorabile oscurità, nella quale qualcuno, tra sé e sé, si sarà sicuramente chiesto: “E se avesse ragione lui?”
Riscrivere per dominare, la Storia come arma dei regimi (e non solo). Dalle guerre puniche ai rapporti tra fascismo e Paesi anglosassoni: quante omissioni, reticenze o falsità sono state raccontate Demistificare è dovere di ogni studioso serio, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Non è mai esistito, stando ai documenti e ai testimoni, alcun carteggio segreto fra Mussolini e Churchill (ma i vecchi editori Mondadori e Rizzoli si gettarono a capofitto nel mercato dei falsi diari e dell'inglese maccheronico). La conseguenza di questa realtà è che la vicenda della fucilazione segreta di Mussolini per far sparire il carteggio sarebbe una balla. Ci fu semmai nel 1940 lo scambio di lettere, una di Churchill («Ci ripensi, non ci muova guerra») e una secca risposta di Mussolini che diceva: ormai è fatta. Punto e fine della storia. Non è neppur vero che gli angloamericani lasciavano a secco di rifornimenti le formazioni partigiane a direzione comunista, ma anzi le preferivano perché più combattive. Non è vero che gli ebrei fossero ai tempi di Maometto più filo-cristiani che filo-islamici, ma anzi convissero in modo pacifico e tollerante con gli arabi finché questi rappresentarono una civiltà organizzata, poi tutto cambiò. Ancora: la stampa e i politici anglosassoni si infuriarono contro Israele quando il suo servizio segreto Mossad rapì Adolf Eichmann in Argentina nel 1960 per portarlo davanti ai giudici di Gerusalemme (ci volle Hannah Arendt con le sue corrispondenze sul New Yorker per gettare un po' di luce su ciò che realmente era accaduto). Infine, l'invenzione dei popoli, delle patrie, delle antiche culture, sarebbe poco meno che una prepotente invenzione romantica per giustificare ambizioni politiche e territoriali. Quando l'Impero romano assimilò i primi barbari, sorsero potentati e aggregati che non avevano capo né coda. La storia come arma di suggestione e di distruzione permanente è una conseguenza della nascita della scrittura, benché il software fosse già predisposto nella mente umana: non ci volle molto a capire che i vincitori avrebbero sempre considerato il passato come preda di guerra. Anzi, un diritto: cancello il tuo esercito e cancello con la tua identità anche il tuo passato per essere sicuro di governare il futuro. Il mito di Annibale, caro anche a Sigmund Freud, sta nel mito antiromano e antioccidentale anche perché Roma con lo slogan «delenda Carthago» ridusse letteralmente in polvere la capitale dei Fenici, come aveva fatto Alessandro a Persepoli. Il mito celtico, altro esempio, ha certamente ha le sue radici anche nella ferocia con cui Giulio Cesare sterminò un milione di galli e altrettanti ne rese schiavi. Distruggere il nemico è una costante della guerra ma accanto a quella dei missili e dei cannoni crescono le quotazioni della propaganda e dell'amnesia. Ha fatto banalmente scalpore il caso di non so quale Miss che in un'intervista televisiva non sapeva dove collocare Hitler nel tempo e nello spazio. Del resto le risposte dei giovani e meno giovani, quando interpellati dai media, sono in genere comiche e scandalose. Il vuoto della memoria si allarga e su quel vuoto cresce a cespuglio la propaganda. Il nuovo libro di Paolo Mieli L'arma della memoria ha un sottotitolo etico: Contro la reinvenzione del passato (Rizzoli, pagg. 427, euro 20). Leggerlo, procura un vacillamento e il risultato è di nuovo la non medicabile certezza illustrata da George Orwell: chi controlla il passato controlla il futuro. Mieli ci ha abituato alla cadenza piuttosto regolare dei suoi libri, in parte anticipati per capitoli sul Corriere della Sera, e delle sue trasmissioni televisive oneste, anticonformiste e di qualità. Questo lavoro da storico, e da giornalista, dovrebbe provocare curiosità e contrasti morali e politici. L'impressione però è che sia tardi: pochi vogliono sapere ciò che «realmente» accadde, mentre tutti vogliono sapere come usare politicamente la verità attraverso la reticenza, la manipolazione, l'omissione, le costruzioni abusive.
Quando vivevo a New York una ventina d'anni fa restavo stupìto dall'ingenuità disarmante delle domande della gente sul fascismo, che nella damnatio memoriae nessuno distingueva dal nazionalsocialismo hitleriano. Dunque mi incuriosì molto il successo di un saggio di Jonah Goldberg intitolato Liberal Fascism (più o meno: fascismo di sinistra) in cui si spiegava agli americani la genesi di un movimento nato dall'estremismo rosso del giovane Mussolini amato da Lenin e che aveva influenzato nel bene e nel male la politica occidentale «degli ultimi settantacinque anni e anche il momento presente» come ha scritto Tom Wolfe. Ed ecco che ritrovo oggi in L'arma della memoria di Mieli molti dettagli poco noti, omessi o sottovalutati che formano connessioni importanti ad esempio sui rapporti duraturi e speciali tra il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e il duce fascista, che ricordano l'amicizia fra l'illuminista napoletano Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, padre fondatore americano (e inventore del parafulmine) come ricostruita da Lucio Villari in America amara, storie e miti a stelle e strisce. Giudizi e pregiudizi producono o riducono illusioni e leggendo Mieli si ha un'impressione simile a quella di coloro che dopo aver speso anni per rimuovere croste di cera, fumo e restauri truffaldini alle opere d'arte sono stati aggrediti come revisionisti, distruttori di miti oscuri (il fumo delle candele) per scoprire che Michelangelo nella Cappella Sistina usava gli stessi colori dei cartoni animati di Walt Disney. Cosa questa che ricorda la celebre battuta che Charles Schulz, il creatore di Charlie Brown, presta al suo personaggio Pigpen, il più sudicio bambino del mondo, che rifiuta di lavarsi dicendo: «Chi sono io per togliere la polvere dei secoli?». La storia, come percezione attendibile del passato, sembra ancora nelle mani sporche di Pigpen in attesa di storici non conformisti, pazienti e per questo spesso micidiali.
BELLA CIAO….UN′ENNESIMO FALSO STORICO.
Muore Ingrao o passa una legge di "sinistra" in Parlamento e si leva sempre quello strano canto di rottura e di sconfitta..., scrive Adriano Scianca su “Stampa Libera”. “Bella ciao”: storia vera dell’inno di Tsipras e Charlie. Fioccano le mondine, nel mondo. In Francia come in Grecia, risuona l’antica canzone delle lavoratrici delle risaie. L’ultimo è stato Alexis Tsipras, che ha chiuso la campagna elettorale sull’aria di “Bella Ciao”. La stessa cosa era accaduta poche settimane fa, durante le commemorazioni funebri delle vittime della strage di Charlie Hebdo. E nell’ottobre 2011, durante le proteste di “Occupy Wall Street”. E nelle rivolte turche del 2013. E in chiusura della campagna elettorale delle presidenziali francesi del 2012, da parte di François Hollande. “Bella Ciao” diventa quindi, come ha scritto Repubblica, il “canto delle resistenze mondiali”. Quali siano non è dato sapere: le mediatizzate, effimere, forse pilotate rivolte turche e americane, durate sì e non un quarto d’ora, il tempo di far fotografare un bacio sulle barricate per fare il pieno di tweet e finire nel dimenticatoio? O forse parliamo della “resistenza” di quel campione di ribellismo che è Hollande? La “resistenza” di Charlie Hebdo, fatta di adulti che fanno i rutti quando passano le suore? O magari la “resistenza” del no-Ue-ma-non-troppo, l’inzupposo Tsipras? Ovviamente sarà bene che nessuno abbia spiegato alla folla francese accorsa alle esequie dei vignettisti che la canzone parla di un “invasore”. Grottesco ritornello, da intonare ai funerali di progressisti uccisi da elementi di un’invasione taciuta e negata innanzitutto da loro stessi. Ma ancor più grottesco è che tutto questo circo mediatico sia montato intorno a una truffa bella e buona, come del resto accade per tutto ciò che riguarda l’epopea resistenziale. Lo stesso Giorgio Bocca, giornalista e già sedicente comandante partigiano nelle valli di Cuneo, ricordò, a proposito di “Bella Ciao”, di “non averla mai cantata né sentita cantare. Diventerà popolare solo nel Dopoguerra”. È lo stesso sito ufficiale dell’Anpi, del resto, a svelare l’arcano, se non altro con sincerità ammirevole. Dal punto di vista musicale, il ritornello di questa canzone è stato suonato e inciso già nel 1919 a New York in un 78 giri con il titolo “Klezmer-Yiddish swing music”. Ma attenzione: “La canzone divenne inno ufficiale della Resistenza solo vent’anni dopo la fine della guerra. Cesare Bermani, autore di uno scritto pionieristico sul canto sociale in Italia, parla di invenzione di una tradizione. Poi a consacrare il tutto è arrivata Giovanna Daffini, che nel 1962 aveva cantato una versione di ‘Bella ciao’ nella quale non si parlava di invasori e di partigiani, ma di una giornata di lavoro delle mondine. Aveva detto di averla imparata nelle risaie di Vercelli e Novara dove era mondariso prima della guerra e ai ricercatori non parve vero di aver trovato l’anello di congiunzione fra un inno di lotta, espressione della coscienza antifascista, e un precedente canto di lavoro proveniente dal mondo contadino. La consacrazione avvenne nel 1964 quando il Nuovo Canzoniere Italiano presentò a Spoleto uno spettacolo dal titolo ‘Bella Ciao’ in cui la canzone delle mondine apre il recital e quella dei partigiani lo chiude”. Una truffa, un medaglia di latta, un’epopea virtuale, una favola narcisisticamente passata di bocca in bocca. Sì, a pensarci bene è proprio la canzone adatta.
Bella Ciao nasce da qui: L'ing. Fausto Giovannardi ha scoperto che la melodia del più popolare canto della Resistenza italiana al nazifascismo è stata ispirata dalla ballata yiddish 'Koilen' arrangiata, ai primi del '900, dal fisarmonicista gitano Mishka Ziganoff. Ziganoff, originario di Odessa, emigrò negli Stati Uniti dove lavorò come musicista klezmer. Il Klezmer è un genere musicale di tradizione ebraica che accompagna feste di matrimonio, funerali o semplici episodi di vita quotidiana (da Wikipedia). Ulteriori dettagli sulla scoperta dell'ing Giovannardi si trovano nell'articolo che Jenner Meletti, del quotidiano La Repubblica, ha dedicato all'intera vicenda (La Repubblica 12/4/2008). Il video mette a confronto i due brani. La versione del brano di Ziganoff, che, a sua volta, sembra essere stata ricavata da un più antico canto tradizionale ebraico, è quella incisa nel 1919 a New York. Di questa incisione viene proposta solo la parte iniziale di circa un minuto (l'intero brano dura più di tre minuti). P. S. Da quando è stato pubblicato l'articolo di Jenner Meletti su "La Repubblica", da più parti è stata messa in dubbio la parentela tra "Bella Ciao" e la canzone yiddish "Koilen".
La retorica di Bella Ciao ha rotto i coglioni, scrive Francesco Maria Del Vigo, su "Il Giornale". Pietro Ingrao per me non è un mito. Ne ho altri, finti, veri, cartacei. Ma non pretendo che siano universali. Non è un padre della Patria. Non può essere un padre della Patria uno che questa diavolo di Patria voleva svenderla a quella che sentiva la sua, di patria. Cioè la madre Russia comunista. Ma è possibile che qui ci si debba dividere tutti tra russi e americani? Ma uno che fa il tifo per l’Italia non è un’opzione disponibile? (Non la nazionale, per carità, di quelli ce ne sono troppi). Ingrao, per me, non è un esempio. È uno che dalle colonne dell’Unità difendeva gli eccidi delle truppe russe in Ungheria e che oggi, dagli stessi che si genuflettono davanti al suo cadavere, sarebbe stato licenziato come un sovversivo criminale. Ma lui rappresenta i vincitori, anche adesso che è stato vinto dalla vita, come succede e succederà a tutti noi. Pietro Ingrao, per me, è un vecchio morto a cento anni, davanti al quale non posso che elevare un arrivederci ossequioso e laico. Perché amo gli anziani e ammiro i coerenti e gli idealisti. Anche di idee che non condivido. E invidio le comunità. Quella folla di pugni alzati, quelle bandiere rosse con la falce e il martello, quelle ugole che si squarciano intonando Bella Ciao. È roba d’altro tempo, di un’altra era. Archeologia politica e umana. Come quelle poltrone di modernariato che dici: cavolo che design strano. Ma a casa non le vorresti mai. Ma facciamo una precisazione: evviva le comunità, evviva le idee. Ma Bella Ciao non è un inno nazionale. È un canto da ultras. Dell’antifascismo. Quella è una comunità che rispetto, ma non è una nazione. Non è di tutti, ma di parte. Divide e non unisce. Come direbbero i moderni: è divisiva. Il mito della resistenza non è realtà, ma finzione. Se va bene fiaba. È il Babbo Natale della sinistra. Shhh. Non diciamolo a voce alta che sennò poi ci sentono. Chè l’Italia l’hanno liberata gli americani. Bella Ciao non è pace, ma guerra. E pure civile. Che è il massimo dell’inciviltà. Basta. Basta con questo culto della resistenza, con questa religione laica della Liberazione. Pure il Papa apre ai divorziati, ma le vestali di piazzale Loreto non riescono nemmeno a parlare agli a-partigiani. Basta coi talebani del 25 aprile, con i santificatori del comunismo, con quelli che ci vogliono infilare in testa il burka del politicamente corretto. Con quelli che pensano che mettere la gente a testa in giù sia un atto di libertà. Renzi, Grasso e Mattarella avrebbero chinato il capo davanti al feretro di Giorgio Almirante? No. Perché era un fascista. Redento. Democratico. Ma c’aveva sempre quel problema lì. Non parlo del peccato mortale di aver eletto Fini come proprio delfino. Ma di quella camicia non troppo intonata coi colori alla moda. Invece erano tutti lì, davanti alle falci e ai martelli. Immobili davanti a simboli di morte. Persino Fini era uscito dal sepolcro. E pure Marino. Ma quello si imbuca ovunque: dal Vescovo di Roma al patriarca dei bolscevichi, che differenza c’è? Anche il comunista Ingrao avrebbe mandato a quel paese quella massa di sciacalli che cerca di vivere su una (presunta) rendita di posizione. Io vorrei mandare a quel paese Renzi, Grasso, la Boldrini, la religione (catto)comunista dei partigiani, le falci e il martello, il galateo del 25 aprile e Bella Ciao. Che, ripeto, non è Fratelli d’Italia, ma una canzone più secessionista della Lega di Bossi: spacca il paese, allarga la piaga e divide gli italiani. Ma, soprattutto, rompe i coglioni. È l’ora di dire ciao. Anche a Bella Ciao.
FEMMINISMO COME DERIVA CULTURALE.
Proviamo qui ad approfondire il confronto che si è aperto su femminismo e generazioni. Per non disperdere i valori. E l'energia che ancora ci serve. Femminismo sì, femminismo no, se il potere delle donne non è solo un hashtag, scrive Marta Serafini su "Il Corriere della sera". “Non mi serve il femminismo perché mette le donne contro gli uomini”.
“Non mi serve il femminismo perché se un uomo mi fa un complimento non lo considero un insulto”.
“Non mi serve il femminismo perché le donne e gli uomini sono uguali”.
In queste ore, negli Usa, impazza l’hashtag #womenagainstfeminism (donne contro il femminismo). Il concetto di fondo dei messaggi è: il femminismo mette le donne contro gli uomini. Disparità salariale, sessismo, violenza sessuale e diseguaglianza, nessuna di queste parole viene scritta. Come se il gender gap non esistesse. E come se davvero uomini e donne occupassero le stesse posizioni all’interno della società. A scorrere i tweet, i selfie e i volti di #womenagainstfeminism e del tumblr collegato all’iniziativa, viene da pensare di essere di fronte a un gruppo di ragazze che non hanno ben chiaro cosa sia il femminismo. Di fronte a frasi come “Non mi serve il femminismo perché occuparmi del mio uomo è il mio compito”. ci si immagina le povere ossa di Mary Wollstonecraft o Virginia Woolf rivoltarsi freneticamente nella tomba. E non a caso molte commentatrici americane e britanniche hanno bollato le autrici dei tweet come ignoranti. Tutto risolto allora? No, perché se si vanno a leggere i commenti di chi ha deciso di ribattere sui socil, le cose non vanno meglio. Le donne pro feminism su Twitter non fanno altro che ricadere nello stereotipo del vittimismo. “Se io dico quello che penso vengo considerata una puttana, mentre un uomo è assertivo” ,”Abbiamo bisogno del femminismo perché le donne sono esseri umani”, sono alcune delle frasi postate. E c’è di più. La cantante Beyoncé, per rispondere alle detrattrici del femminismo, si è messa in posa su Instagram come Rosie the Riveter, sbagliando completamente esempio, perché per molte femministe l’operaia americana post Perl Harbour sì è guadagnata a torto lo status di icona del femminismo. Entrare in catena di montaggio per sostenere l’economia come bravi soldatini infatti non è esattamente la via verso la parità. Se 140 caratteri sembrano dunque troppo pochi per dibattere di un tema così complesso come l’uguaglianza e se un selfie banalizza in modo drammatico la questione, sarebbe però stupido bollare questo dibattito come superficiale. In qualche modo infatti le “women against feminism” hanno un merito. Come già le stesse Marissa Mayer, Sheryl Sandberg o la stessa Laurie Penny hanno spiegato, la parola femminismo è probabilmente superata e fuorviante per molte giovani. Il che non significa assolutamente che la parità tra uomo e donna sia stata raggiunta o che non si debba combattere per essa. Semplicemente è venuto il momento di trovare nuovi linguaggi e nuovi espressioni. Possibilmente evitando di ridurre tutto a un hashtag.
Se una è femminista, scrive Giulia Siviero su “Il Post”. Quando sono entrata per la prima volta in quell’aula di filosofia, la professora (sì, voleva essere chiamata così) si rivolgeva alla classe usando il plurale femminile. Ogni volta, si alzava un virile brusio di protesta. Alla fine della lezione ha chiesto a noi ragazze perché quando qualcuno parlasse includendoci in un plurale maschile non avessimo la stessa reazione. Ho trovato una risposta e sono diventata quella che per brevità chiamiamo “una femminista”. Gli stereotipi intorno al femminismo, le credenze e le idiozie, danno certamente la misura del campo di battaglia e parte del mio tempo lo passo a rispondere, a spiegare, a incassare e a rilanciare: è un lavoro faticoso, frustrante e noioso. Ma non potrei fare altrimenti. Penso quindi sia utile costruire un luogo (questo post, che cercherò di tenere aggiornato, anche attraverso cose che ho già scritto altrove o cose scritte da altre) in cui dare una volta per tutte le risposte alle solite risposte e a cui poter rimandare ogni volta se ne presentasse l’occasione (per fatica, frustrazione e noia).
Le femministe odiano gli uomini. Ed è per questo che gli uomini odiano le femministe. Si chiama “misandria”, è il contrario di misoginia ed è l’argomento che gli uomini usano fin dagli inizi del movimento di liberazione della donna contro il femminismo stesso. Un falso argomento, anche se (dopo averlo negato e ridicolizzato per anni) mi sono resa conto che contiene una parte di verità. Se una è femminista non le piacciono certi uomini: quelli sessisti, quelli che pensano ci sia una gerarchia tra i generi, quelli che si rivolgono alle donne che non conoscono con formule del tipo “tesoro” o cose simili, quelli che le molestano per strada, che vogliono dominarle, addomesticarle e controllarle in una relazione. Potrei proseguire. Ma penso agli uomini a cui, come me, non piacciono gli uomini dell’elenco: sono uomini che piacciono a una femminista. Sono invece i sostenitori della frase le femministe odiano gli uomini ad odiare davvero gli uomini, identificandoli tutti, in un sol colpo, con dei misogini.
Le femministe non hanno senso dell’umorismo. Non è questione di avere o non avere senso dell’umorismo. Se una è femminista le stanno a cuore degli argomenti che non sono particolarmente divertenti: il sessismo, le molestie, la violenza, lo stupro, il diritto all’aborto, la disparità. Se c’è qualche cosa su cui una femminista ride moltissimo sono affermazioni come quella che le femministe non hanno senso dell’umorismo. La giornalista statunitense Amanda Hess spiega che cos’è la misandria ironica (una tendenza molto di successo tra le donne sui social network). È una dimostrazione per assurdo, efficace per almeno tre motivi: spinge gli argomenti sugli stereotipi attribuiti alle femministe nelle loro trincee più estreme e ridicole, è una strategia leggera per far circolare soprattutto tra le più giovani questioni e idee femministe molto radicali ed è liberatoria perché in un battito d’ali toglie chi la sceglie dalla paradossale posizione di dover spiegare qualcosa a qualcuno che quel qualcosa non sa cosa sia.
Le femministe sono sempre incazzate. A rispondere, ci ha pensato Laurie Penny: «Quelli a cui interessa mantenere lo status quo preferirebbero vedere le giovani donne che agiscono, come dire, nel modo più grazioso e piacevole possibile; anche quando protestano». Sostenere che una femminista è sempre incazzata (o brutta, o con i peli) è una difesa per preservare il sistema che il femminismo potrebbe mettere in discussione. Da qui l’operazione di voler glassare il femminismo per renderlo «un accessorio desiderabile, gestibile al pari di una dieta disintossicante». Scrive Penny: «Purtroppo non c’è modo di creare una “nuova immagine” del femminismo senza privarlo della sua energia essenziale, perché il femminismo è duro, impegnativo e pieno di rabbia (giusta). Puoi ammorbidirlo, sessualizzarlo, ma il vero motivo per cui molte persone trovano la parola femminismo spaventosa è che il femminismo è una cosa spaventosa per chiunque goda del privilegio di essere maschio. Il femminismo chiede agli uomini di accettare un mondo in cui non ottengono ossequi speciali semplicemente perché sono nati maschi. Rendere il femminismo più “carino” non lo renderà più facile da digerire».
Le femministe non cucinano. Se una è femminista cucina, sparecchia, stira, pulisce e porta il piatto a tavola. Sa anche che non è l’unica in grado di poterlo fare e che la rappresentazione delle donne unicamente come soggetti che cucinano, sparecchiano, stirano, puliscono e portano il piatto a tavola è un fatto che storicamente si può collocare e per cui c’è un colpevole.
Le femministe ce l’hanno con le donne che non la pensano come loro (variante: sono le donne ad essere le peggiori nemiche delle donne). Se una è femminista per lei è importante che ci sia libertà per ogni donna che viene al mondo, di pensare e di agire in consonanza con i propri desideri e, prima ancora, libertà di desiderare senza misure stabilite da altri: che sia lei, la singola, ad essere traiettoria di sé stessa, a dire e a decidere quello che la riguarda: «Vorrei che le donne avessero potere non sugli uomini, ma su loro stesse», scriveva Mary Wollstonecraft nella Rivendicazione dei diritti della donna e siamo nel 1792. Se una è femminista sa che l’altra è necessaria, come compagna di strada o come interlocutrice. Dà supporto alle altre donne senza mai sminuirle o giudicarle (anche se non è d’accordo con quello che dicono o con le scelte che fanno). Sa che non ci sono buone e cattive femministe e che la relazione è il luogo privilegiato della libertà. Il movimento femminista ha al suo interno molti pensieri, spaccature e diversità. «Finché non avremo risolto alcun problema o differenza individuale e interna non dovremmo forse permetterci di affrontare l’oppressione o rivendicare dei diritti?» La domanda è ridicola e si chiama tentativo di depistaggio.
Ormai siamo tutti uguali 1. Il primo errore sta in quella “i” di “tutti” e “uguali” e non è solo linguistico. C’è una bella poesia di Muriel Rukeyser che dice: «“Molto tempo dopo, vecchio e cieco, camminando per le strade, Edipo sentì un odore familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: “Voglio farti una domanda. Perché non ho riconosciuto mia madre?”. “Avevi dato la risposta sbagliata,” disse la Sfinge. “Ma fu proprio la mia risposta a rendere possibile ogni cosa.” “No,” disse lei. “Quando ti domandai cosa cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzogiorno e con tre alla sera, tu rispondesti l’Uomo. Delle donne non facesti menzione.” “Quando si dice l’Uomo,” disse Edipo, “si includono anche le donne. Questo, lo sanno tutti.” “Questo lo pensi tu”, disse la Sfinge». Il linguaggio non è qualche cosa di “naturale”, è una costruzione che ha un soggetto e che rimanda a un sistema ben preciso. Quel soggetto ha un sesso e quel sistema (di potere), pure: è evidente nell’uso comune del plurale maschile per includere tutti e tutte, nella scelta di assumere l’uomo come uno dei due generi della specie umana ma allo stesso tempo come paradigma universale dell’intera specie (“l’Uomo”) o nella scelta dell’espressione “suffragio universale” applicata per lungo tempo (anche da giuristi e filosofi) a tutti gli uomini con esclusione delle donne. La finzione dell’universale neutro in cui la differenza femminile scompare e viene inglobata (dal due all’uno) è uno dei trucchi più semplici ed efficaci su cui è stata costruita la società patriarcale. Questo aveva voluto mostrarmi la mia professora attraverso un uso (sovversivo) del linguaggio. Professora suona male? Mettere alla fine della parola una “a”, è già accaduto per molti mestieri e professioni consolidate: infermiera, maestra, operaia, modella, cuoca, segretaria. Mestieri che non suscitano alcuna obiezione. Ci siamo già passat* e siamo sopravvissut*. Iniziamo ad usare le forme corrette e ci suoneranno benissimo.
Ormai siamo tutti uguali 2. Il secondo errore di questa affermazione sta nel concetto di parità e la risposta all’obiezione “siamo tutti uguali” è sì e no. Se una è femminista sa che la parità e l’emancipazione possono essere delle trappole. Il cosiddetto femminismo di stato ha interpretato il movimento delle donne nel senso di una domanda di parità mettendo al centro dell’azione la spartizione d’ufficio del potere tra donne e uomini (pari opportunità, “quote rosa”, donne come uomini e molto spesso donne che piacciano agli uomini). Quando un ruolo tradizionalmente maschile viene occupato da una donna, una femminista sa che non va considerata una conquista (o almeno non sempre). Una femminista non è contro l’uguaglianza, ci mancherebbe, ma la mette in rapporto con la libertà. E la libertà femminile non si misura sulle realizzazioni che sono storicamente maschili. Non ricordo dove ho letto questo esempio, ma funziona: se gli uomini reagiscono facendo battute poco rispettose come hanno fatto alcuni membri dell’Assemblea Costituente nel 1945 quando in aula sono entrate le loro colleghe, il problema non si risolve comportandosi come se nell’aula entrassero degli uomini. Le rivendicazioni paritarie nello spazio pubblico funzionano come annullamento della differenza femminile e il trucco della quantità è l’inadeguata risposta maschile al cambiamento innescato dalla rivoluzione femminista. Ecco perché non è mai una buona misura: le dimensioni non contano, non si dice così?
Ormai siamo tutti uguali 3. Il terzo errore sta nel dire “ormai”. Se una è femminista sa che non deve mai, mai, mai e poi mai abbassare la guardia. Ci sono donne verso cui essere riconoscenti, che hanno combattuto e sono morte per la maggior parte dei diritti che noi abbiamo oggi. Non è finita e ogni diritto non è mai per sempre. Il solito esempio? In Italia esiste una legge – frutto delle lotte – che garantisce la possibilità di abortire liberamente e gratuitamente: di fatto, l’enorme presenza di medici obiettori, impedisce a migliaia di donne di poter scegliere per sé. La politica dei diritti è certamente importante, tenendo però presente che la conquista di un diritto si può perdere senza che sia avvenuta una vera trasformazione. (“Il re è morto. Viva il re”, si diceva in Francia per annunciare al popolo la morte del re e, contemporaneamente, l’avvento del suo successore). Ecco funziona un po’ così.
Le femministe si occupano solo di donne. Non è vero. Se una è femminista sa che la sua libertà cambia la vita di tutti. Sa anche che la misoginia (basata sulla convinzione che mascolinità e virilità siano superiori) colpisce anche gli uomini: si esprime nel bullismo di chi si sente più maschio di un altri o negli insulti omofobici. Nell’ambito della violenza domestica, che colpisce di sicuro più donne che uomini, vanno però anche considerati gli uomini (quelli ad esempio che sono nuovi fidanzati, compagni o mariti e che muoiono o ricevono violenza per mano degli ex fidanzati, compagni o mariti. Ci sono insomma due tipi di aggressioni: maschio-femmina e maschio-maschio, entrambe sono espressione di misoginia ma solo una è nominata e accettata come tale.
Allora, non posso aprirti la porta o farti un complimento?
Se una è femminista è contro lo sciovinismo e le molestie. Non contro le buone maniere e i complimenti che siano complimenti: apostrofare una donna quando cammina per strada dicendole “ciao bella” non lo è. Scrive Amanda Marcotte in un articolo su Slate tradotto dal Post: Puoi aprire la porta se sei il primo a raggiungerla. Assicurati di tenerla aperta per chiunque passi dopo di te, uomini, donne e anche animali domestici. Non puoi correre per sorpassare una donna e arrivare per primo alla porta, così da aprirla per lei. Ricorda la regola d’oro: il primo che arriva alla porta apre la porta. È facile capire quando sei arrivato per primo alla porta: quando la porta è chiusa e non c’è nessuno tra te e la porta.
Anche le femministe oggettivano gli uomini. Due torti non fanno una ragione, scrive la giornalista Laura Bates. E c’è un motivo per cui le persone che sostengono questa tesi citano quasi sempre la pubblicità della Diet Coke: perché non ci sono molti altri esempi memorabili da fare. Sì, anche gli uomini sono oggettivati, ma non così tanto e non così spesso, come avviene invece per le donne. Quindi le due cose non sono paragonabili e non hanno, soprattutto, lo stesso impatto sulla società e sulla cultura. L’operazione che sta dietro questa argomentazione si può riassumere nella formula “male tears”, “lacrime maschili”: si verifica quando un uomo, per ribattere ad un qualsiasi argomento legato al genere, prende il posto della vittima (“ma anche le donne lo fanno”). Detto questo, ogni volta che un essere umano – indipendentemente dal sesso – è considerato come somma delle parti del suo corpo, questo è un problema. Anche per una femminista.
Non sono una femminista, ma sostengo le donne e la loro libertà. “Femminista” non è una parolaccia, è già preoccupante che ci siano molte idee sbagliate o idiote su quello che il femminismo è o non è. Che i detrattori del movimento delle donne siano delle detrattrici è particolarmente dannoso. Se difendi la libertà delle donne allora sei una femminista. E non te ne devi vergognare. Sei in ottima compagnia.
Donne, il femminismo ha perso? Mezzo secolo di femminismo, ma le discriminazioni non sono scomparse. Sul lavoro, in famiglia, in politica, ovunque. E, soprattutto, la coscienza comune sembra a torto darle per scontate, scrive Sabina Minardi su “L’Espresso”. Scendono per strada, scandiscono slogan, sfidano le consuetudini sotto gli occhi increduli dei maschi. E glielo urlano in faccia “We will win”: vinceremo. Tremate tremate, le streghe son tornate. Solo al cinema, però. In “Suffragette” di Sarah Gavron, che ha aperto il London Film Festival: un film che rievoca le prime lotte per l’emancipazione femminile, con Helena Bonham Carter, Carey Mulligan e Meryl Streep nel ruolo di Emmeline Pankhurst, l’attivista che guidò il movimento suffragista inglese all’inizio del secolo scorso. Eroine affascinanti, disposte a perdere se stesse pur di guadagnare diritti alle altre. Reclamandoli insieme, a voce alta. Nella realtà, che fine ha fatto il femminismo? Dov’è finito quel vento di cambiamento che ha liberato le donne da discriminazioni inaccettabili, che ha rilanciato parole tabù - aborto, divorzio - e ne ha seppellito altre (obbligo di dote, patria potestà valida solo al maschile)? Che ha innescato reazioni a catena, convogliato la rabbia fioca di generazioni di donne in chiassosi movimenti di piazza? Cos’è rimasto di quella capacità di irrompere nella scena sociale, scuotere la politica, mutare i rapporti con l’altro sesso, trascinando anche l’uomo in cambiamenti rivoluzionari? E perché persino la parola “femminismo” ne esce sconfitta, rifiutata dalle più giovani come residuo di battaglie e di linguaggi senza significato, motivo di scongiuro per i maschi d’ogni età? A guardarsi intorno, il femminismo ha messo la sordina. Non che sia stata un’occasione persa: il soffitto di cristallo, grazie a quelle battaglie, si è scheggiato in molti punti. L’autonomia di dire, di fare, di decidere della propria vita sono realtà conquistate. Anche se, «quando a parlare è una donna gli uomini fanno altro: chi chiacchiera, chi controlla le mail», ha raccontato all’Huffington Post Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale; anche se persino nelle più ambite company dell’hi-tech, le stesse dove si lanciano campagne per bandire le differenze tra i sessi (come “Ban Bossy” promossa da Sheryl Sandberg di Facebook), la misoginia non è sconfitta (“The Glass Breakers” è una startup che aiuta a combatterla nel mondo tecnologico specialmente), e le donne guadagnano meno dei maschi (oltre il 20 per cento negli Stati Uniti, dove la prima legge firmata da Barack Obama è stata proprio la Lilly Ledbetter sull’equità salariale uomo-donna); anche se indipendenza e libertà di scegliere, nella vita privata, espongono a una violenza e a un numero di assassini intollerabile: 177 i femminicidi in Italia nel 2014; 137 nel 2015; 3.624 le violenze sessuali tra il marzo 2014 e il 2015, 4.607 l’anno prima (dati Ministero dell’Interno). Se ancora barriere sociali, culturali e psicologiche impediscono una parità piena; se il sessismo soffia forte, dal Parlamento italiano alla politica estera, persino contro una come Hillary Clinton («Non ho mai visto una persona assalita in modo così sistematico e da così tante parti», ha ammesso lo stesso Bernie Sanders, sfidante alla Casa Bianca); se, insomma, non è tutta qui la libertà cui ambivano, dove sono, oggi, le donne? Neutralizzate, secondo la sociologa Camille Paglia: «Impegnate a cancellare ogni retorica della maternità, hanno perso la consapevolezza del loro potere sugli uomini». Annegate nel realismo: «Perché le donne non possono avere tutto», ha chiarito l’ex consigliera della Casa Bianca Anne-Marie Slaughter, descrivendo come talento e determinazione si infrangano contro le difficoltà sul lavoro e la famiglia. Schiacciate dalle più giovani, ha ipotizzato la scrittrice Elena Ferrante, femminista nonostante il sospetto d’essere uomo, in un’intervista a “Vanity Fair” negli Usa: «Le ragazze sembrano convinte che la condizione di libertà che hanno ereditato sia un dato di natura e non il risultato provvisorio di un lungo scontro ancora in atto, nel corso del quale si può perdere di colpo tutto». E ripartire da zero: come le Pussy Riot, le artiste russe col passamontagna colorato, che hanno scontato anni di carcere duro per le loro rivendicazioni. O le Femen, il movimento nato a Kiev, che protesta contro le differenze sessuali e sociali a seno nudo, utilizzo del corpo per attirare l’attenzione dei media in un mondo di uomini, a rischio di violenza e di denunce. “Woman Pride” che innova la militanza contemporanea, per il magazine Slate, nel segno della provocazione: ma quanto funziona davvero? «Il femminismo ha cambiato il mondo, tranne quello non occidentale. È un peccato che non si insegni a scuola la storia delle donne negli ultimi cento anni», interviene la giornalista Natalia Aspesi. “Delle donne non si sa niente”, titolo con il quale Il Saggiatore ha ripubblicato il suo “La donna immobile”, uscito nel 1974 e dedicato alle italiane, anche questo sottolinea: l’ignoranza sulle battaglie delle donne. «Chi ha fregato il femminismo? Non è mica fregato. Perché le ragazze, pur non sapendo niente di ciò che è stato, sono ben più protette dalle leggi: grazie alle femministe e ai maschi di allora. I femminismi più combattivi e appariscenti sono scomparsi, ma su un piano intellettuale il femminismo continua a operare: nelle aule universitarie, negli studi. Forse non c’è più ragione per esibirlo: l’uguaglianza c’è, di anno in anno diventa più facile accedere alle posizioni di vertice. Se la carriera non è più la massima ambizione, per le donne, ma anche per gli uomini, è perché molte hanno capito che non è ciò che desiderano veramente». Vedi alla voce Marissa Mayer, amministratrice delegata di Yahoo, salutata con entusiasmo come donna al top, ma bacchettata quando, dopo il parto, ha deciso di ridurre la maternità a poche settimane: era questa l’uguaglianza sognata? «Certo che le battaglie non sono esaurite, ma riguardano il piano privato, il rapporto uomo-donna: gli uomini uccidono ancora le donne; il “mammo” è una pura invenzione», sostiene Aspesi. «La vita delle donne è caratterizzata da successi e da sconfitte. Alle ragazze non farebbe male conoscere la loro storia, perché ciò che sembra del tutto ovvio è costato coraggiose battaglie alle loro madri e alle loro nonne. E nulla è mai conquistato per sempre». Provano a colmare quel vuoto strumenti nuovi: è stata appena lanciata una App, “Herstory: I luoghi delle donne”, promossa da Archivia, associazione con sede nella Casa Internazionale delle donne di Roma e dedicata ai luoghi di mobilitazione del Lazio, dagli anni ’70 a oggi. “Cattive ragazze” è un graphic novel di Assia Petricelli e Sergio Riccardi (Sinnos Editrice) dedicato a quindici donne che hanno aperto la strada all’affermazione di diritti, da Franca Viola, che negli anni Sessanta rifiutò un matrimonio riparatore in Sicilia, ad Alfonsina Morini Strada, unica ad aver partecipato al giro d’Italia insieme agli uomini. E ora il fumetto diventa anche spettacolo teatrale itinerante , con la regia di Ignacio Gómez Bustamante e César Brie e il coinvolgimento di tante ragazze. Perché conoscere è fondamentale: come sa Zeroviolenza.it, progetto di informazione che monitora la relazione tra uomini e donne. Ma chi è responsabile di non aver passato il testimone? Chi non ha curato l’eredità di quegli insegnamenti: metodo, esperienza ed entusiasmo di combattere? «Quella del femminismo non è una storia di sconfitte: ha radicalmente mutato il panorama dei diritti civili», puntualizza la sociologa Chiara Saraceno, negli anni Settanta impegnata nei Gruppi Femminili di Trento: «Se non ci fosse stato, non sarebbe passata neanche la legge sull’aborto. E tutti i temi su sessualità e famiglia sarebbero rimasti nel silenzio. La spinta al diritto di famiglia, che chiamiamo ancora nuovo benché risalga al 1975, è figlia di quell’epoca. Detto ciò, è chiaro che c’è stato un problema di trasmissione della militanza femminista. Anche per colpa delle donne: il femminismo della differenza, che ha avuto più visibilità, ha creato una sorta di teologia, producendo un linguaggio oscuro, ostico, moraleggiante. Un modo di parlare, e di tenere separati il mondo di lui e il mondo di lei, nel quale le più giovani non si ritrovano. Ne hanno, anzi, paura e fastidio: se la denuncia della mancata parità le getta nel ruolo di vittime non ne hanno alcuna voglia». Il risultato? Fraintendimento, distanza («Il femminismo non mi serve, mi sento già libera»), fino alla militanza vera “contro la cultura tossica del femminismo moderno”: è“Women against feminism”, partito con un hashtag su Twitter e su Tumblr, e diventato campagna virale su Facebook e su YouTube. A poco sono valsi i richiami di Tina Brown di The Daily Beast («Voi non odiate il femminismo: semplicemente non lo capite»), o di Lynsi Freitag della Arizona State University («Quello che sta accadendo è frutto dell’ignoranza. Ma è colpa nostra se non abbiamo spiegato il femminismo alle donne»). È l’eterno dividersi, che indebolisce le battaglie. «Ogni generazione deve trovare i suoi strumenti di lotta», sintetizza Saraceno: «Prima si sbatteva la testa contro un fatto evidente: la parità non c’era. Oggi si parte da una premessa di parità, salvo scoprire più tardi che la faccenda è più complessa». Il “nemico” si fa più sfuggente. A partire dai maschi: non più padri-padroni, ma uomini meno granitici. Fluidi, anzi, com’è l’identità contemporanea, al punto che “The Economist”, in un’inchiesta di copertina, li ha proclamati “il sesso più debole” delle società avanzate. «Certo: un tempo c’erano problemi più facilmente afferrabili», conferma Saraceno: «Non si poteva abortire. Non si poteva comprare la pillola. La parità era un obiettivo chiaro».Ostacoli chiari, da rimuovere uno alla volta.Esattamente questo ha fatto “Se Non Ora Quando”: ha aggregato la rabbia delle donne in una battaglia precisa - il degradante modello di relazione uomo-donna del berlusconismo - portando in piazza oltre un milione di persone. E così hanno fatto i comitati di denuncia del femminicidio. Smarrendo, però, col tempo la loro forza. Era più facile essere femministe allora che oggi? «Avevi la possibilità di coinvolgere gli altri, sentivi di far parte di una comunità. Nel mondo di oggi ognuno va alla cieca, pensando a sé», dice la scrittrice Dacia Maraini: «La protesta non viene allo scoperto come un tempo perché siamo in un momento di frammentazione: non c’è modo di far coagulare nessun pensiero, tutto è personalizzato e rissoso. E l’individualismo prevale». Egoismo. Atteggiamento moraleggiante. È colpa della centralità data a temi come la maternità, derubricata da stili di vita diversi, se il femminismo non trova più uno spazio ampio nel presente? «Come ideologia non esiste più, ha seguito il destino di tutte le ideologie. Scomparse: è un fatto culturale. Ma se guardiamo oltre le parole, ritroviamo lo stesso radicalismo, la stessa motivazione nel pretendere autonomia e rispetto, nelle più giovani. Sta in questo flusso di rivendicazioni la continuità con il femminismo di allora: senza, però, connotazioni ideologiche», aggiunge Maraini: «C’è un rischio in questo: che si consideri la parità un diritto conquistato per sempre. I diritti sono frutto di cultura e di ideologia, e devono essere esercitati e ribaditi. Il più importante? Quello di esprimere se stessi, di realizzarsi il più possibile. Vale naturalmente anche per gli uomini, ma per le donne costa fatica in più». Perché i nodi aperti non sono pochi: mancano risposte per conciliare il lavoro con la vita familiare. La parità sui posti di lavoro si scontra con discriminazioni anche di natura economica. E molti stereotipi di genere inchiodano ancora le donne. Non solo: nel mondo globale di oggi reclamano impegno le altre donne, senza diritti: donne schiave, fantasmi sotto il velo, sottomesse a stupri, mutilazioni, divieti. Ma una “ignavia borghese”, ritrosia culturale e politica, non fa ancora alzare compatta la voce contro la misoginia dell’Islam, accusa la giornalista Marina Terragni. “Dovremmo essere tutti femministi”, sostiene la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in un discorso da standing ovation elaborato per una conferenza Ted, campionato da Beyoncé nel brano “Flawless” e diventato anche un libro (Einaudi): perché femminista è, prima di tutto, «una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi». Uomo o donna. «Ne sono convinta: la perdita di appeal del femminismo odierno va identificata nel fatto che gli uomini non sono stati coinvolti, anzi trattati con ironia e disprezzo. Le cosiddette questioni femminili - dall’aborto al lavoro - non sono “da donna”. Sono argomenti sociali e culturali, che devono riguardare gli uomini. Bisogna ritrovare complicità: ricreare una nuova alleanza tra uomini e donne, come quella invocata da Papa Francesco nel suo discorso contro i luoghi comuni sulle donne tentatrici», dice la scrittriceRosella Postorino, editor di Einaudi Stile libero e protagonista, sulla sua pagina Facebook, di una vivace discussione sul femminismo di ieri e di oggi: «Ho incontrato donne più che sessantenni ancora convinte che serva il collettivo per “prendere coscienza”, uno spazio di separazione dagli uomini. Ma se la questione delle donne non viene percepita come una tra le tante di giustizia sociale, se gli uomini non lo sentono come un problema anche loro, io non so a che cosa serva parlarne». «Il femminismo è una questione di parità di diritti. Chi ancora porta avanti un discorso para-separatista è direttamente responsabile del disamore delle generazioni successive verso il femminismo», ha ribadito Loredana Lipperini, che l’universo femminile ha molto indagato (“Ancora dalla parte delle bambine”, “Non è un paese per vecchie”, “L’ho uccisa perché l’amavo”). E insiste: «C’è una gigantesca responsabilità in chi ha pensato che il femminismo fosse una cosa solo di donne. E responsabilità anche da parte di quella narrazione che predicava odio verso i maschi, disgusto verso il sesso: ha schiacciato le generazioni successive. Il femminismo sembra una faccenda superata finché non si diventa genitori. Allora ci si rende conto che, a meno che tu non sia particolarmente ricca da permetterti aiuti esterni, non c’è parità realizzata. L’indipendenza diventa un fatto di classe. C’è un enorme bisogno di impegno femminista. Da dove ripartire? Dall’educazione sentimentale e sessuale sui banchi di scuola». Dalla riscoperta delle differenze di genere. A patto di non lasciarsene intrappolare. Per il filosofo Slavoj Zizek, sensibile a questi temi tanto da intervenire contro il sessismo dello Stato Islamico e in difesa delle Pussy Riot, è fuorviante anche una rappresentazione manichea del maschile e del femminile. Lo ha detto più volte: «Non credo in una soggettività maschile fallocentrica, imperialista, guerrafondaia, e una femminile ecologica, armoniosa, olistica, pacifista e cooperativa». Da una parte il bello e buono delle donne, dall’altra il maschile selvaggio e oppressore: non funziona. «Molti stereotipi hanno agito contro il femminismo», è l’opinione della scrittrice Lidia Ravera: «Come il suo essere contro i maschi: solo una caricatura». L’ultima l’ha tratteggiata Jonathan Franzen - le femministe non hanno apprezzato - nel suo ultimo libro, “Purity”: dove Anabel è una fanatica che costringe il marito a stare in bagno seduto, come le donne. «Il femminismo non era contro i maschi: proponeva uno spazio separato, che probabilmente servirebbe anche oggi, sia agli uomini che a noi», continua Ravera: «Le donne sono cambiate molto, grazie al femminismo. Ma la rivoluzione sarà conclusa quando conquisteranno il diritto di invecchiare». Libere da imperativi di gioventù e bellezza perenni. Maturità al centro dell’ultimo romanzo di Erica Jong, ideale prosieguo di quel successo planetario che fu “Paura di volare”: esce ora per Bompiani “Donna felicemente sposata cerca uomo felicemente sposato” con la protagonista, Vanessa, terrorizzata dalla paura di invecchiare e perdere il suo ascendente sul mondo. «Il femminismo ha modificato la percezione di sé di tutte le donne. Ha permeato i comportamenti quotidiani», aggiunge Ravera: «Le nuove proteste non si consolidano? Non vale solo per il femminismo, ma per tutti i movimenti di oggi: non riescono a compiere il salto dallo spontaneismo all’organizzazione. Il femminismo è una rivoluzione interrotta, non fallita. Quando sarà compiuta la vita avrà, finalmente, due sguardi».
L'emancipazione individuale ha portato poche donne a posizioni di potere, lasciando a molte altre sottopagate gli ingrati compiti di cura. Mentre la Rete e il mercato globale delle relazioni usa e getta le danneggiano, favorendo la supremazia degli uomini, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Christine Lagarde, presidente del Fondo monetario internazionale. Dove vediamo libertà si nascondono nuovi recinti. Dove festeggiamo traguardi del femminismo - carriere di successo, relazioni aperte - stiamo lasciando costruire nuove disuguaglianze. Sociali, emotive, economiche. È quello che sostengono alcune pensatrici agguerrite. C’è chi porta alla sbarra il capitalismo, che sull’altare dell’emancipazione individuale avrebbe portato (poche) donne a posizioni di potere lasciando a (molte) sottopagate altre gli ingrati compiti di cura. Chi guarda al mercato globale delle relazioni usa e getta. Chi si chiede se la Rete ci abbia resi pari oppure no. Ecco il breviario delle idee incontrate da “l’Espresso”. Due signore alla guida di istituzioni finanziarie d’importanza globale: Janet Yellen alla Fed, Christine Lagarde al Fondo monetario internazionale. La fine dei “tetti di cristallo”? «Alcuni sono stati sfondati. Ma io vedo soprattutto più donne sfruttate», commenta Nancy Fraser, professore di filosofia alla New School di New York, tra i titani del pensiero femminista: «Celebrando le loro carriere, donne come Sheryl Sandberg - direttore operativo di Facebook e autrice del bestseller “Lean-in” - dimenticano chi c’è dietro: schiere di lavoratrici, soprattutto straniere, precarie e sottopagate, cui sono stati “appaltati” i compiti di cura che loro non hanno tempo di seguire». Nonostante quei compiti siano forse oggi distribuiti più per censo che per genere (li svolgono sì precari o immigrati, ma sia maschi che femmine), per Fraser il problema è alle fondamenta: «Finché non spezzeremo l’idea che c’è un lavoro pagato bene, considerato produttivo, e un altro tipo di lavoro di “riproduzione sociale” - l’educazione, la cura, lo sviluppo umano, la stessa procreazione - che viene invece pagato poco o nulla, dentro cui sono arruolate in massima parte le donne, non avremo parità». Solo una parità apparente: a beneficio di poche e inganno di molte. E a proposito di inganni: i big della Silicon Valley offrono di pagare alle dirigenti il congelamento degli ovuli, idea che piace anche in Italia. Femminista? «Al contrario: si vuole che le donne si adattino a un ecosistema maschile, senza metterne in discussione l’insostenibilità». Partendo da osservazioni simili, l’economista Victoria Bateman arriva a conclusioni opposte: che solo con il principio primo del capitalismo, la libertà d’azione individuale - se veramente garantita anche alle donne - si potrebbe arrivare alla parità di genere. Non universale, certo, ma promessa a chi si sforza di emergere. Dalla parte opposta dello spettro economico, quella del suo motore - il consumo - arriva la riflessione di Eva Illouz, professore di sociologia all’università ebraica di Gerusalemme. «Le cornici morali di amore e matrimonio, rimosse dalla rivoluzione sessuale, sono state sostituite da nuove basi», spiega a “l’Espresso”: «La cultura consumistica si è appropriata della definizione di femminilità e mascolinità. La sessualità oggi è il cuore stesso del consumo: i corpi sono valutati per quanto sono sexy, in forma, attraenti. Ma questo non è naturale: è il prodotto di una colossale industria del corpo che raccoglie moda, cosmetica, fitness, chirurgia estetica, e va a braccetto coi modelli di Hollywood». Perché investiamo su questo corpo modellato dalle pubblicità? Per competere in un mercato globale di relazioni. «Su reti come Tinder - l’applicazione che permette di “sfogliare” persone vicine per un appuntamento volante - uomini e donne si cercano per un episodio di sesso. Si consumano». Partendo da una foto. Anche in questo si crea una nuova disuguaglianza, sostiene la sociologa. Una “disuguaglianza emotiva”: «Gli uomini cercano su Tinder occasioni per ampliare la loro lista di incontri. Le donne l’inizio di relazioni a lungo termine», sostiene Illouz, che si fa subito scudo da possibili contestazioni: «So che apparirà un commento conservatore, ma è ciò che osservo da sociologa. C’è anche un fatto quantitativo che favorisce gli uomini: possono permettersi di pescare da un bacino più ampio di età».
L'economia ha un disperato bisogno delle donne, non come compratrici, ma come forza lavorativa. E, come sostiene anche il "Financial Times", occorre uguaglianza nelle opportunità, nell'accesso alle carriere e nelle retribuzioni. Mentre pure gli uomini stanno inziando a convincersene, scrive Valeria Palermi su “L’Espresso”. Emma Watson, portavoce per le Nazioni Unite della campagna "HeForShe"Se ci si mette perfino il“Financial Times”, non esattamente la lettura preferita delle Femen, a sostenere che è imperativo dare pari rappresentanza alle donne nel mondo del lavoro, vuol dire che qualcosa sta cambiando sul serio. Che sta nascendo davvero quell’ossimoro vivente che è il “maschio femminista”. Cagionevole e raro come un figlio della provetta, per ora: ma crescerà e si moltiplicherà, per la sua e la nostra soddisfazione. Il rapporto del quotidiano inglese “Women in Business”, uscito a settembre, racconta in soldoni questo: che l’economia ha un disperato bisogno delle donne. Non come compratrici, attenzione: come workforce, forza lavorativa, totalmente alla pari con gli uomini per opportunità, accesso alle carriere, retribuzione. Dietro questo appello singolarmente femminista del FT c’è anche, molto probabilmente, la riflessione suscitata da un recente rapporto del McKinsey Global Institute. Che ha analizzato l’output economico di 95 Paesi nel mondo (effettivo e potenziale), concludendo che se uomini e donne contribuissero allo stesso modo alla forza lavoro - lavorassero lo stesso numero di ore, avessero uguale paga e uguale rappresentanza in tutti i campi - questo aggiungerebbe 28 mila miliardi di dollari al Prodotto interno lordo globale entro il 2015: ovvero una crescita del 26 per cento. Mentre oggi, secondo lo studio McKinsey, le donne costituiscono metà della popolazione mondiale ma rappresentano soltanto il 37 per cento del Pil globale, poco più di un terzo. Maschi femministi sono quelli che sostengono la campagna “HeForShe” (lui per lei), movimento nato in seno alle Nazioni Unite, e di cui si è fatta portavoce la giovane attrice Emma Watson: un movimento all’insegna della solidarietà tra i sessi, il cui scopo è la “gender equality”. Lo slogan è: uniamo gli sforzi, una metà dell’umanità in aiuto dell’altra metà, per il beneficio di tutti. Ma non ci sono solo grandi campagne, dietro le prese di coscienza. Esistono le vite individuali e l’inarrestabile formarsi delle convinzioni dei singoli. Una bella storia di maschio femminista la racconta la rivista culto dell’America intellettuale, “The Atlantic”, nel numero di ottobre. Titolo: “Why I put my wife’s career first”, perché ho messo al primo posto la carriera di mia moglie. Qui l’autore, Andrew Moravcsik, docente di Politica ed Affari Internazionali alla Princeton University, racconta la sua vita da “lead parent”, modo intelligente per definire quello che noi, scioccamente, chiamiamo “mammo”. Un’avvertenza prima di commuoverci tutti: qui non stiamo parlando di Mr e Mrs Smith, ma di un signore che comunque insegna a Princeton, e di una moglie che si chiama Anne-Marie Slaughter, notissima soprattutto negli Usa per aver sollevato enorme dibattito (sempre su “The Atlantic”) su quanto sia difficile per le donne raggiungere il work-life balance, l’equilibrio tra vita professionale e privata. Il risvolto paradossale, che il marito sottolinea con un certo umorismo, è che la polemica ha proiettato la moglie sul palcoscenico, e blindato lui nel ruolo di “genitore principale”. Che Moravcsik comunque, da buon maschio femminista, rivendica con orgoglio, passione e convinzione. Adesso dobbiamo solo aspettare che l’onda arrivi dalla Princeton University in Italia.
Posso appena tollerare il femminismo delle donne, quello degli uomini no. Che dei difetti delle donne, parlino le donne, scrive Chiara Valerio su “Il Foglio”. La verità non è mai interessante, se uno ci riflette. E’ una forma logica, binaria. O è la verità, o non lo è. Poco altro da dire. La verità non è né narrativa, né argomentativa. Perciò non funziona nei romanzi, e nemmeno nei saggi. In fondo. Così quando Giuliano Ferrara parla delle “sfumature della verità” e auspica “un maschio galante e decoroso”, un “sentimentale senza complessi” che scriva un saggio sulla misoginia, capisco subito – anzi, so – che le sue parole non possono essere “strutturalmente” verità. Perché la verità non ha sfumature. Ex falso quodlibet, come dicono i matematici, per tornare a un assunto logico e passando, brevemente – i cenni biografici sono noiosi, binari pure loro – ai miei studi, Matematica, la facoltà più sinceramente misogina del mondo. Il professore di Analisi, adorato, durante il corso di Analisi 1, quando una dimostrazione era incomprensibile per tutti, maschi e femmine, con assoluta naturalezza, diceva “va bene, allora facciamolo alla femminile”. “Alla femminile” era sinonimo di “pedissequo”. Non era necessario essere un antropologo o un linguista per capirlo o interpretarlo. Era evidente. Passaggio per passaggio. Qualcuna delle mie colleghe lanciava sguardi offesi, io facevo spallucce, anzi, piuttosto galvanizzata, mi ripetevo in mente – come adesso, e così mi sia dato beneficio d’inventario – Yourcenar che descrive Plotina, moglie di Traiano, adorata, Yourcenar scrive: “Ritrovo in lei l’assurda capacità delle donne, la cecità nel dividere un problema enorme e irresolubile in tanti piccoli problemi, minimi e risolubili”. Le donne cercano la soluzione scomponendo e credono così di raggiungere la soluzione. Questo pensava il mio professore di Analisi 1, questo scriveva Yourcenar, in quanto Adriano. L’essere pedissequi, lo scomporre, non ha a che fare con la verità, ma con la realtà. E la realtà ha sfumature. La realtà è una forma del quotidiano, e del quotidiano condivide le ripetizioni. Ognuno è quello che è la maggior parte del tempo, mi ripete spesso una mia amica. Io per la maggior parte del tempo non potevo essere femminista perché sia fuori che dentro casa discutevo con persone molto forti sulle categorie, assai meno sui generi. Penso sinceramente – ma senza pensare, è sufficiente leggere Cipolla – che la stupidità sia uniformemente distribuita. Che, in breve, prima del gene della specifica sessuale ci sia quello della stupidità. Tuttavia il genere femminile, essendo stati gli uomini i primi creatori di metafore e modi di dire – “una stronza perfetta” è cosa che non può essere espulsa dal linguaggio – è, gioco forza un contenitore più capiente per i modi della stupidità. Ci sono le parole, dunque le cose, gli atteggiamenti, tutto il resto, la vita. Credo che la “blandizie” di cui scrive Ferrara sia uno dei cascami della moda del tempo, in una società dove la simpatia è sopravvalutata, perché facilita i rapporti, spegne le discussioni, perché le copre – tutte le società felici si assomigliano come spiegano Tolstoj e Marx. Se gli uomini sono simpatici con le donne, le donne e gli uomini non hanno un problema. Cioè non lo hanno gli uomini. E cioè non lo ha nessuno. Assumo adesso una posizione che non è ideologica, è cavalleresca. Una postura. Quella cavalleria con cui chiude Ferrara, la cavalleria della tenzone. Vorrei sfidare i maschi a guadagnarsi il diritto – con lotte a viso aperto, con persecuzioni emotive e psicologiche sempre conseguenti alle lotte a viso aperto, con il loro tempo personale spesso aumentato dal fatto di avere una moglie – a parlare “sinceramente” male delle donne. Mi dispiacerebbe che anche questa volta perdessero il gusto del diritto, che continuassero a credere a un’immagine dei diritti come frutti succosi che maturano sull’albero del progresso e stanno lì, pronti a esser colti, senza fatica, da mani nodose e occidentali con radi peli sulle dita e sul dorso, mani di uomo. Quello degli uomini a oggi, non può essere fuoco amico, gli uomini non sono Patricia Highsmith che sbugiarda e stigmatizza le donne nei suoi “Piccoli racconti di misoginia”, no. Che dei difetti delle donne, parlino le donne, almeno fino a quando gli uomini non si saranno guadagnati – possono farcela, io ho fiducia, non penso siano una specie protetta, “ho tanti amici maschi” – il diritto a un’analisi critica. Tutto questo detto senza considerare il fastidio intellettuale che provo leggendo righe di natura femminista. Dopo anni e dopo la realtà, tollero le righe delle donne, negli uomini mi è insopportabile. La misoginia come forma di femminismo in una società che gli uomini dichiarano paritaria e che Ferrara dichiara addirittura teleologicamente femminile e il femminismo come l’ultima autentica gardenia all’occhiello in un mondo di lotte e proteste di plastica, non mi piace. Non c’entra con i cavalieri, c’entra con gli illusionisti. Un odio sincero signori, senza secondi fini.
Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando unaputtana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".
Annalisa Chirico fra femminismo e provocazione, scrive Benedetto Marchese su “Città della Spezia”. L'autrice racconta a Cds il suo libro "Siamo tutti puttane" presentato anche nella rassegna "I grandi temi" di Bocca di Magra: "Quote rosa? Solo se c'è competenza". “Provocare significa sciogliere il proprio pensiero e lasciarlo libero di muoversi e concepire qualcosa per noi e per gli altri. Nella società di oggi c'è una cautela estrema che frena tutto questo”. Ospite nel salotto di Bocca di Magra di Annamaria Bernardini De Pace e della sua rassegna letteraria dedicata quest'anno proprio alla provocazione, la giornalista e saggista Annalisa Chirico sintetizza così il filo conduttore della manifestazione nella quale ha presentato il ultimo libro “Siamo tutti puttane” (sottotitolo “Contro la dittatura del politicamente corretto”), senza distinzioni di genere e ispirato dal Processo Ruby. “Seguendo le udienze – racconta a Cds la collaboratrice di Panorama e Il Foglio – mi sono resa conto che l'imputato non era più Berlusconi ma quelle ragazze le cui vita privata veniva vivisezionata e giudica di fronte al grande moralizzatore pubblico. Era diventato un processo al senso del pudore e il codice morale si stava sostituendo a quello penale, si parlava solo di gusti sessuali. Il mio libro – prosegue – è invece un grido di rivolta contro il moralismo e il politicamente corretto: ognuno ha il diritto di scegliersi la vita che vuole, e di lavorare per realizzare i propri sogni, anche rischiando di farsi del male”. Edito da Marsilio e pubblicato dopo i precedenti “Condannati preventivi” e “Segreto di Stato – il caso Nicolò Pollari”, il libro delinea anche il pensiero dell'autrice sul femminismo e il ruolo della donna nella nostra società. “Ho concluso il mio dottorato con uno studio sul corpo della donna – prosegue – e mi ritengo una femminista pro sesso, pro porno e pro prostituzione: ciascuna di noi può sentirsi Madonna o puttana ma non deve sottostare a delle regole. Sono critica verso le Taleban-femministe che hanno fatto di quel processo solo una battaglia politica contro Berlusconi per poi sparire subito dopo. Negli anni Settanta le femministe scendevano in piazza al fianco delle prostitute, oggi troviamo una parte di quella sinistra sui palchi a puntare il dito contro altre donne che ritengono degradate e che discriminano. Un movimento che è diventato braccio armato della politica e che è stato respinto, sempre nella stessa area, da coloro che quarant'anni fa avevano lottato per i diritti delle donne. Si sono occupate delle “Olgettine” ma non delle arabe o italiane che vivono segregate. Un problema che riguarda tutto l'Occidente che non si preoccupa di tutelare ad esempio le eroine di Kobane che vengono lasciate sole a combattere contro l'Isis”. Chirico, origini pugliesi e romana d'adozione, non si sottrae poi ad un commento sull'episodio avvenuto pochi giorni fa su una spiaggia di Fiumaretta con vittima una giovane ripresa con il compagno in un video che ha girato sugli smartphone di mezza Val di Magra ed è finito anche sui giornali. “Dobbiamo capire che le giovani d'oggi sono molto più disinibite e se da un lato queste cose possono accadere normalmente, dall'altro dovrebbe esserci un limite da parte di chi le pubblica o le condivide”. Attratta fin da piccola dalla politica e con un passato fra i Radicali di Pannella l'autrice rivela invece una distanza convinta dalla militanza: “Ne sono stata interessata, ora la seguo solo per mestiere, ho votato poche volte e mi sono astenuta sempre senza pentimento. Le quote rosa in politica? Scegliere donne competenti è importante – conclude – farlo solo per rispettare la parità è del tutto inutile”.
Chi è Annalisa Chirico, la paladina del femminismo liberale. La giovane scrittrice e opinionista ha pubblicato un libro dal titolo esplicito, “Siamo tutti puttane”, nel quale polemizza contro il femminismo radical-chic di certa sinistra e invoca la libertà per un nuovo femminismo, scrive I.K su "Gossip di Palazzo" venerdì 23 maggio 2014. 28 anni dalla penna tagliente, aspetto piacente che male non fa, autodefinitasi “liberale, tortoriana, radicale” sulle pagine delle sue biografie online, sul proprio sito personale e sul blog di Panorama "Politicamente scorretta" che gestisce personalmente, dottoranda in Political Theory a alla Luiss Guido Carli di Roma: Annalisa Chirico è una delle giovanissime opinion-maker della carta stampata e dell’editoria digitale che stanno mettendo a dura prova le giornaliste di una volta grazie ad una buona dose di sfacciataggine e femminile tracotanza. Sulla sua pagina Facebook ci sono moltissime foto con tutti i sostenitori e acquirenti famosi del suo nuovo libro, …La giovane scrittrice e fidanzata di Chicco Testa si scaglia contro le femministe post sessantottine. Autrice di due libri, uno contro l’abuso della carcerazione preventiva “Condannati preventivi” e l’altro sul caso Niccolò Pollari e i segreti di stato tra Usa e Italia, Annalisa Chirico è in questi giorni sulla bocca della politica e del costume italiano per la pubblicazione di un terzo libro dal titolo decisamente esplicito di “Siamo tutti puttane” nel quale, come ha spiegato in un’intervista a Dagospia, rivendica il diritto di ciascuno di farsi strada come meglio può senza dover per forza incappare in trancianti giudizi operati sulla base della morale altrui. Nello specifico mirino del libro della Chirico, lanciato in pompa magna anche grazie all’appoggio una campagna mediatica via Twitter (#SiamoTuttiPuttane è l'hashtag dedicato) con personaggi famosi quali cantanti, giornalisti provocatori come Giuseppe Cruciani e svariate partecipazioni televisive, sono finite le cosiddette taleban-femministe dell’intellighenzia di sinistra, guidate da Lorella Zanardo di Se non ora quando e dalla presidente della Camera Laura Boldrini: il libro, ha spiegato Annalisa Chirico, è nato proprio dall’indignazione che le montava dentro durante il processo alle olgettine, le ragazze prezzolate da Berlusconi per i famosi festini nella villa di Arcore gestiti da Nicole Minetti. A ogni udienza m'incazzavo di più: quelle ragazze, chiamate in qualità di testimoni, in realtà erano imputate, e non per reati del codice penale, ma per i loro costumi privati. Quelle toghe stavano violando i diritti di ragazze che avevano avuto la colpa estrema di accarezzare il potere cercando di inseguire i loro sogni. Embé? Chi siamo noi per giudicare i sogni degli altri? Le taleban-femministe giudicano. Annalisa Chirico ne ha per tutti, specialmente per quello che lei chiama "il boldrinismo" della politica: Io sono femminista, ma il loro è un femminismo perbenista che celebra il modello di donna madre e moglie. Hanno restaurato il tribunale della pubblica morale. Il berlusconismo non t'impone come vivere. Il pericolo del boldrinismo invece è che vuole importi come vivere. E in merito alla sua relazione con Chicco Testa, sessantaduenne ex presidente di Enel e giornalista su molte testate italiane? Annalisa Chirico si riconferma sprezzante del giudizio altrui: Non è l’uomo più vecchio con cui sono stata.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
Antonio Giangrande: “stavolta io sto con Roberto Saviano”. Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.
Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.
Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?
Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.
Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.
E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?
Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.
A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire, diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.
E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.
La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.
Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.
Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.
Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto.
"ZeroZeroZero" originalità. Saviano accusato di plagio. Il Daily Beast elenca passi da articoli mai citati e interviste inventate. Conclusione: "Un libro disonesto". La replica: "Sono solo coincidenze", scrive Matteo Sacchi Venerdì 25/09/2015 su “Il Giornale”. Non c'è pace per Roberto Saviano. A giugno i giudici italiani, corte di Cassazione, hanno messo nero su bianco che nel suo libro più famoso, Gomorra (Mondadori), 10 milioni di copie vendute solo in Italia, c'erano dei passi plagiati da articoli di giornali locali del gruppo editoriale Libra. Pochi ma c'erano. La corte ha in quel caso ridotto ai minimi termini la responsabilità economica di Saviano, e del suo editore, per il plagio ma lo ha determinato in maniera definitiva. Come spiega la sentenza, già nei precedenti gradi di giudizio c'era stato «un analitico ed approfondito esame dei brani riportati nel romanzo Gomorra arrivando alla conclusione che riguardo a tre dei sette brani riportati vi è stata una illecita appropriazione plagiaria degli stessi in quanto in questi casi il romanzo riportava quasi integralmente gli articoli in questione». Sui media italiani non è che ci sia stata grande eco per la notizia, anzi. Invece negli Usa, dove la recensione dei libri è spesso molto analitica e pignola, è un giornale on line, e non un tribunale, a «bacchettare» Saviano. Ieri il Daily Beast , uno dei siti web più visitati al Mondo, in un articolo a firma Michael Moynihan titolava così: «Il problema col plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano». L'articolo, dopo aver citato la sentenza italiana e l'indifferenza con cui Saviano se l'è lasciata alle spalle, è invece dedicato al secondo libro dell'autore, ZeroZeroZero (Feltrinelli), dedicato al narcotraffico sudamericano (negli Usa il volume è uscito a inizio estate). La recensione non è per niente buona. La stroncatura letteraria prende poche righe: «ZeroZeroZero è un pasticcio di libro, una serie di storie in cerca di una narrativa coerente, dove a eventi globalmente insignificanti è assegnato un grande significato storico, e tutti gli altri fatti sono sempre gonfiati e sovraccaricati nella scrittura». Più interessante che il libro venga considerato «incredibilmente disonesto». Nell'articolo viene elencata una serie piuttosto lunga di «copia e incolla» che non farebbero proprio onore a quella che dovrebbe essere letteratura d'inchiesta. A essere onesti qualche dubbio sul livello dell'«inchiesta» era venuto anche in Italia. Ne avevamo scritto in queste pagine parlando di echi da Wikipedia e il professor Federico Varese sulla Stampa (nell'inserto Tuttolibri) aveva segnalato un passo che sembrava ripreso pari pari dall'enciclopedia on line. Questi riscontri, sommersi dal coro sperticato di elogi che di solito accompagna ogni atto di Saviano, sono passati in cavalleria. Ma il Daily Beast, sfruttando le fonti in loco, ha localizzato molte altre «anomalie». Passi relativi alla banda di narcotrafficanti Los Zetas attribuiti «alle fonti privilegiate di Saviano» verrebbero dritti dritti da Wikipedia. Poi ci sarebbero, e questo farebbe il paio con il precedente di Gomorra , le appropriazioni senza segnalazione di articoli scritti da giornalisti meno famosi, soprattutto di testate Usa. Ora che ZeroZeroZero è stato tradotto in inglese, le somiglianze balzano all'occhio. Giusto per fare un esempio, la storia tragica di Christian Poveda, un regista franco-spagnolo ucciso in Salvador, sarebbe ripresa in blocco ma senza citazione alcuna da un reportage del 2009 del Los Angeles Times della corrispondente Deborah Bonello. Il paragone lascia basiti. Decine di righe in cui al massimo cambia l'ordine delle parole o c'è qualche guizzo di colore a cercare di fare la differenza. Michael Moynihan ha provato a chiederne conto a Saviano che ha parlato di coincidenze e del fatto che lui e la Bonello hanno lavorato sulle stesse fonti. La Bonello ha spiegato che la fonte del suo articolo era un'intervista al regista morto (difficile avere accesso alla stessa fonte senza una seduta spiritica). Moynihan, insospettito, ha trovato decine di altre similitudini. Un passo che secondo lui verrebbe pari pari dal giornale salvadoregno Il Faro (senza citazione alcuna dell'autore). Altri passi da reportage di Robert I. Friedman (che non viene citato ma solo ringraziato per la sua «visione»). In tutti i casi Saviano ha negato le somiglianze, a quanto scrive Moynihan. O al massimo ha abbozzato spiegando di nuovo che le fonti erano le stesse. Seguono altri passi che hanno delle somiglianze con articoli del St. Petersburg Times. Poi ci sarebbe la «clonazione» più significativa. ZeroZeroZero finisce con il racconto dell'omicidio del giornalista messicano Bladimir Antuna García per mano di una gang legata al narcotrafficante El Chapo. Un racconto che pare cannibalizzato da un rapporto del 2009 del Committee to Protect Journalists (il giornale americano lo allega in pdf come prova). Citazioni della fonte? Zero. Per carità c'è differenza tra le somiglianze scovate da un giornalista e l'accertamento fatto da un tribunale. Ma i pezzi messi a confronto sono davvero tanti. E, per di più, a scatenare l'irritazione negli Usa è il fatto che Saviano è famoso per i suoi pistolotti, in cui spiega che il vero giornalista deve andare sul posto e non può fare le inchieste seduto al computer e usando Google... Quello che ha fatto saltare definitivamente la mosca al naso di Moynihan sono le interviste a personaggi che Saviano garantisce come «assolutamente reali». Come il paramilitare Ángel Miguel, membro dei cattivissimi Kaibiles del Guatemala, che Saviano avrebbe contattato in Italia. Moynihan confronta il racconto di Miguel con un reportage del 2005 pubblicato su Notimex dal giornalista messicano José Luis Castillejos. Altre strane somiglianze. Come mai si chiede? Ce lo chiediamo anche noi. Nelle risposte che Saviano gli manda via mail e Moynihan pubblica è difficile raccapezzarsi. Sembra di capire che Saviano si conceda un po' di “fiction” e che, secondo lui, sia ovvio che il lettore lo sappia. Ma lo sa davvero? E tutti i saccheggiati del loro pericoloso lavoro di inchiesta? Dovrebbero dire grazie di essere stati nobilitati, ma anonimamente, da un bel romanzo civile? Negli Usa è una cosa incomprensibile. Non sanno che qui in Italia si può essere riconosciuti maestri del copia e incolla come Umberto Galimberti e cavarsela con solo un richiamo formale della propria università. Oppure farsi pizzicare come Corrado Augias a copiare dal web e veder finire tutto in gloria. E c'è da scommettere che anche questa volta al di qua dell'Oceano, non se ne parlerà tanto. Anzi forse se ne parlerà zero, zero, zero. Perché in italia agli iscritti al club dei «ripubblica» si scusa tutto. PS. I riscontri diretti sul testo si possono fare solo tra gli articoli originali in inglese e la versione del libro in inglese. Per questi rimandiamo alla corposa documentazione reperibile sul sito del The Daily Beast .
Roberto Saviano: "Vi spiego il mio metodo tra giornalismo e non fiction". Lo scrittore su "La Repubblica" replica alle accuse americane: "Il mezzo è la cronaca, il fine è la letteratura". Rimbalza dagli Stati Uniti una polemica che ruota intorno allo scrittore. Un articolo pubblicato dal sito di informazione The Daily Beast, firmato da Michael Moynihan, è una lunga dissertazione su ZeroZeroZero, il libro sul narcotraffico globale da poco uscito negli Usa. L'articolo attacca il metodo di lavoro dell'autore di Gomorra. Saviano è accusato di non citare le sue fonti e di prendere in prestito singole frasi o passaggi da opere altrui. Da qui il titolo: " Il problema plagio dello scrittore di mafia Roberto Saviano". Una presa di posizione, questa del Daily Beast, che ha subito suscitato un acceso dibattito sui social network.
Accade sempre così, prima con " Gomorra" e ora accade con " ZeroZeroZero": quando un libro ha molto successo, quando supera il muro dell'indifferenza, quando le storie che veicola iniziano a creare dibattito, è quello il momento giusto per fermare il racconto. Per bloccarlo. E come sempre il miglior metodo è gettare discredito sul suo autore. Come se fosse possibile smontare davvero un libro di oltre 400 pagine con un articolo di qualche migliaio di battute. Ma forse questo è lo scopo di una recensione a ZeroZeroZero uscita sul Daily Beast , che non si è accontentata di essere una stroncatura (è normale, no?, che un libro ne riceva), ma che vorrebbe essere altro. Che cosa, esattamente, lo lascia intendere l'autore, che si sofferma forse un po' troppo sulla mia figura, sul fatto di essere ormai percepito come un personaggio politico e non solo come uno scrittore. Non è evidente, allora, che i miei libri, tutti, finiscano per scontare questa paternità troppo ingombrante? Così, quando non si può dire che ciò che racconto è falso, si dice che l'ho ripreso altrove. Ma il mio lavoro è esattamente questo: raccontare ciò che è accaduto, nel mio stile, nella mia interpretazione. Mi accusano di aver ripreso parole altrui: come se si potesse copiare la descrizione di un documentario. Se la protagonista è donna, è madre, ha 19 anni, si chiama " Little One" e ha un numero tatuato in faccia, non so quanti modi ci possano essere per raccontarlo. Di più. Per rendere i brani simili, il mio critico taglia il testo che avrei preso a riferimento, come fa per esempio nel caso di un passaggio del Los Angeles Times. Scrive il giornale americano, secondo il Daily Beast : "... there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there...". E questo sarebbe il brano che io avrei ripreso in ZeroZeroZero : "... about 15,000 members in El Salvador, 14,000 in Guatemala, 35,000 in Honduras, 5,000 in Mexico. The highest concentration is in the United States, with 70,000 members". E certo che i due passaggi si somigliano. E sapete perché? Perché per fare il suo gioco il Daily Beast ha omesso dall'articolo del Los Angeles Times un passaggio significativo. "Speaking at the Mexico City premiere of La Vida Loca last month, Poveda said officials estimate there are 15,000 gang members in El Salvador; 14,000 in Guatemala; 35,000 in Honduras; and 5,000 in Mexico. The biggest population of gang members still resides in the U. S., with an estimated 70,000 living there, he said". La frase completa spiega insomma che quei numeri li ha dati Poveda stesso alla premiere messicana del film nel 2009. Ed è difficile dare questa informazione in maniera diversa, soprattutto se è Poveda stesso ad averne parlato. Io cerco sempre di essere il più rigoroso possibile sui dati, riportandoli come sono forniti. E il caso di Christian Poveda è esemplare dal momento che a lui e al suo omicidio ho dedicato un intero capitolo di ZeroZeroZero : quindi l'ho citato, eccome se l'ho fatto! Del resto è sempre un azzardo utilizzare i puntini sospensivi indicando omissioni: in questo caso, per esempio, si stravolge sia quanto riportato in ZeroZeroZero sia quanto scritto sul Los Angeles Times, cambiando la posizione di dati e parole. Costruendo artatamente una somiglianza che non c'era, o che poteva essere ricondotta al pressbook diffuso quando il documentario di Poveda uscì. Ma poi sarebbe davvero plagio riferire la trama di un documentario? Cioè, se io scrivo la descrizione del Padrino sto plagiando la quarta di copertina? Ridicolo. Conosco moltissimi giornalisti, tra cui i maggiori giornalisti sudamericani, che incontro periodicamente e con cui scambio ogni tipo di informazione: loro mi mandano i loro scritti e io mando a loro i miei perché condividere informazioni, e soprattutto analisi, è la cosa che tutti noi consideriamo più preziosa. Sì, analisi: perché le informazioni sono di dominio pubblico. Attenzione a questo passaggio: le informazioni sono di dominio pubblico e non appartengono a nessun giornale perché sono fatti. Le analisi appartengono a chi le elabora e quelle vanno citate, sempre. Ma naturalmente, anche stavolta, sul Daily Beast , tutto prende le mosse dalla causa per plagio avvenuta in Italia: causa anche interessante da raccontare, visto che oltre a me, a processo, è finito un genere letterario, un genere che non è giornalismo, non è saggio e non è invenzione, ma qualcosa di diverso. Secondo me qualcosa di più - e i numeri di Gomorra lo hanno dimostrato. Nella sentenza di primo grado della causa in cui due quotidiani locali campani mi accusavano di aver ripreso articoli, il giudice afferma che ciò che può essere oggetto di plagio sono opere che hanno carattere di " originalità e creatività", ergo la cronaca non ha né l'uno né l'altro requisito, essendo niente altro che " fatti". C'è solo un modo per dire come è avvenuto un arresto e come un imputato era vestito in tribunale per l'udienza di convalida dell'arresto. C'è solo un modo per descrivere un documentario. E spessissimo la fonte comune per notizie che riguardano arresti o indagini sono generalmente le conferenze stampa delle forze dell'ordine. Immaginiamo i vari quotidiani farsi causa per aver utilizzato parole uguali per descrivere uno stesso avvenimento? Proprio sulla base di questo, il giudice di primo grado ha rigettato tutte le accuse. E non è stato neppure difficile smontarle: ai miei legali è bastato produrre in tribunale le decine di articoli identici a quelli di chi mi faceva causa, che descrivevano gli stessi avvenimenti. Anzi. Durante la riproduzione degli articoli da portare in udienza, ci siamo accorti che i quotidiani che mi avevano citato per plagio avevano pubblicato a mia insaputa (non ero ancora noto al tempo) alcuni miei articoli per intero: senza citare né autore né fonte. Non fatti simili né qualche parola uguale: ma due interi articoli. Per questo sono stati condannati: l'unica parte in cui le sentenze dei tre gradi di processo coincidono. Sì, nella sentenza di secondo grado, per esempio, vengono accolte tre su dieci delle loro richieste: corrispondenti a meno di 2 pagine su 331, lo 0,6% del libro! Ma proprio su queste vale la pena soffermarsi ancora un attimo. Sono stato condannato per aver scritto "su un giornale locale" invece che "sul Corriere di Caserta ". E per aver riportato per intero un articolo virgolettato. Sapete quale? Quello che declamava le arti amatorie del boss Nunzio De Falco, mandante dell'assassinio di Don Peppe Diana. Il titolo dell'articolo era: "Nunzio De Falco, re degli sciupafemmine". Questo tecnicamente non sarebbe neppure plagio, e nemmeno appropriazione indebita, dal momento che non avevo nessuna voglia di attribuirmi la paternità di quell'articolo. L'autore, del resto, era sconosciuto. E sapete perché. Perché si trattava dell'esaltazione di un boss di camorra. Ed era proprio questo ciò che io volevo mostrare: quanto quei quotidiani peccassero di apologia verso i capi che avevano ucciso Don Peppe - quanto certa stampa locale fosse compiacente. Se li avessi propriamente citati, invece che dire "su un giornale locale", mi avrebbero fatto causa per diffamazione! E gli altri due articoli? Uno riguarda la struttura del clan, l'altro il percorso fatto dalle auto dei carabinieri dopo la cattura del boss Paolo Di Lauro: ed entrambi veicolavano informazioni diffuse direttamente dalle forze dell'ordine. Allora vivevo a Napoli, assistevo alle conferenze stampa di carabinieri e polizia, e avevo come fonti gli organi investigativi: come tutti. Del resto chiunque vivesse a Napoli in quegli anni, e facesse il mio lavoro, trascorreva più tempo a parlare con gli inquirenti che sulle scrivanie. Era tempo di guerra di camorra (c'era almeno un morto al giorno) e tutti volevamo capire che cosa stava succedendo, come il nostro si stava trasformando in un vero e proprio territorio in guerra. Per inciso: la sentenza di terzo grado ha sancito definitivamente il carattere autonomo e originale di Gomorra , come aveva stabilito la sentenza di primo grado, rimandando al Tribunale circa la quantificazione del danno. Ma andrebbe ricordato che questo processo ha un antefatto. Importante. La citazione in giudizio da parte della società che pubblica Cronache di Napoli e Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta) non nasce in seguito alla pubblicazione di Gomorra (2006), ma solo due anni dopo: quando cioè ospite del Festivaletteratura di Mantova (settembre 2008) criticai duramente quelle testate locali che considero contigue alle organizzazioni criminali, che fungono da loro " uffici stampa" e che sono organo di propagazione dei messaggi tra clan. A Mantova mostro ritagli di giornale e la platea resta attonita. Il giorno successivo, di Cronache di Napoli e Corriere di Caserta ne parlavano tutti i maggiori quotidiani italiani. Continuo a lavorare su questo per lo Speciale Che Tempo Che Fa del 25 marzo 2009 (19% dello share della serata e 4 milioni e mezzo di telespettatori, è la trasmissione televisiva più vista quella sera). Mostro anche la prima pagina del Corriere di Caserta con il titolo a caratteri cubitali: "Don Peppe Diana era un camorrista". Ecco, dopo averne parlato in televisione sullo stesso argomento scrivo un libro per Einaudi. Tra la presenza televisiva e il libro arriva dunque la citazione in giudizio per plagio da parte delle testate locali. Anche qui, occhio: non per diffamazione ma per plagio. E non nel 2006, anno in cui Gomorra viene pubblicato, non nel 2007, ma dopo. Dopo che di loro parlo in televisione. Aggiungo due notizie sulla società che mi ha fatto causa. Maurizio Clemente, ex editore occulto delle due testate, è stato condannato a sette anni di carcere per estorsione a mezzo stampa: si faceva pagare per non diffondere informazioni su imprenditori e politici. E un processo con sentenza dello scorso febbraio ha dimostrato come un giornalista, Enzo Palmesano, che scriveva su un quotidiano del gruppo, sia stato licenziato su ordine del sanguinario boss di camorra Vincenzo Lubrano, che ha partecipato all'omicidio del fratello del giudice Imposimato. Ecco chi mi ha fatto causa. Ecco a chi i giudici di secondo grado hanno dato parzialmente ragione. Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili, eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario? Il metodo è la cronaca, il fine è la letteratura. Il lettore legge un romanzo in cui tutto ciò che incontra è accaduto. Si chiama non-fiction novel: ed è, credo, l'unico modo davvero efficace per portare all'attenzione di un pubblico più vasto, e in genere poco interessato, questioni difficili da comprendere. Perché in un libro che non è un saggio, ma appunto un romanzo non-fiction, non si devono riportare tutti coloro che ne hanno scritto: soprattutto quando le fonti sono aperte, come nel caso citato di un documento dell'Fbi, quindi fonti comuni, o come i documenti governativi sulle organizzazioni criminali in Guatemala, nel caso dei kaibiles - tutti esempi su cui si è esercitato il mio critico americano. Se, per ipotesi, descrivessi il crollo delle Torri gemelle, come faccio a citare tutti coloro che ne hanno fatto in quel giorno la cronaca? Allo stesso modo, siccome descriverò il crollo delle Torri gemelle, utilizzerò parole simili perché le fonti sono identiche e soprattutto perché la fonte comune è la realtà: l'attacco terroristico è avvenuto, è una notizia, e non ci sono molti modi per raccontare una notizia. Le interpretazioni, quelle sì, possono essere infinite, e a quelle va attribuita paternità: sempre. I fatti accaduti, con buona pace dei miei detrattori, non appartengono a nessuno. O meglio appartengono a chi li racconta e poi a chi li legge. Ma nell'articolo americano su ZeroZeroZero c'è di più. Non ci si limita a dire che avrei riportato agenzie giornalistiche non citandole, ma che ho inventato personaggi - nonostante io abbia detto direttamente al mio critico, interpellato via email, che nessun personaggio è inventato. Lui insiste: "Sono troppo perfetti per essere veri". Ma è esattamente quello che ripeto da anni: la realtà è molto più incredibile della finzione. E quando ho deciso che forma dare a ZeroZeroZero , con tutto il materiale che avevo raccolto, non avevo dubbi: non potevo inventare. Quello che avevo, doveva essere raccontato così com'era. L'ho fatto, con il mio libro, in Italia e nel mondo: dove ZeroZeroZero - che ora compare negli Usa - è uscito ormai da due anni. Insomma: prima mi si accusa di riportare notizie che esistono, ma prese da altri. Poi di aver inventato, perché ciò che scrivo è troppo perfetto. E a voi tutto questo non sembra l'ennesimo, furbo (ma poi nemmeno tanto) modo per delegittimarmi? Quando nell'articolo vengo definito "una specie di celebrità globale", "una rockstar letteraria", "il Rushdie di Roma", ho capito che ancora una volta ho fatto centro: il livore arriva quando c'è visibilità, quando il dibattito diventa centrale e catalizza l'attenzione. Ma mi dispiace per i miei critici, anche per quelli americani. Fiero dell'odio e della diffamazione, degli attacchi che ricevo quotidianamente, difenderò sempre il mio stile letterario: sia che lo usi per scrivere libri o articoli, sia che lo usi in teatro o per una serie tv. Così come l'omertà di alcuni sindaci non fermerà le riprese di Gomorra 2 , così il cachinno contro di me non fermerà la mia letteratura. Rassegnatevi: continuerò a indagare il reale, con il mio stile. Sarà di questo che avrà avuto paura anche la famiglia di Pasquale Locatelli, il broker di coca ora agli arresti. Anche di lui parlo in ZeroZeroZero e quando, nel 2013, il libro è uscito in Italia, anche lui ne ha chiesto il ritiro immediato. La richiesta è stata respinta.
Roberto Saviano su “L’Espresso del 2 ottobre 2015: Se quelli sono giornalisti. Il sindacato e l’Ordine hanno ignorato gli intrecci tra editoria e malavita. Ora invece si muovono per mettermi all’indice. E mi danno dell’«abusivo». Il giornale locale che aveva insinuato rapporti tra don Diana e il clan dei casalesi («Don Peppe Diana era un camorrista»), dedicò un articolo al fascino di Nunzio De Falco, boss mandante dell’omicidio don Diana. È il “Corriere di Caserta”, prima pagina del 17 gennaio 2005: «Boss playboy, De Falco re degli sciupafemmine». E poi: «Casal di Principe (Ce). Non sono belli ma piacciono perché sono boss; è così. Se si dovesse fare una classifica tra i boss playboy della provincia a detenere il primato sono due pluripregiudicati di Casal di Principe non certamente belli come poteva esserlo quello che invece è sempre stato il più affascinante di tutti cioè don Antonio Bardellino. Si tratta di Francesco Piacenti alias Nasone e Nunzio De Falco alias ’o Lupo. Secondo quello che si racconta ha avuto 5 mogli e il secondo 7. Naturalmente ci riferiamo non a rapporti matrimoniali veri e propri ma anche a rapporti duraturi da cui hanno avuto figli. Nunzio De Falco infatti, sembra che avrebbe oltre dodici figli avuti da diverse donne. Ma particolare interessante è un altro: le donne in questione non sono tutte italiane. Una spagnola un’altra inglese un’altra è portoghese. Ogni luogo dove si rifugiavano anche in periodo di latitanza mettevano su famiglia. Come marinai? Quasi [...] Non a caso nei loro processi sono state chieste le testimonianze anche di alcune loro donne tutte belle e molto eleganti». Per aver riprodotto questo articolo con l’indicazione “un giornale locale”, data e titolo, la Corte di Appello di Napoli mi ha condannato per plagio. L’articolo non era firmato; anche se lo fosse stato non avrei indicato il nome del giornalista perché non intendevo metterlo alla gogna, ma mostrare come lavora certa stampa locale che parla del mandante dell’omicidio don Diana come un “boss playboy” che ha avuto 7 donne, non tutte italiane ma «una spagnola un’altra inglese un’altra è portoghese» e «tutte belle e molto eleganti». La Corte d’Appello di Napoli ha ritenuto fosse plagio, eppure non mi sarei mai sognato di fare mie parole che mi fanno ribrezzo. Il 25 settembre 2015 l’Ordine dei giornalisti della Campania, il Sindacato unitario dei giornalisti della Campania e i consiglieri nazionali campani della Fnsi hanno diramato questo comunicato stampa: «Roberto Saviano, scrittore non-giornalista (non iscritto all’Ordine), continua ad attaccare l’informazione in Campania pur avendo ripetutamente saccheggiato i giornali locali, come dimostrato da una sentenza che ha imposto al suo ex editore di citare “Cronache di Napoli”, fonte delle “notizie” utilizzate per il libro “Gomorra”. Saviano, in sostanza, attacca quella stessa informazione da cui prende a piene mani le notizie. A questo va aggiunto l’ultimo caso di presunto plagio relativo al libro “ZeroZeroZero” dello scrittore non-giornalista, denunciato dalla stampa statunitense. Lo scrittore non-giornalista ribatte descrivendo il suo lavoro come un metodo tra giornalismo e non fiction. “Il mezzo è la cronaca - dice - il fine è la letteratura”. Ma allora il suo è un esercizio abusivo della professione? Saviano eviti generalizzazioni e impari ad avere rispetto dei giornalisti che fanno il proprio dovere, soprattutto quelli della Campania, molti dei quali lavorano nei territori di frontiera a caccia di vere notizie per pochi euro rischiando anche la propria incolumità senza alcuna protezione». Li conosco, e verso di loro nutro profondo rispetto. Se i giudici avessero condannato uno scrittore meno noto di me, probabilmente chi ha diramato questo comunicato sarebbe insorto urlando alla censura. E probabilmente avrebbero stigmatizzato chi ha scritto quell’abominevole articolo e la testata che lo ha diffuso (“Corriere di Caserta” che insieme a “Cronache di Napoli” fa parte del Gruppo Libra. Il “Corriere di Caserta” ha licenziato il giornalista Enzo Palmesano su ordine del boss Vincenzo Lubrano. I giornalisti campani dov’erano quando questo accadeva? Palmesano in un’intervista dice: «L’ordine dei giornalisti non si è costituito parte civile con me e quando hanno letto la sentenza in tribunale ero da solo. Il sindacato ugualmente assente»). Ma poi che definizione triste «un esercizio abusivo della professione». Solo io ricordo chi è stato il grande abusivo del giornalismo campano e come è stato trattato da molti suoi colleghi quando la camorra lo ha ammazzato? Sono fiero di essere un “non-giornalista” se i giornalisti, cari signori, siete voi.
Così il Nobel della realtà rivoluziona la letteratura. Con il riconoscimento alla Aleksievic cadono i pregiudizi sulla non fiction, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Il Nobel a Svetlana Aleksievic non è solo un riconoscimento a una intellettuale che ha subito la pressione del regime di Lukashenko e che combatte Putin. Il Nobel a Svetlana Aleksievic è una rivoluzione culturale: dopo decenni, viene premiata la narrativa non fiction. Nel mondo anglofono, o meglio, in quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante, questo Nobel è una specie di terremoto. Lo dimostra bene un articolo di Philip Gourevitch pubblicato sul New Yorker il 9 ottobre 2014 e riproposto in questi giorni dall'autore sul suo profilo Twitter. Sul New Yorker Gourevitch raccontava chi è e cosa scrive Svetlana Aleksievic, e spiegava quanto rivoluzionario sarebbe stato se il Nobel per la letteratura si fosse finalmente aperto a quella visione del mondo, a quel racconto della realtà che apparentemente sfugge a ogni catalogazione. Quasi una profezia. In molti non ci credevano e pensavano che il Nobel avrebbe continuato a seguire il canone classico premiando la letteratura che o è fiction, altrimenti non è. La questione è di tipo epistemologico e, per argomentare la sua tesi, Gourevitch cita Gay Talese che in un'intervista a The Paris Review disse: "Gli scrittori di non fiction sono cittadini di seconda classe, l'Ellis Island della letteratura. Semplicemente non riusciamo a entrare. E sì, questo mi fa incazzare". Ma le parole di Telese cristallizzano la direzione verso cui il mercato letterario tende. Spesso il problema per uno scrittore è costruire un libro che sul mercato possa indossare un'etichetta, che possa stare esattamente in quello scaffale: quanta miopia nella necessità di catalogare la scrittura. "Gli editori e i librai - scrive Gourevitch - sono complici, insieme ad altri custodi del canone, della privazione filistea alla grande scrittura documentaristica, riservando l'etichetta "letteratura", su copertine e su scaffali, solo alle opere di fiction". Librai ed editori partecipano tutti al grande fraintendimento chiamando "letteratura" solo ciò che è pura invenzione e attribuendo alla narrativa che racconta la realtà un ruolo secondario. Personalmente - e sono di parte - credo che valga il contrario e non intendo piegarmi ai dettami del mondo anglosassone che, nella sua quasi totalità, impone la legge dell'ottusa divisione tra fiction e non fiction. La letteratura e la lettura, così intese, vengono accompagnate da una serie di domande preventive che vivisezionano la scrittura. Cos'è esattamente Svetlana Aleksievic, una giornalista o una scrittrice? È più giornalista o più scrittrice? Che pensano di lei gli altri giornalisti? E gli altri scrittori? È rigorosa nel racconto o si prende delle licenze? Queste domande sono fuorvianti, perché non tengono presente il fine. E il fine è creare un affresco letterario. Ecco, la non fiction può essere raccontata in questo modo: è un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia, ma ha come fine il racconto della verità. Lo scrittore di narrativa non fiction si appresta a lavorare su una verità documentabile ma la affronta con la libertà della poesia. Non crea la cronaca, la usa. Aleksievic racconta prendendo brani ascoltati in stazione; dopo un'intervista esprime la nausea che le ha generato. Non ha paura che le lettere dal fronte che seleziona, che le sue interviste, siano percepite come talmente perfette da sembrare invenzione. Sa che la realtà supera di gran lunga l'immaginazione e accetta di farsene megafono, amplificatore. La sua grandezza sta proprio nel coraggio letterario, non farsi irreggimentare dalla prassi di lavoro che impongono i giornali. Scegliere la letteratura non fiction, del resto, è una scelta di stile, è la scelta di un percorso. Santa Evita di Tomá s Eloy Martí nez è il libro che racconta meglio di qualunque altro la storia di Evita Perón, ma non racconta ciò che è incontestabilmente considerato vero. Non è una biografia. Raccoglie fatti, molti, su cui esistono più versioni e sceglie quelle ritenute più veritiere o più funzionali alla narrazione. Potrebbe essere smentito Martínez, e avrebbe come unica possibilità di difesa la credibilità del suo lavoro, cioè della ricerca antropologica. C'è chi chiede all'arte di non essere più arte. Chi pretende che sia più vera della verità. Più realista della realtà. Come se fosse un gigantesco, e alla fine inutile, pantografo. Questo Nobel va nella direzione opposta, perché non premia solo il coraggio di una dissidente, ma anche e soprattutto il coraggio di una scrittrice che ha scelto un metodo, che con il suo stile letterario ha minacciato il potere. La verità che ci racconta Svetlana Aleksievic è universale anche se non si può misurare. Ragionando per assurdo, che senso avrebbe avuto allegare a Ragazzi di zinco un dvd con tutte le interviste fatte, nomi e cognomi esatti, per dimostrare che quelle conversazioni erano avvenute proprio come le leggiamo? Ovviamente non avrebbe avuto nessun senso perché al lettore interessa un'altra verità: raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole. Farli diventare creazione, non cronaca. Gli scrittori di narrativa non fiction sono stati fino a oggi relegati in un limbo di non affidabilità. Svetlana Aleksievic (che era addirittura chiamata spia, perché creduta in Bielorussia una agente della Cia) era liquidata dai colleghi con le solite litanie "tutti ci siamo occupati di Afghanistan", "tutti abbiamo scritto su Cernobyl", "non scrive niente che non si sappia già". Certo, esistono decine, centinaia di reportage: ma Aleksievic non ha solo raccontato l'Afghanistan o Cernobyl, lei ha creato un Afghanistan e una Cernobyl a più dimensioni, agli antipodi rispetto a quelle che i telegiornali avevano tracciato o che i reportage ci hanno restituito. Ha raccontato quello che stava dentro, sopra e accanto ai fatti, non i fatti, quelli li ha lasciati ai cronisti, a chi ricostruisce la cronaca. Ha raccontato se stessa e il mondo attraverso quelle vite e quelle morti. Ha raccontato quello che non era visibile ma c'era: le sue sensazioni, i suoi stimoli e le sue congetture anche in mancanza di prove certe. Questo la cronaca non può farlo, ma è dovere della letteratura. Aggiungere realtà al romanzo, sottrarre freddezza alla cronaca, sono l'unica strada che esiste per portare argomenti "sensibili" all'attenzione del lettore. Truman Capote scrisse: "Ho questa idea di fare un grande e imponente lavoro; dovrebbe essere esattamente come un romanzo, con un'unica differenza: ogni sua parola dovrebbe essere vera, dall'inizio alla fine". Per Capote oggi sarebbe stato ancora più difficile scrivere e difendere A sangue freddo. Lo hanno massacrato quando è uscito e oggi avrebbero fatto di peggio, perché il peccato capitale di manipolare (che non vuol dire falsificare) la realtà viene visto come un'invasione di campo da parte di chi fa cronaca. Tom Wolfe, teorico del New Journalism, affermava che non basta riportare le parole dei tuoi protagonisti (veri, non di invenzione), ma bisogna costruire il contesto in cui agiscono e parlano. E qui entra in campo la letteratura. Ma forse c'è una ragione politica per cui la letteratura non fiction è considerata una specie di paria, ed è questa: relegare il racconto del mondo al solo lavoro dei cronisti o della misurabilità della notizia, significa spezzettarlo, isolarlo, in qualche modo debilitarlo. Affrontare invece quello stesso racconto con il metodo narrativo, significa creare un affresco comprensibile, fermare il consumo di notizie e iniziare la digestione dei meccanismi; significa ricomporre il mosaico e parlare a chi quella notizia non la leggerebbe mai, non potrebbe comprenderla se non in un quadro più generale, non la sentirebbe propria. Provate a leggere le pagine di Aleksievic sul tramonto dell'ideologia comunista, sui suicidi di chi ci credeva, e capirete come quelle parole siano salite sulla locomotiva della letteratura e abbiano centrato il punto. Aleksievic si prende la responsabilità di intervenire sulla realtà e non si mette al riparo da essa. E allora non capisco come sia possibile che in Italia, quando si discute sui grandi scrittori viventi, non si parli innanzitutto di Corrado Stajano, di Un eroe borghese e Africo. Letteratura è Guerre politiche, la prova non fiction di Goffredo Parise superiore a moltissimi altri suoi libri di fiction. Letteratura è Banditi a Orgosolo di Franco Cagnetta, velocemente catalogato come studio antropologico. Letteratura è Un popolo di formiche di Tommaso Fiore che ogni ventenne (del Sud ma anche del Nord) dovrebbe leggere, letteratura è l'inchiesta sulla morte di Francesca Spada in Mistero napoletano di Ermanno Rea, è Il provinciale di Giorgio Bocca. Sto citando libri spesso mai nemmeno pronunciati quando si discute di letteratura italiana eppure ne sono l'aria migliore degli ultimi decenni. Letteratura è il recente Al di la del mare, il racconto con nessun altra prova che i suoi occhi, di Wolfgang Bauer tra i profughi siriani. Come si possono non considerare letteratura Dispacci di Michael Herr o i libri di Kapuscinsky, sistematicamente accusato, in vita e dopo la morte, di "aver inventato", lui che veniva considerato un reporter e quindi doveva dimostrare le sue verità. Letteratura è il più bel libro mai scritto sulla fame nel mondo, La fame di Caparros. Tutti gli scrittori che ho citato, prima di questo Nobel, hanno convissuto con lo spettro della perenne diffidenza e tutte le loro teorie sulla non fiction novel e sul New Journalism erano percepite come giustificazioni ex post o stravaganze artistiche. La cosa è accaduta persino con il padre di tutti gli scrittori non fiction Rodolfo Walsh che raccontò nel 1957 con strumento letterario nel suo Operazione Massacro un episodio sconosciuto e violentissimo della repressione militare argentina. La sua denuncia esplose nel mondo proprio per lo stile con cui decise di affrontare il tema. Anche con il cinema è andata così; i registi Vittorio De Seta e Francesco Rosi sono sempre stati silenziosamente accusati di "manipolare" la verità. Amati quando relegati nelle retrospettive culturali, ma temuti e fermati quando i loro lavori intervenivano nel dibattito politico. Il caso Mattei oggi sarebbe immobilizzato dalle querele e dall'accusa di infedeltà, eppure è forse il capolavoro che più di ogni altro racconta quello che l'Italia poteva essere nel dopoguerra, e non fu mai. Questa volta il Nobel è stato coraggioso nel premiare una persona che viene definita saggista, che viene definita giornalista, che viene definita reporter, pur essendo sempre stata una scrittrice. Spero si avveri la profezia di Gourevitch, che un anno fa sul New Yorker aveva scritto: "Non appena sarà abbattuta la barriera non fiction del Nobel, il fatto che sia esistita sembrerà assurdo. "Letteratura" è solo un termine di invenzione per indicare la scrittura".
LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.
Alla ricerca dell'Appia perduta: in Basilicata tra pale eoliche e nuovi Don Chisciotte. Li chiamano "Erection Manager" perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose, scrive Paolo Rumiz su “La Repubblica”. Don Chisciotte era niente. La Mancha nemmeno. La lotta vera con i mulini a vento la fai in Basilicata, Italia, tra l'Ofanto e Melfi. Comincia con una strada misteriosamente chiusa al traffico; la Statale 303, di nuovo lei, ma ancora più sfasciata, e degradata a Provinciale. Non ci passa più nessuno, come se il tratturo antico se la fosse rimangiata. E noi la risaliamo in un silenzio ingannatore, tra finocchietto e ginestre, attirati dalla Medusa. Nessuno di noi sa che questa sarà la tappa più dura del viaggio. Il grano è pettinato al contrario, perché dopo Borea è arrivato lo Scirocco con tafani nervosi. Ed è un corpo a corpo, contro la salita, contro il vento, persino contro le pecore, che scendono a slavina verso il fiume.
"Di dove siete?", chiede il giovane pastore che le segue stravaccato in macchina. Non ha mai visto nessuno passare a piedi di là. Gli italiani non camminano nella pancia del loro Paese. "Siamo del Nord".
La sorpresa si tramuta in sbalordimento. "E dove andate? ".
"A Brindisi".
Ride, si sbraccia per salutarci e passa oltre, strombazzando dietro al gregge lanciato verso l'abbeverata in una scia di caccole. Ma già dal fiume sale un'autocisterna piena d'acqua, con un altro giovanotto al volante. Musica rock dal cruscotto, cicca accesa e portiera aperta per ventilare le ascelle. Anche lui non ha mai visto nessuno a piedi da queste parti.
"Ditemi un po', ma che fate? Passeggiate? Con sti zainetti 'ncoppa?".
"Andiamo da Roma a Brindisi ".
"A piedi?".
Noi in coro: "Certamente".
E lui: "Ma chi vi paga?".
Noi: "Storia lunga. Ma lei piuttosto, che fa?".
"Bagno la strada per i mezzi pesanti che arrivano. Tra poco cominciano a lavorare quelli delle pale".
Alziamo gli occhi verso la collina. La traccia dell'Appia, già divorata dai campi di grano e dagli orti, muore contro un gigantesco parco eolico. Sopra di noi quattro colonne mozze di torri in costruzione, targate Alfa Wind, immense già prima di essere finite. Roba di ottanta metri, senza contare le pale. Ed è solo l'inizio. Le alture e i boschi dove Federico II di Svevia andava a caccia sono talmente scorticati dall'industria del vento che anche il gomitolo della nostra strada ci sfugge di mano. ... Goethe, Viaggio in Italia, 1786: i Romani "lavoravano per l'eternità. Avevano calcolato tutto, tranne la follia dei devastatori, a cui nulla poteva resistere". Ed ecco i primi mostri, peseranno come 5- 6 carri armati ciascuno. Lenti, inesorabili, indifferenti alla nostra presenza, passano sull'ex 303 dissestandola definitivamente. Azienda "Ruotolo", "Fratelli Runco" da Cosenza. Giganteschi anche gli autisti. Sembrano i padroni. E invece no, i capi sono altri: mercenari alieni dalle mani di pianisti, giovani tecnici stranieri che lasciano la fatica agli italiani. Passano ragazzi spagnoli, col sorriso vagamente canzonatorio, abbronzati, in T shirt nere, su furgoni bianchi o land-rover. Il nome della ditta, "Moncobra", sembra rubato a un film di Tarantino. Poi gli irlandesi. Li chiamano "Erection manager", altro nome dell'altro mondo, perché sanno erigere questi falli ad altezze paurose. Poco oltre, un podere, con un contadino che suda attorno ai pomodori. Gli chiedo cosa pensa dei giganti intorno a lui, ma non risponde. Come se il mondo non lo riguardasse. Ma che fai, vorrei dirgli, non vedi che sei rimasti solo, che i vincenti sono loro? Non capisci che qui nessun politico verrà mai, e tantomeno a piedi, a vedere cosa sta succedendo quassù? Guarda cosa è accaduto a San Giorgio la Molara, sopra Benevento, diventata inaccessibile perché l'eolico gli ha devastato le strade. E guarda qui a due passi, in contrada San Nicola. Hanno espropriato terreni agricoli per fare una enorme centrale elettrica collegata alle pale, e l'hanno dichiarata "temporanea". Ma qui nulla è temporaneo. Qui si svende l'Italia. E ognuno sa che è "per sempre". Ancora torri immense. Di una è stato appena scavato il basamento, grande come mezzo stadio di calcio. Oltre, bulldozer sventrano altri campi da grano, e lo sterro lascia ai lati montagne di detriti che saranno spianati chissà quando. La morte della strada è certificata dai ruderi di una cantoniera: "Anas" c'era scritto, ma è rimasta solo la lettera "A", e tu ti chiedi perché in Italia non esiste il reato di incuria e abbandono del pubblico bene. Attorno, la dolcezza dei declivi, anziché consolarti, ti ara l'anima e ti fa schiumare di rabbia. Capisci di essere un vano ficcanaso, un moscerino impotente; se ne accorge anche l'ultimo degli operai. "Che fate?" ci chiedono da un cantiere. "Un film", rispondiamo. "E come si chiama?". "Appia antica". E loro giù a ridere. Dalla cima del colle, chiamato Torre della Cisterna, appare la Puglia sterminata a desertica. L'unica terra, forse, che le pale eoliche non riescono a schiacciare, ma paradossalmente sembrano mettere a misura. Sotto di noi, una superstrada e una ferrovia, con una traccia plausibile dell'Appia che passa sotto i piloni di entrambe. Ma è subito Far West, il corpo a corpo col filo spinato, poi con una recinzione abusiva, infine con un canneto, dal quale usciamo quasi nuotando, tenuti su dal fogliame, senza toccare il terreno, pieni di sete e graffiati da capo a piedi. Ma Riccardo, la nostra guida, ritrova il gomitolo e apre la strada, tranquillo. Sulla mappa Igm c'è scritto "strada provinciale di Leonessa", ma la strada è solo uno sterrato senza anima viva. Tracce di basolato sotto un dito di polvere. E noi avanti, tra i campi, fino a una valletta incantata piena di ginestre. Profumo da sballo. In cima, un ripetitore. E la vista magnifica sul castello di Melfi.
Le pale eoliche sono l'Isis, la Basilicata la nostra Palmira. In nome di un finto progresso il paesaggio di un'intera regione è stato sfregiato da impianti mostruosi. Regalando solo povertà, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Altroché elicotteri che spargono petali! Nulla può dare più dolore, a chi ama Roma e la sua storia, della distruzione, sul nostro corpo, sulla nostra memoria, sulla nostra anima, del tempio di Baal Shamin. E il fumo che si alza dalle rovine, un fungo che richiama i più tragici simboli della guerra, fino all'assurda violenza della bomba atomica, in un richiamo doloroso tanto più dove non c'è nessun nemico, ma solo pietre di un mondo perduto, è un'immagine intollerabile che mai vorrei vedere. E, dietro quel fumo, le teste decapitate dei martiri. Gli attentati criminali a Ninive, a Nimrud, a Hatra, in un crescendo di violenza e di terrore, sono macabri annunci che minacciano di non avere fine. Qualcuno può consolarsi pensando che in Italia non potrebbe accadere. E invece accade, in un silenzio ancora più tombale dell'indifferenza per i morti e le rovine di Palmira, di chi si indigna per il carro funebre di Totò. L'Isis è a casa nostra e, per di più, con la presa in giro della tutela dei beni culturali, del territorio, del paesaggio, dell'ambiente. Ecco, negli anni Settanta l'ideologia pseudo marxista aveva innalzato la bandiera dell'ambientalismo, trasformando anche parole e concetti; e contrabbandando il paesaggio in territorio e le belle arti in beni culturali. Sono stato io, al ministero, a ripristinare la terminologia «belle arti» e «paesaggio». Ma era ormai troppo tardi. Orrori non a Palmira ma nel centro storico di Roma venivano imposti da sindaci e ministri, dopo preventiva distruzione del passato: penso alla teca di Richard Meier, all'Ara Pacis; penso allo sconvolgimento di Piazza San Cosimato; penso alla cancellazione di Bernini da Piazza Montecitorio. Tutto questo è accaduto con il consenso delle autorità. Fino allo sconvolgente allestimento su un trampolino da piscina del Marco Aurelio, sottratto alla piazza del Campidoglio. Ovunque sono cresciuti orrori: a Firenze il Palazzo di Giustizia, a Venezia il cubo di Santa Chiara. Oggi, mentre i colleghi dell'Isis distruggono indisturbati, indisturbati lavorano i costruttori di casa nostra. Ma non bastava sconvolgere il volto del territorio con edifici innominabili. Occorreva proprio intervenire capillarmente sul paesaggio. Ed ecco allora che, prima il Molise e la Puglia, e ora la Basilicata, sono state cancellate; nella prospettiva di Matera capitale europea della cultura, la strada per raggiungere quella città è stata puntellata di pale eoliche, con una accelerazione tipica di chi teme di perdere il vantaggio che norme della incivile Europa hanno concesso a speculatori e facilitatori. Superata Benevento, martoriata da rotatorie decorate con immagini di Padre Pio lanciato verso il cielo, si iniziano a vedere centinaia e centinaia di croci, in disordine, rarefatte o affollate. Sono pale che non girano, ferme, piantate su tutti i colli a perdita d'occhio. Da Grottaminarda a Flumeri, a Frigento, a Gesualdo, a Buonabitacolo, ad Accadia, a Sant'Agata, a Lacedonia, a Candela, a Palazzo San Gervasio, a Spinazzola, a Genzano di Lucania, ad Ascoli Satriano, a Canosa, a Troia, a Foggia. Via via, come alberi di una foresta meccanica, con l'ironia di chiamarne la insensata proliferazione senza ordine né logica, che non sia la cupidigia, di permesso in permesso, di amministrazioni comunali, regionali, intrinsecamente mafiose, in una stabile trattativa con uno Stato criminale, parchi eolici. Ed è inutile richiamare quello Stato e quell'Antimafia, che si agitano per la colonna sonora del Padrino o per un comico manifesto, al rispetto dell'art. 9 della Costituzione, scritto per garantire un mondo perduto, all'opposto di quello che vediamo. E quando vandali su vandali bruciano i boschi, eccoli non trovare più alberi, ma incendiare pale, il cui fusto è nero. E nero resterà fino a quando una mano pietosa tenterà di svellere quei giganteschi chiodi che hanno crocifisso i colli, stuprandoli e riempiendoli di cemento armato fino al midollo. Intorno la vegetazione è scomparsa, gli uccelli volano altrove, ma i nostri occhi contemplano l'orrore dove fino a qualche anno fa c'era la curva di dolci colline. E qualcuno avrà detto: «Ma non sono luoghi importanti, non ci sono monumenti significativi» (e non è vero). Una ragione in più per lasciare integro un paesaggio e conservargli la bellezza del suo essere remoto, lontano, una meraviglia da scoprire. Nessun paesaggio è meno importante di un altro, in Italia. E sembra assai singolare che le stesse autorità che hanno assistito imprudenti e complici, magari magnificando l'energia pulita, a danno di una purissima bellezza, siano oggi, con le stesse espressioni, a celebrare la romantica difesa di paesi abbandonati, di borghi dimenticati, in alcune giornate disperatamente dedicate alla memoria di un uomo giusto che oggi sarebbe furibondo e che non aveva previsto, tra i vari aspetti positivi un riscatto del meridione e della Basilicata attraverso la cultura. Mi riferisco a Carlo Levi e al Festival della Luna e i Calanchi ad Aliano, dove Levi fu al confino. L'organizzatore Franco Arminio pensa agli antichi forni, alle tradizioni, ai canti, alla lingua, in un riscatto di ciò che il progresso ha cancellato nel disprezzo per la povertà. Ed è bellissimo sulla carta. Ma le colline sono perdute. Arminio coltiva la «paesologia». Ed è forse troppo tardi. Così come Carmen Pellegrino inventaria paesi abbandonati (e forse per questo salvati), autodeterminandosi come «abbandonologa». Ma niente è meno abbandonato di ciò che vive dentro noi, e che i barbari minacciano e distruggono, come l'Isis ha fatto con il tempio di Baal Shamin. E mentre noi ci difendiamo in trincea, ad Aliano, ovunque sono disseminate mine e lanciate bombe, esattamente come a Palmira con le mostruose pale eoliche e gli immondi pannelli fotovoltaici. Vorremmo cominciare veramente una lotta contro la mafia e il potere che la sostiene invece che declinarla in prediche, appelli, e luoghi comuni. Qui, i luoghi e la bellezza comune, risparmiati per secoli, si sono sottratti. Un paesaggio perduto è come un tempio distrutto. E non ho mai visto difendere questi paesaggi sfregiati quelle autorità sconcertate contro i simboli, e pronte a dichiarare e a scrivere la loro indignazione per i carri funebri trainati dai cavalli convocati dalla mafia. I simboli di mafia, cari Saviano, don Ciotti, Boldrini, Alfano, sono queste violentissime ferite al paesaggio (non petali di rose) che voi vi ostinate a non vedere, e che rappresentano la più terribile testimonianza del patto Stato-mafia degli ultimi 10 anni. Franco Arminio si rifugia nel paese di Carlo Levi, e le massime autorità dello Stato applaudono. Sordi, ciechi, muti.
E’ STATO LA MAFIA!
Avevo, con la mia famiglia, un bar ristorante discoteca al mare. Tutto autorizzato. Lavoravo con la pistola denunciata sotto il bancone del bar e nelle ore libere mi allenavo per ore nelle arti marziali per difendermi dai criminali, perchè le Forze dell'Ordine, quando ne hai bisogno, non ci sono mai. D'inverno qualcuno ha incendiato il tutto. Nessuna richiesta estorsiva. Solo un atto dimostrativo per gli altri. Succede anche questo, anche se i benpensanti parlano di omertà. Ti rovinano e non sai chi ed il perchè. Non mi è rimasto niente. Non ho ricevuto niente dallo Stato. Volevo riaprire con le mie forze e con coraggio ricominciare da zero. Quello Stato che prima mi ha fatto aprire, poi da vittima di mafia mi ha impedito di ricominciare, negandomi le autorizzazioni che già mi aveva rilasciato. Scegliendo la via professionale mi è stato impedito di esercitare l'avvocatura, così come la magistratura: non abilitato perchè non ero omologato. Non sopportavo corruzione ed ingiustizia nei tribunali. Mi sono ribellato difendendo le vittime, raccontando le loro storie. I Magistrati insabbiano le mie denunce e tentano in tutti i modi di condannarmi ingiustamente per diffamazione a mezzo stampa. Se sei diverso ti fanno passare per pazzo o mitomane. Non ci riescono. Ecco perchè la mia associazione nazionale si chiama "Associazione Contro Tutte le Mafie", perchè quelli come me i veri nemici li hanno nelle istituzioni. I servitori dello Stato, quindi "servi" nostri e pagati da noi, abusano dei loro poteri e nessuno li perseguita. Sbandierano leggi e sparlano di legalità: leggi e legalità che "lo stato" (s minuscola) calpesta sotto i piedi. Mi si dica: qual è la differenza tra chi ti fa chiudere l'azienda con le bombe e chi non te la fa riaprire? Io, Antonio Giangrande, non trovo differenza e per questo non sono pubblicizzato come Don Ciotti e "Libera": sostenuti da magistratura, media e politica e sindacati di sinistra. La Mafia dell’Antimafia, non solo in testi, ma anche in video sui miei canali Youtube. I veri amici condividono e fanno condividere le mie battaglie e fanno conoscere i miei strumenti di divulgazione. Chi non condivide in compagnia: è un ladro o una spia!
LEZIONE DI MAFIA.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Cosa influenza le nostre scelte politiche? E quelle di tutti i giorni? Scrive Wlodek Goldkorn su “L’Espresso”. Partiamo dalla cronaca, dalla foto di Aylan Kurdi, il bambino di Kobane fotografato morto sulla spiaggia di Bodrum. Era giusto pubblicare e diffondere quella immagine? E che ruolo hanno le immagini nella nostra percezione del mondo? E ancora, le immagini condivise sui social media hanno lo stesso significato di quelle invece stampate sulla carta, e cioè sui giornali? L’elenco delle domande può essere lunghissimo e forse vale la pena fare alcuni ulteriori esempi: è giusto paragonare quella foto alla canonica rappresentazione del bambino del ghetto di Varsavia? Per quale motivo il mondo si è commosso (se il mondo si commuove) per questa foto e non per un’altra raffigurazione della tragedia dei rifugiati, dove in un hangar siciliano erano allineate tante bare, tra cui alcune bianche coi cadaveri dei bambini dentro? Infine: è giusto pensare che Aylan Kurdi sarebbe potuto essere nostro figlio o nostro nipote o invece hanno ragione coloro che pensano (e tra questi molti fanno parte delle élite politiche del nostro Continente) che in fondo, il destino di un piccolo musulmano non è affar nostro? E ancora, fino a dove arrivano i confini di ciò che è lecito dire e rappresentare? L’elenco di queste domande, parziale, incompleto, provvisorio, non è altro che un tentativo di spiegare quanto per capire il mondo, per avere un punto di vista e quindi per fare delle scelte, è indispensabile la filosofia. Gli interrogativi appena posti attengono infatti al ruolo del simbolo, all’importanza del lutto, alla percezione dell’immagine; alla capacità e importanza dell’empatia; alla disponibilità di una presa di posizione politica. Senza ricorrere alla filosofia si è idioti (non nel senso dostoevskyano): nel senso dell’incapacità di comprendere e di stare al mondo. E gli idioti arrecano danni. Una filosofa molto importante del secolo scorso, una signora che in continuazione si interrogava sul senso della vita e sul ruolo degli esseri umani nella società, Hannah Arendt, commentando la questione della banalità del male, parlando cioè di Adolf Eichmann, l’organizzatore dell’uccisione di sei milioni di ebrei, aveva definito la banalità del male come stupidità, come incapacità appunto, di comprendere il mondo. Eichmann, Arendt lo ha detto più volte, era malvagio, nonostante la sua apparente intelligenza, perché non in grado di assumere la complessità del nostro essere umani. Gli esempi citati sono estremi; ma la filosofia spesso insegna che proprio analizzando le situazioni e i linguaggi al limite, siamo in grado di comprendere ciò che ci succede, nel nostro non estremo e spesso mediocre quotidiano. Rimane, l’eterna questione, del motivo per cui continuare a raccontare la Storia di quella disciplina. La risposta è duplice e in apparenza complessa (in realtà semplice e vedremo perché). Intanto, dal punto di vista per così dire empirico: da oltre una dozzina di anni, siamo testimoni di un inusuale moltiplicarsi e proliferare di festival di filosofia, di incontri con pensatori, di irruzione delle donne in quella scienza che si pensava per eccellenza maschile, e via elencando. Perché il pubblico accorre a sentir parlare persone che a giudicare dalle regole del buon senso, anziché lavorare, cercare di fare affari, coltivare la terra o fabbricare oggetti di consumo, si dedicano a pensare, usando spesso categorie astratte? Ovvio, la gente ha sete di filosofia perché stiamo vivendo (e qui torniamo alla cronaca) in un periodo di passaggio tra epoche che stentiamo a definire. Ma il passaggio lo sentiamo e lo avvertiamo ogni giorno: il crollo di un mondo col posto di lavoro fisso; l’esplodere del terrorismo per cui certi luoghi di vacanza sono off limits o pericolosi; il sorgere sulle rovine del vecchio ordine mediorientale di uno Stato che assume e propaga valori che sono la negazione dei nostri valori. E allora, la somma di queste esperienze dirette e indirette (ossia le immagini), ci porta a interrogarci sul senso della nostra vita. La domanda chi siamo, da dove veniamo e dove siamo diretti è sorta assieme alla capacità di esprimere il linguaggio verbale. Si dirà, ma a queste domande le risposte le davano i miti, molto prima di quanto i filosofi avessero cominciato a filosofare. Vero, la filosofia inizia con il mito. E quando finisce? La domanda non è oziosa. Basti pensare a Martin Heidegger, che a un certo punto dice: per comprendere il mondo, per recuperare la nostra autenticità, dobbiamo tornare a coloro che il mondo lo pensavano prima di Socrate; alle origini cioè del nostro stupore per le meraviglie dell’essere. Il caso di Heidegger è paradigmatico per capire un altro aspetto della filosofia e dei filosofi: l’ambivalenza. Era un grande pensatore, ma anche un nazista; un nazista ma anche maestro di Hannah Arendt. Ecco, la filosofia insegna e ci costringe a mettere in dubbio tutte le verità rivelate (e per questo è stata spesso nemica delle chiese e delle religioni). E cosi torniamo all’inizio di questo ragionamento, alla foto di Aylan Kurdi, il bambino morto sulla spiaggia di Bodrum. Per qualcuno, per molti, quel bambino era un clandestino. La filosofia ci aiuta a capire e spiegare perché nessuno nasce clandestino, mentre tutti nascono umani. Si dirà, ma l’annotazione appena fatta attiene alla sfera della politica. Vero, ma per fare politica, occorre avere un pensiero complesso, filosofico, altrimenti si creano disastri e catastrofi. Umberto Eco conclude così la sua prefazione alla “Storia della filosofia”: «Il pensare, e il pensare filosofico, è quello che distingue gli uomini dagli animali».
Ma attenti alle false verità!
"Le menzogne sulla Storia? Ci fanno sentire rassicurati". Cercas racconta le vicende di un impostore che si finse per anni superstite dei lager. Un grande libro sul rapporto tra mistificazione e verità nella memoria collettiva, scrive Stefania Vitulli su "Il Giornale”. Persino quando ha accettato di collaborare con Javier Cercas per scrivere la verità su di sé, Enric Marco si è lasciato andare a qualche menzogna. L'impostore (Guanda, pagg. 406, euro 20), appena uscito in Italia, è l'ultimo romanzo dello scrittore catalano autore de Soldati di Salamina e racconta appunto la storia «vera» di questo mentitore professionista. Marco, oggi novantenne, rifece il trucco alla sua vita quando ancora il costruirsi un alter ego era un'operazione più simile a quella delle spie internazionali che dell'uomo comune che si crea un falso profilo Facebook. Secondo il curriculum che si era inventato, era stato combattente antifascista, oppositore della dittatura di Franco, deportato nel campo di concentramento di Flossenbuerg e quindi, a ottant'anni suonati, detentore della carica di presidente degli Amical de Mauthausen, la più importante associazione spagnola di sopravvissuti ai campi nazisti. Ma il super partigiano era un super ciarlatano e lo scandalo lo colpì appena prima che pronunciasse, appunto a Mathausen, il discorso per i 60 anni dalla Liberazione. Lo studioso che lo smascherò riuscì a dimostrare che non si era cucito addosso solo il campo, ma tutta la Resistenza. Tuttavia è il libro di Cercas (al Festivaletteratura di Mantova domani, ore 18.30 e domenica, ore 15) che, con l'aiuto di questo narciso istrione, demolisce il falso mito frase per frase, icona per icona, in modo così «umano» che immedesimarsi in Marco è un attimo e altrettanto facile infuriarsi con se stessi subito dopo.
Può provare in poche parole a descrivere Enric Marco a chi non lo conosce?
«È una bugia che cammina. Un uomo che ha fatto della sua vita un plagio, dal principio alla fine e che ha continuato per anni a ingannare tutto il mondo. Mario Vargas Llosa lo ha chiamato il più grande impostore della storia e credo abbia ragione».
È un personaggio che ama o che odia?
«Né uno né l'altro. Ho cercato di capirlo - non di giustificarlo - e di presentare il suo caso in tutta la sua infinita complessità. È questo il dovere dello scrittore, verso i suoi personaggi, reali o immaginari che siano».
A chi si è ispirato?
«A nessuno. Marco è così reale che questo è un “romanzo senza finzione”. E lo è perché Marco stesso è una finzione. Sarebbe stato ridondante, e anche letterariamente irrilevante, scrivere una fiction su una fiction. Ho scritto un “racconto reale”, un romanzo in cui verità e menzogna, finzione e realtà combattono un duello mortale».
C'è mai un alibi valido per la menzogna?
«Supponiamo che lei venga a casa mia e mi racconti che un assassino la perseguita. Supponiamo che io le dia asilo. Supponiamo che l'assassino bussi alla mia porta e mi chieda se lei si trova da me. Ecco, in questo caso io ho il diritto - fors'anche il dovere - di mentire. L'esempio è di Benjamin Constant, ma il costrutto famoso è di Kant, che diceva che nemmeno in questo caso si ha diritto a mentire. Nessuno è perfetto».
L'impostore sembra anche un romanzo sui ricordi, sulla memoria. C'è un filo rosso con Soldati di Salamina.
«È come se fosse il negativo di Soldati di Salamina. Soldati parla della necessità di disseppellire il passato repubblicano e assumerlo come proprio. L'impostore della necessità di dissotterrarlo bene, nel modo giusto, di non falsificarlo falsificando noi stessi. Soldati parla di un vero eroe, che dice: No, non me ne vanterò mai. L'impostore di un falso eroe, che si vanta di aver detto No».
Con i suoi romanzi traccia una storia della Spagna del Novecento. Ma a volte sembra quasi che per lei sia più importante usare questa Storia per fondare le basi di una «memoria consapevole».
«Partendo dal presupposto che i miei romanzi non trattano di questioni locali, ma universali, come qualsiasi letteratura degna di questo nome, è vero che a volte racconto una specie di storia alternativa del mio paese. Ma non si tratta di un progetto cosciente, premeditato. Semplicemente mi è accaduto a un tratto di comprendere che il passato è una dimensione senza la quale il presente risulta incomprensibile, che la collettività è una dimensione senza la quale l'individuo risulta indecifrabile. E a proposito della memoria consapevole, è vero soprattutto per L'impostore che vuole contenere tutto il bene e tutto il male della memoria. Le sue trappole, i suoi miraggi. Le sue fragilità e il suo potere ricattatorio».
Il dolore di una vittima potrà mai trovare consolazione nelle giustificazioni di un carnefice?
«No, impossibile. E per questo le vittime non sono obbligate ad ascoltare i boia. Però noi sì. Perché è l'unica forma efficace di lotta contro di loro. Proprio se non siamo vittime dobbiamo dare ai carnefici la nostra attenzione. Anche se è dura».
Quante sono oggi in Spagna o anche in Europa le persone come Enric Marco?
«Non lo so. Però scrivendo il libro ho scoperto una cosa: agli esseri umani la verità non piace, specie se si tratta di verità come quelle sul nazismo o sul franchismo. Ci piacciono le menzogne. Il mondo ha creduto a Marco perché diceva quello che vogliamo sentire. Bugie. Bugie romantiche, sdolcinate, manichee, edulcorate e tranquillizzanti. Come tutte le bugie».
Le grandi bugie.
La Grande guerra e la rivoluzione proletaria. I sindacalisti rivoluzionari dal neutralismo all’interventismo, scrive Fabio Polese su "Il Giornale". Un saggio di Stefano Fabei ricostruisce, a distanza di un secolo, il confronto culturale e dottrinale dei sindacalisti soreliani in occasione dello scontro tra interventisti e neutralisti e rappresenta la clamorosa fine di due miti – quello pacifista e quello internazionalista – che sembravano intramontabili nel sindacalismo rivoluzionario italiano. Da quest’ultimo, che fu l’anima dell’interventismo rivoluzionario, ebbero inizio le turbolenze di un dopoguerra, fatto di sovversivismo e richiami all’ordine, da cui partirono sia il fascismo sia l’antifascismo. Ne La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (in Edibus, 18.00 €) Fabei rappresenta l’alta tensione ideologica di allora e offre un quadro finalmente completo delle sfumature di pensiero e dei vari comportamenti di quei sindacalisti (da Filippo Corridoni ai fratelli De Ambris, da Angelo Oliviero Olivetti a Sergio Panunzio, da Paolo Orano a Edmondo Rossoni e Michele Bianchi, tanto per citare i più noti) che non solo dettero scandalo aderendo alle ragioni della nazione mostrandosi consapevoli di come si potesse essere al contempo nazionalisti e rivoluzionari, ma videro nella la guerra qualcosa di pedagogico, di esaltante e di fortemente sovversivo: imparando a fare la guerra, i lavoratori italiani, delle industrie e delle campagne, avrebbero imparato a fare la rivoluzione. Per un eccesso di entusiasmo e forse per la troppa ingenuità, gli «anarco-sindacalisti» non compresero – ma come avrebbero potuto farlo? – che la loro visione di un autogoverno delle categorie, di una società organizzata in termini sindacali, con una limitata entità politica suprema e molta responsabilità di categoria sarebbe stata cancellata dopo la guerra, quando lo Stato dimostrò come il peso accumulato durante il conflitto, inserendosi profondamente nel tessuto economico, non sarebbe stato abbandonato, anzi. Il Fascismo, nel quale molti sindacalisti rivoluzionari interventisti confluirono, spesso con un significativo apporto sul piano organizzativo e dottrinario, non avrebbe infatti trovato ostacoli nell’affermare, in contrasto con le loro premesse iniziali, un ruolo dello Stato che andava ben oltre il peso del Partito fascista e dei sindacati, trasformati in organismi di diritto pubblico. Fabei giustamente rappresenta il contesto in cui operarono quei sindacalisti che non potevano prevedere gli sbocchi del loro pensiero e delle battaglie da essi combattute prima e durante la guerra. Il secondo semestre del 1914 e i primi mesi del 1915 furono, d’altra parte, un periodo in cui il movimento rivoluzionario in Italia visse uno stato di crisi, dottrinaria, morale e politica, dopo una precedente fase di consolidamento dimostrato, tra il 1912 e il 1914, dall’accresciuto numero di militanti e di consensi attorno alle tesi dei leader più intransigenti della sinistra, come Mussolini, pure lui protagonista di una parallela, e per certi aspetti simile, evoluzione. Scoppiato il conflitto, messi in discussione importanti cardini ideologici, come il pacifismo e l’internazionalismo, peraltro falliti per le scelte compiute dai compagni francesi, austriaci e tedeschi, i nostri sindacalisti soreliani si convinsero che la guerra potesse offrire non soltanto una lezione di pedagogia eroica e rivoluzionaria al proletariato italiano, ma creare, attraverso la sconfitta degli imperi germanico e austro-ungarico, baluardi della reazione e della conservazione, i presupposti per fondare una società più libera e giusta, con al centro il lavoro. Dotato di un’introduzione di Giuseppe Parlato, quello di Fabei è un libro avvincente per la leggibilità e al tempo stesso specialistico; un saggio interessante, data l'originalità dei contenuti, per chi vuole conoscere la storia nazionale dalla vigilia della Prima guerra mondiale alle origini del fascismo.
Rabbia e armi nascoste Così il Pci voleva fermare la democrazia. Molti partigiani non accettarono la vittoria della Dc. La guerra civile non scoppiò solo perché Stalin si oppose, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". La guerra civile, in apparenza finita nell'aprile del 1945, non si era affatto spenta. I delitti politici continuavano impuniti. Avevano quasi sempre mandanti ed esecutori di un solo colore: il rosso. Tra i partiti ritornati sulla scena, il Pci era l'unico in grado di dettare legge dovunque. A renderlo forte, e in tanti casi prepotente, provvedeva la rabbia di molti partigiani scontenti per come si era conclusa la Resistenza. Spirava un vento di delusione irosa che sosteneva la necessità di un secondo tempo della guerra interna, questa volta con un obiettivo radicale: la conquista del potere in Italia. Tante bande delle Garibaldi si erano rifiutate di consegnare le armi alle autorità militari inglesi e americane. Nell'Italia settentrionale e centrale stava crescendo il numero degli arsenali clandestini. Tra il 1945 e il 1946 molti depositi venivano scoperti dalle forze dell'ordine, ma era sempre poca cosa rispetto a quelli esistenti. La voglia di una vittoria definitiva divideva persino un partito in apparenza monolitico come il Pci. Anche un leader dal grande carisma come Palmiro Togliatti era costretto a non decidere nulla a causa dell'opposizione di un'ala estremista che sosteneva la necessità di una resa dei conti con gli angloamericani. E di conseguenza con i partiti moderati. Prima fra tutti la Democrazia cristiana. Guidata da un personaggio che la sinistra odiava: Alcide De Gasperi. Dipinto come un servo del capitalismo e un lacchè del Vaticano. L'Italia del triennio 1945-1947 era davvero un'Italiaccia, un Paese sottosopra. Dove poteva accadere di tutto. Persino che qualche gruppo di giovani reduci della Repubblica sociale cercasse di vendicarsi della sconfitta patita e delle angherie che stavano soffrendo per mano dei partigiani rossi. Erano tentativi modesti e destinati a fallire. Ma dimostravano una realtà che pochi erano capaci di vedere: se Mussolini era un cadavere appeso a piazzale Loreto, chi aveva creduto in lui non era scomparso. Nel frattempo la società italiana cambiava, e non sempre in peggio. Dopo aver ottenuto il diritto di votare, nel 1946 le donne si erano presentate in massa alle elezioni per l'Assemblea costituente e nel referendum per la scelta tra monarchia e repubblica. E avrebbero fatto sentire il loro peso nelle prime consultazioni politiche del dopoguerra: quelle del 18 aprile 1948. Fu un passaggio cruciale per la giovane democrazia italiana. Ma anche un azzardo per la Dc e le altre forze moderate che si opponevano al Fronte democratico popolare, l'alleanza fra i comunisti e i socialisti. Una volta superato questo muro, l'Italiaccia si trovò in grado di intraprendere la strada che le avrebbe consentito di diventare un Paese normale. Da quel momento sono trascorsi sessantasette anni. Anche quanti allora erano ragazzi, come nel mio caso, non rammentano più che il 1948 fu ancora un'epoca di guerra. Le condizioni del Paese restavano quelle precarie che ho descritto. Imperava sempre il mercato nero. Vigeva il razionamento per il pane, la carne, la pasta, il latte. Non tutti erano in grado di mettere insieme il pranzo con la cena. Tre anni dopo la fine della guerra, risultarono essenziali gli aiuti alimentari inviati dagli Stati Uniti per favorire la vittoria dello Scudo crociato.
Li ricordo anch'io quei pacchi che ci venivano recapitati a casa. Mia madre non li ha mai respinti. Diceva: «Gli americani ci tirano su il morale chiedendoci soltanto di non votare per i comunisti e i socialisti fedeli a Stalin. Per quello che mi riguarda, ho già deciso: non darò mai una mano al Fronte popolare!». La mamma accettò anche un taglio di stoffa con la cimasa tricolore. E mi confezionò un cappotto marrone. Era un colore che odiavo, ma il tessuto made in Usa si rivelò ottimo e mi tenne caldo per tre inverni. Nella primavera del 1948, mentre il Fronte popolare era sicuro di vincere, la Democrazia cristiana temeva di perdere. In un santuario del Monferrato, De Gasperi incontrò il ministro degli Esteri francese, Georges Bidault, e gli presentò una richiesta che da sola testimoniava l'asprezza dello scontro. E ottenne che, in caso di sconfitta della Dc, la Francia avrebbe accolto come rifugiati politici tutti i dirigenti del suo partito, famiglie comprese. Come era accaduto nel 1946 per l'elezione dell'Assemblea costituente, pure nelle consultazioni del 18 aprile si rivelò decisivo il voto delle donne. Furono le protagoniste della rinascita dopo la guerra. Anche nella vita delle famiglie e nei rapporti di coppia, le loro decisioni prevalevano sempre più spesso su quelle dei maschi. Era una novità sconvolgente che non venne subito compresa. Ma cambiò abitudini e atteggiamenti rimasti gli stessi per secoli. A cominciare dai rapporti sessuali. Per molti uomini fu uno choc scoprire che persino a letto le donne volevano avere l'ultima parola. Il 18 aprile lo Scudo crociato stravinse. De Gasperi rimase alla guida del governo. E fu in grado di superare anche il trauma dell'attentato a Togliatti. Il 14 luglio 1948 poteva segnare l'inizio di una nuova guerra civile. Ma il vertice del Pci sapeva bene che un'insurrezione rossa non era possibile. Lo aveva già spiegato Giuseppe Stalin a Pietro Secchia, il leader dell'ala militarista del partito. Andato a Mosca per incontrare il nuovo zar, quel biellese secco, dal volto sparuto, sempre con i capelli in disordine e l'abito stazzonato, tornò a mani vuote. Il compagno Stalin gli confermò che in Italia la rivoluzione proletaria era nient'altro che un'illusione.
"L’italiaccia senza pace" di Pansa. Delitti politici rimasti senza colpevoli. Pugno di ferro sui fascisti sconfitti. Reduci di Salò che si vendicano. Fanatismi barbarici. Partiti divisi dall’odio. Il potere crescente delle donne, imposto anche nelle storie di sesso. Misteri ed enigmi che diventano incubi. Il primo dopoguerra italiano è stato tutto questo. Un inferno durato tre anni, sino alle elezioni del 18 aprile 1948 e all’attentato a Palmiro Togliatti subito dopo il trionfo di Alcide De Gasperi sul Fronte popolare rosso. Da allora sono trascorsi tanti anni e quasi nessuno rammenta quel tempo feroce. Ma Giampaolo Pansa l’ha vissuto con lo sguardo attento di un ragazzino curioso. E non l’ha dimenticato. Lui ha una tesi: l’Italia di questo 2015 è ancora figlia del primo dopoguerra, dei vizi e delle faziosità che lo inquinavano. Allora i comunisti sognavano di fare un colpo di Stato. Adesso i reduci del Pci rimasti sulla piazza hanno scoperto degli alleati imprevisti: i movimenti che vogliono il nostro distacco dall’Europa. Gli italiani di oggi sono più in frantumi degli italiani di allora. I partiti soffrono di un discredito che nel dopoguerra affiorava già, ma non li paralizzava. Purtroppo non abbiamo un De Gasperi che ci guidi verso una nuova rinascita. Siamo vittime di paure più cattive di quelle che fra il 1945 e il 1948 devastavano i sonni di un paese che aveva ben poco da perdere. Mentre oggi abbiamo il terrore di perdere tutto e di ricadere nella povertà. È questa convinzione che ha spinto Pansa a creare un affresco dal titolo ruvido: L’Italiaccia senza pace. Perché Italiaccia? Perché nel primo dopoguerra eravamo una nazione sottosopra, incapace di ritrovare una condizione di normalità e rapporti umani non inquinati dalla violenza. Si sente dire che il passato annoia, ma di certo non quello narrato da Pansa. Questo suo libro è un’incalzante sfilata di vicende osservate dal basso, dove il privato di tanti protagonisti diventa la spia di un’epoca senza misericordia. L’autore ha scovato nella propria memoria le sequenze di un dramma che nasce da un enigma: chi ha consegnato ai tedeschi l’ebreo Samuele Segre, un direttore di banca ucciso ad Auschwitz? La verità si scoprirà nelle ultime pagine dell’Italiaccia senza pace.
Case, scuole e ospedali distrutti tra strade e ferrovie bloccate Le aziende stentavano a riprendere fiato e a dare stipendi, scrive Mario Bernardi Guardi su “Il Tempo”. Un’"Italiaccia" quella tra il '45 e il '48? Con ogni possibile carità di patria e umana comprensione, siamo d'accordo con Giampaolo Pansa che nel suo ultimo libro la chiama così, raccontando misteri, amori e delitti di un affannato dopoguerra («L'Italiaccia senza pace», Rizzoli, pp. 351, euro 20). Un’"Italiaccia". Dove, dopo cinque anni di guerra, non si riesce a ritrovare "una condizione di normalità, un modo di vivere tranquillo, rapporti non inquinati dalla violenza, notti prive di incubi". Povera "Italiaccia"! Macerie e ammassi di rottami dappertutto. Case, scuole, strutture ospedaliere in gran parte distrutte. Strade, ponti, viadotti, linee ferroviarie spesso non utilizzabili. Aziende che stentano a riprendere fiato. Criminalità politica e delinquenza comune imperversanti. Malattie già sconfitte - come la tubercolosi e la scabbia - che celebrano il loro inquietante ritorno. Prostituzione trionfante. Metropoli, a cominciare da Napoli - raccontata da Malaparte nella "Pelle" con feroce iperrealismo - e trasformate in bordelli a cielo aperto. Povera Italia, poveri corpi, poveri cuori. Malandati, malati, avvelenati. Guerra e guerra civile hanno scatenato le loro furie e se, da una parte, c’è una disperata voglia di dimenticare, dall’altra odi, rancori e desideri di vendetta covano uova di serpente. Pietà l’è morta e continua a morire. Lo sa bene Pansa che sul "Sangue dei vinti", a partire dal libro che reca proprio questo titolo, ha scritto più volte. E più volte ha ricordato i volumi dedicati da Giorgio Pisanò alla guerra civile, con il terribile contrassegno "sangue chiama sangue". Una spirale perversa. I vinti non dimenticano i loro morti. E certe volte, per trovare consolazione, non basta attingere all’archivio della memoria. Bisogna colpire. Così, in una storia raccontata nell’"Italiaccia", c’è un vinto, Luigi, un giovane fascista già sottotenente della Divisione San Marco, che si trasforma in spietato killer, facendo fuori, uno dopo l’altro, e con un misterioso rituale (a ognuno degli assassinati viene messa una mela in bocca), cinque partigiani della "Garibaldi", responsabili dello stupro e della morte di sua madre. Un evento atroce cui aveva fatto seguito il suicidio del padre. Il quale, capitano dell’esercito repubblicano, impegnato sulla frontiera orientale a combattere contro i partigiani di Tito, si era sentito in colpa per non essersi trovato accanto alla moglie e non averla protetta. Tante le storie di quell’Italia sotto sopra e senza pace. Pansa le racconta intrecciandole a quelle di una famiglia ebrea, i Segre Foà, ben radicata nella cittadina piemontese (Casale Monferrato, la "piccola patria" dell’Autore, microcosmo "esemplare" da cui leggere la più vasta storia del Novecento italiano), fino alla proclamazione delle leggi razziali. Allorché, tutt’a un tratto, Samuele, direttore della filiale del Credito Italiano ed Elisa, professoressa di lettere, diventano corpi estranei alla comunità. Peggio: nemici. Guerra e persecuzione razziale infuriano: Samuele ed Elisa, insieme ai loro figli, abbandonano Casale e cercano scampo. Lui morirà ad Auschwitz; lei e i figli torneranno alla loro cittadina, ma come chiusi in una bolla d’aria che li separa dagli altri. Perché se, quando sono stati costretti ad andarsene, la stragrande maggioranza ha fatto finta di non vedere, per non essere compromessa, adesso la solita maggioranza è come disturbata da questi inattesi "spettri": che cosa vogliono? Che cosa pretendono? Quali sofferenze "in più" hanno da esibire rispetto a quelle patite da tutti gli altri? Sarà dura farsi capire e rispettare, senza chiedere elemosine di affetti. Ecco, dal ’45 al ’48, Elisa, i suoi figli, i nuovi amici "seguono" per noi e ci raccontano, dall’osservatorio della piccola città, le vicende dell’Italia nuova. Grava su loro il peso di quello che non si può dimenticare. E che rende complessa la loro "umanità". Appartengono, senza dubbio, alle schiere dei vincitori, ma sono anche dei vinti: nella memoria hanno ferite che non si rimarginano e l’istinto parrebbe invocare in certi momenti decisioni "forti". Nel nome di quel "sangue chiama sangue" che ha ispirato le vendette di Luigi, il giovane fascista "giustiziere". E tuttavia la storia corre, si compiono scelte pubbliche e private, si ragiona sulle idee e sui fatti, si ama e si odia all’insegna di nuove passioni. E si ride e si piange, e la carne, con i suoi appetiti, grida in tutti i modi e imbandisce vicende bollenti, mescolandole alla voglia di tenerezza. Intanto, il lettore "ripassa": il piano Marshall, il Fronte Popolare, la vittoria DC nell’aprile del ’48, l’attentato a Togliatti… "Quante storia, quante facce nella memoria, tanto di tutto, tanto di niente, le memorie di tanta gente", per dirla con le parole di una canzone scritta dall’ex- repubblichino Mario Castellacci per la mitica Gabriella Ferri! E allora ascoltiamo. Impariamo ad ascoltarlo, il tempo.
Quelli che... «il Migliore» era un democratico (solo un po' stalinista). La storia non ha fatto sconti al leader comunista, gli storici invece sì: infatti cercano di rivalutarlo, scrive Giampietro Berti Mercoledì 20/08/2014 su "Il Giornale. Il 21 agosto di cinquant'anni fa moriva a Yalta (Crimea) Palmiro Togliatti, figura primaria del comunismo italiano e internazionale. Se ci si domanda cosa rimane oggi della sua opera, non si può che rispondere in modo negativo. Naturalmente siamo ben lontani da sottovalutare la sua importanza storica, ma essa non presenta alcunché di benefico e di positivo. È stupefacente perciò osservare che, dopo il catastrofico fallimento del comunismo, fallimento a cui anche Togliatti ha dato il suo peculiare contributo, vi sia ancora da parte di alcuni studiosi l'ostinata volontà di rivalutarne il pensiero e l'azione, attivando verso di lui una sorta di storicismo giustificazionista. Non ci interessa demonizzare la figura di Togliatti, però non possiamo non contestare l'esito di questa operazione, che si risolve, per quanto riguarda la seconda parte della sua vita, nell'insostenibile tesi della democraticità del PCI e, appunto, del suo leader, Palmiro Togliatti. Ricordiamo qui la ristampa, con prefazione inedita di Togliatti e il partito di massa (Castelvecchi) di Donald Sassoon; l'epistolario di Togliatti degli anni 1944-1964, La guerra di posizione in Italia (Einaudi), a cura di Maria Luisa Righi e Gianluca Fiocco, con prefazione di Giuseppe Vacca; la nuova edizione della biografia Togliatti di Giorgio Bocca (Feltrinelli), con prefazione di Luciano Canfora; e anche qualche intervento giornalistico, tra cui ricordiamo, nei mesi passati quello di Francesco Piccolo, Rivalutare Togliatti apparso su La lettura , inserto del Corriere della Sera. Il nocciolo comune di questa tesi, sia pur articolata da ogni autore con interpretazioni e sfumature diverse, si riassume nel giudizio secondo cui il comunismo italiano, diversamente da qualsiasi altro comunismo europeo, avrebbe fornito un contributo decisivo alla nascita e al mantenimento della democrazia nel nostro Paese. Ora non c'è dubbio che con la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo i comunisti, insieme con altre forze politiche, ebbero il merito di portare l'Italia sulla via della libertà dopo vent'anni di dittatura. Affermare però che essi, a cominciare dallo stesso Togliatti, fossero animati da uno spirito democratico è del tutto fuorviante. In realtà, grazie alla collocazione dell'Italia nell'ambito occidentale, i comunisti furono costretti a rinunciare alla lotta rivoluzionaria contro il capitalismo e contro la società borghese e ad accettare la liberal-democrazia. Rivendicarono perciò, in quanto comprimari artefici della Resistenza, dell'Assemblea Costituente e della successiva Costituzione, la legittimazione democratica del loro partito. Fecero, cioè, di necessità virtù, e dunque non furono dei veri democratici. Rimasero sempre prigionieri di una concezione strumentale del rapporto tra democrazia e socialismo. Vista l'impossibilità di conquistare il potere politico, Togliatti, infatti, avviò la strategia gramsciana diretta a controllare il più possibile una parte della società civile e istituzionale, con una pressante egemonia culturale (università, scuola, editoria, giornali), che si tradusse nella condanna della società liberale e borghese: una riserva di fondo che non venne mai meno. Ecco dunque la «doppiezza» togliattiana, che se da un lato portò il PCI a non sovvertire il regime esistente, dall'altro lo spinse continuamente a predicare la sua trasformazione in senso comunista, senza mai giungere ad una rottura definitiva con l'Unione Sovietica, da cui continuò a ricevere sino all'ultimo anche un ininterrotto aiuto finanziario. È necessario ricordare l'avallo di Togliatti, e di quasi tutti i comunisti italiani, al colpo di Stato in Cecoslovacchia (1948), alla repressione sanguinosa della sollevazione popolare di Berlino Est (1953) e di quella ungherese (1956)? Fino alla fine degli anni Sessanta, pur con alcuni distinguo, i comunisti italiani continuarono a identificare il marxismo con il comunismo e il comunismo con lo stalinismo. Così come Stalin rimandava a Lenin e Lenin rimandava a Marx, allo stesso modo, per converso, il marxismo giustificava il leninismo, tanto quanto il leninismo giustificava lo stalinismo: tranne rarissime eccezioni, tutti i comunisti erano stalinisti, a cominciare proprio da Togliatti. Centinaia di migliaia di libri, di opuscoli, di giornali, di comizi, di manifesti, di volantini, di ritratti, di documenti di partito hanno per trent'anni testimoniato la deferenza verso il dittatore. Questa incapacità di uscire dall'universo stalinista spiega perché non vi sia stata in Italia alcuna Bad Godesberg, vale a dire una socialdemocratizzazione capace di sradicare il PCI dal suo ceppo leninista. Ancora nel 1978, in un'intervista a la Repubblica , Enrico Berlinguer poteva parlare della «ricca e permanente lezione leninista». La «via italiana al socialismo» concepita da Togliatti, vale a dire la pretesa di superare la democrazia liberale con una democrazia superiore, era una strategia destinata al fallimento. Non a caso essa è poi sfociata nel compromesso storico, ovvero nella convergenza «totalitaria» del cattocomunismo, la cui natura era avversa ad ogni ratio e ad ogni ethos liberali. Disegni politici che hanno fatto perdere all'Italia qualche decennio di maturità democratica e che oggi, di fronte alle macerie del comunismo, appaiono per quello che erano: dinosauri convissuti per qualche tempo con la modernità. Pretendere, con le cosiddette «riforme di struttura», di fuoriuscire dal capitalismo mantenendo al contempo la democrazia; di avviare una politica anti-capitalista all'interno di un sistema capitalista, era una quadratura del cerchio che solo chi aveva fatto propria la concezione miracolistica della dialettica (marxista) poteva pensare di sciogliere. Come aveva già profetizzato quarant'anni fa Augusto Del Noce, il partito proletario di massa creato da Togliatti si è trasformato nel frattempo in un radicalismo culturale di massa, i cui quadri dirigenti sono stati salvati ora da un ex democristiano. Come tutti i marxisti, Togliatti nutriva la profonda convinzione di possedere la verità, per cui considerava con grande disprezzo e fastidiosa sufficienza tutti coloro che non erano comunisti. Abbiamo poi visto chi aveva ragione. La storia non ha fatto sconti neanche al «Il Migliore».
La storia compromettente del "compromesso storico". Quarant'anni fa Enrico Berlinguer rilanciò l'idea (che fu di Togliatti nel dopoguerra) della collaborazione fra Pci e Dc. Ma il flirt durò poco. E indebolì entrambi i partiti, scrive Francesco Perfetti Venerdì 27/09/2013 su "Il Giornale". La proposta di un «compromesso storico» fra cattolici e comunisti la lanciò l'allora segretario del Pci Enrico Berlinguer tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre 1973 dalle pagine di Rinascita, la rivista ideologica del partito fondata da Palmiro Togliatti, in tre articoli pubblicati con il titolo generale Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile. Nel Paese latino-americano si era appena consumato il colpo di Stato del generale Pinochet contro Salvador Allende: era stata interrotta traumaticamente la «via cilena al comunismo». Divenuto segretario del Pci nel marzo 1972 dopo esserne stato vice-segretario, Berlinguer si era formato ed era cresciuto politicamente all'ombra di Togliatti e durante la lunga segreteria di Luigi Longo si era rafforzata la sua autorevolezza. Aveva portato avanti la linea del «dissenso» dall'Urss dopo l'invasione della Cecoslovacchia del 1968, ma al tempo stesso aveva negato la possibilità di un abbandono dell'internazionalismo e di una posizione di rottura nei confronti dell'Unione Sovietica. I fatti cileni suggerirono a Berlinguer una proposta politico-strategica che egli rese nota attraverso quegli articoli senza che fosse prima discussa dagli organismi dirigenti del partito. Ciò anche se in maggio sulla rivista Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, era apparso un ampio dibattito sulla «questione democristiana», in cui Alessandro Natta aveva accennato alla necessità di una intesa fra socialisti, comunisti e cattolici e Gerardo Chiaromonte aveva osservato che sarebbe stato difficile per i comunisti governare anche ottenendo la maggioranza assoluta dei voti a causa della estensione e della influenza delle forze avversarie. Ciò non toglie, peraltro, che la paternità dell'idea del compromesso storico, così come venne presentata, sia senza dubbio attribuibile a Berlinguer. Il caso cileno offriva una lezione importante. Dimostrava che l'unità delle sinistre, da sola, non era sufficiente a garantire la governabilità e che bisognava puntare alla collaborazione fra tutte le forze popolari, partito comunista e democrazia cristiana in primis, e quindi a un sistema di alleanze sociali che coinvolgesse ceti diversi. Al fondo, c'era la convinzione che solo così sarebbe stato possibile sbloccare il sistema politico italiano che, di fatto, anche per la sua collocazione internazionale, non consentiva una alternanza. La formulazione della proposta era chiara: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie, e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». In altre parole, Berlinguer metteva in soffitta l'idea della «alternativa di sinistra» e la sostituiva con quella di una «alternativa democratica» che avrebbe consentito riforme radicali evitando il pericolo di derive reazionarie. La proposta poteva sembrare una novità. E come tale alimentò il dibattito politico. Ma non era così. Il filosofo cattolico Augusto Del Noce osservò che essa era «condizionata interamente dalla linea gramsciana» tanto che, riferita al pensiero di Gramsci, si configurava come «offerta» frutto della «constatazione della "maturità storica" per il passaggio dell'Italia al comunismo e per il transito dalla vecchia alla nuova Chiesa». D'altro canto lo stesso Berlinguer precisò che l'offerta di compromesso storico non era una «apertura di credito alla Dc», ma doveva intendersi come «sollecitazione continua» per una trasformazione radicale della stessa Dc che ne valorizzasse la «componente popolare» a scapito delle «tendenze conservatrici e reazionarie». A ben vedere, il discorso di Berlinguer riprendeva, con altre parole e in un contesto diverso, il progetto che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, Palmiro Togliatti aveva sintetizzato nella celebre espressione «democrazia progressiva» fondata sulla collaborazione fra le «grandi forze popolari», ovvero comunisti, socialisti e cattolici. Esisteva, per dirlo con Del Noce, una «continuità Gramsci-Togliatti-Berlinguer e delle formule della via "nazionale" e "democratica" e dell'accordo dei partiti di massa». Nella visione berlingueriana il compromesso storico avrebbe dovuto rappresentare lo strumento per «sbloccare» il sistema politico italiano che - in virtù della tacita ma accettata conventio ad excludendum nei confronti del Pci per i suoi legami con Mosca e per la sua monolitica struttura interna di tipo leninista - precludeva ai comunisti l'ingresso nelle stanze del potere. Le opposizioni, più che le perplessità, furono numerose sia all'interno del Pci, dove molti pensavano ancora all'ipotesi della trasformazione del Paese in una «democrazia popolare», sia all'interno della Dc, del Psi e dei partiti laici minori, preoccupati, non a torto, che il compromesso storico si risolvesse nell'incontro fra due «religioni secolari». Comunque sia, alla prova dei fatti il compromesso storico non si realizzò. Gli anni fra il 1974 e il 1978 furono, sì, quelli della grande avanzata elettorale del Pci e del suo ingresso nell'area di potere con l'appoggio esterno al governo monocolore di «solidarietà nazionale» di Andreotti. Ma, al tempo stesso, furono anni - particolarmente difficili anche per l'offensiva del «partito armato» delle Brigate Rosse - che mostrarono come la «strategia dell'attenzione» nei confronti del Pci teorizzata da Aldo Moro fosse sostanzialmente velleitaria. Alla fine proprio il rapimento e l'assassinio di Moro chiusero traumaticamente la strada al compromesso storico. E aprirono una nuova stagione della politica italiana dominata dalla figura di Bettino Craxi e destinata a sua volta a esaurirsi con la fine ingloriosa della prima repubblica sotto i colpi di maglio della «rivoluzione giudiziaria» di Tangentopoli.
La mafia, i veri pupari e le sceneggiate in Tv. Non si spengono le polemiche sulla presenza dei Casamonica in tv, scrive Felice Manti su "Il Giornale". Intendiamoci subito: i giornalisti fanno il loro mestiere, che è raccontare la verità. Vespa l’ha fatto, amen. Le vestali dell’informazione che si stracciano le vesti dimenticano che senza i giornalisti il funerale da Papa con elicottero, carrozza trainata da cavalli e la sigla del Padrino non sarebbe finito ovunque, da internet ai giornali. Condivido però anche la posizione di Pino Masciari, che ce l’ha con la tv pubblica «che dà spazio a famigliari di boss liberi di sbeffeggiate i cittadini onesti, magari le stesse vittime del clan» mentre «si lasciano dietro le quinte gli esempi veri di persone che lottano per lo Stato, i testimoni di giustizia e uomini in prima linea nella lotta alle mafie, disoccupati, padri di famiglia, precari e cittadini onesti che invece meriterebbero ogni attenzione». Certo, se la persona onesta da portare in tv come icona antimafia è Massimo Ciancimino allora fa bene Maurizio Gasparri a indignarsi: «Quelli che hanno taciuto quando la Rai di Michele Santoro, Ruotolo e company ospitava Ciancimino junior, che ha usato il servizio pubblico per difendersi da accuse poi rivelatesi fondate dovrebbero tacere sul caso Vespa-Casamonica». La verità è che quando si parla di mafia e antimafia, tutto si mescola, cio che dovrebbe aiutarci a distinguere il bianco dal nero diventa una melassa di grigio in scala. Prendete, per esempio, quello che sta succedendo in Sicilia. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è sotto inchiesta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio assieme al marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma, e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, titolare di uno studio a cui è affidata la gestione di diverse aziende confiscate, da cui Caramma avrebbe avuto delle consulenze. L’affidamenti dei beni sequestrati alla mafia è un business enorme, soprattutto in Sicilia, dove – come i maligni mormorano – sarebbe in mano a pochi professionisti che ne avrebbero ricavato «parcelle d’oro», come aveva denunciato l’anno scorso il prefetto Giuseppe Caruso, a quel tempo direttore dell’Agenzia dei beni confiscati. Parliamo di 30 miliardi di euro, di cui quasi la metà – il 43 per cento – si trova in provincia di Palermo. Se i tre personaggi dovessero venire condannati in via definitiva sarebbe una solenne bocciatura soprattutto per la commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi, che dopo aver ascoltato in commissione la stesa Saguto, aveva sentenziato: «La gestione dei beni confiscati a Palermo è improntata alla massima correttezza, non ci sono elementi tali da inficiare condotte delle singole persone. È noto cosa penso di questa commissione Antimafia, sulle patenti di legalità che ha fornito e sul curriculum non proprio specchiato di alcuni suoi componenti (il senatore Ncd Giovanni Bilardi che rischia l’arresto per una gestione allegra dei rimborsi ai gruppi consiliari in Calabria è l’ultimo esempio), cosa penso delle società sequestrate alla mafia anche. E ovviamente non credo, come dice il senatore Pd Giuseppe Lumia che «il riuso sociale e produttivo dei beni possa diventare una risorsa per lo sviluppo», anzi. I beni delle mafie, soprattutto le attività economiche, stanno in piedi solo perché riciclano il denaro del narcotraffico. Altro discorso è invece quello sui beni più squisitamente commerciabili: penso ai quadri che aveva il re dei videopoker di Reggio Calabria Gioacchino Campolo, innamorato dell’arte come il boss di Mafia Capitale Massimo Carminati, che secondo i pm romani avrebbe investito i soldi degli affari sporchi su Picasso, Keith Haring, Guttuso, De Chirico e tanti altri. Il suo patrimonio è stimato in 200 milioni di euro, ma c’è chi sostiene che una buona parte del suo tesoro sia sfuggito alle forze dell’ordine. E intanto la ’ndrangheta se la ride: l’ultima inchiesta in ordine di tempo è quella che porta a Malta e al riciclaggio di denaro sporco attraverso le sale scommesse. «La ’ndrangheta ha scelto di giocare pesante con l’azzardo sul Web. A Malta, dove batte il cuore strategico e finanziario del betting targato ’ndrine, anche se per puntare sui tavoli che gli uomini dei clan hanno apparecchiato non c’è bisogno di spostarsi», scrivel’Espresso. Nelle agenzie gestiti da teste di legno delle cosche si giocavano migliaia di euro di denaro sporco «a perdere» che restavano nelle casse dell’agenzia diventando improvvisamente immacolati. «In quel fazzoletto di terra nel Mediterraneo le cosche di Reggio Calabria hanno piazzato il quartier generale di quella che per gli investigatori è una delle più grandi lavatrici di denaro sporco – scrive il settimanale – con affari, intrecci societari e complicità che lambiscono la politica e toccano gli ambienti finanziari maltesi», insiste il settimanale. Non c’è da stupirsi. La ’ndrangheta è una holding internazionale del crimine più potente, a dispetto della classifiche del sito d’informazione finanziaria che la collocherebbero al 4° posto al mondo (dietro addirittura alla camorra, dilaniata dalle faide firmate dai giovani boss rampanti che stanno insanguinando la città, figuriamoci…) e che stima in appena 4,5 miliardi di euro il giro d’affari delle cosche calabresi. In realtà il Pil della ’ndrangheta è almeno 10 volte tanto grazie al traffico di cocaina sull’asse Calabria-Colombia che ha reso i clan calabresi sostanziali monopolisti nel narcotraffico. I suoi tentacoli si allungano da Malta a Bogotà, da Reggio Calabria fino al Libano passando da Dubai, dove si trova latitante l’ex parlamentare azzurro Amedeo Matacena, condannato per associazione mafiosa e che sarebbe sfuggito alla cattura anche grazie a una presunta Spectre affaristico-mafiosa cui dà la caccia il pm reggino Giuseppe Lombardo e che in Italia avrebbe come suo terminale anche l’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dai legali dell’ex deputato con il quale si chiedeva l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare nell’ambito dell’inchiesta della Dda di Reggio Calabria che ha portato all’arresto della moglie dell’imprenditore, Chiara Rizzo, e dello stesso Scajola. E mentre la ’ndrangheta ride e prospera la Calabria muore lentamente, ogni giorno che passa. Il maltempo ha messo in ginocchio le infrastrutture stradali e ferroviarie già fiaccate dall’incuria e dall’abbandono, al degrado civile e morale si aggiunge anche la crescente difficoltà di spostarsi in Calabria. Il degrado è il terreno su cui attecchisce la ’ndrangheta, rilanciare il sistema infrastrutturale Alta velocità-A3-Ponte sullo Stretto come sembra aver promesso il governo può essere la chiave giusta. «In Parlamento presenteremo una proposta di legge per realizzarlo anche se so che la sinistra si opporrà – ha detto il ministro dell’Interno Angelino Alfano – non è possibile che l’Alta velocità arrivi fino a Reggio Calabria e poi ci si debba “tuffare” nello Stretto, per poi rincominciare a viaggiare a… bassa velocità». La speranza è che non si tratti dell’ennesima promessa. Certo, visto l’interlocutore il sospetto è forte.
La lezione fascista: battere la mafia si può, basta appoggiare chi la combatte, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo D’Italia”. Su Cesare Mori, di cui ricorre l’anniversario della morte (5 luglio 1942), quel prefetto di ferro che sconfisse la mafia durante il fascismo, è stato detto e scritto praticamente tutto: su di lui sono disponibili una ventina di libri, vari film, alcuni sceneggiati, tra cui l’ultimo, una miniserie tv in due puntate, Cesare Mori – Il prefetto di ferro, è stato trasmesso nel 2012, a riprova della grande attualità dell’opera di questo servitore dello Stato che dimostrò che se una cosa si vuole fare, la si fa. Lui riuscì dove in seguito fallì l’Italia repubblicana, con gli assassinii di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altro prefetto di ferro, dei giudici Falcone e Borsellino e di altre centinaia di uomini assassinati dalla criminalità organizzata siciliana. Su Mori oramai si sa tutto. Quello che è interessante oggi è capire come fece a debellare la mafia, come mai in seguito la mafia tornò, e quale debba essere il ruolo e il limite dello Stato nell’affrontare un’emergenza di questo tipo, emergenza che oggi, nel mondo occidentale, è presente solo nel nostro Paese, almeno a questo livello di organizzazione e di aggressività. Una delle linee-guida del fascismo era che nessun potere dovesse esserci al di fuori dello Stato, e certamente non un potere criminale. Il caso del Mezzogiorno d’Italia, dove il potere delle cosche strozzava l’economia delle regioni e dove pertanto la rivoluzione fascista non poteva convenientemente realizzarsi, convinse Benito Mussolini e i suoi collaboratori ad affrontare il problema. Sappiamo che nei primi mesi del 1924 Mussolini aveva compiuto un viaggio in Sicilia, dove alcuni fedelissimi lo avevano messo al corrente della situazione, situazione che sembrava veramente non risolvibile, in quanto il sistema mafioso era incancrenito e cristallizzato. Probabilmente Mussolini si rese conto che la credibilità del fascismo avrebbe subito un dito colpo se non avesse risolto il problema della mafia, e prese il toro per le corna. In quello stesso anno, nel corso di pochi mesi, inviò in Sicilia Cesare Mori – che prima del fascismo aveva già prestato servizio nell’isola e che quindi la conosceva bene – e il giudice Luigi Giampietro come procuratore generale e il delegato calabrese Francesco Spanò. Ecco il testo del telegramma di Mussolini al Mori: «Vostra Eccellenza ha carta bianca, l’autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente, ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi». La mafia per alcuni anni fu costretta a chinare il capo di fronte al governo italiano. Il fascismo voleva veramente risolvere una volta per tutte il problema della mafia in Sicilia, e lo fece, non esitando a coinvolgere e ad arrestare anche esponenti, grandi e piccoli, del fascismo locale. Mussolini in quella circostanza non guardò in faccia a nessuno. Dapprima Mori fu mandato come prefetto a Trapani, dove aveva dato già buona prova di sé qualche anno prima, e iniziò revocando tutti i porto d’armi, e istituendo una commissione per il controllo dei nullaosta relativi ai permessi di campieraggio e guardiania, attività legate a cosa nostra. L’anno successivo Mori fu nominato prefetto di Palermo, con competenza su tutto il territorio regionale e con ampi poteri, dove iniziò sul serio la battaglia. Battaglia che fu durissima, a tutti ii livelli: sradicò abitudini, consuetudini, arrestò signori e signorotti locali, latifondisti, impiegati pubblici, banditi, briganti, fascisti. I risultati furono straordinari già nei primi anni: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente. Intraprese varie iniziative, ma lui andava particolarmente fiero dell’aver arrestato e fatto condannare Vito Cascio Ferro, pezzo da novanta della mafia italo-americana, che nel 1909 aveva assassinato sulla Marina di Palermo Joe Petrosino. La sua azione più famosa, perché spettacolare, fu il celebre assedio di Gangi, considerata allora una delle roccheforti dei mafiosi. Con un ingente numero di militi delle forze dell’ordine, Mori rastrellò il paese casa per casa, prendendo in ostaggio familiari di mafiosi per costringerli ad arrendersi, e riuscendo a catturare decine di mafiosi, banditi, criminali e latitanti. Probabilmente allora, per la durezza dei metodi, si guadagnò il soprannome col quale è ricordato. Oggi a Gangi c’è una targa che la popolazione grata gli ha dedicato per la sua opera meritoria. Per colpire la mafia Mori non esitò a indagare negli ambienti fascisti. Contemporaneamente Mori colpì i circoli politico-affaristici e perseguì Alfredo Cucco, il numero uno del fascismo siciliano, nonché membro del Gran Consiglio del fascismo, il quale venne rinviato a processo e addirittura espulso dal Pnf. Cucco però fu assolto, e ci sono sospetti che per lui, medico stimatissimo, si fosse trattato di una trappola, in quanto molti vicino a Roberto Farinacci, che come è noto non era molto amato da Mussolini. Tuttavia la mafia era stata decapitata, ridotta all’impotenza, al silenzio: i suoi esponenti che non vennero arrestati dovettero fuggire negli ospitali Stati Uniti, da dove poi nel 1945 ritorneranno a cavallo dei cannoni dei carri armati americani, che riportarono la mafia in auge un Sicilia, dando anche ai capi mafiosi locali incarichi amministrativi importanti, come dimostra la storiografia del dopoguerra. Va anche sottolineato che dopo gli arresti e le incriminazioni, i processi si facevano, le condanne arrivavano. Insomma, la magistratura collaborava con lo Stato nella lotta senza quartiere alla criminalità organizzata. Il metodo di Mori era semplicissimo nella sua efficienza: innanzitutto riaffermò in modo vigoroso l’autorità e la presenza dello Stato; coinvolse e convinse la popolazione a ribellarsi ai soprusi della mafia; d’accordo con le istituzioni, avviò una battaglia culturale contro l’omertà, il crimine, la mentalità mafiosa, soprattutto nei confronti dei giovani; colpì cosa nostra nei suoi interessi economici; fece tramontare la leggenda dell’impunità, facendo condannare a pene durissime i capomafia; fece un uso disinvolto del confino, dove mandò i maggiori capicosche. Nel 1929 Mori fu messo a riposo (era del 1871) e per molti anni la mafia dovette chinare il capo di fronte a questa Italia nuova e moderna, che frattanto aveva anche cercato di riavviare sotto il controllo militare le attività agricole e produttive della regione. In definitiva, perché Mori sconfisse la mafia? Perché il governo italiano lo appoggiò lealmente, al contrario di quanto accadde ad altri servitori dell’Italia repubblicana.
Questo è quel che si vorrebbe far credere. Ma esiste un'altra verità.
Libri: La mafia alla sbarra, I processi fascisti a Palermo, scrive “L’Ansa”. Il Volume attinge da documentazione conservata all'Archivio Stato. Indaga sulle radici della mafia, da quelle geografiche dell'hinterland palermitano, uno dei luoghi di genesi del fenomeno, a quelle storiche: è il libro "La mafia alla sbarra - I processi fascisti a Palermo" (260 pagine, 15 euro) scritto da Manoela Patti e pubblicato dalla casa editrice Istituto Poligrafico Europeo, con una prefazione dello storico Salvatore Lupo. Il lavoro si basa sull'immensa documentazione conservata all'Archivio di Stato di Palermo e scava all'interno della retorica della repressione fascista degli anni Venti, facendo anche piazza pulita della legittimazione storica basata su paradigmi e stereotipi che nella percezione comune hanno portato a credere, negli anni, a una mafia "buona" e non sanguinaria. "Il versante giudiziario dell'antimafia fascista - scrive l'autrice - ebbe esiti di gran lunga inferiori alle forze messe in campo. La portata effettiva dell'operazione Mori si rivelò meno incisiva di quanto propagandato dal regime. Eppure, l'imponente opera di propaganda fascista sfruttò l'intera popolazione per ottenere in Sicilia quel consenso che ancora nell'Isola mancava al regime". Dal "L'Inchiesta in Sicilia" del 1876 di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino alle difese che hanno smentito l'esistenza della mafia come associazione, puntando piuttosto a definirla come "un modo di essere e di sentire". Come quella di Giuseppe Pitrè, che diede dignità scientifica al concetto di una "mafia originaria benigna, sinonimo di spavalderia e coraggio degenerata solo in alcuni individui in delinquenza". Tesi adoperata per difendere l'Isola dagli "attacchi del governo centrale ogni volta che la questione mafiosa tornava all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale". La tesi di Pitrè verrà codificata ufficialmente nel 1901 durante il processo al l'onorevole Raffaele Palizzolo, accusato di essere il mandante dell'assassinio dell'ex sindaco di Palermo e direttore del banco di Sicilia, Emanuele Notarbartolo. "Accade spesso che le dinamiche sociali si incarichino di smentire gli scienziati sociali e la storia di smentire gli storici - scrive lo storico Lupo nella prefazione - La smentita fu particolarmente bruciante nella Sicilia dell'assaggio tra gli anni 70 e 80. La mafia si palesò in tutta la sua nuova pericolosità mentre era impegnata in modernissime forme di business. Quella mafia lì non somigliava per niente a una vaga metafora". Il libro sarà presentato all'Istituto Gramsci di Palermo. A discuterne con l'autrice saranno Salvatore Lupo, professore di Storia contemporanea all'Università di Palermo, Francesco Forgione, presidente della Fondazione Federico II e Matteo Di Figlia, ricercatore di Storia contemporanea all'Università di Palermo.
I maxiprocessi ai boss al tempo del fascismo molto rumore per nulla. Il libro di Manoela Patti ricostruisce la vicenda giudiziaria del Ventennio A fronte di migliaia di arresti e indagini le condanne furono minime, scrive Amelia Crisantino su “La Repubblica”. La campagna antimafia voluta dal fascismo, inaugurata nell'ottobre 1925 con l'invio del prefetto Cesare Mori a Palermo, è ancora ben presente nella memoria collettiva. L'inedito spiegamento di forze e i modi spesso teatrali con cui il prefetto Mori condusse le operazioni comprendevano assedi di borgate e paesi, arresti di massa, processi a centinaia di imputati, l'arresto per i familiari dei latitanti, brutalità varie anche a carico dei testimoni. Il fascismo accompagnò l'aspetto militare con un'imponente opera di propaganda, mentre da più parti si tentavano analisi: per molti mesi si continuò a dibattere se la mafia fosse un fenomeno delinquenziale, una variabile etnico-antropologica o l'indesiderato prodotto di una società arretrata. Si cercava cioè di definire la natura del fenomeno mafioso, con argomenti destinati a ciclicamente ripresentarsi nei decenni a venire. Il versante più in ombra rimase quello giudiziario. Che fu spesso deludente. Le pene inflitte nei numerosi maxiprocessi che si susseguirono sino al 1932 furono minime, di gran lunga inferiori alle forze in campo. La documentazione allora prodotta permette però di osservare la storia dell'organizzazione mafiosa in una prospettiva di lungo periodo, e adesso uno studio di Manoela Patti, "La mafia alla sbarra. I processi fascisti a Palermo" (Istituto poligrafico europeo, 260 pagine, 15 euro), analizza uno spaccato territoriale e temporale seguendo le vicende di molteplici personaggi che riservano non poche sorprese. La prima impressione, a leggere queste pagine così fitte di nomi ed episodi, è di trovarsi di fronte a un reticolo i cui molteplici intrecci richiedono molta cautela. Subito dopo, mentre l'attenzione del lettore è assorbita dalla ricchezza delle fonti, arriva una sorta di sgomento di fronte ai numeri. Leggiamo che dal 1913 al 1919 a Bagheria avvengono 55 omicidi, che nel 1928 gli arrestati nella provincia di Palermo sono cinquemila, che dal 1926 al 1932 vengono giudicati settemila imputati distribuiti in 105 processi organizzati su base territoriale, che il 25 novembre 1930 si apre il processo all'associazione della borgata Santa Maria di Gesù: sono 228 detenuti presenti nella chiesa di Santa Cita usata come tribunale, con gli stucchi del Serpotta che osservano muti le grandi gabbie affollate di imputati, i 62 avvocati, i 200 testimoni a discolpa. Nella sola provincia di Palermo vengono celebrati 56 processi e la vasta documentazione su cui si sorreggono permette di ricostruire comportamenti, struttura e attività delle cosche mafiose: non solo i rapporti interni all'organizzazione, ma anche i legami con il vasto universo "non criminale" con cui interagivano. La linea scelta nei processi fu quella di condannare gli imputati per la semplice "associazione a delinquere", anche senza valutare la responsabilità per i singoli reati; ma non di rado la magistratura giudicante si mantenne su posizioni garantiste, accogliendo le richieste della difesa. E – al di là delle accuse e della posizione dei magistrati – viene in primo piano un dato di fatto, sintetizzato dal capitano dei carabinieri al giudice che stava istruendo il processo di Bagheria: "quello era un tempo in cui tutti avevano relazioni con la mafia". Il fascismo ebbe gioco facile nel puntare il dito contro l'odiosa commistione fra cosa pubblica e violenza mafiosa, che specie nei paesi era stata favorita dall'allargamento del suffragio. I processi dimostrarono gli stretti legami fra le associazioni delle borgate palermitane e i comuni dell'hinterland, con alcuni casi esemplari come Villabate a testimoniare la capacità della mafia di infiltrarsi nell'amministrazione. Fra gli affiliati alla cosca di Villabate c'erano anche i venti componenti del consiglio comunale, e molti dei nomi ritornano negli atti della Commissione antimafia del 1972, del Maxiprocesso del 1986, nell'operazione Perseo del 2008 e Senza Frontiere del 2009. La continuità sembra essere la principale caratteristica delle cosche che dominano la Conca d'oro, i casi più emblematici li ritroviamo nella borgata di Santa Maria di Gesù dove si collocano alcune delle più antiche e potenti dinastie mafiose palermitane come i Bontate e i Greco, che attraversano età liberale, fascismo ed età repubblicana mantenendo l'egemonia. I metodi con cui viene conservato il potere, le connivenze e le strategie molto ci raccontano della storia della mafia. Che per tanti versi coincide con la storia della Sicilia.
Rocco, il fascioconservatore che rifondò lo Stato italiano. Colto, amante dell'ordine e del modello tedesco, non amava i movimentisti. A colpi di diritto mise in riga il regime e i sindacati. Persino Mussolini ne aveva soggezione. E lo cacciò, scrive Francesco Perfetti su “Il Giornale”. Al momento della sua scomparsa, il 28 agosto 1935, Alfredo Rocco non aveva ancora compiuto sessant'anni essendo nato a Napoli il 9 settembre 1875 da una famiglia che Indro Montanelli avrebbe scherzosamente definito «un allevamento di cavalli di razza» alludendo al fatto che i suoi tre fratelli - Arturo, Ugo e Ferdinando - lasciarono, pur essi, un segno importante nelle scienze giuridiche. All'epoca, Alfredo Rocco, malgrado fosse ancora nel pieno delle sue energie, era praticamente uscito dalla scena pubblica ed era tornato agli studi. Mussolini lo aveva allontanato dal governo nel 1932 nel quadro di un ampio rimaneggiamento ministeriale. La notizia della sua sostituzione al ministero della Giustizia, che guidava dal 1925, gli era giunta improvvisa. La lesse sui giornali mentre si trovava a Ginevra. Si adeguò disciplinatamente e in un telegramma al duce scrisse che il provvedimento corrispondeva al «concetto giusto avvicendamento uomini governo». In realtà non si spiegò mai i motivi del suo allontanamento tanto che, interpellato da Angelo Sraffa, rispose (come riportò subito un informatore della polizia) di non rendersene conto. Quell'anno, il 1932, ricorreva il primo decennale della «rivoluzione fascista». Il regime aveva ormai superato la fase della stabilizzazione, godeva di consenso popolare e aveva realizzato molte profonde riforme istituzionali. Mussolini riteneva fosse giunto il momento di dare inizio a un nuovo “ciclo” basato sulla centralità della sua persona (non a caso riassunse la guida degli Esteri) e sulla opportunità di sostituire personalità di governo troppo forti. L'allontanamento di Rocco, che pure stimava moltissimo e nei cui confronti nutriva un senso di inferiorità, aveva un significato preciso: esprimeva la sua diffidenza per il reazionarismo ideologico-giuridico del guardasigilli. In effetti Rocco aveva disegnato un edificio la cui sostanza reazionaria era indiscutibile. Il suo nome era legato alla «trasformazione dello Stato», dalle leggi cosiddette «fascistissime» alla legge sindacale, dalla legge sulla rappresentanza politica alla codificazione penale e via dicendo. Lo spirito con il quale si era messo al lavoro era quello di creare (son parole sue) una «nuova legalità» per «rientrare nella legalità»: una legalità di stampo monarchico, oligarchico, conservatore. Molte leggi, in apparenza miranti al rafforzamento del fascismo, prefiguravano in realtà uno Stato così rigido da rendere impossibile qualsiasi tentativo, anche di parte fascista, di stravolgerne le connotazioni conservatrici. Non a caso, in alcuni ambienti fascisti, in particolare rivoluzionari e “movimentisti”, si sostenne che stava realizzando uno Stato che sarebbe piaciuto a Metternich. Rocco proveniva dal movimento nazionalista cui era giunto tardi, alla vigilia del primo conflitto mondiale, dopo marginali esperienze socialiste e radicali. Si era subito imposto come la mente più lucida e originale di quel partito. I Corradini, i Federzoni, gli uomini cioè più significativi del nazionalismo, erano approdati alla politica dalla letteratura, avevano respirato la ventata di irrazionalismo che aveva investito la cultura europea tra la fine del secolo diciannovesimo e gli albori del ventesimo, erano rimasti sedotti dalle manifestazioni vitalistiche dell'epoca. Si erano avvicinati al sindacalismo rivoluzionario, leggendolo in chiave irrazionalistica e mitologica: nello sciopero generale e nella violenza preconizzati da Sorel avevano visto dei miti capaci di catalizzare eticamente le energie delle masse. Alcuni, poi, avevano accettato la pregiudiziale antigiacobina dei nazionalisti francesi contestando il «centralismo rivoluzionario», napoleonico prima e radicale poi, ed esaltando l'autonomismo locale contro lo straripamento del potere centrale. Rocco fu sempre lontano da posizioni del genere. Guardò con sospetto la simpatia dei compagni nazionalisti per il sindacalismo rivoluzionario e si fece banditore di un assolutismo di stampo classico che privilegiava la funzione accentratrice dello Stato e si configurava come risposta del potere politico alle tendenze disgregatrici e alle forze centrifughe della società contemporanea. In un certo senso egli si preoccupò di adeguare il pensiero reazionario classico alla realtà e alle esigenze della società di massa. In questa prospettiva, per esempio, si collocava l'idea che il sindacato potesse mutarsi da strumento di eversione in fattore di disciplina sociale attraverso la sua trasformazione in figura di diritto pubblico e, quindi, sotto il controllo dello Stato. Nel corso del dibattito sull'approvazione della «legge sindacale» del 1926 egli fu esplicito: «lo Stato non può ammettere, e lo Stato fascista meno che mai, che si costituiscano Stati nello Stato. L'organizzazione dei sindacati deve essere un mezzo per disciplinare i sindacati, non un mezzo per creare organismi potenti e incontrollati che possano sovrastare lo Stato». Il nazionalismo di Rocco fu soprattutto statualismo così come il suo fascismo. Lo Stato - come organismo economico e sociale, politico e giuridico - fu al centro della sua riflessione e della sua attività di legislatore: uno Stato, come scrisse, «sovrano e superiore agli individui, ai gruppi, alle classi», uno Stato che, però, della sua sovranità avrebbe dovuto servirsi «non per fare opera di oppressione, bensì per realizzare fini superiori». Lo Stato del quale parlava Rocco non aveva nulla dello Stato totalitario. Il suo riferimento ideale erano gli Stati autoritari classici con una non celata preferenza per il modello della Germania guglielmina o, in misura minore, per un Ancien Régime che tenesse presente il fenomeno della irruzione delle masse sulla scena politica come frutto della Grande guerra. La concreta attività di legislatore di Alfredo Rocco si rifaceva a una organica e monolitica filosofia politica, a una precisa e coerente visione dello Stato e dei rapporti di questo con i cittadini. Basta leggere le relazioni che accompagnavano i disegni di legge da lui presentati in Parlamento per rendersene conto: non solo una illustrazione tecnica del provvedimento da adottare ma, prima di tutto, una sua giustificazione teorica e di filosofia politica. Un illustre giurista, Giuliano Vassalli, ha osservato che nessun altro ministro riuscì, come Rocco, tecnico di altissimo livello, a «trasformare», nel bene e nel male, lo Stato italiano: non vi era riuscito nessuno, prima di lui, nell'Italia liberale, non vi sarebbe riuscito nessun altro, dopo di lui, nel secondo decennio del fascismo e, poi, nella nuova Italia democratica e antifascista. Le polemiche sulla sopravvivenza, nell'Italia postfascista, dei codici legati al nome di Rocco, incompatibili con lo spirito dello Stato democratico, rivelano come la capacità di resistenza alle sollecitazioni di riforma di quell'impianto normativo fosse dovuta al fatto che la legislazione di Rocco era il risultato, prima ancora della tecnica giuridica, di una compatta e organica visione della società e della politica. Che tale visione, poi, non sia più in linea con la moderna sensibilità democratica è altro discorso.
Altro tipo di tradimento.
Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata: il libro di Mauro Canali. Malgrado i tre quarti di secolo trascorsi ormai dalla sua morte, su Antonio Gramsci si continua a scrivere molto. Fu sempre Togliatti, finché fu in vita, a decidere cosa rendere pubblico dell'opera e della storia del leader sardo. Solo grazie a dirigenti comunisti "eretici" o espulsi qualcosa riuscì a trapelare. Scomparso Togliatti, non fu comunque ancora possibile affermare esplicitamente che nell'ottobre del 1926 la rottura tra Gramsci e Togliatti ci fu e fu radicale. Si è dovuto attendere oltre settantanni dalla morte di Gramsci, e molto tempo dopo la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del PCI, per giungere alla verità. Mauro Canali la ricostruisce e fa chiarezza sulle ragioni, le complicità, i tentativi della cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, per portare a galla i fatti, i mezzi con cui Togliatti riuscì a legittimarsi come assertore del pensiero gramsciano, e perciò suo naturale erede politico, e a dissimulare, nel contempo, la persistente fedeltà allo stato Sovietico dietro la parola d'ordine, mutuata dalle riflessioni gramsciane, della "via nazionale al socialismo". Questo libro scopre le carte e permette di passare dall'immagine del Gramsci "togliattiano" alla realtà che emerge dalla documentazione, in buona parte inedita, proveniente dal fondo Gramsci conservato negli archivi russi. La personalità di Togliatti che affiora dalla vicenda Gramsci è quella di un uomo politico intelligente quanto scaltro.
Così Togliatti rinnegò Gramsci. Il Migliore si accreditava come erede del predecessore ma alla guida del PcdI impose la linea dello stalinismo, scrive Francesco Perfetti su “Il Tempo”. Intelligente, scaltro, opportunista, Palmiro Togliatti (1893-1964) fu l'insuperabile regista di una cinica operazione culturale e politica volta a presentare se stesso come l'interprete autentico del pensiero di Antonio Gramsci e come il suo legittimo erede. Fu lui, infatti, a voler pubblicare, nel dopoguerra sia i Quaderni del carcere in una versione sapientemente destrutturata sia le Lettere dal carcere accortamente e impietosamente mutilate. Dietro il suo lavoro di "editore" dei testi gramsciani c'era una precisa intenzione manipolatoria, che puntava ad accreditare l'immagine di una storia coerentemente lineare del comunismo italiano. Fu un vero e proprio "tradimento" del pensatore sardo compiuto attraverso l'occultamento e la rimozione degli sviluppi eterodossi del pensiero di Gramsci rispetto alla acquiescenza del gruppo dirigente del comunismo italiano alle posizioni staliniste. Tutto ciò è documentato nell'ottimo lavoro di Mauro Canali dal titolo Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata (Marsilio): uno studio che, basato su una ricca e importante documentazione inedita, giunge a conclusioni inoppugnabili e, certo, tutt'altro che gradite ai sacerdoti della memoria togliattiana. La verità è che il rapporto fra Togliatti e Gramsci si sviluppa all'insegna di tradimenti continui. Dopo la morte di Lenin, mentre all'interno del Pcus era in corso la lotta per la successione, Gramsci trasmise a Togliatti, rappresentante del PcdI nella III Internazionale, un documento destinato ai dirigenti sovietici e critico nei confronti della maggioranza staliniana nel CC del Pcus. Togliatti non lo trasmise a chi di dovere e, anzi, una volta subentrato a Gramsci alla guida del PcdI, dopo l'arresto di questi a Roma nel 1926, scelse per il partito la linea della subordinazione allo stalinismo. A questo "tradimento" fecero riscontro il sostanziale disinteresse di Togliatti per il calvario di Gramsci, se non, addirittura, atti sottilmente ostili. Nel febbraio del 1928, a istruttoria ancora aperta, Gramsci, detenuto in attesa di giudizio, ricevette da Ruggero Grieco una lettera che avvalorava di fatto le accuse contro di lui e che fu così commentata dal giudice istruttore: "onorevole, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera". Gramsci vide subito in quella lettera un "atto scellerato", dietro il quale si celava una subdola mano ispiratrice. Che fosse quella di Togliatti, egli lo sospettò subito e lo fece notare alla cognata Tatiana sostenendo che la lettera non poteva essere "tutta farina del sacco di Grieco". Anni dopo, ribadì all'economista Piero Sraffa il suo sospetto sulla responsabilità di Togliatti tanto nella vicenda della lettera quanto nel boicottaggio delle trattative per la sua liberazione avviate dal governo sovietico grazie alla intermediazione di padre Tacchi Venturi. Intanto, nel carcere, cresceva il dissenso di Gramsci nei confronti della linea impressa da Togliatti al PcdI con la "svolta" del 1930 in ossequio alle direttive della III Internazionale, con l'espulsione di Bordiga, Tresso, Leonetti e Ravazzoli dal partito e la campagna contro il "socialfascismo". Le strade di Togliatti e Gramsci erano ormai divaricate. Del resto poco fece il partito per il detenuto se non mandargli qualche finanziamento che la cognata Tatiana otteneva tramite un misterioso personaggio, "linge", che Canali ha identificato in Riccardo Lombardi, il futuro esponente del Partito d'Azione e, poi, nell'Italia repubblicana, del Psi. In carcere Gramsci si ritrovò sempre più isolato. I compagni di prigionia lo guardavano con ostilità. Sandro Pertini ha riferito un episodio eloquente che si verificò in una fredda giornata invernale mentre i carcerati tiravano palle di neve: "una palla s'infranse sul muro al quale Gramsci si appoggiava, e ne uscì fuori un sasso. Io gli ero accanto e lo udii dire: Avevano messo un sasso nella palla di neve per colpire me ". Malgrado questi fatti, gli storici comunisti ortodossi continuarono a ribadire, nel dopoguerra, l'esistenza di un rapporto organico fra Gramsci e il partito, giungendo fino a sostenere che egli inoltrò la domanda di libertà condizionale seguendo le direttive dei vertici del partito. Canali dimostra che le cose andarono diversamente: non fu Gramsci a "rispettare le norme indicate dal partito", ma, fu "il partito a rincorrere l'iniziativa di Gramsci, per non farsi trovare spiazzato" da una decisione "presa in assoluta autonomia". Dietro la pervicace negazione della verità da parte della storiografia ortodossa comunista e, purtroppo, post-comunista c'era (e c'è ancora) l'intenzione di voler affermare una linea di continuità Gramsci-Togliatti destinata a consolidare la rappresentazione mitica e unitaria delle vicende del Pci. Il volume di Canali è destinato a mettere in imbarazzo i cultori di questa vulgata storiografica che presenta Togliatti erede di Gramsci. Ma non basta. Chiarisce, anche, altri punti a cominciare dalle "responsabilità" di Ignazio Silone nell'arresto e nella condanna di Gramsci e offre importanti precisazioni sulla famiglia della moglie di Gramsci, sui tempi dell'adesione di Piero Sraffa al comunismo nonché sull'inchiesta relativa al caso Gramsci-Togliatti istruita nel 1939 dal Comintern. Il tutto con equilibrio e attenzione al documento. E, soprattutto, con amore per la verità storica.
Togliatti ha tradito Gramsci: ecco le carte che lo provano. Un importante libro di Mauro Canali, basato su ricerche d'archivio, testimonia che il leader sardo fu abbandonato e osteggiato da Palmiro, scrive Francesco Perfetti su “Il Giornale”. Antonio Gramsci (1891-1937) fu arrestato la notte dell'8 novembre 1926 a Roma dove viveva, in affitto, nella casa di due anziani coniugi, Giorgio e Clara Passarge, legati da rapporti di amicizia con Carmine Senise, già allora alto funzionario del ministero dell'Interno. Iniziò, così, il lungo calvario dell'esponente comunista tra confino e carcere. A quell'epoca i suoi rapporti con Palmiro Togliatti si erano già deteriorati. Sullo sfondo c'era lo scontro di potere all'interno del gruppo dirigente bolscevico dopo la morte di Lenin: Stalin e Bucharin, da una parte, Trockij, Zinoviev e Kamenev, dall'altra. Gramsci aveva inviato a Togliatti, rappresentante del Pcd'I nella III internazionale, un documento per i dirigenti sovietici nel quale lasciava trapelare il suo dissenso per il comportamento della maggioranza staliniana del Comitato Centrale del Pcus nei confronti dell'opposizione e auspicava un riavvicinamento ideologico con personalità che godevano di prestigio mondiale e andavano annoverate fra i «nostri maestri». Togliatti, già folgorato dalla stella di Stalin, non consegnò il documento ritenendolo inopportuno ed ebbe con Gramsci un duro scambio di lettere. Fu il primo tradimento nei confronti di Gramsci. Non fu, però, il solo, come documenta un importante lavoro di Mauro Canali intitolato Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata (Marsilio, pagg. 256, Euro 19,50) e frutto di una capillare e puntigliosa ricerca archivistica. Subentrato a Gramsci nella guida del Pcd'I, Togliatti fece imboccare al partito la strada della subordinazione allo stalinismo e di un sostanziale disinteresse per la sorte del leader comunista, il quale cominciò a nutrire dubbi e sospetti su di lui. Nel febbraio del 1928, a istruttoria ancora aperta, Gramsci, detenuto a San Vittore in attesa di giudizio, ricevette da Ruggero Grieco una lettera che lasciava intendere com'egli fosse il capo del partito e avvalorava di fatto le accuse. Il giudice istruttore la commentò così: «onorevole, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera». Quella lettera non fu un gesto di leggerezza o di stupidità, ma, per usare le parole di Gramsci, un «atto scellerato», dietro il quale si poteva supporre una subdola mano ispiratrice. Che fosse quella di Togliatti, Gramsci lo sospettò subito e lo fece notare alla cognata Tatiana sostenendo che la lettera non era «tutta farina del sacco di Grieco». Anni dopo, egli avrebbe ribadito all'economista Piero Sraffa i suoi sospetti sulla responsabilità di Togliatti sia nella vicenda della lettera che aveva aggravato la sua situazione processuale sia nel boicottaggio alle trattative per la sua liberazione avviate dal governo sovietico con l'intermediazione di padre Tacchi Venturi. Poi giunsero la «svolta» del 1930 decisa da Togliatti, Longo e Secchia in ossequio alle direttive della III Internazionale, l'espulsione di Bordiga, Tresso, Leonetti e Ravazzoli dal partito e la campagna contro il «socialfascismo». Dal carcere Gramsci lanciò la proposta di una Costituente antifascista per una mobilitazione congiunta di comunisti e socialisti. Le strade di Togliatti e di Gramsci erano ormai divaricate. Del resto poco aveva fatto il partito per il detenuto se non mandargli qualche finanziamento che la cognata Tatiana otteneva tramite un misterioso personaggio, «linge», che Canali ha identificato in Riccardo Lombardi, il futuro esponente del Partito d'Azione e, poi, nell'Italia repubblicana, del Psi. Il dissenso di Gramsci nei confronti del partito trovò riscontro nel suo isolamento. I compagni incarcerati lo evitavano e lo guardavano con ostilità. Su questo punto c'è una testimonianza di Sandro Pertini che ricordò un episodio avvenuto in una fredda giornata invernale quando, dopo una nevicata, i carcerati si misero a tirare palle di neve. Racconta Pertini: «una palla s'infranse sul muro al quale Gramsci si appoggiava, e ne uscì fuori un sasso. Io gli ero accanto e lo udii dire: “Avevano messo un sasso nella palla di neve per colpire me”». È un episodio più che eloquente sull'isolamento di Gramsci. Eppure, gli studiosi comunisti continuarono a ribadire, nel dopoguerra, l'esistenza di un rapporto organico fra Gramsci e il partito, fino al punto da sostenere che egli inoltrò la domanda di libertà condizionale seguendo le direttive dei vertici del partito. Canali dimostra, carte alla mano, che le cose andarono diversamente: non fu Gramsci a «rispettare le norme indicate dal partito», ma, fu, viceversa, «il partito a rincorrere l'iniziativa di Gramsci, per non farsi trovare spiazzato» da una decisione «presa in assoluta autonomia». C'era una logica nella negazione della verità. Era necessario occultare e rimuovere l'eterodossia di Gramsci per poter affermare, nell'Italia postfascista, l'esistenza di una linea di continuità Gramsci-Togliatti che consolidasse la rappresentazione mitica e unitaria della storia del Pci. Il regista di questa operazione fu lo stesso Togliatti che fece un uso strumentale, certo funzionale ai suoi disegni politici, degli scritti gramsciani, i Quaderni del carcere e le Lettere dal carcere, gestendone la pubblicazione destrutturata e mutilata. Fu, in sostanza, come dimostra il libro di Canali, proprio Palmiro Togliatti, scaltro e intelligente, a operare il «tradimento» di Antonio Gramsci e del suo pensiero.
Gramsci tradito due volte: da Silone e da Togliatti. Il nuovo
importante saggio di Mauro Canali,
scrive
Dino Messina su “Il Corriere della Sera".
Che cosa rende unica, nella storia del comunismo, la vicenda umana, politica e
intellettuale di Antonio Gramsci? L’aver costruito un sistema di pensiero
considerato ancora oggi vitale per l’interpretazione della cultura e della
politica italiana e occidentale. Un’impresa ancor più importante se si tiene
conto che il grande pensatore la realizzò nella solitudine del carcere fascista,
tra l’incomprensione e l’ostilità del mondo comunista che avrebbe dovuto
essergli amico. È questo il giudizio che si ricava dalla lettura del nuovo
saggio dello storico Mauro Canali, “Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la
verità negata”, appena edito da Marsilio (pagine 257, euro 19,50). Canali,
studioso noto per la sua dimestichezza con gli archivi, di cui ha dato prova per
esempio nelle opere “Il delitto Matteotti” e “Le spie del regime” (edite
entrambe dal Mulino), mette tutta la sua sapienza documentaria e passione per
svelare definitivamente le falsificazioni di cui è stato oggetto il pensatore
sardo. Un «santino», nella mitografia costruita da Togliatti, utile per
illustrare una storia lineare e senza conflitti del gruppo dirigente del
comunismo italiano. Naturalmente, come si racconta da qualche anno, le cose
stanno in maniera diversa, e Canali ha il merito di mettere assieme tutti i
tasselli anche sulla base di nuove acquisizioni documentali. Innanzitutto lo
studioso smonta la linea di continuità fra Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti,
che già dall’ottobre 1926, poco prima dell’arresto del leader sardo,
interpretavano due linee diverse e due modi opposti di intendere il lavoro
politico. Canali cita in particolare due lettere a Togliatti in cui Gramsci
prende le distanze da un modo di agire burocratico e opportunista e soprattutto
esprime una concezione del «centralismo democratico» opposta a quella
interpretata da Stalin e dal gruppo dirigente dell’Internazionale comunista.
Gramsci è per l’inclusione delle opposizioni, a cominciare da Trockij, e per la
costruzione del socialismo che non esclude un passaggio attraverso la
«democrazia borghese», gli altri sono per il muro contro muro e l’eliminazione
dei dissidenti. È questa l’origine di una divergenza che si acuirà con gli anni,
fino a toccare il suo acme con la nota vicenda della lettera di Ruggero Grieco
del 29 febbraio 1928, che fece infuriare il leader sardo, ormai prigioniero da
un anno e mezzo. Mentre era ancora aperta l’istruttoria per il processo che
avrebbe portato a una condanna di oltre vent’anni ed erano in corso trattative
(anche con la mediazione vaticana) per uno scambio di prigionieri tra l’Urss e
l’Italia, Grieco mandava una lettera (partita da Vienna per Mosca e da qui
spedita in Italia) che non poteva non mettere in allarme il sistema di
sorveglianza fascista. Tanto che, nel dicembre 1932, Gramsci arrivò a confidare
alla cognata Tania: «Può darsi che chi scrive fosse solo irresponsabilmente
stupido e qualche altro, meno stupido, lo abbia indotto a scrivere».
L’allusione, come viene confermato da documenti e testimonianze successive, è a
Togliatti. È questi, secondo Gramsci, il personaggio «meno stupido» che lo aveva
danneggiato. Il giudice istruttore Macis, che evidentemente aveva letto anche le
lettere inviate da Grieco ad altri dirigenti del Pcd’I in carcere, aveva
avvertito il capo comunista che c’era qualcuno fra i suoi amici che aveva
interesse a tenerlo dentro. Nell’intricata vicenda Gramsci, Canali analizza il
ruolo avuto dalla famiglia della moglie, Giulia Schucht, ma anche quello
dell’economista Piero Sraffa, di cui posticipa di circa un decennio l’adesione
al comunismo attribuita dalla vulgata, e la responsabilità di Ignazio Silone
nell’arresto di Gramsci. Fu Secondino Tranquilli, alias Ignazio Silone, alias
«Silvestri», responsabile della propaganda del Pcd’I e informatore del
funzionario di polizia Guido Bellone, a indicare a questi con precisione il
ruolo di leader ricoperto da Antonio Gramsci. Il processo si basò
fondamentalmente sulle accuse di Bellone.
Ma il filo conduttore del racconto rimane l’ambiguo atteggiamento tenuto verso
Gramsci da Togliatti, il quale, in una breve storia dei primi anni di vita del
Pcd’I scritta nel 1932 ad uso del Comintern, rievocando il periodo 1923-1926,
omise il nome di Gramsci, che era invece in quel periodo il leader riconosciuto
del partito. Dopo la morte del pensatore comunista, avvenuta il 27 aprile 1937,
la cognata Tatiana tornò a Mosca con l’intenzione di fare i conti con Togliatti.
Il Comintern in effetti istruì un’inchiesta (condotta da Stella Blagoeva) che
nel 1940 portò all’allontanamento del «compagno Ercoli» dalle cariche direttive.
La sconfitta del fascismo e la necessità di ricostruire il partito in Italia
furono la salvezza per Togliatti. Nel dopoguerra cominciò la gestione
dell’eredità intellettuale di Gramsci, che passò attraverso la pubblicazione,
con omissioni e destrutturazioni, dell’opera, base preziosa per la teoria della
via italiana al socialismo. Un corpus di saggi e testimonianze usato e
manipolato anche per costruire la leggenda di «Togliatti erede di Gramsci».
Storia e storie. A proposito delle divergenze fra Gramsci e Togliatti, scrive Antonio Di Meo.
1. Oramai si va affermando un nuovo genere letterario: il noir di tipo storico. Il massimo esempio di esso, a livello mondiale, è Il codice da Vinci di Dan Brown. In Italia, come di consuetudine, la fantasia degli autori è ristretta a pochi argomenti, così come le tirature. Uno di questi è certamente la vicenda della coppia Antonio Gramsci – Palmiro Togliatti, ovvero del Pci delle origini. Rispetto a Dan Brown, però, negli autori italiani di questo genere si avverte chiaramente una certa inclinazione di tipo apparentemente realistico, associata a una forma di livore, spesso aggressivo, diversamente modulato, inspiegabile sia si tratti di fantasia, sia – ancor di più – si presenti l’opera come una ricerca storica documentata. Naturalmente le variazioni sul tema sono numerose. Una di queste è contenuta nel recente libro di Mauro Canali enfaticamente (e si capirà il perché) intitolato Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata. Ancora? dirà qualcuno: ancora, purtroppo! Siccome il libro è presentato dall’autore come un libro di storia, cercherò di esaminarlo come se lo fosse. Premetto, però, che non essendo uno storico politico-sociale contemporaneista, metterò in evidenza solo alcuni aspetti che – sia nelle intenzioni dell’autore, sia nei contesti trattati (o meno), sia nel linguaggio adoperato – mi sembra stridano con l’oggetto di cui si tratta, e, ancor più, col genere al quale si pretende che il volume appartenga, cioè la storia. A meno che, a dirla con Pascarella, ….
Vedi noi?, mò noi stamo a fa’ bardoria:
Nun ce se pensa e stamo all’osteria...
Ma invece stamo tutti ne la storia!
A questo proposito l’inizio del libro è assai infelice, poiché dichiara che fra le sei opere importanti più recenti pubblicate sullo stesso argomento sono annoverabili anche il volume di Franco Lo Piparo (I due carceri di Gramsci) e quello di Alessandro Orsini (Gramsci e Turati. Le due sinistre), dei quali già a suo tempo si sono ampiamente dimostrati i difetti interpretativi e una certa “leggerezza” (e non nel senso di Calvino) e disinvoltura nel trattare le fonti documentarie.
2. È noto a molti storici il “paradosso del contesto”, che si può esemplificare nel seguente modo: stando rigorosamente agli scritti di Cristoforo Colombo e dei suoi contemporanei, non si potrebbe mai venire a sapere che il celebre navigatore avesse scoperto un nuovo continente (ovviamente dal punto di vista di noi europei) ! Ciò vuol dire che, per scoprire una verità storica, è utile collocarsi – e in maniera “disinteressata” – su differenti livelli di osservazione, meno limitati e meno partigiani rispetto ai fatti e ai personaggi dei quali si vuole ricostruire in maniera attendibile svolgimenti e ruoli. Se è vero che il passato portato alla luce dalla storia è comunque sempre un “presente” ricostruito secondo le pulsioni intellettuali di un’epoca, tuttavia, come sosteneva una storica della scienza dei primi del Novecento, la brava e sfortunata Hélène Metzger, morta nel campo di Auschwitz, il primo dovere metodologico dello storico è quello di “farsi contemporaneo degli autori di cui si parla”. “Farsi contemporaneo” di Gramsci, Togliatti, del Pcd’I, dell’Internazionale comunista (IC) degli anni Trenta-Quaranta ecc. vuol dire innanzitutto riferirsi a istituzioni e personalità che si erano venute a trovare nella situazione più dura e difficile della loro storia politica e personale, nella quale, cioè, il mantenersi coerenti con la propria scelta di vita e ideale comportava non pochi pericoli. A questo sforzo di comprensione, che appartiene allo stile equanime che dovrebbe essere proprio dello storico, andrebbe associato un esprit de finesse senza il quale una ricerca storica rischia di diventare un tribunale, oppure perfino una clava. L’assenza di questo “farsi contemporaneo” produce conseguenze serie: sarebbe stato un “bel gesto” se Piero Sraffa avesse continuamente dichiarato cosa pensasse, quale fosse il suo ruolo nella vicenda che riguardava Gramsci in carcere o avesse lasciato dietro di se tracce documentarie le più disparate, per la gioia degli storici futuri: ma ciò vuol dire non rendersi conto esattamente cosa volesse dire dichiararsi comunisti, ed agire come tali, nell’Europa degli anni Trenta-Quaranta (-Cinquanta) del Novecento, anche nello stesso Regno Unito, in cui molti membri della élite britannica simpatizzavano col fascismo italiano, la stessa élite che aveva impedito ogni aiuto alla Repubblica spagnola da parte dei (pochi) paesi democratici europei. Soprattutto, poi, se si trattava di uno straniero di una nazione che sarebbe stata nemica nel successivo conflitto mondiale, per di più membro di un partito che lo stesso Canali in altre occasioni ha mostrato essere infiltrabile a ogni livello da informatori o avventurieri. La posta in gioco di eventuali errori dei militanti dell’epoca è abbastanza nota. Dunque: tutti coloro che sceglievano di far parte del campo antifascista, soprattutto i comunisti, ben sapevano i rischi ai quali andavano incontro e quale vita avrebbero condotto. Anche Gramsci, come è noto, lo sapeva e si è comportato di conseguenza. Del resto l’essere in prigione non scioglieva nessun militante dall’osservanza di regole e comportamenti stabiliti da chi era in grado di prendere decisioni a riguardo. Egli, peraltro, aveva un ruolo particolare: era il capo del partito. Ora credo sia utile chiedersi cosa possa accadere a un partito perseguitato, clandestino, con i suoi maggiori dirigenti arrestati e condannati (soprattutto nel 1928 e nel 1930 anche grazie alle spie), quando il suo segretario non è in condizione di operare e gran parte dei dirigenti operativi sono all’estero (Parigi, Mosca, soprattutto). Inoltre quando questo partito fa parte in maniera gerarchicamente subordinata di una organizzazione mondiale – l’Internazionale Comunista – nella quale diventava sempre più preponderante il ruolo del partito russo e in particolare di Stalin e che divenne sempre più una istituzione burocratica e vincolante per ogni partito affiliato e per ogni militante. Gramsci in carcere, dunque, era il segretario di un partito politico e quindi oggetto di iniziative politiche pubbliche che non era possibile evitare. Si poteva non citarlo nelle manifestazioni a favore dei perseguitati dal fascismo? Dunque nei confronti di un militante e dirigente politico prigioniero un partito agisce innanzitutto politicamente, non solo ai fini di un trattamento umanitario da parte degli oppressori nei suoi confronti, ma anche di quelli relativi alla causa che il partito aveva deciso di abbracciare. Ciò valeva (vale) per ogni militante, a maggior ragione per il capo del partito. In molte ricostruzioni storiche su questo argomento, e soprattutto in quella di Canali, le vicende vengono descritte all’insegna dello schema amico-nemico o, più banalmente, buoni-cattivi, con una attribuzione aprioristica dei ruoli. Di qui l’incomprensione di buona parte degli eventi che Canali tenta di interpretare:
- Togliatti sostiene che la campagna del 1933 per la liberazione di Gramsci, conseguente alla pubblicazione del certificato medico del dott. Arcangeli sull’Humanité, era stata politicamente positiva? Allora vuol dire che egli è cinicamente indifferente alla situazione carceraria di Gramsci. Certo l’iniziativa fu maldestra e probabilmente fece fallire il tentativo della famiglia Sraffa di andare in soccorso del prigioniero: ma di qui a dire che fu volontariamente messa in atto allo scopo di provocare questo fallimento ce ne corre!
- Togliatti chiede a Dimitrov che le ceneri di Gramsci vengano portate a Mosca solo se gli si rendono gli onori dovuti a un capo di partito caduto nella lotta contro il nemico principale? Magari per dimostrare che non vi era stato nessun sospetto da parte dell’IC nei suoi confronti? Per Canali, invece, ciò voleva dire porre “condizioni inaccettabili” per far sì che non giungesse mai a Mosca “l’ingombrante” spoglia di Gramsci, onde evitare che si riproponesse il problema del suo lascito letterario: ma si è in grado di immaginare cosa sarebbe successo al già pericolante gruppo dirigente del Pci e a Togliatti medesimo (come lo stesso Canali certifica), se si fosse avuto un trasferimento delle ceneri di Gramsci a Mosca, per così dire, “alla chetichella”?
- Il lascito letterario di Gramsci viene affidato a Togliatti da Dimitrov: invece di chiedersi il perché, - se questi diffidava di lui proprio a causa dei suoi rapporti negativi con Gramsci e con la famiglia Schucht, - Canali invece interpreta la vicenda motivandola con la volontà di Togliatti di nascondere il duro conflitto con il prigioniero e, successivamente, di gestire in proprio, cioè per proprio tornaconto, l’eredità culturale di questi.
Sarebbe interessante la risposta di Canali al quesito seguente: se gli Schucht o Stalin o i dirigenti dell’IC fossero venuti in possesso degli scritti gramsciani pensa lo storico che ora staremmo a discuterne? In realtà, per dar vita a un Togliatti “occultatore” del “vero” pensiero di Gramsci è stata necessaria la superba invenzione – stravagante e filologicamente molto fantasiosa – di un “Quaderno mancante”. Senza Togliatti, in realtà, sarebbero mancati tutti i 33 Quaderni ora a nostra disposizione! Così come sarebbero mancate le lettere di Gramsci e dei suoi corrispondenti, comprese quelle che rivelano il suo forte contrasto con Togliatti! Così come non ci sarebbe stato a Roma – dal 1950 – un Istituto Gramsci creato allo scopo di curare e diffondere l’eredità culturale e umana del dirigente e pensatore comunista. Né ci sarebbe ora in via di pubblicazione – sollecitata e messa in cantiere già da tempo dal più “togliattiano” dei dirigenti dell’Istituto – la pubblicazione della Edizione nazionale delle opere di Antonio Gramsci e l’aggiornamento continuo della ormai sterminata Bibliografia gramsciana, a testimonianza di come sia stato difficile impedire lo studio del pensiero di Gramsci!
3. Uno degli aspetti più strabilianti della ricostruzione di Canali consiste nel sostenere che Togliatti avesse bisogno di – diciamo così – farsi bello e darsi importanza presentandosi come un politico e pensatore in diretta continuità con l’elaborazione di Gramsci: un po’ per ricavarne un prestigio personale che evidentemente si ritiene gli mancasse; un po’ per catturare il consenso degli sprovveduti intellettuali italiani (non è presente, ma sembra implicito, l’uso a questo riguardo del concetto di “portare il cervello all’ammasso”); infine, per utilizzare le categorie teoriche e storiografiche gramsciane per fondare la “via italiana al socialismo”, che da solo – o insieme agli altri dirigenti e intellettuali del Pci – Togliatti non sarebbe stato in grado di elaborare. In realtà le cose stanno nel senso opposto: la vera strategia di Togliatti è consistita piuttosto nell’impegnare il suo grande prestigio di dirigente del movimento comunista internazionale per far accettare step by step il pensiero di Gramsci a un partito che in gran parte – e per motivi comprensibili (clandestinità, prigione, esilio, lotta armata in Spagna, in Francia e in Italia, ecc.) – era in possesso di tutt’altre categorie mentali e interpretative, spesso segnate dallo stalinismo, dall’ideologia del “marxismo-leninismo”. Inoltre va segnalato a Canali che, proprio riflettendo sulle vicende della Spagna, Togliatti sviluppa un ripensamento sui rapporti fra proletariato e democrazia. È una vera e propria leggenda, inoltre, l’idea che il Pci dal Congresso di Lione in poi fosse tutto gramsciano e poi, grazie alla disponibilità al cedimento di Togliatti, tutto perfidamente e cinicamente togliattiano! Tuttavia rimane l’impressione che i pareri di Canali (e di altri) sulla prima edizione delle Lettere e dei Quaderni (1947-1948), tengano in scarsa considerazione alcuni aspetti importanti della loro storia editoriale concreta:
1) La gran parte delle persone coinvolte in una eventuale pubblicazione completa dei documenti, all’epoca era ancora vivente (compresi i membri della famiglia di Gramsci, residenti a Mosca, ancora in regime staliniano: il figlio Delio, per esempio, era un ufficiale della marina sovietica e insegnante dell’Accademia militare navale; per di più a Mosca e a Praga, vi erano anche comunisti italiani delle prime emigrazioni o partigiani perseguitati in Italia dopo il 1948) quindi, in ogni caso, una questione di riservatezza e di prudenza si poneva;
2) La funzione della prima edizione dei Quaderni aveva uno scopo anche didattico, richiedente quindi un qualche ordinamento secondo un criterio “razionale” che ne facilitasse la lettura, in grado cioè di consentire a un pubblico ampio di lettori – tenuto all’oscuro (durante il fascismo) delle notizie, delle vicende, dei personaggi di cui spesso si trattava e dei dibattiti politici e filosofici (compresi quelli nell’ambito del marxismo) degli anni Trenta;
3) La raccolta dei documenti relativi a queste opere non è stata repentina ma ha richiesto del tempo, dato che non tutti (malgrado l’affermazione di Canali in questo senso) erano in possesso di Togliatti, del Pci o di alcuni suoi dirigenti: io stesso, nel 1974, ho avuto la ventura di recuperare 4 lettere inedite di Gramsci: una a Clara Passarge (30/11, 1926) e le altre tre a Tania (19/1, 20/1, 3/3, 1927) (vedi A. Di Meo, Quattro lettere inedite di Gramsci dal carcere. Da Palermo, Ustica e Milano (1926-27), Rinascita, 47 (1974), 26-27).
In sostanza, credo ci sia stato (e ci sia) un eccesso di luoghi comuni intorno al reperimento e agli usi delle fonti primarie che riguardano Gramsci, il che non esclude e non ha escluso prudenze, reticenze, rimozioni (soprattutto sulle tragiche vicende di alcuni comunisti e antifascisti emigrati in URSS), proprio nel momento in cui veniva avviata una vera e propria politica di innervamento del suo pensiero nella cultura italiana, tanto più in un periodo che vedeva la rottura delle forze politiche e culturali antifasciste e un ritorno a politiche di duro e anche drammatico scontro – in Italia e nel resto del mondo – fra i soggetti politici e statali della precedente Alleanza antifascista. Chiedo: è possibile ritenere che Togliatti potesse far pubblicare le lettere nelle quali sarebbe emerso – lui vivente e viventi Stalin, gli Schucht-Gramsci, Grieco, ecc. – che Gramsci sospettava di lui, di Grieco, e di tutti gli “amici italiani”? E fra questi alcuni chenon erano - propriamente parlando - “amici” di Togliatti? Che il dissenso di Gramsci con l’Internazionale comunista (e quindi con Stalin) era politicamente profondo, e lo era anche teoricamente poiché coinvolgeva nella critica non solo Bucharin o Trotckij (e fin qui sarebbe andata bene) ma lo stesso Lenin materialista e dialettico? Per non parlare delle note critiche al “centralismo burocratico” il cui referente non è difficile da cogliere? Non era possibile, poiché quelle carte potevano essere adoperate non dagli storici professionisti ma come strumento di lotta politica interna ed esterna al partito: succede ancora adesso che il Pci non c’è più, figuriamoci prima! Ebbene, malgrado tutto, questi ultimi interventi gramsciani dei Quaderni furono pubblicati nel 1948! Comunque proprio il Pci e l’Istituto Gramsci resero note – dopo la scomparsa di Togliatti, ma da lui inizialmente preparate – altre carte significative su questi argomenti, e via via fino ai giorni nostri. La metafora adoperata da Canali su Togliatti “archivista” è vera e falsa allo stesso tempo: vera, perché in effetti ebbe la custodia e la gestione di gran parte dei materiali di cui qui si tratta; falsa, perché – conoscendo bene i contenuti di questi – aveva una sicura conoscenza politica e culturale del contesto in cui sarebbero stati letti e da chi, e con quali conseguenze. Mi sembra che si inclini a gettare uno sguardo sempre negativo su tutta la questione, ovvero: piuttosto che valutare in maniera complessivamente positiva la continua messa a disposizione dei documenti, si rileva sempre puntigliosamente e talvolta con astio il fatto che essa non sia stata istantanea: la qual cosa non avviene in nessun caso per archivi personali o collettivi che richiedano forme di riservatezza, che non sono strumentali alla occultazione interessata di documenti. Tanto è vero che la stessa attenzione, altrettanto severa, non si riscontra nei confronti di altri partiti o di altri importanti pensatori e leader politici.
4. Le differenze e i contrasti fra Gramsci e Togliatti – a partire dal 1926 – si faranno profondi, drammatici e amari. È evidente dai documenti che Gramsci abbia sospettato di Togliatti in relazione alla lettera di Grieco del 1928. Ma perché assumere – da parte di studiosi molto sottili su altri argomenti – che i sospetti di Gramsci o delle sorelle Schucht fossero totalmente fondati? E da questa assunzione, un po’ precipitosa, organizzare poi la loro ricerca? Perché Canali, da storico qual è, non ha provato – per ipotesi – a mettere in dubbio la fondatezza dei sospetti di Gramsci e tentare di orientare la sua osservazione dei fatti in altro modo? Ovvero, per esempio, che la “famigerata lettera” del 1928 poteva essere conseguente a quella dell’esecutivo del Pcd’I del 1926, e con la quale si voleva mettere al corrente tre dei principali dirigenti del partito, fra cui il segretario generale, come stavano le cose e che non era più il caso di opporsi alla situazione venutasi a creare nel partito russo e nella Internazionale? Che forse c’era stata veramente una lagnanza di Terracini (riferita dalla moglie) per non essere stati più contattati? La lettera era un tentativo maldestro e negativo per l’esito del processo? È probabile, perché le linee di difesa degli imputati consistevano nel negare il loro vero ruolo nell’organizzazione comunista, anche se è difficile pensare che il tribunale speciale non sapesse chi fossero e quali ruoli ricoprissero. Perché, chiedo, è più attendibile la dichiarazione del giudice Macis che favorisce i sospetti di Gramsci? Fino ad arrivare a pensare che le accuse e le diffidenze delle sorelle Schucht, della Blagoeva e dei comunisti spagnoli nei confronti di Togliatti fossero fondate? Perché Terracini non dette lo stesso peso politico e psicologico alla lettera di Grieco, dato, tra l’altro, che aveva ricevuto la pena maggiore dal tribunale speciale? E come mai Sraffa era convinto che i sospetti di Gramsci (suscitati in lui dal giudice Macis) fossero infondati? È certo, comunque, che a far divergere Gramsci e il partito italiano – oltre alle linee politiche e all’analisi sulla fase storica – era anche la diversa percezione dello status del prigioniero: questi – a me pare – continuava a tenere in carcere la linea praticata nel tribunale; il partito, invece, lo considerava soprattutto un prigioniero politico, anzi il più importante prigioniero politico presente nelle carceri dell’Italia fascista, e, come tale, necessariamente oggetto di interventi esterni che rispondevano piuttosto alle esigenze – giuste o sbagliate che fossero – della lotta antifascista più in generale. Gramsci desiderava che non si intraprendessero iniziative che lo riguardavano senza che potesse essere lui a deciderle; mentre il partito agiva – come poteva, talvolta in maniera approssimativa – secondo le (difficili) situazioni del momento. Da questa forte dissonanza credo si siano generate alcune delle incomprensioni di cui stiamo trattando. Quanto detto non vuole escludere o sottovalutare nulla; neppure gli atteggiamenti ostili a Gramsci: anzi essi sono ben accertati. Ma questi non possono far escludere dall’analisi gli aspetti che ho segnalato. Gramsci aveva rischiato di essere messo al bando, come Tresso, Leonetti, e Ravazzoli, dissentendo dalla linea “crollista” dell’Internazionale comunista? Probabilmente si, anche se è difficile affermarlo con certezza e anche se proprio Togliatti ha cercato di mettere al riparo Gramsci e la sua famiglia da tutti i pericoli derivabili dalla sua ormai nota “eterodossia”.
5. Nel libro di Canali si accusa – ancora una volta – una cosiddetta “storiografia comunista” di aver lavorato sostanzialmente con finalità extra-scientifiche. A chi si riferisce esattamente? Bisogna distinguere la storia degli storici dall’immaginario storico diffuso, non sistematico, prodotto e alimentato da storie raccontate e tramandate in molti modi (discorsi, articoli di giornali, memorie, racconti orali o scritti, opuscoli di propaganda, trasmissioni televisive, lezioni nelle scuole di partito e non, celebrazioni, commemorazioni funebri, ecc.), talvolta anche dagli stessi protagonisti o da persone prossime e in qualche modo interessate alla ricostruzione delle vicende di questi. Per quanto riguarda la storia degli storici, penso che una “storia tendenziosa” del Pci non solo non sia esistita, ma in gran parte è stato lo stesso gruppo dirigente di quel partito a non volere che esistesse: contrariamente ad altre esperienze nell’ambito del movimento comunista (anche europeo). Il Pci, infatti, si è sempre rifiutato di promuovere una storiaufficiale, approvata o autorizzata. Magari sono stati gli stessi dirigenti di alto livello ad esporsi nelle ricostruzioni e nella fornitura dei documenti (Togliatti, Amendola, Longo, Secchia, e molti altri) e a cercare di offrire agli storici un loro punto di vista. Anzi, direi che è esistita ai vari livelli dei dirigenti del Pci, una vera e propria diffusa passione storiografica e memorialistica (quasi fino al compiacimento intellettuale). La stessa opera di Paolo Spriano, che oggi passa – nell’opinione di alcuni – per apologetica nella ricostruzione storica delle vicende del Pci, non è una storia “ufficiale”, sia per l’editore scelto (Einaudi) e sia per la libertà con la quale l’autore si è mosso: e comunque è stata sempre considerata una storia secondo Spriano. Di sicuro, essa ha riscosso all’epoca simpatie da parte di molti dirigenti del Pci, di cui lo storico stesso faceva parte (ma ne facevano parte anche Gastone Manacorda, Giuliano Procacci, Ernesto Ragionieri, Rosario Villari, Renato Zangheri, ecc.) per non parlare di altri non dirigenti (Luciano Canfora, Giorgio Mori, Enzo Santarelli, per citarne solo alcuni). Tuttavia, non mancarono da parte del Pci prudenze, reticenze e non piena disponibilità ad offrire tutti i documenti necessari all’impresa. Non tutto, dunque, è stato lineare, nei rapporti fra Pci e storici, ma non risulta essi abbiano ricevuto – comunisti o meno che fossero – indicazioni vincolanti nel campo della loro ricerca. Le opere scritte dagli storici “comunisti” possono piacere o meno, ma devono essere discusse nei modi e negli stili della comunità scientifica di appartenenza. Tuttavia, come si è detto, è esistita una mentalità storica diffusa legata alla vita culturale e politica dei comunisti italiani. Non c’è dubbio, infatti, che le vicende di Gramsci (martire antifascista), e poi di Togliatti e dei dirigenti più in vista del Pci; la partecipazione di alcuni di questi alla difesa della Repubblica spagnola o alla Guerra di liberazione nazionale in Italia, con tratti addirittura di leggenda, abbiano dato vita a un immaginario storico che ha prodotto molte convinzioni, fondate e meno fondate, su eventi, personaggi e realtà che erano molto più complicati, come la storia degli storici è venuta scoprendo nel tempo. Il vero problema è che la storia specialistica opera non in un vuoto di pensieri storici, che si potrebbero definire di senso comune, ma in un pieno di conoscenze storiche acquisite nei modi sopra accennati, e spesso più saldamente radicate nelle menti delle persone di quelle ricavate dalle ricerche specialistiche, soprattutto in quelle dei militanti di un qualche movimento storicamente significativo. Tralasciando gli aspetti più profondi dei convincimenti più diffusi, talvolta inconsciamente, nelle mentalità e nei miti popolari, di sicuro gli appartenenti a organizzazioni politiche e sociali di massa, di quelle culturali in senso stretto, di quelle religiose, ecc., o anche di qualsiasi comunità operativa nel mondo sociale, della produzione, comprese quelle scientifiche o istituzionali, possiedono - e non potrebbe essere altrimenti - una (seppure talvolta minima e disgregata) consapevolezza storica relativa all’organizzazione alla quale appartengono. La storia degli storici, quindi, spesso è costretta a entrare in attrito con la storia diffusa, per non parlare della storia scritta da intellettuali e costruita ad hoc per fini estrinseci rispetto alla ricerca “disinteressata” e anche alla formazione dei miti storiografici. La funzione della storia dei non-storici penso abbia innanzitutto una funzione identitaria: come la bandiera, l’inno nazionale o di un partito o di un movimento, come il canto liturgico, la lingua, ecc. Spesso essa si richiama al mito di fondazione del gruppo sociale o della istituzione coinvolti: dall’azienda, alla squadra di calcio, al partito, alla nazione. Se si tiene ben distinta la storia degli storici dalle altre, la storia diffusa può anche avere una funzione positiva: quando celebriamo il 25 aprile sappiamo bene che la Resistenza non è stata una epopea solo esaltante, anche per gli stessi protagonisti, tuttavia il significato generale di questa data ci consente di considerare “sacra”, comunque, la sua memoria. Nel caso specifico di Gramsci è stata una costante linea di condotta del Pci il non trasformare il suo pensiero in “gramscismo”, cioè in ideologia ufficiale di partito, una variante italiana del “marxismo-leninismo”. Quel pensiero – anche nella visione togliattiana e tanto più in quella successiva del comunismo italiano – apparteneva alla cultura del nostro paese e a quella mondiale, a tutti coloro che erano interessati a studiarlo e a utilizzarlo. Ciò non vuol dire che gli studiosi o politici comunisti non potessero o volessero avere un loro punto di vista su di esso. Tanto è vero che le sue opere sono state fatte pubblicare sin dall’inizio dall’editore Einaudi e le iniziative di studio (convegni periodici, seminari, incontri, ecc.) dall’Istituto Gramsci che, dal 1982, è diventata una Fondazione autonoma. A queste hanno partecipato studiosi di vario orientamento, italiani e stranieri, senza la pretesa da parte di qualcuno di possedere interpretazioni migliori di altre. La riedizione ampliata del Gramsci conteso di Guido Liguori mi pare descriva bene la varietà delle interpretazioni e talvolta la loro non sovrapposizione. Da parte del Pci, inoltre, si è sempre affermato che la sua politica poteva richiamarsi al pensiero di Gramsci, ma non esclusivamente e non necessariamente, dato, oltretutto, che la situazione concreta del Secondo dopoguerra era molto diversa – per molti riguardi – rispetto a quella nella quale Gramsci aveva operato. Del resto molti dirigenti-intellettuali e intellettuali del Pci o ad esso vicini avevano un rapporto col pensiero gramsciano rispettoso ma spesso fortemente discordante, sia dal punto di vista “filosofico”, che da quello dell’analisi storico-politica sull’Italia o sul resto del mondo. Gli esempi, a questo riguardo potrebbero essere molti: la documentazione esiste ed è abbondante, basterebbe volerla vedere e prenderla seriamente in considerazione. Infine, ci si potrebbe chiedere come mai uno storico come Canali metta così tranquillamente a repentaglio la sua deontologia scientifica per dare corpo a una sua “passione” così evidente. Ma su questo conviene ritornare in altro momento.
Gramsci tradito da Togliatti, una tesi che fa male. Mauro Canali risponde ad Antonio Di Meo, scrive Dino Messina su “Il Corriere della Sera”. Ospito oggi un articolo dello storico Mauro Canali che ha pubblicato di recente un saggio bello e scomodo, “Il tradimento – Gramsci, Togliatti e la verità negata” (Marsilio). Qui risponde alle critiche di Antonio Di Meo, pubblicate come commento alla mia recensione del volume. «Facendo ricorso a un linguaggio che sfiora talvolta l’insolenza, Antonio Di Meo ha inondato della sua prosa bellicosa quei siti e fogli in cui sono apparse recensioni al mio lavoro, con l’evidente intenzione d’intrecciare con me una focosa polemica, dalla quale tuttavia mi terrò, dopo questa doverosa risposta, ben alla larga, poiché colgo, nelle modalità dialettiche a cui egli si appiglia un misto di furbo togliattismo omissivo e ipocrita, e di sicumera da funzionario burocrate di una vecchia sezione comunista. Dunque Di Meo sostiene che se Togliatti fosse stato un vero occultatore di Gramsci avrebbe fatto sparire i Quaderni e gli scritti del leader sardo, e conclude quindi che senza Togliatti non ci sarebbe stato Gramsci. Evidentemente egli ignora, o finge di ignorare, il contesto in cui si rendeva necessario l’uso del lavoro di Gramsci. In poche parole ignora, o finge di ignorare, la stringente necessità politica che indusse Togliatti a dare ampia notorietà e diffusione al pensiero gramsciano censurato e manipolato. Potrebbe capirlo se capovolgesse il suo ragionamento, poiché gli sarebbe allora più evidente una verità incontestabile, cioè che senza Gramsci e il suo grande lavoro teorico difficilmente Togliatti e il gruppo dirigente del Pci di ritorno da Mosca avrebbero potuto godere del prestigio di cui godettero. Cosa sarebbe stata la proposta politica del Pci del dopoguerra senza il monumentale apporto teorico di Gramsci, l’unico marxista che proponeva una via al socialismo nei paesi occidentali? Irrilevante. La notoria doppiezza di Togliatti avrebbe potuto al massimo formulare una furba variante ‘italica’ del socialismo sovietico. Per giustificare la evidente manipolazione da parte di Togliatti delle opere di Gramsci, Di Meo avanza una curiosa e inedita spiegazione, e cioè che il problema di Togliatti sarebbe stato quello di far digerire gradualmente il pensiero gramsciano a un partito refrattario e largamente stalinista. Una spiegazione che urta fatalmente nella oggettività della vicenda intellettuale e politica di Gramsci. Ad esempio, come far rientrare in questa strategia il tentativo di nascondere la rottura avvenuta tra Gramsci e Togliatti nel 1926, che si conobbe non per iniziativa di Togliatti o dei “chierici” del Pci, ma solo grazie alla pubblicazione da parte di Tasca, espulso da Togliatti per essersi schierato contro alcune tesi staliniane? Ancora: come spiegare le Lettere dal carcere pubblicate nel 1947, massacrate dai feroci interventi censori togliattiani, (gli omissis di Felice Platone, imbeccato da Togliatti, hanno rappresentate una vera tragedia per la cultura politica italiana e per tutta la sinistra), che Di Meo definisce pudicamente “rimozioni”? Le omissioni riguardavano passaggi importanti del pensiero gramsciano, riferimenti a dirigenti della sinistra allora messi alla gogna dallo stalinismo, ma, soprattutto, lettere imbarazzanti come quelle tra il dicembre 1932 e il febbraio 1933, in cui Gramsci indica in Togliatti l’architetto delle macchinazioni a suo danno. La gravità delle omissioni è testimoniata dalla reazione di Leonardo Paggi, raffinato studioso di Gramsci, il quale, quando, nel 1965, con Togliatti ormai defunto, poté leggere la versione integrale delle lettere, accertando le mutilazioni che avevano alterato in profondità le riflessioni gramsciane, concluse senza indugio che, senza alcun dubbio, v’era stata da parte di Gramsci “una vera e propria rottura con il centro del partito”. Ancora: come giudicare la manovra, ispirata da Togliatti, come rivela il documento pubblicato nel volume Togliatti editore di Gramsci (p.123), e condotta da Ambrogio Donini, il primo presidente dell’Istituto Gramsci, stalinista di ferro, il quale decideva di nascondere, – ripeto, consenziente Togliatti – la presenza tra le letture del detenuto Gramsci delle opere di Trockij, di Bucharin e di Tasca, ai quali, scrive Donini a Togliatti, con una punta di grossolana ironia staliniana, “avremmo dato attraverso questa menzione un’inutile pubblicità”? Importante era nascondere che l’eretico Gramsci leggesse in carcere anche le opere dei ‘rinnegati’ Trockij, Bucharin e Tasca. Ancora: il memoriale Lisa, il documento che testimoniava inequivocabilmente la rottura di Gramsci con un Comintern ormai dominato dalla linea imposta da Stalin e di cui Togliatti era divenuto uno zelante sostenitore, e, con lui tutto il gruppo dirigente comunista italiano esule. Il documento venne pubblicato solo dopo la morte di Togliatti, così che si poté venire a conoscenza della rottura Gramsci-Comintern solo trent’anni dopo la morte del grande pensatore sardo. E’ evidente che tutto ciò può trovare una spiegazione adeguata solo nella manovra togliattiana d’imporre e difendere la strategia della continuità Gramsci-Togliatti, e che, se tali eventi conflittuali fossero stati resi noti avrebbero fatto saltare tutta l’operazione. Di Meo fa inoltre intendere che Togliatti sarebbe stato in grado di elaborare la “via nazionale al socialismo” anche senza l’apporto teorico di Gramsci. Ma via, caro Di Meo! Lei sa bene che in tutta la produzione politica di Togliatti negli anni Trenta, (cfr. l’Opera omnia curata da Ernesto Ragionieri), non vi è un barlume di pensiero che richiami gli approdi teorici gramsciani, e che si distacchi dalla assoluta e costante fedeltà al modello staliniano, difeso da Togliatti fino addirittura al XX congresso del Pcus (quello delle denunzie da parte di Kruscev dei crimini staliniani). Del resto vi è un documento importante che consente di leggere tra le righe, sin dall’origine, i motivi che avrebbero ispirato in seguito l’azione censoria di Togliatti, in questa occasione sorpreso con le mani nel sacco. Si tratta di una lettera di Togliatti a Dimitrov di epoca non sospetta (aprile 1941); il ‘Migliore’ scrive, dopo avere esaminato i quaderni gramsciani, che essi “contengono materiali che possono essere utilizzati solo dopo un’accurata elaborazione. Senza tale trattamento il materiale non può essere utilizzato ed anzi alcune parti, se fossero utilizzate nella forma in cui si trovano attualmente, potrebbero essere non utili al partito (corsivo nell’originale). Per questo io credo che sia necessario che questo materiale rimanga nel nostro archivio per essere qui elaborato” (Togliatti editore di Gramsci, p. 25). Cosa poteva già da allora preoccupare Togliatti, se non che venisse reso pubblico un pensiero di Gramsci ormai del tutto divergente dal suo e dall’indirizzo da lui impresso alla linea politica del partito? Del resto lo stesso Gramsci, a testimonianza della diffidenza che nutriva verso Togliatti, aveva paventato il pericolo di manomissioni ai suoi scritti, quando, ormai morente, aveva pregato sua cognata d’impedire che essi finissero nelle mani di Togliatti. Per spiegare dinamiche così gravi, Di Meo si rifugia in termini anodini, che dal punto di vista storiografico non vogliono dire nulla, come “riservatezza”, “prudenze, reticenze, rimozioni”. Infine, mi stupisce che Di Meo mi accusi di aver manifestato nei riguardi del povero Togliatti diffidenza e sospettosità preconcetta. Credo che abbia sbagliato indirizzo, e che quei rimproveri avrebbe dovuto muoverli a Gramsci, perché è Gramsci in persona, come è ormai arcinoto e documentato, che accusa Togliatti, manifestando nei suoi confronti tutta la sua diffidenza e sospettosità. Ma Di Meo si guarda bene dallo sfiorare questo argomento, perché le accuse di Gramsci indirizzate a Togliatti continuano a rappresentare per i sopravvissuti ‘togliattiani’ una questione assai imbarazzante. Mauro Canali»
Mauro Canali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Mauro Canali (Roma, 1942) è uno storico italiano. Canali è stato professore ordinario di Storia contemporanea all'Università di Camerino. È considerato fra i più importanti storici del periodo inerente alla crisi dello stato liberale e l'avvento del fascismo. Si è interessato anche della struttura totalitaria del regime mussoliniano e dei suoi meccanismi informativi e repressivi. È stato allievo di Renzo De Felice, ha collaborato al Journal of Modern Italian Studies e alle pagine culturali dei quotidiani la Repubblica e Liberal. Ha tenuto conferenze e lezioni in università europee e americane, quali University of Copenaghen, Göteborgs universitet, Universitat de Barcelona, Harvard University, Brown University e University of Massachusetts. Da ottobre a dicembre 2006 è stato visiting scholar alla Harvard University.Ha collaborato a La Storia siamo noi a cura di Giovanni Minoli. Fa parte del comitato scientifico di Rai Storia, il canale digitale terrestre della Rai interamente dedicato alla storia. Per tale canale è consulente storico di Res Gestae - persone, ricorrenze, eventi - un almanacco, accompagnato da un editoriale finale - dal titolo "Cento secondi" - di commento e analisi sul fatto del giorno più significativo, nonché del magazine storico Italia in 4D (2012). Il suo libro, L'informatore. Silone i comunisti e la polizia, (coautore Dario Biocca), in cui vengono rivelati i rapporti fiduciari che il grande scrittore abruzzese intrattenne con la polizia politica fascista per tutti gli anni venti, ha suscitato un grande dibattito tra gli storici sia in Italia che all'estero, ripreso a lungo anche dalla stampa internazionale specializzata (The New Yorker, The Nation, New Left Review). Nel 1998 gli è stato attribuito il Premio Walter Tobagi per l'opera Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini. Gli è stato conferito il Premio Bruno Buozzi 2005 con la seguente motivazione: « .....per aver contribuito con il suo libro "Le spie del regime" a far emergere con maggiore chiarezza uno degli aspetti più inquietanti ed oscuri del ventennio fascista. Il libro poggia su una ricerca appassionata ed accurata, basata su una documentazione attendibile e spesso inedita, capace di favorire la riapertura di un dibattito sulla verità storica di un fenomeno sottovalutato...... ». Nel 2010 l'ANPI lo ha insignito del Premio Renato Benedetto Fabrizi. Il suo libro Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata ha vinto il Premio Internazionale Capalbio 2014, ed è entrato tra i cinque finalisti del Premio Acqui Storia del 2014. È consulente storico e voce narrante del documentario TV "L'intellettuale e la spia", prescelto a rappresentare Rai Storia al Prix Italia 2013. Il documentario, che racconta l'arresto dei leader torinesi di Giustizia e Libertà (Vittorio Foa, Carlo Levi, Massimo Mila ed altri), provocato dalla delazione dello scrittore Pitigrilli, al secolo Dino Segre, spia dell'Ovra, è stato proiettato a Torino il 22 settembre p.v. nell'aula magna del liceo Massimo d'Azeglio. Fa parte del comitato scientifico che ha contribuito a realizzare il programma televisivo di Rai3 Il tempo e la storia.
Altro esempio di uomo tradito.
Primo Levi, se questo è un grande scrittore. Il suo capolavoro rifiutato perché lontano dal neorealismo. Il valore letterario offuscato dal ruolo di testimone di Auschwitz. Un saggio di Belpoliti restituisce a un maestro del Novecento la sua vera statura, scrive Wlodek Goldkorn su “L’Espresso”. "Primo Levi di fronte e di profilo” è un testo lungo oltre settecentotrenta pagine, scritto da Marco Belpoliti, curatore delle opere dello scrittore torinese, che Guanda sta mandando in libreria in questi giorni. Detto così, si pone una domanda brutale: cosa si può aggiungere al profilo appunto, di un autore diventato ormai un classico del secolo scorso e studiato nei licei di mezzo Occidente, oggetto di convegni e seminari universitari e di una gran quantità di dotti saggi critici? La risposta è altrettanto brutale; Belpoliti (per altro firma di questo settimanale) ha liberato Levi da Auschwitz. Spiegazione: l’autore di “Se questo è un uomo”, per decenni è stato considerato un importante testimone; e una sorta di pedagogo della dignità umana. Con il suo ultimo libro, viene da dire definitivo in tutti i sensi della parola, “I sommersi e i salvati”, si è accennato alla possibilità che Levi fosse anche un saggista di primissimo ordine, con delle belle intuizioni di stampo filosofico. Ma il suicidio, avvenuto poco dopo la pubblicazione di quel testo, ha permesso di liquidarlo un po’ sbrigativamente come il testamento di un ex deportato depresso per il peso della memoria e scoraggiato dall’avanzare dei negazionisti. Tra quei due libri, ce ne furono altri: romanzi, poesie, racconti, che furono però trattati come svaghi di un’autorità morale, il cui compito era vegliare sulle nostre coscienze e ricordarci gli orrori del nazismo. Ebbene, Belpoliti usa le oltre settecentotrenta pagine e il suo bagaglio pluridecennale di studioso di letteratura per dire una cosa semplice: Levi prima di tutto è stato un grande scrittore; uno dei più grandi del secolo scorso, non solo tra gli italiani, ma in assoluto. L’autore parte dalla cucina, anzi dal laboratorio dell’oggetto della sua indagine. E rimette in questione anche le troppo comode verità sulle ragioni per cui “Se questo è un uomo” fu rifiutato, negli anni Quaranta, da Einaudi, che lo pubblicò solo nel 1958. Ma procediamo con ordine. Il libro di Belpoliti è composto da fotografie (dieci), testi analitici, vocabolari, intermezzi, citazioni e tante divagazioni che sollecitano la collaborazione del lettore. Si tratta di un testo che può essere letto a vari livelli, con diversi scopi; lasciando a chi ne usufruisce un’ampia libertà di scegliere la sequenza dei capitoli e degli argomenti. In parole povere: “Primo Levi di fronte e di profilo” (il titolo si riferisce alla tecnica fotografica) è una specie di enciclopedia, probabilmente un testo definitivo sullo scrittore. E questo non solo per la qualità delle suggestioni, quanto per la massa del materiale accumulato: dalle opere dell’autore, alle interviste, alle recensioni e agli scambi epistolari. E non manca la confessione di Belpoliti sulle ragioni del suo interesse per Levi: le lasciamo al lettore, ma si può dire che quelle ragioni sono ancorate nella storia della cultura italiana, specie di sinistra, comprese le sue omissioni. Belpoliti dunque parte, in ordine cronologico, da “Se questo è un uomo”, il libro più celebre di Levi. Ne parla a lungo e in apparenza anche troppo dettagliatamente. Ma i dettagli si compongono in una totalità affascinante, come succede con certi puzzle. Mettendo a confronto le varie versioni di quel testo (e ce ne sono tante: tra lettere private, testimonianze rese in diverse occasioni, correzioni dei manoscritti), Belpoliti spiega il metodo Levi. Ne risulta una cosa non del tutto scontata: Levi, prima ancora di essere diventato uno scrittore, usava le tecniche di ogni grande letterato: componeva i suoi testi a pezzettini, li cambiava in continuazione, alla perenne ricerca della parola esatta; e non era mai soddisfatto della precisione di certe espressioni o di alcuni aggettivi. Insomma Levi, testimone dell’orrore e chimico di mestiere, usava la penna allo stesso modo in cui la adopera un Philip Roth o un Paul Auster, da scrittore provetto. Anche se non era conscio (a differenza di un Roth o di un Auster) della propria grandezza. “Se questo è un uomo”, notoriamente fu respinto da Einaudi e venne pubblicato nel 1947 da De Silva, piccola casa editrice diretta da Franco Antonicelli. Nella presentazione del volume, si parlava di una «storia non di letterati», insomma, di una testimonianza. E la vulgata, per altro per certi versi avvalorata dallo stesso Levi (a riprova di quanto tutti noi siamo influenzati dal linguaggio al momento egemone) voleva riportare il rifiuto einaudiano, con la complicità di Natalia Ginzburg, all’indisponibilità in quegli anni di ascoltare i testimoni appunto. La gente pensava a costruire il futuro, non a rinvangare il passato, si diceva. Belpoliti non accetta questa versione della storia delle patrie lettere. E suggerisce che il rifiuto dello stupendo - proprio dal punto di vista stilistico - libro di Levi, fosse dovuto a motivi stilistici, appunto. E qui sono fondamentali i riferimenti linguistici e letterari. Levi, dice Belpoliti, deve tutto a Manzoni ed è in forte debito con Leopardi e Dante, questo ultimo non solo in quanto autore del “Canto di Ulisse” che gli permette di sopravvivere spiritualmente nel Lager, ma proprio come fondatore della lingua italiana. Levi usa un linguaggio classico, estremamente ben strutturato e dove nonostante la materia autobiografica, è evidente la distanza tra l’autore e il testo. O se vogliamo, il modo di scrivere di Levi, non si addice al canone in voga nella seconda metà degli anni Quaranta, perché lontano sia dal neorealismo che da sperimentazioni di stampo modernista. “Se questo è un uomo” è lontanissimo dall’idea che della letteratura avevano allora i principi della Repubblica delle lettere del nostro Paese. E per il resto? Per il resto Levi è un uomo ibrido e poliedrico: scrittore e chimico, linguista, etologo e antropologo; narratore orale, scrittore politico, scrittore ebraico, italiano, piemontese; e poeta. Nessuna di quelle sue molteplici identità è lineare e univoca, dice Belpoliti, che si sofferma molto sul lato ebraico di Levi; il suo era un ebraismo laico, illuminista, critico nei confronti delle politiche dei governi dello Stato d’Israele e contrario alla sacralizzazione della Shoah, alla trasformazione della memoria in un rito. Tra le debolezze di Levi, c’è la vicenda della mancata pubblicazione di “Se questo è un uomo” nell’allora Ddr. La retorica di quel libro era lontana dal canone di narrazione comunista. Levi avrebbe acconsentito a fare qualche taglio pur di vedere quel libro arrivare nelle mani dei lettori tedeschi dell’est (lui ai lettori tedeschi ci teneva, e giustamente). Poi non se ne fece nulla. E tra le sue mancate intuizioni: la scarsa comprensione dei libri degli autori russi sul Gulag, incomprensione dovuta non a motivi ideologici, ma perché quei libri erano lontani dal mondo illuministico e razionalista di Levi. Rimane un uomo geniale, che ha avuto molte intuizioni sulla banalità del male e sulla facilità con cui ci arrendiamo alle tentazioni del potere, che vanno, secondo Belpoliti, perfino oltre le più radicali analisi di Hannah Arendt. E resta per le generazioni future il meraviglioso autore di stupendi libri, in cui non manca mai l’ironia, il senso dell’umorismo (altro che vena moralista!). Libri che parlano del lavoro, dell’amore, del desiderio: della vita di ciascuno di noi.
La casa in corso Re Umberto a Torino. La scrittura dopo il ritorno da lager. E il suicidio, nel 1987. Ecco le tappe fondamentali della vita del grande scrittore torinese, scrive “L’Espresso. Primo Levi nasce il 31 luglio 1919 a Torino; per tutta la vita abiterà nella stessa casa in corso Re Umberto 75, e questa stabilità lo aiuterà, dopo il ritorno da Auschwitz a far fronte all’esperienza del Lager. Il padre di Primo, Cesare, è ebreo non praticante e ha una passione per i libri, che trasmetterà al figlio. Nel 1934 Levi comincia a frequentare il liceo Massimo D’Azeglio, fucina di intellettuali oppositori del fascismo. Nel 1937 sostiene l’esame di maturità ma viene rimandato in italiano. Si iscrive alla Facoltà di scienze dell’Università di Torino, nel 1941 si laurea in chimica (le leggi razziste del 1938 permettono di terminare gli studi a coloro che nel momento della loro emanazione erano iscritti all’Università). Nel 1942 si trasferisce a Milano e trova lavoro presso una fabbrica svizzera di medicinali, la Wander. Dopo l’8 settembre 1943 entra a far parte di una banda partigiana in Val d’Aosta; arrestato dai fascisti, trasferito al campo di Fossoli, il 22 febbraio 1944 è deportato ad Auschwitz. Tornato in Italia dopo la liberazione del Lager comincia a lavorare come chimico e inizia a scrivere i suoi testi letterari, a partire da “Se questo è un uomo”, pubblicato da De Silva nel 1947, l’anno in cui sposa Lucia Morpurgo. Nel 1958 il libro viene pubblicato da Einaudi. Nel 1963 esce “La tregua”, storia del suo ritorno in Italia. Il libro arriva terzo al premio Strega, ma vince il Campiello della giuria popolare. Nel 1966, raccoglie i racconti apparsi su riviste e giornali in “Storie naturali” e le pubblica con lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Nel 1971 raccoglie una seconda serie di racconti in “Vizio di forma”. Nel 1975 decide di andare in pensione, lasciando la Siva, fabbrica di vernici di cui è direttore generale da diversi anni. Sempre nel 1975 pubblica “Il sistema periodico” e la raccolta delle poesie “L’osteria di Brema”. Nel 1978 è la volta di “La chiave a stella”. Nel 1981 dà alle stampe “Lilit e altri racconti”, nel 1982 “Se non ora, quando?”, nel 1985 “L’altrui mestiere”. È del 1986, “I sommersi e i salvati”. L’11 aprile 1987 Primo Levi muore suicida precipitando nella tromba delle scale del palazzo in cui abita.
GLI ANTIFASCISTI MILITANTI? SONO FASCISTI.
Gli antifascisti militanti? Sono fascisti. Secondo Del Noce entrambe le posizioni erano figlie della filosofia di Gentile. E ne auspicò il superamento, scrive Francesco Perfetti su “Il Giornale”. Quando venne chiamato nel 1970 a insegnare all'Università di Roma storia delle dottrine politiche, prima, e filosofia della politica, poi, Augusto Del Noce, che aveva appena compiuto sessant'anni, era già considerato uno del maggiori filosofi cattolici del Novecento. Alcuni lavori - in particolare Il problema dell'ateismo (1964) e Riforma cattolica e filosofia moderna (1965) - erano diventati classici per il loro carattere innovativo e per l'attenzione al problema della modernità oltre che per le suggestioni che fornivano ai fini di un discorso interpretativo in chiave filosofico-culturale della storia moderna e contemporanea. Proprio in quell'anno, il 1970, Del Noce pubblicò un libro, L'epoca della secolarizzazione, ora riproposto dall'editore Nino Aragno (pagg. XII-356, euro 20), che raccoglieva alcuni saggi scritti negli anni immediatamente precedenti. Era ancora viva l'eco della contestazione studentesca e della generale ubriacatura per le tesi di Herbert Marcuse sull'«uomo a una dimensione» e per le vaneggianti utopie politico-sociali degli epigoni della cosiddetta «scuola di Francoforte». Quella contestazione era diretta, soprattutto, al di là dei suoi aspetti eversivi, contro la società tecnocratica e consumistica. Ma aveva una vocazione rivoluzionaria che si manifestava nella proposta di un mondo perfetto, tutto terreno, privo di limiti morali, fondato sul rifiuto del principio d'autorità, sull'esaltazione dell'erotismo, sull'ateismo. Già da tempo Del Noce, riflettendo sugli avvenimenti e sul costume di quegli anni, era giunto alla conclusione che, dietro le manifestazioni di contestazione della civiltà tecnocratica e consumistica che tendeva a «disumanizzare» l'individuo, ci fossero una profonda crisi di religiosità e l'abbandono dei cosiddetti «valori tradizionali». Il nuovo volume, appunto L'epoca della secolarizzazione, sistematizzava le sue riflessioni in argomento e dava loro una forma organica che si traduceva in una suggestiva visione generale della storia contemporanea intesa come «storia filosofica», cioè come storia caratterizzata dal fatto che, dall'epoca della rivoluzione russa, una filosofia, il marxismo, si era incarnata in istituzioni politiche e aveva finito per condizionare tutti gli avvenimenti. Da quel momento, infatti, ci si era dovuti confrontare, per aderirvi o per combatterlo, con il marxismo giunto al potere e la storia era diventata così «storia filosofica». Ma non basta: essendo il marxismo, intrinsecamente, ateismo ne conseguiva che tutta l'età contemporanea, quella successiva al 1917, poteva ben essere qualificata come «epoca della secolarizzazione» caratterizzata dall'espansione dell'ateismo e dai tentativi, spesso destinati a fallire, di resistere a questa deriva. All'interno di questa «epoca della secolarizzazione» si potevano individuare due periodi definiti, rispettivamente, «sacrale» e «profano»: il primo, quello delle grandi religioni secolari (comunismo, fascismo, nazionalsocialismo), il secondo quello della cosiddetta «società opulenta» dalla quale, e contro la quale, era scaturita la contestazione. È intuitiva la forza dirompente di questa interpretazione della storia contemporanea. Basti pensare al fatto che essa metteva in crisi tutti i discorsi storiografici che parlavano di una «epoca del fascismo»: essendo infatti - al pari del comunismo e del nazionalsocialismo - soltanto un «momento» dell'«epoca della secolarizzazione», il fascismo non poteva dare il proprio nome a un intero periodo storico, tanto più che le tre «religioni secolari» avevano, ognuna, proprie caratteristiche evidenziabili solo in relazione al marxismo. Per quanto, al momento della pubblicazione del volume di Del Noce, fossero già apparsi i primi tomi della grande biografia mussoliniana di Renzo De Felice destinata a rinnovare sul terreno metodologico gli studi storici liberandoli dalle passioni politiche e dai condizionamenti ideologici, era ancora largamente diffusa l'interpretazione apocalittico-demonologica del fascismo. Contro di essa, e contro la conseguente elevazione a mito della Resistenza, le tesi apparentemente provocatorie di Del Noce rappresentarono un momento di svolta e segnarono l'inizio di una riflessione profonda, di natura filosofico-culturale, su tutte le vicende della storia contemporanea. Nel suo volume del 1970, che resta ancora oggi un testo fondamentale per la comprensione dell'età contemporanea, sono contenuti, sia pure in germe, gli argomenti che Del Noce, in seguito, avrebbe sviluppato e precisato in molti altri lavori contro il «progressismo laico», sotto specie di «neoilluminismo», e contro il «progressismo religioso», sotto specie di «neomodernismo». Ma, in particolare, sono presenti le premesse della sua interpretazione del fascismo e dell'antifascismo quale si sarebbe sviluppata dalla riflessione suggeritagli dalla lettura del breve ma intenso saggio di Giacomo Noventa intitolato Tre parole sulla Resistenza (Castelvecchi). Personalità in penombra nel mondo intellettuale del tempo, Noventa era l'eretico della Torino degli anni Venti e Trenta, la Torino di Piero Gobetti e di Giacomo Debenedetti, di Mario Soldati e di Carlo Levi. Aveva sostenuto che il fascismo era stato un «errore della cultura» e non già un «errore contro la cultura» secondo le tesi della «scuola torinese» da Gobetti a Bobbio, per la quale l'essenza del fascismo era l'anticultura o, se si preferisce, la rivolta contro la cultura. Del Noce, anch'egli un eretico - ma della Torino anni Trenta e Quaranta, la Torino di Leone Ginzburg e di Ludovico Geymonat, di Norberto Bobbio e di Cesare Pavese - avrebbe precisato e sviluppato questa intuizione sottolineando la comune sostanza filosofica del fascismo e dell'antifascismo: l'attualismo di Giovanni Gentile cui attingevano sia il rivoluzionarismo di Mussolini sia l'intransigentismo morale di Gobetti. E sarebbe giunto a parlare della continuità del fascismo nell'antifascismo e ad auspicare il superamento e l'abbandono della contrapposizione fascismo-antifascismo. Un auspicio ancora valido.
SVEGLIATI ITALIA E LAVORA CON IL TURISMO.
Svegliati Italia e ricomincia ad attrarre turisti. Il nostro Paese era al vertice delle classifiche una decina di anni ma poi è stato scavalcato. E mentre gli altri lavorano per fare avere al turista la consapevolezza di ciò che vede, noi siamo rimasti fermi, scrive Cesare De Seta su “L’Espresso”. La Guida Blu, scrisse Roland Barthes in “Miti d’oggi” (1957), è riuscita a banalizzare persino l’Acropoli di Atene; gli fece eco Hans Magnus Enzensberger che, in “Una teoria del turismo” (1962) da una posizione radicale, sostenne che «la fiumana turistica è una sola grande corrente di fuga dalla realtà che la società sfrutta per riorganizzarci». È trascorso oltre mezzo secolo da quando scrissero questi eminenti scrittori, ma la distanza che li separa dal turismo di oggi è siderale. Nel 1845 Thomas Cook fondò l’agenzia di viaggi che nel giro di tre decenni conquistò l’Europa: nacque così l’industria del turismo fondata sullo standard, il montaggio e la produzione in serie ed essa fu il più vistoso sintomo della prosperità di una parte sempre più ampia della popolazione mondiale. La vacanza per fuggire il mondo delle merci, dell’industria, dell’urbanesimo è diventata essa stessa una merce in esponenziale crescita. La Francia è stato il primo paese a capirlo e dal 2013, con 83 milioni di turisti l’anno, precede Stati Uniti, Spagna, Cina e Italia. Eravamo all’apice di questa classifica solo una decina d’anni fa: responsabilità solo dell’Italia che dispone di bellezze naturali, città, musei, aree archeologiche non solo altamente competitive ma uniche al mondo. Risorse che avremmo il dovere di saper “vendere” in modo assai più saggio di quanto accada. Soprattutto in una congiuntura storica assolutamente propizia per il turismo mondiale. Già, perché è entrata sulla scena del turismo globale la Cina: un’accelerazione impressionante perché dal Grande Oriente nel 2014 sono partiti 120 milioni di cinesi e studi del “World & Travel Tourism Counicil” prevedono che entro quattro anni saranno 200 milioni. L’ha confermato l’inglese David Scowsill, presidente dell’associazione, ed Asia e Cina guideranno questa migrazione biblica. Le ragioni di questa crescita incontenibile sono il basso prezzo del petrolio, il conseguente ribasso dei costi aerei, e un sempre più diffuso benessere dei paesi dell’Asia e della Cina. Le stime dell’Organizzazione mondiale del Turismo associano l’impetuosa impennata anche a internet che rende tanto più semplice organizzare una vacanza: nel 1950 i turisti erano 22 milioni, oggi sono 1.130 milioni. Un’impennata i cui effetti economici sono stupefacenti, perché quello che si chiama “indotto” è esploso ovunque: nuove linee aeree, nuovi alberghi, servizi, sviluppo dei commerci. Nel 1999 fu redatto il “Global Code for Ethics in Tourism” che detta linee guida per dar senso culturale e di confronto internazionale a questo tsunami del nostro tempo. Grazie a questa benefica onda le isole Maldive e Capoverde - per citare Taleb Rifai, giordano che dirige l’“Organizzazione mondiale del Turismo”, con sede a Madrid - sono uscite dall’area del sottosviluppo. Le grandi sventure che hanno colpito tanti paesi (oggi il Nepal), e persino l’11 settembre di New York - che paralizzò per circa dieci anni il turismo in Usa - sono eventi dimenticati. Rimane il fatto che tutti gli indici statistici volgono all’ottimismo. «È la più grande industria “invisibile” che c’è al mondo», ha scritto Elisabeth Becker, giornalista, del “New York Times”, nel libro “Overbooked: The Exploding Business of Travel and Tourism” (2013) che la nostra editoria (bulimica traduttrice di testi spesso inservibili) ha ignorato: come diceva Moretti, «facciamoci del male…». Dal volume si traggono non solo preziosi dati, ma una serie d’indicazioni perché questa marea montante del turismo si trasformi in un’opportunità, per rendere più vicini quelli che si conoscono e avvicinare quelli che sono lontani tra loro per motivi razziali, religiosi, economici e politici. Per tale motivo l’autrice americana giudica - in senso generale - del tutto sottovaluto l’effetto Business in buona parte del mondo. Miss Becker ha perfettamente ragione, e ha parole dure sulla pratica corrente del giornalismo americano che nasconde o adombra eventi spaventosi che mortificano la dignità di ogni uomo. Il pellegrinaggio alla Mecca è la più grande concentrazione di uomini al mondo che si replica ogni anno e ogni musulmano desidera per tutta la vita raggiungere questa meta. Così come sin dall’alto medioevo i pellegrini cristiani aspiravano a giungere a Gerusalemme e i “romei” a san Pietro. Queste masse sterminate oggi non hanno certo le intenzionalità millenaristiche di cristiani e musulmani che ci ha narrato in pagine bellissime Franco Cardini. Ma non tutti e non da ora sono oggi volti alla Cathedra Petri o a Maometto. Almeno fin dal Seicento si viaggiava per l’Europa per ragione del sesso. Amsterdam, Parigi, Venezia, Roma, Napoli le mete più ambite. Ian Littlewood, uno studioso inglese anticonformista, preceduto dal suo connazionale Hellis Havelock (1906), ha scritto un libro, “Climi bollenti. Viaggi e sesso dai giorni del Grand Tour “ (2001), nel quale, partendo da James Boswell, giunge agli ultimi emuli di Paul Gauguin, ovverossia al turismo sessuale dei nostri giorni che dà titolo all’ultimo capitolo, “Il trionfo dei sensi”. Perché, non nascondiamolo per pruderie, in quei milioni che si muovono alla ricerca di Pompei o di templi Indù, per alcuni, soprattutto in Asia, la molla è costituita dal sesso, con prede disponibili per pochi dollari di ogni età e di ogni colore. Le organizzazioni che ho ricordato non forniscono dati al riguardo: ma, considerata la parola “Ethics”, dovrebbero estendere le indagini a questo tema scabroso. Se ci si accosta al nostro paese non c’è da stare allegri: siamo un popolo di “poeti, santi e navigatori”, ma ci sono argomenti che ci fanno arrossire come italiani. Nel 2014 i primi cento musei nel mondo hanno accolto 182 milioni di visitatori: il Louvre superstar con 9.260 milioni, batte di circa 3 milioni il British Museum di Londra che ne piazza ben otto nei primi dieci. I Musei Vaticani sono al 5 posto e sfiorano i 6 milioni di visitatori, gli Uffizi si accostano ai 2 milioni, poi l’Italia scende rovinosamente nella classifica dei top 100. Il turismo italiano è in calo e sembra incredibile. Perché questo accade lo sappiamo bene: gli italiani non hanno alcuna educazione storico-artistica perché possano accostarsi ai tesori che hanno sotto casa. Le annunciate riforme della scuola lasciano delusi se si guarda a questa “educazione civica” che dovrebbe cominciare dalla scuola primaria e concludersi nelle scuole superiori. In un mio libricino, “Perché la storia dell’arte” (Donzelli), ho provato a spiegare, temo inutilmente, cosa andrebbe fatto: dalla legge Gentile siamo stati i primi in Europa, e André Chastel ci prese a modello per il suo paese - gli impari eredi francesi continuano a pasticciare con conati di riforme che confondono l’insegnamento della storia dell’arte con l’educazione alle arti plastiche! Il turismo internazionale è in ebollizione, ma è evidente la disparità tra un’élite di turisti mediamente colti e il turismo di massa: una forbice che si è allargata. Treno, auto, charter, nave non sono un veicoli “neutri” e la durata del viaggio non è solo una scansione temporale. L’antropologo Lévi Strauss o la commessa della Standa hanno strumenti culturali diversi per leggere la foresta amazzonica, ma entrambi sono stati omologati dal charter e dal tempo impiegato per raggiungere quel luogo. La loro mentalità, il loro modo di percepire gli alberi o gli aborigeni sono simili: perché entrambi guardano la Tv. Il viaggio è stato per secoli un evento irripetibile nella vita di un uomo, un evento eroico a cui si dedicava una minuziosa preparazione che durava anni. Chi intraprendeva un viaggio lo faceva per formare la propria personalità, per educarsi alla scoperta dell’altro da sé. L’Europa e l’Italia hanno una grande occasione storica: lanciare una campagna di educazione a scala globale che dia sostanza culturale ai 1.130 milioni di viaggiatori che girano ogni anno per il mondo: costoro non debbono distruggere la barriera corallina, né rubare pietre al Colosseo, né ridurre la laguna di Venezia ad una oleosa e maleodorante sputacchiera. Molti paesi come Francia, Stati Uniti e Spagna da anni si stanno organizzando per trasformare il turista in un “cittadino temporaneo”, che abbia cioè consapevolezza del luogo che visita. Una strategia di lunga durata se vogliamo salvare il salvabile a cui l’Italia dovrebbe attrezzarsi.
Se il convento si trasforma in un museo. Nel nostro paese si contano 300 mila tra monasteri, chiese, santuari, seminari. Molti in disuso: troppi costi e poche vocazioni. Ma alcuni hanno una felice seconda vita, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Dove i frati pregavano in silenzio oggi corrono e gridano tre bambini. Sono i figli di Katia e Giacomo Petitti, la coppia che ha deciso di riportare in vita il convento di Cerro Maggiore, alle porte di Milano, grazie a un progetto di accoglienza. Dopo oltre 400 anni per l’edificio era arrivato il tempo di decidere: troppo costoso tenere in piedi 1.800 metri quadri di celle, refettorio e spazi comuni. Nonostante l’opposizione dei fedeli, un anno fa l’ultima messa. L’addio alle armi “spirituale” non è un caso isolato. Nella Penisola si contano 300 mila santuari, collegi, convitti, monasteri, chiese, parrocchie, istituti religiosi, seminari, ospizi e orfanotrofi. Non si conosce il numero preciso di quelli abbandonati o caduti in disuso. I motivi? La crisi delle vocazioni e l’aumento dei costi di mantenimento di questo immenso patrimonio che spesso conta secoli dalla posa della prima pietra. Incapaci di sopravvivere come monumenti, inadeguati per le loro enormi dimensioni, spesso sono destinati a lenta agonia. Ma per alcuni il futuro non è segnato: vengono trasformati in appartamenti, spazi espositivi, auditorium, foresterie, eco hotel oppure comunità per famiglie che decidono di vivere insieme. Per dismettere occorre studiar bene il diritto canonico: dal 1983 è possibile destinare gli edifici sacri a “usi profani non indecorosi” ma manca una disciplina nel diritto comune e si naviga a vista per le nuove destinazioni, con i comuni come unici arbitri. Senza norme su misura, ecco casi di speculazione ed esempi virtuosi. È la strada seguita dai cappuccini lombardi per il loro ex convento di Cerro Maggiore: la sostanza dei conti ha sancito che i sei frati presenti erano troppo pochi. E allora? La “second life” si è innescata grazie alla voglia di Katia e Giacomo di “aprire” la loro famiglia. «Abbiamo visitato comunità per mesi: in questi luoghi chi ci abita sta bene, i bambini giocano, le famiglie si accolgono e aiutano a vicenda», racconta lui, 35 anni, da 15 nella onlus Mani Tese. Hanno scelto di seguire il loro sogno e scrivere un progetto su misura. Dopo il testa a testa con la parrocchia locale per l’affidamento i frati hanno scelto loro per il comodato d’uso. Con una raccomandazione scritta:«Il carisma del luogo va rispettato». Per far rivivere celle e chiostro si trasformano gli spazi in 7 appartamenti, 5 per i residenti 2 per gli ospiti. Qui con un investimento di 200 mila euro arriveranno donne bisognose di protezione, profughi da integrare, bambini in adozione o affidamento. Il modello è quello dell’associazione “Comunità e Famiglia”, con 35 esperienze-fotocopia dal Veneto alla Toscana. La maggior parte sono edifici di culto “convertiti” a comuni moderne. Spiega Elisabetta Sormani, presidente della onlus, anch’essa residente in comune da vent’anni:«L’idea è quella del vicinato solidale: famiglie aperte e accoglienza di chi ha bisogno. Si vive in case separate con spazi di condivisione aperti ai bisogni del luogo. Spesso con i frati e famiglie insieme». Gli accordi con i proprietari prevedono il comodato d’uso o l’affitto, prezzo ben al di sotto del valore di mercato. Per mantenersi, lo stipendio di ogni componente finisce in una cassa comunitaria cui si attinge per spese e progetti. Dall’obbedienza, povertà e castità dei francescani alla nuova parola d’ordine: condivisione. Quando due anni fa papa Francesco visitò i gesuiti del centro Astalli di Roma e disse che gli spazi vuoti non devono diventare alberghi perché sono «per la carne di Cristo che sono i rifugiati», le suore della scuola di San Giuseppe di Chambéry al Casaletto hanno gioito. Tra le mura del convento l’idea era già entrata e l’ospitalità diffusa è pratica consolidata: due o tre migranti (oggi dal Gambia) abitano in un locale accanto al convento dove si gestiscono in autonomia, hanno un lavoro e coltivano un piccolo orto. Anche alla casa Sant’Andrea al Quirinale hanno pensato di ospitare al proprio interno un rifugiato, che fa vita in comune con i padri gesuiti. Nel cuore della Capitale c’è poi la casa delle suore della Carità, dove hanno messo ai voti la possibilità di ristrutturare la foresteria e destinarla a donne in difficoltà. L’invito di Bergoglio è stato ascoltato in tutta Italia, trasformando in realtà l’accoglienza diffusa ai profughi. Uno sforzo di 23mila parrocchie, congregazioni, cooperative e associazioni di volontariato, che stride con le scelte dell’ordine dei frati minori: sempre a Roma, l’albergo “Il Cantico”, descritto come “paradiso di eleganza, calore e benessere” è stato pensato come affare immobiliare. Stanze da 188 euro a notte, ma l’acquisto di questo ex convento ha provocato un buco di svariati milioni e spinto il ministro generale dei frati, padre Michael Perry, a portare le carte alla magistratura italiana. Sotto accusa la trasformazione del “Cantico” in resort di lusso con una “ristrutturazione dubbia”. Eppure la “missione alberghiera” era a fin di bene: «Gli utili saranno devoluti ai nostri missionari e alla formazione di giovani dei paesi poveri». Carla Bartolozzi, docente di architettura al Politecnico di Torino, si occupa anche di recupero: «Il riutilizzo di edifici storici è ormai all’ordine del giorno: l’ex fabbrica si trasforma in centro congressi, la torre idrica in appartamenti. Ma quello delle chiese è un fenomeno diverso: nelle grosse città è stato l’uso turistico a riscuotere maggiore successo, altrove chiese e conventi diventato musei o centri culturali a tutto tondo». Gli investimenti sono nell’ordine di milioni di euro, spesso sono i comuni a farsene carico. È il caso della ex chiesa di San Vincenzo di Piacenza diventata l’auditorium dei Teatini grazie alla fondazione locale e risorse comunali e statali. Due anni di lavori, recupero di affreschi e opere in legno e la sagrestia è rinata come camerino, deposito strumenti e locale regia. Tra l’altare e il primo pilastro della navata centrale spunta il palcoscenico in legno con un’innovativa camera acustica trasparente che riflette l’energia sonora generata dall’orchestra: dall’Ave Maria di Schubert ai concerti di classica per 164 posti a sedere. Diverso destino per la Certosa di Avigliana, nel torinese, che il fondatore di Libera don Luigi Ciotti ha reso luogo di incontri, natura e preghiera con annessa casa per ferie, auditorium e centro di formazione: «Un luogo di sosta e pensiero, abitato dalla storia. Sosta per ritrovare energia, senso e direzione», spiegano i gestori. Con la stessa filosofia, ecco l’Eremito Hotelito de l’Alma in Umbria. In questo “monastero laico” le 14 camere non hanno collegamento internet né tv, l’illuminazione è garantita da candele, la grotta con la madonnina è diventata spazio per la meditazione. A Venezia molte chiese vengono riaperte solo per la Biennale, quando più di 400mila persone arrivano in Laguna. I chiostri si fanno padiglioni esterni per installazioni temporanee e permanenti. Quest’anno alla Chiesa di San Gallo l’artista newyorkese Patricia Cronin ha concepito sui tre altari in pietra un’opera fatta di abiti, “Shrine for Girls”, che ricorda gli ex voto. Alla Chiesa di Sant’Antonin, location del duo russo Recycle Group, “La Conversione” è un’installazione che racconta il culto delle nuove tecnologie, mentre sull’isola di San Giorgio Maggiore va in scena una conversazione tra opere dello scultore spagnolo Jaume Plensa.
Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: appesero Mussolini perché mancava la tv. Vi siete mai domandati perché nell’aprile 1945 il vertice del Pci decise di appendere a Piazzale Loreto i cadaveri di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e di qualche gerarca della Repubblica sociale? Con il trascorrere degli anni, ne sono passati ben settanta, gli storici e i politici hanno offerto molte spiegazioni di quella scelta barbara che qualche leader della Resistenza, come Ferruccio Parri, il numero uno del Partito d’Azione, definì come un esempio ributtante di «macelleria messicana». Ma tutte le ipotesi sono, o sembrano, aperte e spesso in contraddizione. Credo che esista un’unica certezza. La decisione venne presa da Luigi Longo e da Pietro Secchia, i comandanti delle Brigate Garibaldi nell’Italia da liberare. Dopo aver interpellato il leader del Partito comunista, Palmiro Togliatti, ancora fermo a Roma. Ma perché la presero? Gli storici propendono per un’ipotesi: era l’unico modo per dare sfogo alla rabbia di una parte dei milanesi che voleva vedere il Duce accoppato e appeso come una bestia da squartare. Uno spettacolo che serviva anche a spargere il terrore tra i fascisti repubblicani ancora in libertà. Tuttavia in questi giorni emerge un’altra spiegazione, assai bizzarra. La propone un giornalista che cerca di farsi strada nel terreno impervio della guerra civile. È Aldo Cazzullo che l’ha presentata nella propria rubrica su Sette, il periodico del Corriere della Sera. La sua tesi è la seguente. Nell’Italia del 1945 non c’era la televisione. Per far sapere che il Duce era morto, non esisteva altro modo che mostrarlo appeso ai rottami del distributore di Piazzale Loreto. Conosco bene Cazzullo. È un bravo giornalista, sempre attratto dalla storia contemporanea. Era accanto a me a Reggio Emilia nell’ottobre del 2006 quando venni aggredito da una squadra arrivata da Roma su mandato di Rifondazione comunista per impedire un dibattito su un mio libro revisionista. Il comportamento di Aldo fu esemplare. Invece di scappare dall’Hotel Astoria come fece qualcuno, se ne rimase lì tranquillo, aspettando che la buriana finisse. Subito dopo cominciammo a discutere. Adesso ha pubblicato con Rizzoli una storia della Resistenza. Il suo lavoro dovrebbe dimostrare che la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre. Allo stesso modo sappiamo che l’attore principale della nostra guerra civile fu il Pci, grazie alle bande Garibaldi, le più numerose, le meglio armate e le più combattive. È curioso che a ricordarlo sia proprio il sottoscritto, autore di un libro come Il sangue dei vinti. Quel lavoro rivelava la sanguinaria resa dei conti sui fascisti sconfitti. Attuata dopo il 25 aprile 1945 quasi sempre dai partigiani rossi. Il sangue dei vinti venne messo all’indice da tutta la pubblicistica di sinistra. Si disse persino che l’avevo scritto per ingraziarmi Silvio Berlusconi. In compenso il Cavaliere mi avrebbe fatto ottenere la direzione del Corriere della Sera! L’insieme delle vendette ebbe come spettatori entusiasti, e talvolta come esecutori, anche tanti italiani che per vent’anni erano stati fascisti e avevano applaudito i discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia. Ecco un’altra verità che non amiamo ricordare. Non piace neanche a Cazzullo. Lui arriva a definirla «la solita tiritera». Ma non è così. La grande folla accorsa a piazzale Loreto, per sputare sui cadaveri di Mussolini e della Petacci, nei venti mesi della guerra civile si era ben guardata dall’uscire di casa. Osservata con uno sguardo neutrale, la Resistenza fu una guerra condotta da un’esigua minoranza di italiani che si opposero a un’altra minoranza anch’essa esigua, quella dei fascisti decisi a combattere l’ultima battaglia di Mussolini. Questi potevano contare sul sostegno determinante dell’esercito tedesco. Mentre i partigiani avevano soltanto l’appoggio cauto degli angloamericani che risalivano la penisola con grande lentezza. Negli anni successivi al 1945, il Pci seppe sfruttare con accortezza il proprio predominio sul fronte antifascista. «La Resistenza è rossa» divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile. In due parole descrivevano una realtà. Certo, a resistere c’erano anche militari, sacerdoti, suore, internati in Germania, partigiani cattolici e monarchici. Ma la massa critica, diremmo oggi, era costituita dalle Garibaldi. Le bande del Pci erano le uniche ad avere una strategia a lungo termine: quella di iniziare un secondo tempo destinato alla conquista del potere. E fare dell’Italia un satellite di Mosca. I comunisti furono anche gli unici a giovarsi subito di una storiografia di parte. Basta ricordare Un popolo alla macchia, il libro firmato da Longo, ma scritto su commissione da un altro autore. E la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, corretto in più parti dallo stesso Longo. Insieme a questi interventi di marketing, ci fu la conquista dell’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, che vide l’espulsione dei cattolici e dei capi del Partito d’Azione, primo fra tutti Parri. Oggi, nell’anno di grazia 2015, si scopre che soltanto una minuscola pattuglia dei maturandi, appena il 2,5 per cento, sceglie il tema sulla Resistenza. Perché stupirsene? La crisi della memoria resistenziale è in atto da molto tempo, strozzata dalla retorica, da un’infinita serie di menzogne e dall’opportunismo cinico delle sinistre. Ed è diventata il sintomo più evidente della crisi culturale di quel mondo. Esiste un succedersi implacabile di stagioni politiche. Per prima c’è stata la fase staliniana. Poi quella togliattiana. Quindi la berlingueriana. Chi ha visto l’ultima puntata di Michele Santoro dalla piazza di Firenze, si è reso conto che Enrico Berlinguer viene ancora ritenuto un santo da venerare. Infine il caos legato alla dissoluzione dell’Unione sovietica ha prodotto la svolta di Achille Occhetto e la scomparsa formale del Pci. La mazzata decisiva è venuta nel 1992 da Tangentopoli. Una parte della sinistra, quella di Bettino Craxi, è morta. Mentre i resti del Partitone rosso si sono dispersi in tante piccole parrocchie. Adesso, nel giugno 2015, la crisi culturale è diventata identitaria. Racchiusa in una domanda: chi è di sinistra oggi in Italia? Certo, esiste il Partito democratico, ma è un’accozzaglia di politici, di programmi, di stili di vita e di idee, tutti avvolti in una nebbia che impedisce definizioni credibili. Secondo un intellettuale dem come Fabrizio Barca, autore di un’analisi che ha richiesto mesi di indagini, il Pd è anche un partito zeppo di robaccia criminale. Non mancano i militanti e i dirigenti onesti. Però l’insieme ricorda la folla di Piazzale Loreto che osserva con gli occhi sbarrati non il cadavere di un dittatore, bensì quello di una storia politica. Durata per decenni, ma oggi finita per sempre. Per ultimo ecco l’enigma di Matteo Renzi, il premier di un’Italia che, nel mondo globalizzato del Duemila, non sa più dove dirigersi. Il Chiacchierone di Palazzo Chigi è di sinistra, di destra, di centro o un renzista autoritario e clientelare? Per ritornare a Cazzullo che osserva Piazzale Loreto, oggi la televisione esiste. Ma è in grado soltanto di diffondere ansia, incertezze e non poca paura. Giampaolo Pansa.
"Questa vecchia Italia non è un Paese per giovani storici". L'autore di molti libri fuori dal coro lancia l'allarme: "Se non sei una firma nota, non pubblichi. E le Fondazioni pendono a sinistra", scrive Gianfranco de Turris su “Il Giornale”. La crisi generale si ripercuote in molte crisi particolari. Una di esse è la crisi dell'editoria che purtroppo non è una vuota e interessata lamentela ma una triste realtà, come dimostrano le statistiche che registrano un calo vertiginoso di lettori. Luciano Lucarini, che con la casa editrice Pagine ha al proprio attivo molte riviste di livello universitario, ha deciso di rilanciare una sua testata, Historica , che oggi con il nome di Nova Historica e la direzione di un comitato direttivo di cui è presidente il professor Giuseppe Parlato, è certamente qualcosa di appetibile nell'asfittico panorama delle riviste accademiche. Abbiamo posto alcune domande a Giuseppe Parlato, docente di Storia contemporanea alla Università degli Stati Internazionali di Roma di cui è stato rettore quando si chiamava Università S. Pio V, autore di saggi come La sinistra fascista (Il Mulino, 2000), Fascisti senza Mussolini (Il Mulino, 2006), Mezzo secolo di Fiume (Cantagalli, 2009) e Gli italiani che hanno fatto l'Italia (Eri-Rai, 2011).
Professor Parlato, da docente universitario in Storia contemporanea, come vede la condizione dello storico oggi?
«Per un certo verso, oggi è più facile fare lo studioso di storia, grazie alla tecnologia che ha abbreviato i tempi di lavoro; penso alla comodità, ad esempio, di avere gli atti parlamentari visibili on line da casa, mentre una volta occorreva andare in biblioteca. Per un altro verso, invece, è più difficile, perché la tecnologia riduce l'interpretazione libera, articolata e complessa a favore di quella semplificata e, al limite, banalizzata. In ogni caso, oggi è più facile l'adesione al politicamente corretto, che è l'interpretazione prevalente su internet».
Qual è oggi, secondo lei, il rapporto dei giovani con la storia?
«Si tratta di un rapporto, anche qui, ambiguo. Da un lato i giovani cercano la storia, non si accontentano delle vecchie interpretazioni. Dall'altro, invece, quelli che vorrebbero occuparsene trovano problemi inediti. Nelle università i fondi per la ricerca si sono ridotti e, in ogni caso, è privilegiata la cultura scientifica e tecnica, quella “utile” e spendibile, rispetto a quella umanistica. Le case editrici pubblicano libri ormai a spese degli autori, soprattutto se sono giovani e non ancora famosi. Le riviste scientifiche si sono ridotte di numero e quindi le possibilità di pubblicare sono più scarse. La situazione è ancora più difficile per quei giovani che non appartengono organicamente alla cultura politica della sinistra; infatti uno dei pochi aiuti rimasti alla ricerca è dato dalle Fondazioni culturali, che in maggioranza fanno riferimento alle tradizioni culturali della sinistra. Poche sono quelle di centro, mentre la destra latita, a causa del disinteresse che i suoi capi politici hanno tradizionalmente dimostrato verso la cultura».
Le riviste che trattano di contemporaneità oggi in Italia non sono molte...
«Credo che lo spazio ci sia per una rivista diversa dalle altre, come riteniamo possa essere Nova Historica . La principale differenza è quella della confluenza di tre profili scientifici, la storia politica contemporanea, quella economica e quella delle istituzioni politiche, rappresentata dalla presenza dei quattro direttori, Simona Colarizi, storia contemporanea alla Sapienza, Gaetano Sabatini, storia economica a Roma Tre, Francesco Bonini, storia delle istituzioni politiche alla Lumsa della quale è anche rettore».
Per concludere. È in discussione al Parlamento una cosiddetta «legge sul negazionismo» al grido (di comodo): ce lo chiede l'Europa. Molti studiosi di orientamenti assai diversi hanno sollevato perplessità, dubbi e addirittura allarmi. È veramente qualcosa di necessario e indispensabile? Ci sono pericoli concreti per la ricerca storica svincolata da condizionamenti?
«Il provvedimento ha avuto un iter complesso e faticoso. Prima in commissione sembrava che potesse essere approvato in pochi giorni: il politicamente corretto sembra trovare tutti d'accordo. Invece, proprio gli storici che sono stati ascoltati dai parlamentari hanno espresso - come già negli scorsi anni - perplessità forti e anche opposizioni alla natura del provvedimento, che condanna non soltanto la propaganda di negazionismo o “riduzionismo”, ma anche l'espressione di idee in merito, confezionando una verità ufficiale che offende le vittime che dovrebbero essere tutelate e che penalizza la libera ricerca storica. In aula il provvedimento ha subito diverse modifiche in senso positivo. Ma tali miglioramenti non sono stati sufficienti a fugare il dubbio che questo provvedimento, mentre condanna severamente il reato di propaganda di negazionismo o di “riduzionismo”, condizioni pesantemente la stessa ricerca storica, sancendo per legge una “verità” che non può essere oggetto di revisione. E, si sa, la storia o è revisione o non è».
Perché la mente degli islamici è diversa. Non siamo tutti uguali, non è uno scandalo. Ogni cultura per sua natura genera una nevrosi con meccanismi peculiari, scrive Karen Rubin su “Il Giornale”. Marwan Dwairy è uno psicologo palestinese. Ha scritto un manuale per terapeuti dal titolo Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani. Il libro trasmette un concetto di base dell'etnopsichiatria: i disturbi psicologici sono influenzati dalla cultura di appartenenza che produce nei gruppi etnici differenze psichiche profonde. La mente degli islamici è diversa da quella degli occidentali e per curarle servono terapie specifiche che ne tengano conto. Lo studioso pone l'accento sulla diversità tra i popoli, mentre noi, ipocritamente, l'abbiamo bandita dalle nostre riflessioni come se fosse in automatico discriminazione e mancanza di tolleranza per il diverso da sé. Non siamo tutti uguali, non è uno scandalo. Se parlare di scontro di civiltà incita il razzismo, non conoscere le differenze impedisce la mediazione e il rispetto reciproco, le uniche armi a disposizione contro l'ostilità. Ogni cultura per sua natura genera una nevrosi con meccanismi peculiari. In Occidente la cultura giudaico-cristiana e la secolarizzazione hanno favorito un processo d'individuazione per cui l'uomo, dotato di libero arbitrio, è padrone e unico responsabile della sua vita e delle sue azioni. Ogni persona ha una percezione di sé come diversa dall'altra, dall'ambiente e dalla collettività in cui è immersa. La cultura è interpretata e adattata in base ai bisogni e le aspettative personali. Un individualismo che pone l'accento sul valore morale dell'uomo e dei suoi obiettivi d'indipendenza e di autonomia. L'esatto contrario di quanto avviene nei paesi islamici in cui la cultura coincide con una religione pervasiva in cui gli individui non hanno valore in sé ma perché appartenenti a un corpo unico di fedeli che ha rinunciato alla libertà in cambio della tutela divina, che detta le regola per ogni comportamento. Il singolo s'identifica con la collettività che è sottomessa agli ordini degli imam, indiscutibili e immutabili perché discendono direttamente dalle parole del profeta. Entrambe le posizioni generano mali psicologici e sociali che sono sotto gli occhi di tutti. L'individualismo occidentale che doveva garantire uguale libertà e diritti civili per tutti gli uomini sembra aver perso il suo fascino. L'uomo è in balia di un narcisismo sfrenato che nega l'altro e impedisce relazioni solidaristiche tra gli individui. La corsa alla realizzazione personale lo fa sentire sempre più isolato e più solo, incapace di dare significato all'esistenza e alla morte. Vivere e combattere per un'ideologia religiosa, come avviene nell'islam radicale, fornisce una certezza granitica e una promessa di eterna felicità che per i fedeli vale la rinuncia della libertà. Nei paesi islamici la massa sposa un'ideologia in modo acritico smarrendo quel senso della realtà che può trasformare la religione in un delirio collettivo per cui diventa legittimo lapidare una donna accusata di adulterio o di apostasia. Al singolo, privato del suo sé e quindi di pensiero autonomo, è vietato contrapporsi a qualsiasi forma di barbarie che colpisca la sua persona o la sua famiglia. Prescindere dal pensiero individuale favorisce i fanatismi di massa che hanno generato in occidente il nazismo e lo stalinismo e che nell'islam sono il terreno di coltura per Hamas, Isis e Boko Haram. Dobbiamo ricordare che se è possibile e legittimo realizzare i nostri desideri di crescita personale è perché abbiamo combattuto per fondare la nostra struttura sociale su ideali di libertà e uguaglianza basati sulla ferma convinzione del valore morale che ogni uomo come essere unico e originale possiede. Recuperare questa ideologia, perseguire la via della civilizzazione, pretendere e garantire comprensione e rispetto difendendo il valore oggettivo che attribuiamo alla libertà è l'unico modo possibile per convivere pacificamente con chi, anche se diverso da noi, scelga di vivere nel nostro paese.
Don Chisciotte tra i bolscevichi, scrive Wlodek Goldkorn su "L'espresso". Comunismo come metafisica, viaggio iniziatico, ma anche come oggetto di indagine semantica e sperimentazione linguistica. C'è tutto questo, e molto di più, in "Cevengur", il travolgente romanzo di Andrej Platonov (traduzione e cura di Ornella Discacciati, Einaudi, pp. 501, euro 26). Platonov, classe 1899, era uno scrittore che aderì al bolscevismo. Ma quando nel 1929 tentò di pubblicare "Cevengur", subì l'anatema di Stalin. Il dittatore non solo ne proibì la pubblicazione, ma mandò nel Gulag il figlio quindicenne di Platonov, che tornò a casa alcuni anni dopo, per morire di tubercolosi. L'opera, in forma parziale, venne stampata per la prima volta in Occidente negli anni Settanta: in Italia per i tipi di Mondadori nella traduzione di Maria Olsufieva. Ai tempi della perestrojka, il romanzo fu pubblicato in versione integrale a Mosca, ed è questa la versione riproposta da Einaudi. Al centro della narrazione ci sono due uomini, che pensano di aderire al bolscevismo e che assomigliano a Don Chisciotte e Sancho Panza. Uno di loro ha per ideale (una specie di Dulcinea) Rosa Luxemburg e il cavallo lo chiama Forza Proletaria. Oltre a quei due, protagonista del racconto è una città, Cevengur, appunto, dove il comunismo è stato realizzato. Ma attenzione, un'altra protagonista del libro è la lingua russa, di cui Platonov era un maestro assoluto (parola di Josif Brodskij), qui resa bene dalla traduttrice. Infine, il vero testo non sta nella progressione del racconto, ma nelle divagazioni: su vita, morte, amore, lavoro e ozio. In altre parole, sulla condizione umana. Un romanzo imprescindibile per capire il Novecento.
Trama. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.
Autore. Andrej Platonov (1899-1951) è stato, insieme a Bulgakov, il maggiore scrittore russo dell'epoca staliniana. Anch'egli subí continue censure a cui si aggiunsero, a differenza di quanto capitò a Bulgakov, l'arresto e un periodo di confino. A parte alcune opere giovanili, i suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati dopo la morte e la riabilitazione, che ottenne in epoca krusceviana. La sua narrativa ha senz'altro un aspetto politico, di smascheramento della retorica del regime comunista, ma allo sgomento politico Platonov abbina «musicali passaggi e immagini di sgomento cosmico», come osservò Ripellino, che ne fanno un grande scrittore tout-court, slegato da ogni contingenza storica, un vero classico. Con il titolo Da un villaggio in memoria del futuro, Cevengur è stato pubblicato in Italia da Theoria, nel 1990, ed è esaurito da molti anni.
Note Editore. Nella nuova traduzione di Ornella Discacciati, torna in libreria il capolavoro di Platonov. Cevengur è una città immaginaria situata nelle steppe della Russia centrale. I suoi abitanti vogliono vivere seguendo i dettami e le regole di un comunismo integrale e puro, ma il risultato è una società bislacca, malriuscita e demenziale, destinata al disastro. Riflessione politica, meditazione sull'incapacità dell'uomo di conciliare desiderio e realtà, specchio paradossale di un sogno irrealizzabile, Cevengur è la cronaca irresistibile e acutissima di una catastrofe. Grazie a un grottesco capovolgimento di prospettiva, Platonov costruisce una vera e propria epica rovesciata della rivoluzione, rappresentando sapientemente un mondo in cui l'unico lavoro consentito è quello improduttivo. Scritto tra il 1926 e il 1929 – anno in cui fu bloccato dalla censura sovietica –, il romanzo racconta con spietata chiarezza i fallimenti del comunismo. Pubblicato postumo nel 1960, Cevengur è diventato un punto fermo nella letteratura dell'anti-utopia e ha definitivamente conquistato un posto d'onore tra i libri piú significativi del Novecento russo.
Il sogno del comunismo e il suo fallimento. Una cronaca «dall'interno», visionaria e dolorosa. Prefazione. Tra utopia, storia e catastrofe, la nuova edizione di un classico della letteratura russa del Novecento. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.
***
Frutto di inquietudini moderniste, Cevengur di Andrej Platonov rientra a pieno titolo in quel filone della letteratura russa nel quale la fede incondizionata nelle teorie non godeva di largo credito. A quelle visioni del mondo preconfezionate, sostenute con forza dall'intelligencija radicale, scrittori come Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj opposero, con pervicacia al limite dell'ostinazione, autentici capolavori. I più grandi romanzi dell'Ottocento russo sono, come è stato detto, «romanzi di idee nella misura in cui sono romanzi che lottano contro la supremazia delle idee»: si cimentano con la materia della realtà, con le scelte quotidiane del singolo, con l'imprevedibilità della vita e preferiscono instillare dubbi piuttosto che diffondere credo. Se in Cevengur il tessuto polifonico, la costruzione argomentativa, l'esposizione delle teorie coeve con una lucidità che già da sola ne smaschera la disumanità, rinviano ai grandi romanzi di Dostoevskij, come non ascrivere a Tolstoj, il «profeta della carne», l'assillo tutto platonoviano per la caducità del corpo umano e per le passioni carnali? Dalla prefazione di Ornella Discacciati.
Nella steppa dei soviet la discesa di Platonov al villaggio degli ultimi, scrive Montefoschi Domenica su "Il Corriere della Sera". Cevengur , il capolavoro di Andrej Platonov che oggi leggiamo nella splendida traduzione di Ornella Discacciati (Einaudi), fu scritto nella seconda metà degli anni Venti; ma in Russia venne pubblicato solo nel 1988. Comprensibilmente. Perché Platonov in questo sterminato libro corale davvero unico — un libro che alterna il passo lungo del racconto che vuole restituire la realtà in ogni suo dettaglio, a momenti lirici meravigliosi — non fa altro che raccontare, dal di dentro, da comunista che ci ha creduto (anche se la tessera del Partito la restituisce dopo un solo anno), la storia di una utopia fallita. Come poteva non essere odiato da Stalin? Non essere messo al bando? Infatti fu perseguitato; e morì in miseria. L’incipit di Cevengur è straziante. E contiene tutto. Siamo ancora in epoca zarista. Un pescatore che ha perso sua moglie, povero, ignorante e però curioso di sapere cosa c’è oltre la morte, affoga in un lago. Al funerale, suo figlio Sasha, un bambino, è davanti alla bara. Gli dicono di dire addio a suo padre perché per i secoli dei secoli non lo vedrà più. Lui si china, ma non sente l’odore di sudore, di pesce, di lago, che aveva la camicia di suo padre quando era vivo, perché gliene hanno messa un’altra. Allora si volta a guardare intorno. Vede degli estranei. Capisce che sarà solo per sempre. E, cominciando a piangere, si aggrappa ai lembi di quella camicia che non ha più nessun odore di vita, come se quella camicia potesse difenderlo. Sasha, dunque, è orfano. In un primo momento, è adottato da una numerosa famiglia, la famiglia Dvanov, che vive nella assoluta miseria e viene mandato in giro a elemosinare le croste di pane. Quindi fugge. Finché un vecchio del villaggio, un certo Zachar Pavlovic, pure lui solo, non lo rintraccia e lo prende con sé. Pavlovic è un personaggio che sarebbe piaciuto molto a Dickens. Il suo interesse è per gli oggetti: di qualsiasi materia. La sua capanna è piena di attrezzi con i quali è capace di riparare qualsiasi cosa. Ora, ha grande passione per i treni: quei vagoni neri stupendi, trainati dalle altere locomotive, che da così poco tempo solcano le immense distese della Russia, corrono sprizzando scintille sui binari, o procedono lentamente, e la notte fanno sentire il loro ululato. I treni — pensa Zachar, felice di poter lavorare ai treni — sono macchine impressionanti che celebrano la forza dell’uomo. Il cielo è un grande nodo ferroviario. Sasha Dvanov, invece, legge. E molto spesso contempla le stelle. Lo ritroviamo che ha 17 anni, il vuoto dentro e nessuna corazza sul cuore. Intanto è scoppiata la rivoluzione e c’è la guerra: dentro e fuori i confini. La morte è dietro a ogni scalpitare di zoccoli. Vengono istituiti i soviet, si compongono comitati esecutivi, si avviano ispezioni nei governatorati allo scopo di vedere in che modo vive la gente. E la gente è entusiasta, sgomenta, e come ebete in questo grande sommovimento che deve produrre l’uguaglianza, la felicità, la liberazione dallo sfruttamento. Però continua a morire di fame — brodo e buccia di patate — mentre passa il treno blindato dei Bianchi, e poi quello dei Rossi stipati di corpi ignari che non sanno dove vengono trasportati e perché, e si grattano i pidocchi nel sonno. I viandanti che attraversano i villaggi non sanno rispondere a chi domanda loro dove vanno, oppure dicono: dove capita, e disperdono la sofferenza nel cammino. I briganti tendono agguati. Il tifo uccide. I corpi bussano invano alle porte dell’anima. Il sapore della buona vodka, trasparente come l’aria di Dio o la lacrima di una donna, è un ricordo. Il pacifico odore della campagna: bruciaticcio di paglia e latte riscaldato, è inghiottito da quello della sporcizia e del sangue. E i treni vanno: «i trasporti sovietici sono i binari per la locomotiva della storia»; nelle comuni, alla luce di lampadine nude che ogni tanto si spengono, si svolgono discussioni estenuanti, al termine delle quali gli oratori mettono in guardia i bolscevichi perché devono sapere che la Russia sovietica è come una giovane betulla sulla quale da un momento all’altro può avventarsi la capra del capitalismo; le foreste sono abbattute per costruire le case e liberare il terreno per le semine; il bestiame è ammucchiato e diviso; le tenute dei nobili sono requisite; il pane e qualsiasi genere alimentare, piuttosto che essere accumulato, deve essere distrutto per il bene di tutti; l’esaltazione fa dire che i soviet sembra che esistano da sempre, fin dai tempi antichi e il cielo uniforme della Grande Russia è la loro copia esatta. Dov’è finito, nel frattempo, Sasha Dvanov? Ha amato Sonja, una ragazza pura come il pane fresco e come il mattino, ma per la rivoluzione ha rinunciato a questo amore; si è avventurato nelle regioni più lontane a verificare a che punto è la realizzazione del comunismo; ha condiviso con una quantità di personaggi il dubbio sulla reale esistenza di un qualcosa che non si sa mai bene fino in fondo cosa sia, eppure risponde a un bisogno di uguaglianza, di fratellanza, di movimento in avanti perché quella spinta a costruire un progetto universale, che tutti sentono, non si esaurisca; ha conosciuto uomini cattivi e buoni, innamorati (come un tale Kopenkin, che nella fodera del berretto ha cucito il ritratto di Rosa Luxemburg) e disperatamente infelici perché non sanno a chi abbracciarsi; quindi è approdato a Cevengur. Cevengur è un piccolo villaggio della steppa che, dopo esser stato attraversato dalla rivoluzione, adesso sembra dimenticato dal mondo. Lo abita un’esigua popolazione di miseri — superstiti di una tragedia, piuttosto che di un trionfo — simili a veri e propri fantasmi. Di giorno vagano oziando nelle strade che non riconoscono più perché le case sono state spostate, senza un motivo, e il paese ha cambiato la sua fisionomia; la notte, soprattutto durante le bufere invernali, dormono sul pavimento per essere più vicini alla terra e alla tomba. Certo, c’è un soviet anche a Cevengur, «il soviet della umanità sociale della regione liberata di Cevengur», ma i suoi abitanti continuamente si domandano: dov’è il socialismo? E Dvanov, che dopo anni ha rincontrato il fratellastro Prokofij, un tipo diverso da lui, assai meno spirituale, si arrovella, pensa che lì il comunismo, se davvero esiste, è da rifare da capo e forse, per sapere una volta per sempre qual è la verità, bisognerebbe scrivere al compagno Lenin al Cremlino. Siamo nel cuore del romanzo, a questo punto. La risposta che Dvanov vorrebbe avere da Lenin, i fantasmi di Cevengur la cercano e la trovano nel vuoto. Possono loro, dopo secoli di oppressione, sopravvivere in un vuoto che li opprime altrettanto crudelmente? O non devono suscitare in questo vuoto un nemico che, nell’odio, li faccia sentire di nuovo vivi? Il nemico sono i piccoli borghesi, niente altro che dei contadini, rimasti nel villaggio. La scena del loro massacro – costruita con una sapienza dei movimenti e delle emozioni che possiamo definire straordinaria – è terribile. Ma dopo, quando anche i piccoli borghesi sono stati cancellati dal mondo, a Cevengur ritorna il vuoto. E il vuoto universale è insostenibile: è come la «tristezza indifesa» che si respira nel cortile della casa del padre da cui è appena uscita la bara della madre e tutti piangono, e più di tutti piange un bambino che, allo steccato, accarezza le assi ruvide nel buio di un mondo spento. Così per avere ancora qualcuno da guardare in faccia, da Cevengur partono messaggeri nella steppa infinita a cercare i più poveri dei poveri: gli «ultimi». E loro arrivano: per essere fra le vittime del misterioso eccidio finale che rade al suolo Cevengur. Mentre Dvanov, che all’eccidio è sfuggito, torna sulla riva del lago in cui è annegato suo padre, ci entra dentro: lentamente, e va a cercarlo.
“Cevengur”, torna in libreria un classico russo, scrive Michele Lupo. C’è questo personaggio, Zachar Pavlovič , “il volto attento ed esausto fino allo sconforto di chi sa riparare e attrezzare ogni cosa, ma non attrezzarsi alla vita”. Poiché pare estraneo a qualsiasi consesso umano, alle parole come agli affetti, non stupisce che sia il solo a restare nel villaggio afflitto dalla siccità e abbandonato dai suoi abitanti. Ma senza le persone anche le cose potrebbero perdere d’importanza: aggiustare cosa? per chi? Costretto a cercare qualcosa di utile da fare, Zachar – che pure ha avuto una moglie un tempo, ma gli era parsa una cosa senza senso – la trova in una stazione ferroviaria. Osservare la camera di combustione della locomotiva sostituisce abbondantemente il piacere dubbio dell’avere amici. Se ne innamora, persino. Con il suo capo condivide l’idea che le macchine siano più apprezzabili della natura e delle persone – che non si sa mai. Il lettore non sa bene se sia più straniato lo sguardo sul mondo di Zachar o il mondo stesso che lo circonda, un semideserto della profonda steppa russa a un passo dalla rivoluzione del ’17 – villaggio desolato in cui è facile che appaiano umani liminari, come il gobbo, uno storpio infoiato che benedice la siccità, preludio alla fuga collettiva dei maschi e campo aperto per dare la caccia alle femmine residue. E straniante arriverà anche la rivoluzione. Zachar è ormai stanco, ha persino rinunciato alla solitudine, trova una compagna e adotta un ragazzino. Così lo perdiamo di vista quando comincia un’altra storia – vero snodo epocale del moderno. E con essa la turbinante vicenda del romanzo Cevengur, di Platonov, scrittore russo purtroppo poco noto dalle nostre parti. Il figlio adottivo di Zachar e altri curiosi personaggi si troveranno invischiati – volenti o no – in un passaggio drammatico della Storia con tutte le loro allucinate o meschine idiosincrasie. Inviati al fronte di una guerra civile di cui non sempre comprendono il senso, o raminghi contadini investiti da un ciclone di idee balzane, incontrano personaggi che quella rivoluzione incarnano chi da visionari chi da zelanti burocrati di partito. Se per Dvanov, il figlio di Zachar, il socialismo dovrebbe corrispondere al “tempo in cui l’acqua avrebbe zampillato sugli aridi e alti spartiacque”, il plenipotenziario del comitato rivoluzionario provinciale cambia il suo nome in quello di Fëdor Dostoevskij, ignorando certa incongruenza ideologica dell’omaggio ma mettendocela tutta per favorire la “felicità lavorativa quotidiana”, magari eliminando la notte per incrementare i raccolti (va da sé che le ragazze si innamorassero tutte di lui, nonostante fosse zoppo). Laddove altri trascorrono il tempo in adorazione del ritratto di Rosa Luxemburg e cercando un’altra versione del comunismo. Quando poi qualcuno annuncia che nella città di Cevengur esso è una realtà bell’e fatta, totale, in cui “vive l’uomo collettivo ed eccellente”, si apre uno scenario tutto da scoprire. Lì anche il bestiame verrà sottratto all’oppressione secolare dell’uomo, la natura trionfa e si manifesta una faccia inudita della rivoluzione: si attende il secondo avvento di dio e soprattutto, il lavoro è stato bandito. Si punta direttamente alla felicità senza farla troppo lunga. Chi vi arriva non sempre ne resta convinto: che fare a Cevengur? – Niente – gli si risponde – qui da noi vivrai una vita interiore”. Pensa a tutto il sole, “proletario universale”. I suoi abitanti non fanno che “riposarsi da secoli di oppressione”. Mangiano i crudi frutti della natura. Che li attenda una fine devastante o l’agognata palingenesi il lettore può immaginarlo da solo. Platonov (meglio: il suo romanzo) mantiene una felice ambiguità rispetto al tema. La satira colpisce gli slogan, il linguaggio stesso dei soloni di un certo assolutismo ideologico col suo carico di morte certa ma Cevengur adombra un sentimento tutt’altro che ostile per i poveri cristi bisognosi di un’utopia. Platonov comunista lo fu troppo a modo suo per piacere al regime e forse la difficoltà di etichettarlo non ha favorito la sua ricezione in Italia, paese in cui per decenni le preoccupazioni ideologiche hanno fatto gioco su quelle meramente estetiche (e/o esistenziali: Platonov sapeva bene che nella realtà vi è sempre un’eccedenza rispetto a qualsiasi teoria – e lo scriveva Adorno, non un epigono del pensiero debole). Il suo è un romanzo eroicomico, a tratti dilatato ma pieno di sorprese, di personaggi fantasiosi e viscerali, falotici in sé e poi investiti da eventi troppo più grandi di loro. Brodskij lo considera il maggior prosatore russo del ‘900 e fra i grandi scrittori tout court. Non saprei dire: che però Cevengur meriti fra un posto fra i classici del secolo passato è sicuro.
Il comunismo morto in culla nel "paradiso" dei proletari. "Cevengur" di Andrej Platonov. Dalla rivoluzione alla guerra civile. Un gruppo di spiantati nella Russia anni '20 alla ricerca dell'impossibile socialismo reale. E l'utopia diventa una tragica farsa, scrive Daniele Abbiati su “Il Giornale”. Il compagno redattore della «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», terminata la lettura del libro, lo depone sul tavolo. Sulle sue labbra appare un risolino, forse compiaciuto, forse ironico. Poi il compagno redattore stende la breve recensione, in cui fa riferimento a Don Chisciotte e a Sancho Panza. Peccato che la sua non fosse una semplice recensione. Era una recensione molto speciale , perché la «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», nella Russia degli anni Venti, si occupava di censurare qualunque cosa fosse destinata alla pubblicazione. Così quel libro intitolato Da un villaggio in memoria del futuro o Il villaggio della nuova vita finì in un cassetto. Ne uscirà, per i lettori dell'Unione Sovietica, sessant'anni dopo, nel 1988, sull'onda della perestrojka gorbacioviana. Dal suo punto di vista, il compagno redattore aveva ragione da vendere. Dopo una rivoluzione e la conseguente guerra civile, diffondere quella roba sarebbe stato come distribuire per tutto il Paese migliaia di mine in forma di copie. Il villaggio di cui scriveva l'ormai ex compagno Andrej Platonovic Klimentov (iscrittosi al Partito nel '20, già nel '21 aveva restituito la tessera), per la storia della letteratura Andrej Platonov, è infatti il luogo dove il comunismo muore in culla, dove la convivenza fra poche anime, più morte di quelle di Gogol', dopo la mattanza in piazza dei borghesi, rivela l'impossibilità antropologica del regime. Un'impossibilità non politica, a dispetto di Marx ed Engels, bensì psicologica, fisiologica, organica addirittura. Ogni uomo, sia il muzik sognatore o l'integerrimo soldato dell'Armata Rossa, il fabbro anarchicheggiante o il vecchio nostalgico, il bolscevico fedele alla linea o la mendicante con figlioletto malato, dice Platonov, è, appunto, un uomo o una donna: cioè un mondo a sé stante. E se le contingenze di una guerra mondiale, di una rivoluzione, di una guerra civile li portano a percorrere un tratto di strada insieme, non sarà obbligandoli alla fratellanza (universale, fra l'altro) che si farà il loro bene. Romanzo corale e rurale, Cevengur (questo il titolo con cui ora viene proposto da Einaudi per la prima volta in edizione integrale a cura di Ornella Discacciati, pagg. 501, euro 26) prende il nome proprio dall'immaginario paesello della steppa che nelle intenzioni di un manipolo di aspiranti compagni dovrebbe tramutarsi nel paradiso del proletariato. Un proletariato, peraltro, pressoché nullafacente, a partire da Cepurnyj, il boss locale, per proseguire con Kopënkin, comandante dei bolscevichi combattenti, e Aleksandr «Sasa» Dvanov. Sono loro il Sancho Panza e il Don Chisciotte intravisti dal compagno-redattore-recensore-censore dal quale siamo partiti. Da una parte il cinico uomo dell'apparato che s'intenerisce soltanto nel ricordo di Rosa Luxemburg, dall'altra il giovane disincantato orfano del padre pescatore suicida in un lago, poi adottato dal mite Prochor Abramovic e da sua moglie, quindi operaio delle ferrovie, studente del Politecnico e infine arruolato fra i presunti «buoni». La dimensione urbana è soltanto sfiorata, dall'affresco a tinte fosche e grottesche di Platonov, appena un cenno a Lenin che, nella reggia del Cremlino, pensa e scrive indefesso. Scelta ovviamente azzeccata, poiché l'anima russa resta abbarbicata alle monumentali stufe di campagna, scorre sulle rive dei fiumiciattoli, palpita nelle catapecchie polverose o ghiacciate. L' ouverture , affidata alle suggestioni paniche dell'artigiano Zachar Pavlovic, dà il tono a una narrazione in cui l'umanizzazione della natura è il contraltare alla disumanizzazione dei personaggi, attori di quella che Discacciati chiama, nella Prefazione, la «metautopia» dell'autore, «una riflessione originale sulla ricezione dell'utopia rivoluzionaria tra le masse, accompagnata da una personale concezione della storia che al meccanico susseguirsi di tappe giustificate dal progressivo avvicinamento alla liberazione rinfaccia il sacrificio delle sofferenze del singolo, svilite in nome di un radioso futuro». In una steppa simile al Far West di un'altra utopia, questa volta ruvidamente (e individualmente) meritocratica, nella micro società di Cevengur chiusa e resistente alle novità che pare una comunità di Amish, in dialoghi da teatro dell'assurdo alla Beckett dove il «signor Godot» è l'avvenire spersonalizzante del socialismo reale, Platonov allestisce una grande recita che ha per protagonisti soltanto comparse. Dicono che quando Stalin lesse il romanzo, a margine commentò con una sola parola: podonok , cioè «feccia», «miserabile». Era la condanna alla morte civile dello scrittore, il quale finì, dimenticato da tutti, a fare il portinaio dell'«Istituto di Letteratura Gor'kij», in attesa della morte fisica, avvenuta nel 1951, a 52 anni. Non gli era bastato (tutt'altro...) rivolgersi, per caldeggiarne la pubblicazione, proprio all'esimio collega Maksim Gor'kij. Ma il giudizio di Stalin era anche, letto a posteriori, la migliore delle recensioni.
PLATONOV COMUNISTA E VISIONARIO. Andrej Platonov non è soltanto uno scrittore russo, scrive Alfredo Giuliani su “La Repubblica”. E' in modo stupefacente uno scrittore sovietico, forse l' unico grande prosatore sovietico che illumina, si fa per dire, l'epoca del comunismo di guerra e della famosa Nuova Politica Economica. Ma allora, domanderà qualcuno giustamente, era uno scrittore di regime, un propagandista, un chierico della rivoluzione? Non era un autore di regime, tutt'altro. Fu perseguitato, gli si impedì di pubblicare, fu obbligato a umili lavori, e molti considerano un mezzo miracolo se finì di morte naturale (tubercolosi nel 1951) anziché in un lager o fucilato. Eppure, a modo suo, Platonov era un cantore epico della rivoluzione. Di estrazione operaia (chi dice che il padre era ferroviere, chi fabbro ferraio), militò nell' Armata Rossa tra il '19 e il '21 (era nato a Voronez nel 1899) e fece anche parte di corpi speciali costituiti per reprimere le rivolte contadine e nazionaliste, e il brigantaggio, in Ucraina e nel Caucaso. Laureato in ingegneria nel 1924, per alcuni anni si occupò di lavori di bonifica e di elettrificazione nel governatorato di Voronez. Ma presto si traferì a Mosca, pubblicò i suoi primi racconti e saggi di critica letteraria, ebbe un certo successo e decise di dedicarsi interamente alla letteratura. E qui cominciarono i suoi guai. Platonov era un sincero comunista, ma era appunto, perché un sincero comunista, un visionario. E in quanto scrittore visionario coltivava la più sincera libertà espressiva. Nei suoi anni più creativi, i geniali anni Venti, la visionarietà di Platonov era insieme epica, lirica e satirica. Per la sua natura satirica è stato accostato a Bulgakov, dal quale è diversissimo. In realtà è talmente diverso da tutti che un lettore occidentale fatica ad accorgersi che Platonov è un grande scrittore. L'opera maggiore di Platonov, il romanzo Cevengur scritto tra il 1926 e il 1929, pubblicato in Russia soltanto sessant'anni dopo, sarebbe improprio definirla un'epica della rivoluzione alla rovescia. Per l'autore questo libro lunatico e irresistibilmente catastrofico era allo stesso tempo una randagia celebrazione dell'utopia, un libro magico e veridico sul comunismo della vita. La devastante fiducia degli idioti che agiscono e parlano nel romanzo di Platonov ha la grandiosa, grottesca vitalità che sommuove i pensieri e le passioni dei Demoni e dell' Idiota di Dostoevskij. Si comprende come Gor'kij, quando lesse il manoscritto nel 1929, lo dichiarasse impubblicabile (inaccettabile per la nostra censura). Egli scrisse a Platonov: Lei è indubbiamente un uomo di talento, come è indubbio che possiede una lingua oltremodo originale... Il suo romanzo è interessantissimo.... Ma era altrettanto indubbio per Gor'kij che l' opera era prolissa, vi abbondavano i discorsi a scapito dell'azione, la visione delle cose era anarchica, deformata in senso lirico-satirico; i comunisti di Cevengur non sono tanto dei rivoluzionari quando dei bislacchi o semidementi. Ciò nonostante Gor' kij era rimasto assai colpito dalla lingua di Platonov. E di questa lingua, di cui oggi parlano con ammirazione il poeta Iosif Brodskij e l'eccellente critico Anninskij, noi lettori occidentali possiamo avere una percezione ridotta. Non è colpa dei traduttori, dice Brodskij, se mai colpevole è l'estremismo stilistico dell'autore. Sulla questione, per quanto posso azzardarmi, tornerò un poco più avanti. Una cosa buffa, e forse non tanto strana, è che il romanzo di Platonov fu pubblicato in Italia da Mondadori nel 1972 col titolo Il villaggio della nuova vita, tradotto da Maria Olsùfieva, e non ricordo che sollevasse grande attenzione. Sia prima, sia dopo il '72 erano usciti in Italia altri libri di Platonov. Ora Sellerio stampa una scelta di racconti, Il mondo è bello e feroce (pagg. 200, lire 20.000), due dei quali già compresi in un precedente volume di Einaudi (Ricerca di una terra felice), e presso Theoria ricompare Cevengur con un nuovo titolo, Da un villaggio in memoria del futuro (pagg. 382, lire 36.000), nella stessa traduzione mondadoriana della Olsùfieva. Insomma, altri editori ci riprovano, sperando di essere più fortunati. E che noi si sia meno distratti. Mi dichiaro toccato. In altra occasione la signora Olsùfieva spiegò perché il toponimo Cevengur (nome inventato di un villaggio sperduto nelle steppe della Russia centrale) sia pressoché intraducibile: si tratta di una parola composta, la cui prima parte designa un pezzo delle vecchie cioce dei mugichi, la seconda ha il senso di baccano, rumore. Chissà, forse si sarebbe potuto inventare Ciociarnazzo (pensando a Ciociaria e a schiamazzo); ma io non essendo un traduttore dal russo non ho voce in capitolo. Il nome veniamo a saperlo soltanto alla pagina 170, da una gustosa conversazione che si svolge in città all'uscita da una riunione di partito. C'è un tale Cepurnyj soprannominato il Giapponese che si avvicina ad altri due, Dvanov e Gopner; quest'ultimo gli domanda: Tu da dove salti fuori? Dal comunismo. Nei hai sentito parlare? Hanno chiamato così qualche villaggio in memoria del futuro? Macché villaggio. E' capoluogo d'un distretto che anticamente si chiamava Cevengur. Fino a ora sono stato presidente del comitato rivoluzionario. E adesso abbiamo posto fine a tutta la storia mondiale. A che serve? A Cevengur o Ciociarnazzo sono entrati direttamente nel comunismo senza tante lungaggini. Massacrati tutti i borghesi e i contadini ricchi, il comitato rivoluzionario ha abolito l'economia, i bilanci, la politica e ha fatto fiorire la preferenza proletaria per la vita felice e la fratellanza, senza perciò negare la precisione della verità e il dolore dell' esistenza. Tutto ciò che è accaduto nel libro fino a questo episodietto (fondamentale) non è che la preistoria di destini intrecciati che si ritroveranno a Cevengur nell' urgenza utopistico-demenziale di costruire lì la gloriosa memoria del futuro. Secondo Brodskij, e questo è il dato interessante che anche il lettore occidentale è in grado di cogliere, Platonov è uno scrittore millenarista, se non altro perché aggredisce il veicolo stesso della sensibilità millenaristica presente nella società russa: il linguaggio in sé o, per dirla in maniera più esplicita, l'escatologia rivoluzionaria radicata nel linguaggio. Da molti la rivoluzione fu scambiata per l'atteso secondo avvento, ma questo non è che un dato sociologico. Può darsi che Brodskij esageri nel formulare l'essenza del messaggio di Platonov (il linguaggio è un congegno millenaristico, la storia no), ma certamente dobbiamo ascoltarlo quando dice che l' autore di Cevengur, più che alla tradizione letteraria, si affida alla natura sintetizzatrice della lingua russa, una matrice che condiziona a volte attraverso allusioni puramente fonetiche l' affiorare di concetti totalmente privi di qualsiasi contenuto reale. Ma non so quanto sia pertinente ritenere Platonov il primo scrittore russo veramente surrealista. E' strano che Brodskij taccia della vena futurista che a noi sembra potente in Platonov, il quale più di una volta fa venire in mente il poeta Chlébnikov (acclimatato nella nostra lingua e ai limiti della possibilità dal bravissimo Angelo Maria Ripellino). Proprio Ripellino, nel lungo saggio introduttivo alle poesie di Chlébnikov, ricordò le due facce del futurismo russo; da un lato l'esaltazione della tecnica e delle macchine, dall' altro il fervore per i trogloditi, le spelonche, la vita selvatica. E così il millenarismo, comune a tutti i futuristi russi, si esprime con particolare insistenza nelle fantasticherie di Chlébnikov. Ciò che più conta per il futurista russo è ritrovare nell' avvenire l'incolumità dei primordi. Il primordiale e l' amore per le macchine si fondono in Platonov, ma non c'è davvero il sogno dell' incolumità. Tutto in Cevengur, il tenero e il raccapricciante, l'idiota e il sublime, la violenza e la magnanimità, tutto coincide in una micidiale indifferenza vigilata dalle stelle (la beatitudine controrivoluzionaria della natura). L'anelito stupidamente eroico alla fine del mondo e alla rigenerazione del mondo coincide con lo sforzo sovrumano dell'intelletto ingenuo e puro che vuole pensare la verità dell' esistenza. Le frasi di Platonov cominciano in un modo che fa prevedere un certo decorso logico, ma alla fine della frase, grazie a un epiteto, a un'intonazione, o alla posizione anomala di una parola nel contesto, vi trovate condotti da un'altra parte, o meglio in una tortuosità inestricabile, che può suscitare ilarità o sgomento. E' più o meno ciò che notano i critici russi e ciò che avverte, certo con minore vividezza, il lettore occidentale. Come osserva Anninskij in un saggio recente, la fucilazione della residua classe borghese in Cevengur provoca nel lettore un raccapriccio infernale, tuttavia non osate chiamarlo così, dato che per tutti coloro che partecipano all'evento questo inferno si identifica con l'apparizione del paradiso. E Stepan Kopenkin, castigatore errante, che compie le sue imprese assassine per la gloria della venerata Rosa Luxemburg in groppa alla cavalla Forza Proletaria, esce dalle pagine del romanzo non come un castigatore e assassino, ma come un pellegrino incantato e una cavaliere. Questa è la visione che le frasi di Platonov suscitano in noi. Quando scoppia la rivoluzione il vecchio Zachàr Pàvlovic dice al figlio adottivo Sasa: Gli imbecilli stanno prendendo il potere, è forse la volta che diventerà più intelligente la vita. Prochor Abràmovic era da tempo istupidito dalla miseria e dai troppi figli, non badava a nulla: né alle malattie dei bambini né alla nascita di quelli nuovi, neppure al raccolto cattivo o discreto, quindi pareva a tutti un brav' uomo. Kopenkin è perplesso di non vedere a Cevengur la gente lavorare. Il Giapponese gli spiega la situazione: La professione essenziale è l'anima dell' uomo. Il suo prodotto è l'amicizia e il cameratismo. Non è forse un'occupazione, secondo te? Kopenkin rifletté un poco sulla vita oppressa d' una volta. E' proprio bello da te a Cevengur, disse malinconicamente. Speriamo che non si debbano organizzare i guai: il comunismo deve essere aspro, uno zinzino di veleno fa bene al sapore. Il Giapponese sentì il sale fresco in bocca e capì subito. Forse hai ragione. Adesso dovremo organizzare apposta i guai. Vogliamo cominciare domani, compagno Kopenkin?. A dire il vero, lentamente, pacatamente, un lavoro collettivo si svolge a Cevengur: si spostano le case di legno e si trasferiscono i frutteti. Questo traffichìo avviene obbligatoriamente soltanto il sabato. E' un lavoro improduttivo e simbolico: si sciupa l' eredità piccolo-borghese e si confondono le vecchie strade. Non occorrono più: la gente è arrivata a destinazione. Cancellando le strade, spostando i cosiddetti beni immobili i deliranti utopisti di Cevengur sfigurano l'immagine e la sostanza della vecchia società oppressiva. La follia apocalittica è stata messa in moto, nelle anime semplici, ora miti, ora selvagge, dei millenaristi, dalle parole d' ordine e dalle formule della rivoluzione. Ho detto in principio, un po' per burla, che Platonov illumina l' epoca in cui concepì e scrisse il libro, gli euforici e spaventati anni Venti della Russia sovietica. Li illumina con un sinistro e lancinante e grottesco rovesciamento. Tutti sognano e tutti vengono trucidati (dalle guardie bianche). Un' immagine, che è insieme comica ed enigmatica, apre e chiude il libro. Nelle prime pagine il pescatore padre di Sasa, il fanciullo che sarà poi allevato da Zachàr Pàvlovic, si getta nel lago per vedere com' è la morte; poteva essere un' altra provincia situata sotto il cielo come sul fondo d' una fresca acqua. Dopo tante peripezie, Sasa che è sfuggito alla carneficina, alla fine del libro, si lascia andare nelle acque infantili dello stesso lago, in cerca di quella strada che suo padre aveva percorso nella curiosità della morte. Il romanzo è racchiuso tra questi due segni, che non appartengono al distretto rivoluzionario. A Ciociarnazzo si voleva organizzare la vita.
Perché leggere Antonio Giangrande?
La Boldrini scambia la Camera per la sede del PCI: “Partigiani padroni di casa”, scrive giovedì, 16 aprile 2015, “Imola Oggi”. Commosso saluto della presidente della Camera, Laura Boldrini, ai partigiani presenti nell’Aula della Camera alla celebrazione del 70esimo anniversario della Liberazione. “Esprimiamo gratitudine alle donne e agli uomini della Resistenza anche per il loro impegno per tenere vivo il ricordo e gli ideali che hanno animato la battaglia per la democrazia. Voi, partigiani presenti in quest’Aula – ha aggiunto -, non siete qui come ospiti ma come padroni di casa”. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio sulla rivista “Micromega”, scrive: “La ricerca storica deve continuamente svilupparsi” ma “senza pericolose equiparazioni” fra i due campi in conflitto nella lotta di Liberazione nazionale dal nazifascismo. “La Resistenza, prima che fatto politico, fu soprattutto rivolta morale”, spiega Mattarella. “Questo sentimento, tramandato da padre in figlio, costituisce un patrimonio che deve permanere nella memoria collettiva del Paese”. “La Liberazione dal nazifascismo costituisce l’ evento centrale della nostra storia recente”, aggiunge il capo dello Stato. “Ai Padri costituenti non sfuggiva il forte e profondo legame tra la riconquista della libertà, realizzata con il sacrificio di tanto sangue italiano dopo un ventennio di dittatura e di conformismo, e la nuova democrazia”, scrive il Capo dello Stato, “Dittatura ma anche conformismo, questi i due mali che hanno caratterizzato il ventennio, per cui “la Costituzione, nata dalla Resistenza, ha rappresentato il capovolgimento della concezione autoritaria, illiberale, esaltatrice della guerra, imperialista e razzista che il fascismo aveva affermato in Italia, trovando, inizialmente, l’opposizione – spesso repressa nel sangue – di non molti spiriti liberi”. Dopo aver citato una riflessione dell’allora partigiano cattolico liberale Sergio Cotta, il Presidente della Repubblica ha voluto sottolineare la partecipazione di popolo, vieppiù crescente, ad una rivolta che era stata inizialmente di minoranze di spiriti liberi: “La sofferenza, il terrore, il senso d’ingiustizia, lo sdegno istintivo contro la barbarie di chi trucidava civili e razziava concittadini ebrei sono stati i tratti che hanno accomunato il popolo italiano in quel terribile periodo. Un popolo – composto di uomini, donne e persino ragazzi, di civili e militari, di intellettuali e operai – ha reagito anche con le armi in pugno, con la resistenza passiva nei lager in Germania, con l’aiuto ai perseguitati, con l’assistenza ai partigiani e agli alleati, con il rifiuto, spesso pagato a caro prezzo, di sottomettersi alla mistica del terrore e della morte”.(agi)
I partigiani alla Camera, Boldrini: "Siete padroni di casa" e la Boldrini canta "Bella ciao" con i partigiani. Ma La Russa: "E i fratelli Mattei?" Le alte cariche dello Stato a Montecitorio per ricordare la Resistenza. Ma dimenticano i fratelli Mattei. La Russa: "Furono uccisi da chi si proclamava nuovo partigiano", scrive Sergio Rame su “Il Giornale. Laura Boldrini accoglie i partigiani a Montecitorio. Ricordano il 70° anniversario della Liberazione. "È la prima volta che in un’Aula parlamentare - dichiara il presidente della Camera - la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo viene ricordata con la partecipazione diretta sui banchi di coloro che vissero sulla loro pelle quella esperienza mettendo in gioco la loro vita, affetti e speranze della gioventù". Per l'occasione sono accorsi anche il capo dello Stato Sergio Mattarella, il numero uno del Senato Piero Grasso e uno stuolo di ministri. Tutti a santificare il 25 aprile dimenticando che oggi è il triste anniversario dei fratelli Mattei. Ad aprire la cerimonia è stata l’esecuzione dell’Inno nazionale da parte della Banda Interforze. L’Aula di Montecitorio, strapiena, è stata impavesata con i Tricolori. In molti hanno indossato al collo dei fazzoletti tricolori. "I partigiani non ospiti ma padroni di casa - ha detto la Boldrini - questi uomini e queste donne vengano onorati in una celebrazione solenne dalle alte cariche dallo Stato, dai deputati del senatori, ma anche da molti giovani che devono a questi nostri padri e a queste nostre madri la democrazia di oggi". Per il presidente della Camera la resistenza fu "un moto popolare", "collettivo" e "interclassista". "Ci fu un unità di intenti: liberare l’Italia dal nazifascismo - ha continuato - quello che si ottenne fu la democrazia che non è per sempre, è un dono che tante di queste persone hanno pagato rinunciando alla loro adolescenza, ai loro sogni ma con grande generosità, dando gli anni migliori della loro vita. È un dono che va sempre curato, tutelato, mantenuto vivo". La Boldrini ci ha tenuto, poi, a far lezione ai giovani d'oggi: "Devono capire che l’impegno di ieri deve continuare nel tempo, perché la crisi economica ha messo oggi a dura prova i valori fondanti della nostra Costituzione e bisogna essere vigili e non cedere rispetto a chi vuole prospettare un altro modello di società". "Non si ceda alla tentazione di considerare il 25 aprile come uno stanco rituale ripetuto di anno in anno - ha commentato Grasso - celebrare la Liberazione significa interrogarci sul nostro presente, sulle sfide che ci si pongono davanti comunità nazionale, sulla nostra capacità di realizzare, individualmente d collettivamente, valori e promesse che la Resistenza ci ha lasciato". Tra i presenti c'è stato pure chi non ha potuto non affidare i propri pensieri a Twitter. E per commemorare il 25 aprile i cinguettii si sprecano. "Grazie a chi allora lottò per il nostro futuro", ha scritto il ministro alle Riforme Maria Elena Boschi. "L’emozione dell’Aula piena di vecchi partigiani per i 70 anni della Liberazione - ha fatto eco il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini - vorrei che anche mio papà fosse qui". Quindi il presidente del Pd Matteo Orfini: "Un grande onore e una enorme emozione ricordare oggi in aula la Liberazione. E farlo per la prima volta insieme ai partigiani". La decisione della Camera di celebrare solennemente il 70° anniversario del 25 aprile non ha trovato tutti d'accordo. Anche perché è stato fatto con nove giorni d'anticipo e proprio quando avrebbe dovuto ricordare la barbara uccisione dei fratelli Stefano e Virgilio Mattei. Oltre a criticare i toni della celebrazione, che "appaiono assai lontani da quelli più riflessivi usati da tempo come ad esempio nello stesso intervento del presidente della Camera Violante all'atto del suo insediamento", Ignazio La Russa non ha nascosto il proprio stupore per la singolare scelta dei tempi. "La celebrazione - fa notare il deputato di Fratelli d'Italia - avviene con nove giorni di anticipo e proprio nel giorno in cui ricorre l’anniversario dell'uccisione dei fratelli Mattei bruciati vivi da chi arbitrariamente si proclamava nuovo partigiano".
25 aprile, Mattarella: "No a pericolose equiparazioni delle parti". Il presidente sottolinea: "Non si devono fare facili equiparazioni tra le parti che lottarono", scrive su “Il Giornale”. Il 25 aprile resta ancora una commemorazione a senso unico. Anche per Mattarella non bisogna mai paragonare i fascisti ai partigiani, nè ricordare chi tra il 1943 e il 1945 difese da Salò lo Stato italiano e la monarchia. Il nuovo inquilino del Colle chiarisce subito di stare dalla parte della memoria che contempla solo i partigiani. "La ricerca storica deve continuamente svilupparsi ma senza pericolose equiparazioni fra i due campi in conflitto nella lotta di Liberazione nazionale dal nazifascismo", scrive il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista "Micromega". "La Resistenza, prima che fatto politico, fu soprattutto rivolta morale", spiega Mattarella, "questo sentimento, tramandato da padre in figlio, costituisce un patrimonio che deve permanere nella memoria collettiva del Paese". "La Liberazione dal nazifascismo costituisce l’ evento centrale della nostra storia recente. Ai Padri costituenti non sfuggiva il forte e profondo legame tra la riconquista della libertà, realizzata con il sacrificio di tanto sangue italiano dopo un ventennio di dittatura e di conformismo, e la nuova democrazia", scrive il Capo dello Stato, "dittatura ma anche conformismo, questi i due mali che hanno caratterizzato il ventennio, per cui »la Costituzione, nata dalla Resistenza, ha rappresentato il capovolgimento della concezione autoritaria, illiberale, esaltatrice della guerra, imperialista e razzista che il fascismo aveva affermato in Italia, trovando, inizialmente, l’opposizione - spesso repressa nel sangue - di non molti spiriti liberi". Dopo aver citato una riflessione dell’allora partigiano cattolico liberale Sergio Cotta, il Presidente della Repubblica ha voluto sottolineare la partecipazione di popolo ad una rivolta che era stata inizialmente di minoranze di spiriti liberi: "La sofferenza, il terrore, il senso d’ingiustizia, lo sdegno istintivo contro la barbarie di chi trucidava civili e razziava concittadini ebrei sono stati i tratti che hanno accomunato il popolo italiano in quel terribile periodo. Un popolo - composto di uomini, donne e persino ragazzi, di civili e militari, di intellettuali e operai - ha reagito anche con le armi in pugno, con la resistenza passiva nei lager in Germania, con l’aiuto ai perseguitati, con l’assistenza ai partigiani e agli alleati, con il rifiuto, spesso pagato a caro prezzo, di sottomettersi alla mistica del terrore e della morte". Insomma nelle parole del presidente c'è pietà e memoria solo per i partigiani. Per chi ha dato la propria vita in difesa dello Stato senza tradire resta solo un monito: "Non paragonateli ai partigiani". La storia resta di parte.
«Io, partigiana decorata snobbata dalla Boldrini perché non sono rossa». Paola Del Din, medaglia d’oro, cattolica, non è stata invitata alla Camera: «Celebrazione indecente, chiamano l’Anpi e non chi ha un’idea diversa», scrive Brunella Bolloli su "Libero Quotidiano". Il suo nome di battaglia era Renata. E non ha mai avuto paura. «Ero pronta a qualsiasi cosa per la libertà». In Friuli si lanciava con il paracadute per consegnare documenti agli alleati aggirando le linee di combattimento. E alla morte del fratello, Renato, fu prescelta dal resto della Brigata Osoppo per portare messaggi anche al Sud. Era staffetta e informatrice, «patriota» prima di tutto. Unica donna italiana vivente che può vantare due medaglie d’oro al valore militare: quella alla memoria, in onore del fratello caduto a Tolmezzo il 25 aprile del 1944, e la sua, che ha un piccolo paracadute sopra perché, nonostante fosse ferita, riuscì lo stesso a ultimare la sua missione. Una donna, Paola Del Din, classe 1923, che ha contribuito a scrivere un pezzo di storia italiana. Eppure la presidente della Camera, Laura Boldrini, di solito così sensibile ai meriti femminili, non l’ha ospitata giovedì alla Camera alla grande festa dei partigiani che hanno cantato Bella ciao tra fazzoletti al collo e cori dei deputati. Così come l’esponente di Sel non ha ritenuto di invitare le altre associazioni di partigiani e di combattenti delle forze armate regolari della Guerra di Liberazione, che infatti tuonano contro «l’occupazione politica della memoria» e dicono no alla divisione tra «partigiani di serie A e partigiani di serie B». «Non ho ricevuto alcun invito da nessuno, ma non sarei neppure andata», dice Paola Del Din a Libero. «Quella celebrazione mi è sembrata una vergogna, un modo per ricordare solo una parte, e del resto loro si chiamano partigiani, mentre noi eravamo prima di tutto patrioti. Combattevamo per gli italiani, non per un partito, ne avevamo abbastanza di un singolo partito». La signora ha passato i 90 anni, ma ha la mente fresca di una ragazzina mentre ricorda il passato pieno di azione, nel parlare del fratello «bellissimo, intelligente ed elegante». Della mamma che ha subìto il carcere, di lei che è stata contestata da militanti di Rifondazione comunista e investita davanti a tutti. Della guerra racconta: «Non ci sfiorava il pensiero della morte. Quando abbiamo cominciato non c’entrava niente. Eravamo giovani, ci impegnavamo. Io sono religiosa, cattolica praticante, credo mi abbia aiutato. Sono sempre andata dritta, forse non ho mai subito neanche una perquisizione quando portavo le carte». Renata ora ha imparato a usare Internet e legge tanto. In televisione ha visto la parata dei partigiani dell’Anpi di fronte alla Boldrini e non le è piaciuta. «L’ho trovata indecente perché ricordare solo quello che vogliono loro, non va bene. Hanno quella mania lì, di invitare solo l’Anpi e non capiscono che sbagliano. Dimenticano chi ha un’idea politica diversa dalla loro». Nell’Anpi c’è sempre stato il predominio degli iscritti al Pci, dei rossi. Ma i partigiani erano anche altro. Infatti dall’Anpi si staccarono la Fivl (federazione volontari della libertà) e altre aree non comuniste unite nella Fiap. Alle critiche della Del Din (che è stata omaggiata da Napolitano), si aggiungono quelle del senatore Carlo Giovanardi, che ha bollato come «divisiva la cerimonia della Boldrini. Un esempio tipico del perché non ci sia quella corale partecipazione alle celebrazioni della Liberazione che si registra in altri Paesi europei». L’associazione nazionale Combattenti Forze Armate Regolari Guerra di Liberazione (Ancfargl) ha attaccato la «pagliacciata di Montecitorio». Uno sgarbo anche per il generale di Corpo d’Armata Alberto Zignani, figlio del colonnello Goffredo Zignani, morto nel ’43 in Albania, medaglia d’oro al valor militare. «Nessuno vuole denigrare l’Anpi, sia chiaro», spiega il generale. «Ma si ricordi anche la Resistenza militare».
La Boldrini ai partigiani in Parlamento: Voi siete i padroni di casa. Che cazzata! Di Max Max su Asino Rosso. Laura Boldrini si candida per una rubrica fissa, su Asinorosso.it: La cazzata. Non si sa se sono di più quelle che dice o quelle che pensa. C’è da sperare, ormai, solo nelle elezioni anticipate, il cui unico risultato certo sarà un nuovo presidente di Montecitorio. Con mossa scontata, la Boldrini ha invitato in Parlamento, in vista del 25 aprile, i partigiani dell’Anpi e delle altre sigle reducistiche che, curiosamente, hanno forse più aderenti oggi di quando era possibile andare a combattere. Al vegliardo uditorio, la presidente della Camera ha rivolto parole appassionate e, nella foga, si è lasciata andare a un: Qui, voi, siete i padroni di casa! Neanche per idea, signora Boldrini! La Camera e il Senato, cioè, il Parlamento, sono la sede della sovranità popolare, il cui unico padrone è l’intero popolo italiano, non la minoranza partigiana tanto cara alla Sinistra. Per altro, la Boldrini sembra non essersi resa conto che, rilevando come fosse la prima volta che i partigiani, in quanto tali, sono stati invitati a una cerimonia nell’aula di Montecitorio, ha implicitamente ricordato come quella della Resistenza sia una memoria tutt’altra che condivisa e certamente, nella versione dell’Anpi, tutt’altro che condivisibile da parte di tutti. Se fosse diversamente, non si sarebbe aspettato 70 anni per invitarli, no? E non ci sarebbe stato bisogno dell’invito di una presidente che è tale grazie a una maggioranza che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima. A tale proposito – e in vista delle solite, stucchevoli celebrazioni – è bene ricordare a noi stessi e, quindi, anche agli altri, che è FALSA – non si scrive mai in maiuscolo, ma questa volta l’eccezione ci sta tutta – l’affermazione, secondo la quale la Repubblica sarebbe figlia della Resistenza e dell’Antifascismo. FALSA cronologicamente, poiché la Repubblica fu una scelta elettorale del popolo – per altro, truccata, ma ora si lasci stare -, in cui tanti resistenti votarono Monarchia (pare anche il primo capo dello Stato, Enrico De Nicola) e tanti fascisti (in odio al re) Repubblica, ben successiva alla fine della guerra. FALSA politicamente perché – la Boldrini si vada a rileggere, negli atti della Commissione dei 75, il dibattito in merito tra Umberto Tupini, presidente della commissione stessa, e Palmiro Togliatti -, alla precisa richiesta del leader comunista di inserire l’Antifascismo nella Costituzione la maggioranza dei costituenti si oppose espressamente. FALSA GIURIDICAMENTE – basta confrontare il progetto di costituzione 1947 con la Costituzione effettivamente approvata -, poiché il diritto di resistenza – che il Pci sopra a tutti voleva inserire nella Carta fondamentale – fu effettivamente avanzato come proposta di articolo della legge fondamentale dello Stato, ma sonoramente bocciato dall’aula. Insomma, Boldrini, l’ha detta anche stavolta, la cazzata!
Da Wikipedia. La nascita della Repubblica Italiana avvenne nel 1946, a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno dello stesso anno, indetto per determinare la forma di stato dopo il termine della seconda guerra mondiale, ovverosia il mantenimento dello stato monarchico o l'adozione della forma repubblicana. La notte fra il 12 e 13 giugno, nel corso della riunione del Consiglio dei ministri, il presidente Alcide De Gasperi, prendendo atto del risultato, assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano. L'ex re Umberto II lasciò volontariamente il paese il 13 giugno 1946, diretto a Cascais, una città nel sud del Portogallo senza nemmeno attendere la definizione dei risultati e la pronuncia sui ricorsi, che saranno respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946. I presunti brogli elettorali ed altre supposte azioni "di disturbo" della consultazione popolare, pur avendo costituito un tema di rivendicazione da parte dei sostenitori della causa monarchica non sono stati mai confermati dagli storici non di parte. Subito dopo il referendum scoppiarono però alcuni disordini, ad esempio in Via Medina diversi cittadini napoletani morirono in una strage, durante gli scontri a sostegno della monarchia. Il 2 giugno 1946, insieme alla scelta sulla forma dello Stato, i cittadini italiani (comprese le donne, che votavano per la prima volta in una consultazione politica nazionale) elessero anche i componenti dell'Assemblea Costituente che doveva redigere la nuova carta costituzionale. Risultarono votanti 12.998.131 donne e 11.949.056 uomini. Alla sua prima seduta, il 28 giugno 1946, l'Assemblea Costituente elesse a Capo Provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. Con l'entrata in vigore della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, De Nicola assunse per primo le funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948. Si trattò di un passaggio di grande importanza per la storia dell'Italia contemporanea dopo il ventennio fascista, il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale ed un periodo della storia nazionale assai ricco di eventi.
Risultati del referendum. Il 10 giugno 1946 la Corte suprema di cassazione proclamò i risultati del referendum, mentre il 18 giugno integrò i dati delle sezioni mancanti ed emise il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i reclami concernenti le operazioni referendarie:
Repubblica: 12 717 923 voti (54,3%)
Monarchia: 10 719 284 voti (45,7%)
Nulli: 1 498 136 voti
Integrazione dei dati e giudizio definitivo sulle contestazioni. Alle ore 18:00 del 18 giugno, nell'Aula della Lupa di Montecitorio a Roma, la Corte di Cassazione, con dodici magistrati contro sette, stabilì che per maggioranza degli elettori votanti, prevista dalla legge istitutiva del referendum (art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale nº 98 del 16 marzo 1946), si dovesse intendere la maggioranza dei voti validi, cioè la maggioranza dei consensi senza contare il numero delle schede bianche e delle nulle, che furono considerati voti non validi. La Suprema Corte, quindi, respinse i ricorsi dei monarchici e procedé alla pubblicazione dei risultati definitivi della consultazione referendaria: 12 717 923 voti favorevoli alla repubblica; 10 719 284 voti favorevoli alla monarchia e 1 498 136 voti nulli. Anche tenendo conto delle schede bianche o nulle, pertanto, la Repubblica aveva conseguito la maggioranza assoluta dei votanti, rendendo ininfluente ogni discussione sotto il profilo giuridico interpretativo. Nel 1960 Giuseppe Pagano, presidente della Corte di Cassazione il 18 giugno 1946, ma facente parte della fazione risultata minoritaria nella votazione, in un'intervista a Il Tempo di Roma affermò che la legge istitutiva del referendum era di applicazione impossibile, in quanto non dava il tempo alla Corte di svolgere i suoi lavori di accertamento, e ciò fu reso ancor più evidente dal fatto che numerose corti di appello non riuscirono a mandare i verbali alla Cassazione entro la data prevista. Inoltre, «l'angoscia del governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi definitivi». Secondo il magistrato, tuttavia, non vi furono brogli; anche l'accoglimento della sua posizione, infatti «non avrebbe mai potuto spostare la maggioranza a favore della monarchia, poteva soltanto diminuire sensibilmente la differenza tra il numero dei voti a favore della monarchia e quello dei voti a favore della repubblica».
Analisi dei risultati. Il sospetto di brogli elettorali. Un recente studio basato su un'analisi statistica del voto (applicando la legge di Benford e simulazioni) a livello di singolo comune indica che la probabilità che siano avvenuti brogli elettorali è prossima allo zero. I monarchici attribuirono la sconfitta a tali presunti brogli e a scorrettezze nella convocazione dei comizi e nello svolgimento del referendum. Stime monarchiche valutano in circa tre milioni i voti che andarono persi per diverse ragioni, numero maggiore della differenza tra l'opzione repubblicana e quella monarchica. Alcuni storici sostengono una ricostruzione che vede Togliatti intervenire per ritardare il rientro in Italia dei reduci dai campi di prigionia russi, in quanto ne avrebbe temuto le testimonianze ai fini del voto. Tra le anomalie più rilevanti secondo i monarchici vi furono le seguenti.
Molti prigionieri di guerra si trovavano ancora all'estero e quindi impossibilitati a votare. Il referendum sarebbe quindi stato indetto intenzionalmente senza attenderne il rientro.
Parte delle province orientali (Trieste, Gorizia e Bolzano) non erano ancora state restituite alla sovranità italiana, e quindi, il risultato sarebbe stato da considerarsi soltanto parziale. Si trattava peraltro di province appartenenti all'area settentrionale (nella quale il voto repubblicano aveva ottenuto generalmente un'ampia maggioranza).
I primi risultati pervenuti indicavano una netta prevalenza di voti a favore della monarchia, in particolare i rapporti dell'Arma dei Carabinieri provenienti direttamente dai seggi elettorali.
Analisi statistiche avrebbero poi evidenziato come il numero dei voti registrati fosse superiore a quello dei possibili elettori. Nel disordine generale seguito alla guerra, pare possibile che un numero di elettori abbia usato documenti d'identità falsi, per votare più volte.
Nessuna delle suddette anomalie implica necessariamente una penalizzazione del voto monarchico o una frode a favore della repubblica: è infatti del tutto impossibile sapere a chi sarebbero andati i voti mancati, o a favore di quale delle due opzioni siano stati espressi i presunti voti duplicati, né si conosce il grado di rappresentatività del campione dei primi risultati e dei rapporti dei Carabinieri.
I monarchici presentarono numerosi reclami giudiziari, che vennero però respinti dalla Corte di Cassazione il 18 giugno 1946.
Sociologia del voto. Il divario fra le preferenze espresse per la repubblica e quelle per la monarchia fu una sorpresa, in quanto lo si prevedeva di un'entità anche superiore a quello di circa due milioni, poi risultato dallo scrutinio ufficiale. Tra le regioni del nord stupì il voto del Piemonte, regione storicamente legata a Casa Savoia, dove la repubblica aveva vinto con il 56,9%. La regione dove si ebbe la maggior percentuale di voti nulli fu la Valle d'Aosta, altro territorio storicamente legato alla Casa sabauda. Sono state proposte diverse interpretazioni sociologiche e statistiche del voto che avrebbero intravisto influenze della condizione economica del momento, dell'ingresso dell'elettorato femminile, o da molti altri fattori. Dai dati del voto l'Italia risultò divisa in un sud monarchico e un nord repubblicano. Le cause di questa netta dicotomia possono essere ricercate nella differente storia delle due parti dell'Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Per le regioni del sud la guerra finì appunto nel 1943 con l'occupazione alleata e la progressiva ripresa del cosiddetto Regno del Sud. Per contro, il nord dovette vivere quasi due anni di occupazione tedesca e di lotta partigiana (contro appunto i tedeschi e i fascisti della RSI) e fu l'insanguinato teatro della guerra civile (che ebbe echi protrattisi anche molto dopo la cessazione formale delle ostilità). Le forze più impegnate nella guerra partigiana facevano capo a partiti apertamente repubblicani (partito comunista, partito socialista, movimento di Giustizia e Libertà). Una delle cause che contribuì alla sconfitta della monarchia fu probabilmente una valutazione negativa della figura di Vittorio Emanuele III, giudicato da una parte corresponsabile degli orrori del fascismo; dall'altro la sua decisione di abbandonare Roma, e con essa l'esercito italiano che venne lasciato privo di ordini, per rifugiarsi nel sud subito dopo la proclamazione dell'armistizio di Cassibile, fu vista come una vera e propria fuga e non migliorò certo la fiducia degli italiani verso la monarchia. Le vicende della seconda guerra mondiale non aumentarono le simpatie verso la monarchia anche a causa degli atteggiamenti discordanti di alcuni membri della casa regnante. La moglie di Umberto, la principessa Maria José, cercò nel 1943, attraverso contatti con le forze alleate, di negoziare una pace separata muovendosi al di fuori della diplomazia ufficiale. Queste manovre, anche se apprezzate da una parte del fronte antifascista, furono viste in campo monarchico come un tradimento ed all'esterno, insieme alle prese di distanza ufficiali del Quirinale, come sintomi di profondi contrasti in seno a Casa Savoia, della quale evidenziavano l'irresolutezza.
Milano, mozione leghista a Palazzo Marino: "Mettete al bando i partiti comunisti". Il documento è stato presentato dai consiglieri comunali Bastoni, Lepore e Iezzi: "E' arrivato il momento di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo a quelli commessi dal nazismo", scrive Oriana Liso su “la Repubblica” Il consigliere leghista Massimo Bastoni Una mozione non si nega a nessuno. I consiglieri comunali ne depositano sugli argomenti più disparati, spesso su temi molto distanti dalle questioni legate alla vita della città. Massimiliano Bastoni, Luca Lepore e Igor Iezzi, tre consiglieri comunali della Lega Nord a Palazzo Marino, hanno deciso di occuparsi della "messa al bando dei partiti comunisti": si intitola così la mozione che hanno depositato due giorni fa, chiedendo che il consiglio comunale di Milano impegni il sindaco e la giunta a "intervenire presso le sedi opportune (parlamento e governo) per sollecitare la messa al bando di quei partiti italiani che richiamano simboli e si rifanno a dottrine comuniste". La spiegazione di questa richiesta è molto articolata. E ha come premessa che "sono ormai passati 26 anni dalla caduta dei regimi comunisti dell'Europa centrale e orientale e che il crollo delle dittature rosse ha rappresentato la fine di un incubo per alcune popolazioni che finalmente hanno potuto assaporare il gusto della democrazia e della libertà". Per i tre consiglieri del Carroccio (manca soltanto la firma del capogruppo Alessandro Morelli) va combattuta la "nostalgia del comunismo", ideologia che "è stragista e si alimenta tramite una feroce dittatura costruita su principi demagogici". Poi citano i morti causati dal comunismo, "circa 100 milioni di vittime tra esecuzioni, decessi nei campi di concentramento, vittime della fama e delle deportazioni", un numero che "è decisamente superiore a quello dei morti dell'ideologia nazista, e ricordano che il Consiglio d'Europa, nel 2006, ha approvato la risoluzione 1481 sulla condanna internazionale dei crimini del comunismo. Ma i consiglieri del Carroccio (ormai sempre più alleato elettorale di Forza Nuova) esaminano anche il comunismo italiano, ricordando che "è stato fiancheggiatore del Pcus sovietico, che ha aggredito e offeso gli esuli istriani e che ha sterminato un numero spaventosamente grande di italiani completamente innocenti e senza alcun processo, negli anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale, e ha venduto la libertà del nostro paese ai soviet" e che, infine, "ha generato e mantenuto una rivoluzione sotterranea e perenne che a sua volta ha generato il terrorismo rosso". Per tutte queste ragioni, insomma, ritengono che "sia giunta ormai l'ora, anche in Italia, di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo (male peggiore del XX secolo) a quelli commessi dal nazismo. E che quindi sia "necessario mettere al bando tutti i partiti italiani che richiamo e si rifanno a questa metastatica cancrena ideologica, seminatrice di vessazioni, di terrore e di morte in molte parti del mondo". Al bando, quindi, potrebbero finire Rifondazione, ma anche il Partito comunista (guidato da Marco Rizzo). Mozione depositata: bisognerà vedere se e quando verrà messa in calendario per la discussione in aula.
Non chiamateli eroi. L’elenco delle ausiliarie uccise dai partigiani dopo che si erano arrese, scrive “Quelsi”.
Amodio Rosa: 23 anni, assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado.
Antonucci Velia: due volte prelevata, due volte rilasciata a Vercelli, poi fucilata.
Audisio Margherita: Fucilata a Nichelino il 26 aprile 1945.
Baldi Irma: Assassinata a Schio il 7 luglio 1945.
Batacchi Marcella e Spitz Jolanda: 17 anni, di Firenze. Assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, il 30 aprile 1945, con tutto il Distretto di Cuneo, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Interrogate, sette ausiliarie, ascoltando il suggerimento dei propri ufficiali, dichiarano di essere prostitute che hanno lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Ma Marcella e Jolanda non accettano e si dichiarano con fierezza ausiliarie della RSI. I partigiani tentano allora di violentarle, ma le due ragazze resistono con le unghie e con i denti. Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte di quelle belve indegne di chiamarsi partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945.
Bergonzi Irene: Assassinata a Milano il 29 aprile 1945.
Biamonti Angela: Assassinata il 15 maggio 1945 a Zinola (SV) assieme ai genitori e alla domestica.
Bianchi Annamaria: Assassinata a Pizzo di Cernobbio (CO) il 4 luglio 1945.
Bonatti Silvana: Assassinata a Genova il 29 aprile 1945.
Brazzoli Vincenza: Assassinata a Milano il 28 aprile 1945.
Bressanini Orsola: Madre di una giovane fascista caduta durante la guerra civile, assassinata a Milano il 10 maggio 1945.
Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta: Facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo. Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano (che sanguinante si levò come un fantasma dal mucchio di cadaveri) nonché le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere.
Carlino Antonietta: Assassinata il 7 maggio 1945 all’ospedale di Cuneo, dove assisteva la sua caposquadra Raffaella Chiodi.
Castaldi Natalina:Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.
Chandrè Rina, Giraldi Itala, Rocchetti Lucia: Aggregate al secondo RAU (Raggruppamento Allievi Ufficiali) furono catturate il 27 aprile 1945 a Cigliano, sull’autostrada Torino – Milano, dopo un combattimento durato 14 ore. Il reparto si era arreso dopo aver avuto la garanzia del rispetto delle regole sulla prigionia di guerra e dell’onore delle armi. Trasportate con i loro camerati al Santuario di Graglia, furono trucidate il 2 maggio 1945 assieme ad oltre 30 allievi ufficiali con il loro comandante, maggiore Galamini, e le mogli di due di essi. La madre di Itala ne disseppellì i corpi.
Chiettini (si ignora il nome): Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.
Collaini Bruna, Forlani Barbara: Assassinate a Rosacco (Pavia) il 5 maggio 1945.
Conti – Magnaldi Adelina: Madre di tre bambini, assassinata a Cuneo il 4 maggio 1945.
Crivelli Jolanda: Vedova ventenne di un ufficiale del Battaglione “M” costretta a denudarsi e fucilata a Cesena, sulla piazza principale, dopo essere stata legata ad un albero, ove il cadavere rimase esposto per due giorni e due notti.
De Simone Antonietta: Romana, studentessa del quarto anni di Medicina, fucilata a Vittorio Veneto in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.
Degani Gina: Assassinata a Milano in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.
Ferrari Flavia: 19 anni, assassinata l’ 1 maggio 1945 a Milano.
Fragiacomo Lidia, Giolo Laura: Fucilate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme ad altre cinque ausiliarie non identificate, dopo una gara di emulazione nel tentativo di salvare la loro comandante.
Gastaldi Natalia: Assassinata a Cuneo il 3 maggio 1945.
Genesi Jole, Rovilda Lidia: Torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945. In servizio presso la GNR di Novara. Catturate alla Stazione Centrale di Milano, ai primi di maggio, le due ausiliarie si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante provinciale.
Greco Eva: Assassinata a Modena assieme a suo padre nel maggio del 1945.
Grill Marilena: 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945.
Landini Lina: Assassinata a Genova l’1 maggio 1945.
Lavise Blandina: Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.
Locarno Giulia: Assassinata a Porina (Vicenza) il 27 aprile 1945.
Luppi – Romano Lea: Catturata a Trieste dai partigiani comunisti, consegnata ai titini, portata a a Lubiana, morta in carcere dopo lunghe sofferenze il 30 ottobre 1947.
Minardi Luciana: 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po. La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica.
Monteverde Licia: Assassinata a Torino il 6 maggio 1945.
Morara Marta: Assassinata a Bologna il 25 maggio 1945.
Morichetti Anna Paola: Assassinata a Milano il 27 aprile 1945.
Olivieri Luciana: Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.
Ramella Maria: Assassinata a Cuneo il 5 maggio 1945.
Ravioli Ernesta: 19 anni, assassinata a Torino in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.
Recalcati Giuseppina, Recalcati Mariuccia, Recalcati Rina: Madre e figlie assassinate a Milano il 27 aprile 1945.
Rigo Felicita: Assassinata a Riva di Vercelli il 4 maggio 1945.
Sesso Triestina: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.
Silvestri Ida: Assassinata a Torino l’1 maggio 1945, poi gettata nel Po.
Speranzon Armida: Massacrata, assieme a centinaia di fascisti nella Cartiera Burgo di Mignagola dai partigiani di “Falco”. I resti delle vittime furono gettati nel fiume Sile.
Tam Angela Maria: Terziaria francescana, assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale.
Tescari -Ladini Letizia: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.
Ugazio Cornelia, Ugazio Mirella: Assassinate a Galliate (Novara) il 28 aprile 1945 assieme al padre.
Tra le vittime del massacro compiuto dai partigiani comunisti nelle carceri di Schio (54 assassinati nella notte tra il 6 ed il 7 luglio 1945) c’erano anche 19 donne, tra cui le 3 ausiliarie (Irma Baldi, Chiettini e Blandina Lavise) richiamate nell’elenco precedente. In via Giason del Maino, a Milano, tre franche tiratrici furono catturate e uccise il 26 aprile 1945. Sui tre cadaveri fu messo un cartello con la scritta “AUSIGLIARIE”. I corpi furono poi sepolti in una fossa comune a Musocco. Impossibile sapere se si trattasse veramente di tre ausiliarie. Nell’archivio dell’obitorio di Torino, il giornalista e storico Giorgio Pisanò ha ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del SAF. Cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco (Milano) sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Un numero imprecisato di ausiliarie della “Decima Mas” in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidi, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate.
Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.
Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo. Le onorificenze concesse dal governo per celebrare le vittime delle Foibe. Tra i commemorati decine di repubblichini, di cui 5 accusati di uccisioni, torture e saccheggi, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Medaglie di onorificenza «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» per circa 300 combattenti di Salò (tra cui almeno 5 criminali di guerra accusati di avere torturato e ucciso a sangue freddo). Partiamo dall’inizio. Le decorazioni sono state concesse dai governi a partire dal 2004 in memoria delle vittime delle foibe come previsto dalla legge istitutiva del Giorno del Ricordo. La promosse l’esecutivo Berlusconi su proposta di un gruppo di parlamentari: in prevalenza Fi e An, ma non mancavano esponenti Udc e del centrosinistra. Oltre alla conservazione della memoria, il testo disciplina la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». Ovvero, nel periodo che va dall’8 settembre a metà del 1947, a seguito di «torture, annegamenti, fucilazione, massacri, attentati in qualsiasi modo perpetrati». Con queste «maglie» assai larghe, tra i commemorati sono stati inseriti profili controversi. Stando almeno a carte provenienti dalla Jugoslavia ma anche dall’Italia. Nell’elenco di coloro che hanno ricevuto quello stemma «in vile metallo» - così lo definisce il provvedimento che alla Camera venne approvato con soli 15 voti contrari e all’unanimità al Senato - compaiono cinque nominativi che secondo i documenti conservati a Belgrado, presso «l’Archivio di Jugoslavia», sono «criminali di guerra». Gente che - anche prima dell’8 settembre, raccontano quelle carte - a seconda dei casi ha ucciso e torturato civili italiani e jugoslavi, ammazzato a sangue freddo, incendiato case, saccheggiato, ordinato fucilazioni di partigiani e segnalato gente da spedire nei lager in Germania. Si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi e del prefetto Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). I primi tre, raccontano fonti diverse, sia italiane sia slave, «scomparsi» o «dispersi» a partire dai primi giorni del maggio 1945, verosimilmente gettati nelle foibe. Il quarto «ucciso da slavi». Il quinto «infoibato». Il sesto, prefetto a Zara (occupazione nazista, amministrazione Rsi) catturato dai partigiani di Tito e fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Uno scenario, questo dei combattenti Rsi ricordati dalle medaglie, emerso per caso dopo che lo scorso 10 febbraio al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori - ucciso il 18 febbraio 1944 «in un agguato organizzato dai partigiani titini, quelli con cui stava combattendo aspramente da mesi» per stare alle parole del figlio Renato - per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio è stata dedicata la medaglia del Giorno del Ricordo. All’Anpi e in altre associazioni antifasciste si sono accorti però che Mori era sì un bersagliere. Ma repubblichino (il neologismo coniato da Radio Londra). Circostanza di cui si appreso solo dopo che dal comune di Traversetolo, nel Parmense, dove il soldato era nato, il sindaco ha deciso di revocare la dedica di una strada al bersagliere di Salò inizialmente passata nell’indifferenza. Da qui in poi, polemiche a non finire. A seguito delle quali è arrivato il mezzo ripensamento di Delrio che in un tweet ha chiarito che «se la commissione che ha vagliato centinaia di domande ha valutato erroneamente, il riconoscimento dovrà essere revocato». Appunto: una decisione che potrebbe essere presa già lunedì 23, quando il gruppo di esperti (10 in tutto: tra cui rappresentanti degli studi storici della Difesa, degli Interni e della Presidenza del consiglio e da storici delle foibe) prenderà in mano il dossier Mori. Che però potrebbe rivelarsi il meno problematico. L’elenco aggiornato dei riconoscimenti circa 300 persone. Solo alcuni solo civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri - i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti - militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi. Al pari di poliziotti e finanzieri. Militi, volontari nella Guardia Nazionale Repubblicana. Fascisti «idealisti e patrioti» come il capitano Mori che - è il ricordo del figlio - risulta «essersi opposto ai rastrellamenti ordinati dai tedeschi: lui combatteva i titini, non gli italiani». Ma nella lista ci sono almeno 5 criminali di guerra, secondo quanto stabilito dalla giustizia jugoslava. Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto. Vicende, queste delle efferatezze commesse dai fascisti medagliati, ricostruite da due storici in lavori diversi: Milovan Pisarri (italiano che vive a Belgrado) e Sandi Volk (italiano della minoranza slovena). Pisarri - lavori sulla Shoah e uno in uscita sul Porrajmos, l’Olocausto dei nomadi - ha raccolto i dossier sui criminali di guerra italiani studiando documenti a Belgrado, all’Archivio Jugoslavo. Scuote la testa, ora: per le mani si è ritrovato non solo le accuse basate sulle testimonianze delle vittime. Ma anche« fascicoli in italiano, ordini e disposizioni provenienti soprattutto dall’esercito regio in rotta nei Balcani». Materiale «ancora da studiare, importantissimo». Volk si è invece occupato del conteggio dei repubblichini commemorati nel Giorno del Ricordo. «Con quelli di quest’anno si arriva a 300. Il 90 per cento apparteneva a formazioni armate al servizio dei nazisti dato che il Friuli dopo l’8 settembre era divenuto “Zona d’Operazioni Litorale adriatico”, amministrata direttamente dai tedeschi e non facente parte della Rsi». Le formazioni fasciste «non potevano avere nemmeno le denominazioni che avevano a Salò ed erano alle dirette dipendenze dell’apparato nazista». L’elenco asciutto delle motivazioni racconta tanto: anche di scelte devastanti, meditate, che legano caso, ideali ed eroismo. Quella del carabiniere Bruno Domenico, ad esempio. Che l’8 settembre (il giorno dell’armistizio, dunque Salò deve ancora nascere) nella stazione dell’Arma di Rovigno, in Istria, «rifiuta di consegnare le armi ai partigiani comunisti italo croati». Lo incarcerano assieme ad altre 16 persone: e di lui non si sa più nulla. Almeno 56 sono i finanzieri di Salò medagliati per il Ricordo. I loro nomi compaiono sul sito delle Fiamme Gialle: tutti dispersi, verosimilmente uccisi da «partigiani titini» o «bande ribelli». Spiccano le storie del maresciallo Giuseppe D’Arrigo: viene a sapere che la brigata che comanda è stata interamente catturata. Al che indossa la divisa e raggiunge i titini, per stare vicino ai suoi uomini trattandone magari la liberazione. Ma viene fucilato il 3 maggio 1945. La stessa sorte toccata a Giuseppe D’Arrigo che si unisce ai partigiani jugoslavi intenzionato a combattere i tedeschi: ma pure lui viene passato per le armi. Ennio Andreotti viene catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre. In qualche modo si libera il 1° settembre 1944. Da questo giorno risulta disperso. «Fu presumibilmente catturato dai partigiani titini e soppresso».
Foibe, le 300 medaglie a fascisti Salò. La rabbia dell'Anpi: «Inammissibile. Legge sul Ricordo da sospendere». L'associazione dei partigiani: le onorificenze sono state concesse applicando la legge «in contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Indagine sui dossier, continua Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Quelle 300 medaglie concesse dai governi in carica dal 2004 ai 300 combattenti di Salò per il «Giorno del Ricordo» dedicato alle vittime delle Foibe? Un fatto «grave e inammissibile» secondo l'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia). Le onorificenze sono state date applicando la legge - (la 92 del 2004 che ricorda le Foibe) - «in netto contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Per questo occorre sospendere gli effetti del provvedimento, revocare i fregi già concessi dopo aver avviato «un'indagine accurata». La vicenda è emersa dopo che si scoperto che una delle medaglie date «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» era per un bersagliere della Repubblica Sociale di Salò, il capitano Paride Mori. «Un fascista idealista che non si è macchiato di nessuna colpa» è la testimonianza del figlio. Nell'elenco dei medagliati — circa 300: nella quasi totalità militari della Repubblica sociale di Salò — compaiono però altri nomi. Imbarazzanti assai. Soprattutto quello di un criminale di guerra sia per la giustizia italiana che quella jugoslava: ovvero il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone. Catturato dai partigiani di Tito, venne fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Stando inoltre a carte provenienti da Belgrado, dall'«Archivio di Jugoslavia» - l'archivio di Stato della ex Jugoslavia - ci sono altri quattro criminali di guerra tra i medagliati della foibe: si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi. Colpevoli, a seconda dei casi, di saccheggi, uccisioni a sangue freddo, torture. Le parole dell'Anpi sono tranchant: «Nessun riconoscimento – né per questa legge né per altre – può essere attribuito a chi militò per la Repubblica Sociale Italiana, in nome di una presunta pacificazione. Non c’è nulla da “pacificare”; c’è solo da rispettare la storia e la Costituzione, nata dalla Resistenza». Per questo la richiesta alla Presidenza del Consiglio è perentoria: bisogna «sospendere temporaneamente l’applicazione della legge sul Ricordo - (che, in sintesi, regola celebrazioni e consegna delle medaglie) e dar luogo a una indagine accurata sulle concessioni passate». Richiesta per cui l'associazione partigiana «svolgerà ogni azione necessaria». Parole, quelle dell'Anpi, cui si associa anche Giovanni Paglia, deputato di Sel, per il quale la consegna delle medaglie a «criminali di guerra riconosciuti» basterebbe a «rivedere l'intero impianto della legge e nel frattempo a liquidare l'attuale commissione» che ha valutato le richieste delle onorificenze. «Intanto, tuttavia, potrebbe bastare farla riunire - conclude Paglia - e farle adottare i provvedimenti dovuti a tutela della nostra memoria».
Foibe, le medaglie ai fascisti vanno “ritirate”. Ecco chi processa il Giorno del Ricordo, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Dopo le polemiche sulla medaglia al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori prosegue l’offensiva culturale contro la legge che istituisce la Giornata del Ricordo norma che prevede anche la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». La polemica contro Paride Mori fu sollevata dall’Anpi ed ora il Corriere rincara la dose, sottolineando che sono 300 i casi di onorificenze accordate a "Fascisti" da riconsiderare. 300 medaglie ai fascisti che non vanno giù agli storici contro le foibe. “L’elenco aggiornato dei medagliati per il Ricordo comprende più di 1000 persone – scrive Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera" – Molti di questi sono civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri – i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti – militari inquadrati nelle formazioni di Salò”. Fulloni sostiene poi che nell’elenco delle medaglie “sospette” ci sarebbero anche 5 “criminali di guerra”. Ma chi lo ha stabilito? La giustizia jugoslava, e tanto gli basta. Ma ancor di più Fulloni prende per oro colato le affermazioni dello storico Milovan Pisarri, il quale si sarebbe preso la briga si spuntare uno a uno i nomi degli ex militi Rsi che hanno ricevuto le onorificenze. In pratica si tratta di uno storico talmente super partes da definire la legge che istituisce la Giornata del Ricordo un episodio di “revisionismo di Stato” e non gli va giù che la Repubblica nata dalla Resistenza possa addirittura “premiare” dei fascisti. Un’offensiva contro la Giornata del Ricordo. Dei combattenti della Rsi che hanno ricevuto onorificenze da quando c’è la legge sulle vittime delle foibe (2004) si è occupato anche un altro storico molto “imparziale”: si tratta di Sandi Volk, uno che sostiene che la ricostruzione delle vicende delle foibe è viziata da “mistificazione” ideologica al servizio del neoirredentismo di destra. Si comincia con il dare spazio alle tesi di chi vorrebbe ancora occultare la verità sulle foibe per arrivare dove? Magari a chiedere di sopprimere la legge sulla Giornata del Ricordo?
Via la medaglia al fascista Mori. Grazie all’Anpi rivive l’odio di 70 anni fa, continua Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Insignito di una medaglia alla memoria nel giorno del Ricordo, il 10 febbraio, quando l’Italia rende omaggio alle vittime delle foibe, il fascista Paride Mori è oggi al centro di un’anacronistica polemica che, per i catacombali testimoni del decrepito antifascismo, dovrebbe imbarazzare Palazzo Chigi e la presidente della Camera Boldrini. Mori non fu una vittima degli infoibatori comunisti (morì in un agguato dei partigiani il 18 febbraio del 1944) ma comunque un italiano valoroso, che fece parte del Battaglione Mussolini dei bersaglieri che dopo l’8 settembre del 1943 difese il territorio italiano dall’invasione delle truppe di Tito. Opera assai meritoria ma non abbastanza per la parte che dalle infamie del maresciallo Tito fatica a prendere le doverose distanze. In un libro la storia e la vita di Paride Mori. Come racconta Alberto Zanettini in un libro dedicato a Paride Mori era il 9 settembre 1943 quando a Verona “alcuni ufficiali decisero di formare un Battaglione di Bersaglieri volontari, intitolato a “Benito Mussolini”, al quale aderirono in breve tempo, circa quattrocento uomini, il più giovane aveva 15 anni e il più anziano ne aveva 60 … il tenente Paride Mori era tra questi volontari”. “Per circa 20 mesi sopportarono le imboscate, la fame, il freddo, in numero molto inferiore al nemico, stimato ad uno a dieci, ma nonostante ciò resistettero e riuscirono a mantenere saldi alcuni confini nazionali che altrimenti sarebbero passati in mano alle orde comuniste di Tito. Poi il 30 aprile del 1945, a guerra finita, i bersaglieri si arresero ai partigiani di Tito con la garanzia di aver salva la vita e di poter raggiungere da subito le proprie case. Ma i comunisti di Tito non mantennero fede alle promesse, i bersaglieri furono imprigionati, torturati e fatti morire di fame e di stenti, i cadaveri, invece di seppellirli, li gettavano nelle buche che servivano da latrine per i prigionieri. I pochi sopravvissuti fecero rientro in Italia il 27 giugno 1947”. Che Mori non fosse un sanguinario nazista si evince dalle lettere alla moglie e al figlio, cui scriveva: “Come vedi io faccio il bravo soldato e servo la Patria con le armi ben salde nel pugno e tu devi fare il bravo ragazzo amando l’Italia, perlomeno quanto l’ama il tuo Papà e prepararti a servirla quando sarai grande”.
Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.
Guardate l'orologio: entro un'ora, in Italia, avranno pubblicato 7 nuovi libri scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Entro mezzanotte saranno 170. Ogni anno fanno 60mila nuovi, e circa il 60 per cento resterà invenduto. Sì, perché solo il 43 per cento degli italiani legge almeno un libro all'anno: e ancora meno - il 37 per cento - lo acquista. Di questo 37, solo il 4 per cento è formato da lettori forti: ma in generale calano i lettori e calano le vendite, come non era mai successo. Conoscevate questi dati? Sì? Perché la verità è che noi italiani non leggiamo un tubo.
«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».
____________________________
Fonte: Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.
Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.
Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009 aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.
61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.
Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.
Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.
L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).
E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.
Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.
I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane. Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.
Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)
In Europa:
Italia 33.200.000
Francia 350.000
Svizzera 200.000
Austria 650.000
Corsica 300.000
Altre parti d'Europa 300.000
Totale 35.000.000
Altrove:
Brasile 1.000.000
Rep. Argentina 620.000
Altre parti del Sudamerica 140.000
Stati Uniti 1.200.000
Africa 60.000
Totale 3.020.000
Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000
A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910 negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani). Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita, come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani ha raggiunto proporzioni ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.
Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:
Settentrionali
New York 94.458
Pennsylvania 59.627
California 50.156
Illinois 33.525
Massachusetts 22.062
Connecticut 13.391
Michigan 13.355
New Jersey 12.013
Colorado 9.254
Meridionali
New York 898.655
Pennsylvania 369.573
Massachusetts 132.820
New Jersey 106.667
Illinois 77.724
Connecticut 64.530
Ohio 53.012
Louisiana 31.394
Rhode Island 30.182
West Virginia 23.865
Michigan 15.570
California 15.018
Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.
L’ARTISTA DE SINISTRA
Il razzismo, se sa, è brutta robba.
È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.
Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta
è l’intellettuale quanno rutta.
Quanno se erge cor dito moralista
e come er Padreterno,
dei buoni e dei cattivi fa la lista.
Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,
è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente
de chi se crede sempre er più sapiente.
Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’
e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno
de chi è convinto che deve lascià un segno.
L’artista de sinistra in tracotanza,
dall’alto del suo ego trasformato,
diventa un drogato de arroganza.
Lui se convince de esse come un Faro,
invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.
Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...
Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Umberto Eco, filosofo, semiologo e saggista di fama internazionale ha espresso il suo pensiero l'11 giugno 2015 durante la consegna della laurea honoris causa in comunicazione e culture dei media all'università di Torino: "I social hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli, che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel".
Italia, un paese fondato sull’insulto. Dalle risse tra comuni in età medievale, alle lotte tra fazioni durante e dopo il Ventennio fascista, dall'odio dei settentrionali verso i meridionali fino ai recenti scontri che animano l'arena politica, la storia italiana è punteggiata da episodi di azioni compiute allo scopo di sminuire la dignità dell'avversario. Giancarlo Schizzerotto analizza lo scherno come arma politica in un'ottica di filologia integrale, individuando in questo fenomeno particolarmente vivo nell'Età di Mezzo un tratto caratteristico della nostra civiltà.
Italia, un paese fondato sull’insulto, scrive Bruno Giurato su “Il Giornale”. L’Italia, una civiltà fondata sullo scherno. Nell’attualità possono venire in mente gli sberleffi delle tifoserie del pallone, o quelli in Parlamento come la mortadella alla caduta del Governo Prodi un po’ di anni fa. O magari i “vaffaday” di Beppe Grillo, o le bordate di prese per il popò di origine social ai danni di star e starlette, uomini politici, cantanti e scrittori. Ma la tendenza, l’atteggiamento, il costume culturale è molto più antico di quanto cronaca riveli. Lo testimonia un librone di Giancarlo Schizzerotto, Sberleffi di campanile. Per una storia culturale dello scherno come elemeno di identità nazionale, dal Medioevo ai giorni nostri (Olshki, Firenze, pp. 642, 54 euro). Una rassegna enciclopedica, documentatissima, di modalità insultatorie, tutte italiane e diffuse da secoli. Schizzerotto (scomparso nel 2012), ex normalista, poi direttore di diverse biblioteche del Nord Italia ha scritto un “libro della vita”, costato un decennio di lavoro che è anche un fantastico promemoria di litigiosità, scherzi più o meno macabri, calpestamenti più o meno simbolici ma sempre al grado di crudeltà più alto possibile, della figura dell’avversario, del rivale, del dirimpettaio. Una storia e geografia ragionata dei motivi di dis-unione italiana. Prendiamo la Commedia di Dante. L’Inferno (ma anche il Purgatorio e perfino il Paradiso) tra l’altro è un’ enorme collezione di vituperia. Ci sono insulti ad altre città (“Pisa vituperio de le genti”; “Godi Fiorenza…”), strigliate sanguinose a personaggi storici, Capaneo che squadra le fiche al Cielo. Non è solo la santa indignazione del poeta-profeta, è anche il riflesso di un modus polemico diffuso nell’Italia di allora. Nel 1334 i bolognesi, imbufaliti con il legato pontificio di passaggio lo coprirono di contumelie, gli fecero il gesto delle “fiche” (il pollice tra indice e medio), mentre un drappello di prostitute mostravano al legato la loro “natura”. Addirittura nel Duecento sulla rocca di Carmignano c’erano due braccia di marmo immortalate nel gesto delle “fiche” all’indirizzo di Firenze. E, nel 1335 il gonfaloniere di Perugia per oltraggiare Arezzo perdente, oltre a far razziare il Duomo, fece istituire un Palio in città, a cui partecipavano solo prostitute vestite di rosso, che cavalcavano alla maniera degli uomini col vestito sollevato fino alla cintola. Quella dei Palii organizzati per puro scherno nelle città vinte era solo una delle tradizioni insultatorie. C’era anche, per esempio, l’uso di coniare monete apposite con simboli di scherno, o quello di entrare nella città conquistata con i pantaloni abbassati mostrando il sedere agli sconfitti. O altri sistemi di irrisione: nel 1449 a Firenze, l’ingresso della casa dell’ambasciatore milanese Sforza fu sommerso da quintali di letame. E fin qui siamo più o meno alla goliardia. Ma il libro di Schizzerotto documenta la crudeltà verso persone e animali, fino all’horror. Per esempio durante gli assedi, così diffusi nel Medioevo e Rinascimento, c’era l’uso di lanciare con le catapulte asini e giumente nella roccaforte nemica. Spesso si trattava di carogne putrefatte. Con intenti, oltre all’insulto, di guerra batteriologica. E si lanciavano anche feci e contenitori di urina, pesce marcio, immondizia, oltre ai soliti corpi contundenti. E se l’uso di rimandare a casa i prigionieri dopo avergli fatto tagliare nasi, mani e orecchie come umiliazione per la città di appartenenza e deterrente psicologico si è conservato fino a oggi in certe forme di guerriglia tribale (vedi Africa e Medioriente), ci sono episodi in cui la crudeltà diventa arte dello scherno: nel 1530 mentre Fabrizio Maramaldo assediava Volterra trovò fuori dalle mura un gatto sospeso per la pelle della schiena, le cui urla straziate erano un terribile sfottò del suo cognome: Maramaus.
Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…
La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!
L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.
Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.
Questo perché: chi si loda, si sbroda!
Nell’antichità i sacerdoti detenevano il sapere delle leggi, giusto per non perdere i privilegi ed affinchè tali norme non potessero essere usate contro di loro.
Dopo migliaia di anni nulla è cambiato. La responsabilità dei propri atti, se è riconosciuta ai poveri mortali italiani, non vale per il Presidente della Repubblica e per i magistrati italioti.
Giovanissimi fermati con droga, i genitori accusano i Carabinieri: «Non avete altro da fare? I carabinieri di Salò fermano sei giovani e allertano i genitori ma padri e madri difendono e coccolano i figli: «Rovinare un giovane per così poco, siete troppo rigidi», scrive Vittorio Cerdelli su “Il Corriere della Sera”. Si sa, «ogni scarrafone è bello a mamma soja» e i ragazzi italiani sono tutto fuorchè emancipati, ma che i genitori se la prendano con i Carabinieri perchè fermino i figli con le tasche piene di marijuana e cocaina è decisamente troppo anche per la più orgogliosa delle mamme. «Non avete altro da fare che prendervela con mio figlio per uno spinello? Rovinare un giovanissimo per così poco...», hanno detto alcuni premurosi genitori ai militari che li avevano chiamati per riportare a casa i loro pargoli dopo un controllo andato a segno in un locale di Moniga del Garda. La scena: nuvoloni di fumo di cannabis, musica a tutto volume e risse tra giovanissimi. «Non una novità, il locale è noto per fatti simili», secondo i carabinieri. Le luci si accendono, i cinofili entrano in azione e nel fuggi fuggi generale i più scaltri di disfano della droga che tengono in tasca. In sette non scampano ai controlli. «Documenti prego». In tasca hanno 30 grammi tra marijuana, hashish e cocaina, a uno di loro viene pure trovato un coltello a serramanico. Strano modo per divertirsi. I carabinieri chiamano i genitori, non si aspettano certo un ringraziamento ma accade l’inverosimile. Padri e madri, prontamente accorsi in pigiama per riportare a casa i figlioli dopo una notte di divertimento interrotta dai controlli, si prodigano a coccolarli (e rincuorarli) accusando i carabinieri: «Non avete altro da fare?», «Ma dai, nemmeno avesse un chilo», «Rovinare un giovane per così poco», «Siete troppo rigidi», «Ve la prendete per uno spinello». Dopo la difesa, è scappato pure il bacino della buonanotte.
"Il popolo italiano odia lo Stato ma non può farne a meno, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Più passa il tempo e più la corruzione aumenta, invadendo non soltanto le istituzioni locali e nazionali ma l'anima delle persone, quale che sia la loro collocazione sociale. Si chiama malavita o malgoverno o malaffare, ma meglio sarebbe dire malanimo: le persone pensano soltanto a se stesse e tutt'al più alla loro stretta famiglia. Il loro prossimo non va al di là di quella. Non pensiate che il fenomeno corruttivo sia un fatto esclusivamente italiano ed esclusivamente moderno: c'è dovunque e c'è sempre stato. Naturalmente ne varia l'intensità da persona a persona, da secolo a secolo e tra i diversi ceti sociali. Ma l'intensità deriva soprattutto dal censo: la corruzione dei ricchi opera su cifre notevolmente più cospicue, quella dei meno abbienti si esercita sugli spiccioli, ma comunque c'è ed è proporzionata al reddito: per un ricco corrompersi per ventimila euro non vale la pena, per un cittadino con reddito da diecimila euro all'anno farsi corrompere per cinquecento euro è già un discreto affare. Il tutto avviene in vario modo: appalti, racket, commercio di stupefacenti, di prostituzione, di voti elettorali, di agevolazioni di pubblici servizi, di emigranti. Può sembrare un controsenso ma sta di fatto che il corruttore ha bisogno di una società in cui operare e più vasta è meglio è. La corruzione non consente né l'isolamento né l'anarchia e la ragione è evidente: essa ha bisogno come scopo comune in tutte le sue forme di una società con le sue regole e i poteri che legalmente la amministrano. La corruzione ha la mira di aiutare alla conquista del potere e all'evasione delle regole o alla loro utilizzazione a vantaggio di alcuni e a danno di altri. Le famiglie (si chiamano così) mafiose, le clientele, gli interessi corporativi, dispongono di un potere capace di infiltrarsi. Ed è un potere che trova nei regimi di democrazia ampi varchi se si tratta di democrazie fragili e di istituzioni quasi sempre infiltrate dai corruttori. Questa fragilità democratica va combattuta perché è il malanno principale del quale la democrazia soffre. Essa dovrebbe esser portatrice degli ideali di Patria, di onestà, di libertà, di eguaglianza; ma è inevitabilmente terreno di lotta tra il malaffare e il buongoverno. Non c'è un finale a quella lotta: continua e durerà fino a quando durerà la nostra specie. Il bene e il male, il potere e l'amore, la pace e la guerra sono sentimenti in eterno conflitto e ciascuno di loro contiene un tasso elevato di corruzione. La storia ne fornisce eloquenti testimonianze, quella italiana in particolare e la ragione è facile da comprendere: una notevole massa di italiani non ama lo Stato ma desidera che ci sia. Aggiungo: non ama neppure che l'Europa divenga uno Stato federato, ma vuole che l'Europa ci sia. È assai singolare questo modo di ragionare, ma basta leggere o rileggere i testi di Dante e Petrarca, di Machiavelli e Guicciardini, di Mazzini e di Cavour. Hanno dedicato a diagnosticare questi valori e disvalori e le terapie che ciascuno di loro ha indicato e praticato per comprendere a fondo che cos'è il nostro Paese e soprattutto che cosa pensa e come si comporta la gran parte del nostro popolo.
Dante e Petrarca (più il primo che il secondo) conobbero la lotta politica dei Comuni. L'autore della Divina Commedia fu in un certo senso il primo padre della Patria, una Patria però letteraria, cui insegnare un linguaggio che non fosse più un dialetto del latino ma una lingua nazionale e la poesia dello "stilnovo" già anticipata dal Guinizzelli e dai siciliani ma creata da lui e dal suo fraterno amico Guido Cavalcanti. La loro Italia non aveva alcuna forma politica, salvo alcuni Comuni con una visione soltanto locale. Dante fu guelfo e ghibellino; alla fine fu esiliato da Firenze, ramingo nell'Italia del Nord, e ancora giovane morì a Ravenna. Che cosa fossero gli italiani non lo seppe e non gli importava. In realtà a quell'epoca non c'era un popolo ma soltanto plebi contadine o nascenti borghesie comunali la cui politica era quella delle città difese da mura per impedire ai nobili del contado e alle compagnie di ventura di invaderle. Ma due secoli dopo la situazione era notevolmente cambiata e la più approfondita diagnosi la fecero Machiavelli e Guicciardini, fiorentini ambedue. Repubblicano il primo, esiliato per molti anni a San Casciano; mediceo il secondo, uomo di corte, ambasciatore, ministro ai tempi del Magnifico, di papa Leone X e di papa Clemente VII, anch'essi rampolli di casa Medici. La diagnosi di quei due studiosi fu analoga: il popolo non aveva mai pensato all'Italia, era governato e dominato da una borghesia mercantile, specialmente nelle regioni del Centro- Nord, capace di inventare strumenti monetari e bancari che dettero grande impulso dal commercio di tutta Europa, ma privi di amor di Patria. Le passioni politiche sì, quelle c'erano e la corruzione sì, c'era anche quella, ma l'Italia non esisteva mentre nel resto d'Europa gli Stati unitari erano già sorti: in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Svezia, Polonia, Austria, Brandeburgo, Sassonia, Westfalia, Ungheria e le città marinare, quelle tedesche nel Baltico e in Italia Venezia, Genova, Pisa. Il popolo mercantile in Italia c'era, era accorto e colto e condivideva il potere congiurando o appoggiando i Signori laddove esistevano le Signorie; ma gran parte d'Italia era già dominio degli aragonesi o dei francesi o degli austriaci. Il Papa a sua volta aveva un regno che si estendeva in quasi tutta l'Italia centrale salvo la Toscana ed era dominato da alcune grandi famiglie come i Colonna, gli Orsini, i Borgia, i Farnese. Ma il resto degli abitanti dello Stivale erano plebe, servi della gleba, analfabeti, con una cultura contadina che aveva ferree regole di maschilismo, di violenza, di pugnale. La diagnosi di Machiavelli e di Guicciardini non differiva da questa realtà. Anzi la mise in luce con grande chiarezza. Machiavelli però sperava in un Principe che conquistasse il centro d'Italia e sapesse e volesse fondare uno Stato con la forza delle armi, le congiure, le armate dei capitani di ventura e i matrimoni di convenienza tra le famiglie regnanti. Guicciardini faceva più o meno la stessa diagnosi ma la terapia differiva, le speranze di Machiavelli d'avere prima o poi un'Italia come Stato, naturalmente governato da un padrone assoluto come erano i tempi di allora; quel Principe, chiunque fosse, avrebbe dovuto dare all'Italia un rango in Europa e trasformare le plebi in popolo consapevole e collaboratore. Guicciardini viceversa coincideva nella diagnosi ma differiva profondamente nella terapia. Riteneva auspicabile la fondazione d'uno Stato sovrano che abbracciasse gran parte dell'Italia, salvo quella dominata da potenze straniere che sarebbe stato assai difficile espellere. Ma sperare che gli italiani diventassero da plebe un popolo con il sentimento della Patria nell'animo lo escludeva nel modo più totale. Bisognava secondo lui governare il Paese utilizzando la plebe e questa era la sua conclusione. Passarono due secoli da allora ed ebbe inizio ai primi dell'Ottocento il movimento risorgimentale con tre protagonisti molto diversi tra loro: Mazzini, Cavour, Garibaldi. Ci furono alti e bassi in quel movimento e tre guerre denominate dell'indipendenza e guidate da Cavour con una diplomazia e una comprensione della realtà che difficilmente si trova nella storia moderna. Mazzini era un personaggio molto diverso: voleva la repubblica e voleva che nascesse dal basso. La sua era una forma di socialismo che aveva come strumento le insurrezioni popolari. Non insurrezioni di massa, non erano concepibili all'epoca; ma insurrezioni di qualche centinaio di persone se non addirittura qualche decina, che cercavano di sollevare la plebe contadina sperando che i suoi disagi la muovessero a combattere per una situazione migliore. Così non avvenne e le insurrezioni mazziniane non sortirono alcun effetto se non quello di allevare una classe di giovani intellettuali, studenti, docenti, che concepivano la Patria come il maestro aveva indicato. Quasi tutti erano settentrionali di nascita e fu molto singolare che questo drappello di italiani dedicati soprattutto a scuotere le classi meridionali venisse quasi tutto da Milano, da Bergamo, da Brescia, da Genova. Così furono a suo tempo i mille che mossero da Quarto verso Calatafimi. Garibaldi era una via di mezzo molto realistica e molto demiurgica tra Mazzini e Cavour. Era repubblicano come Mazzini ma disponile a trattare con la monarchia quando bisognava compiere un'impresa che richiedesse molte risorse umane e finanziarie. Questa fu l'impresa dei Mille da cui nacque poi lo Stato italiano. La corruzione certamente non c'era in quei giovani intellettuali e combattenti ma era già ampiamente diffusa in una società che aveva pochi capitali e doveva utilizzare nel proprio interesse quelli che il nuovo stato metteva a disposizione e che forti imprese bancarie e manifatturiere straniere investirono sulla nascita dell'Italia e della sua economia. Portarono con sé, questi capitali, una corruzione moderna che è quella che conosciamo ma che allora ebbe il suo inizio nelle ferrovie che furono costruite per unificare il territorio, nell'industria dell'elettricità e in quella dell'acciaio e della meccanica. Emigrazione da un lato, corruzione dall'altro, queste furono le due maggiori realtà italiane tra gli ultimi vent'anni dell'Ottocento e la guerra del 1915 che aprì una fase del tutto nuova nel Paese. Non voglio qui ripetere ciò che ho già scritto in altre occasioni ma mi limito a ricordare che Benito Mussolini fu uno degli esempi tipici del fenomeno italiano. Personalmente era onesto, aveva tutto e quindi non aveva bisogno di niente; ma i suoi gerarchi erano in gran parte corrotti e lui lo sapeva ma non interveniva perché quella corruzione a lui nota gli dava ancor più potere, li teneva in pugno e li manovrava come il burattinaio fa muovere i burattini. Disse più volte che senza la dittatura l'Italia non sarebbe stata governabile e che governare il nostro Paese era impossibile e comunque inutile.
Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite. La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor. Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno. Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte. Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo. A proposito dei rapporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa? Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia. Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.
"Me lo merito un Rolex?". Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.
Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!
Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e, distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.
Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti. Facciamo di tutto per dimostrare di essere i peggiori, ma in altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre. La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia. Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle. La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.
Processi veloci? Meglio processi giusti, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Il presidente della Repubblica Mattarella, nell’ambito della sua visita al Consiglio Superiore della Magistratura, ha fatto un intervento, affermando una cosa giusta e una sbagliata. Quella giusta e sacrosanta è che il Csm non può riformarsi da solo, perché invece occorre necessariamente che sia il legislatore ad intervenire soprattutto in tema di elezioni e di funzionamento della sezione disciplinare. Ed infatti, è proprio così. Se ci cono aspetti che davvero debbono essere riformati sono di sicuro il sistema elettorale attuale che alimenta a dismisura il sistema correntizio all’interno del Csm e quello della giustizia disciplinare che lascia troppo a desiderare, mostrando una cedevolezza eccessiva: le sentenze che affermano una responsabilità di un magistrato sono infatti assai rare e sempre assai miti, rispetto ai fatti accaduti e contestati. La cosa invece sbagliata che il capo dello Stato ha affermato è che la gente preme sempre di più e sempre di più si aspetta processi veloci.Ora, è ben vero che in Italia i processi hanno una durata biblica e che siamo per questo lo zimbello del mondo civile, ma lo siamo ancor di più perché il tasso di giustizia presente all’esito del processo si mostra pericolosamente ridotto e comunque precario. Insomma, fare i processi in modo più veloce è certo un bene, ma non è il bene principale: il bene principale è che dai processi scaturisca con una certa probabilità che sia ragionevole una decisione riconoscibile socialmente come giusta. Ciò purtroppo in Italia accade con una frequenza troppo bassa e per questo si avverte come un diffuso senso di disagio serpeggiare fra tutti coloro che per professione o per necessità son costretti a fare i conti con l’amministrazione della giustizia italiana. Non parliamo poi di cosa pensano all’estero di quanto accade nei nostri Tribunali, soprattutto in casi che hanno fatto molto rumore presso la stampa e l’opinione pubblica, come quelli di Adriano Sofri o di Raffaele Sollecito ed Amanda Knox . In casi del genere, i corrispondenti esteri sono stati costretti ad assistere allibiti alla celebrazione di sei, sette o più procedimenti penali che ogni volta ribaltavano la decisione già assunta: chi, per il Tribunale era innocente, per la Corte d’Appello era invece colpevole, per la Cassazione di nuovo innocente e poi da capo in una girandola di sentenze che si annullavano, si confermavano, si riformavano una dopo l’altra in un tragicomico gioco dell’oca. Alla fine, nessuno ci capisce più nulla e sarebbe molto più serio e rispettoso, anche della dignità delle persone coinvolte, lasciar perdere tutto e rinunciare ad ogni ulteriore prosecuzione. Ne viene che, per ogni evidenza, se i processi son troppo lunghi, spesso è perché son fatti male, in modo tale cioè da esigere gradi su gradi di giudizio, con tanti saluti alla giustizia della sentenza. Non mi stancherò di ripeterlo, seguendo Seneca: «cito scribendo non fit ut bene scribatur, bene scribendo fit ut cito». Vale a dire: chi scrive in fretta scriverà male, chi scrive bene scriverà in fretta. Sarebbe allora il caso allora che i nostri governanti ci pensassero un poco come si deve, per adottare provvedimenti destinati non a far presto i processi ma a farli bene, meglio di quanto siano fatti oggi. Anche perché, come sappiamo, farli bene – cioè capaci di rendere giustizia – equivale a farli in fretta. Assai più di oggi.
In galera per 22 anni da innocente: Gulotta racconta la sua storia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Era il 7 novembre 2014, quando “Il Garantista” vi aveva raccontato insieme all’avvocato Baldassarre Lauria, il più grande caso di ingiustizia dal dopoguerra a oggi. Protagonista di quella storia era Giuseppe Gulotta, un galantuomo di Alcamo finito dietro le sbarre appena diciottenne nel 1976, che ha speso 36 anni della sua vita tra galera e tribunale pur essendo innocente. Accusato dell’omicidio di due carabinieri, di aver fatto un blitz nella casermetta di Alcamo, Gulotta si rivelò molti anni dopo al centro di una sporca macchinazione di Stato che lo vide torturato e incriminato per nascondere l’indifendibile: un omicidio di Stato, voluto da Gladio e servizi deviati, che trovò in Giuseppe il perfetto capro espiatorio grazie a una confessione, estorta con la tortura, che lo costrinse a dichiararsi colpevole. Dopo qualche anno di silenzio, dopo vani tentativi di ottenere giustizia per i ventidue anni di carcere scontati da innocente, Giuseppe Gulotta ha deciso di raccontare la sua incredibile storia in “Alkamar” (il nome della piccola caserma di Alcamo che gli cambiò per sempre la vita), libro verità che ha scritto per ChiareLettere, e che presenterà il 10 giugno alle 19 e 30 presso “La luna ribelle” di Reggio Calabria assieme al giornalista Nicola Biondo. All’evento, ideato e realizzato dalla Fondazione “Giuseppe Marino” e introdotto da Daniela Bonazinga, saranno presenti anche Antonio Marino, presidente Fondazione “Giuseppe Marino”, Giuseppe Falcomatà, Sindaco di Reggio Calabria, Giovanni Muraca, Assessore comunale alla Legalità, Pardo Cellini e Baldassarre Lauria, avvocati, e suoi difensori. La data scelta per l’uscita del libro non è casuale. Proprio il 10 giugno, al tribunale di Reggio Calabria, si terrà difatti l’udienza relativa alla causa civile per il deposito delle perizie che verificheranno gli eventuali danni esistenziali, morali, biologici e patrimoniali subiti da Giuseppe Gulotta. Per comprendere di che tenore sarà il racconto di questo uomo mite, che pure non riesce a esprimere nemmeno un’ombra di rancore verso i suoi carnefici, ma soltanto rammarico per il figlio che non è riuscito a crescere, basti riandare con la memoria al racconto del suo legale Lauria. Che bene raccontò al nostro giornale, sulla base della confessione dell’ex brigadiere Olino, uomo meritevole che lasciò la divisa dopo gli orrori vissuti, come andarono le cose. «Gulotta, Ferrantelli e Santangelo vennero arrestati nella notte del 12 febbraio – ricorda Lauria – e brutalmente torturati e picchiati. Smisero di fare loro del male soltanto quando si autoaccusarono della strage di Alcamo. Tutto accadde in assenza dei loro difensori. C’era anche un allora giovane magistrato della Procura di Trapani, che assistette a quell’orrore senza farne denuncia. Non ebbe il coraggio di firmare i verbali. Lo chiameremo a rispondere di quella condotta». «Giuseppe Gulotta – prosegue l’avvocato – fu arrestato e riempito di botte per una notte intera. Fu preso a calci, gonfiato di pugni, gli puntarono le pistole alla tempia, gli presero a calci i genitali. Bevve acqua salata. Smisero di farlo a pezzi soltanto quando ebbero ciò che volevano: la confessione di essere stato il responsabile dell’eccidio in caserma». Il perché di tutta questa barbarie, giova ancora una volta ricordarlo. Ed ha a che fare con “Alkamar”, la casermetta in cui prestavano servizio due carabinieri sbagliati. Pochi giorni prima avevano fermato un camioncino che dovevano fingere di ignorare. Era carico d’armi destinate alla mafia. Armi di cui lo Stato sapeva negli anni sporchi di gladio. Leonardo Messina riferì alla Dia nel 99 che ad Alcamo, proprio negli anni dell’eccidio, era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni. Era giunto un contrordine, ma ormai il pasticcio era fatto. Trucidare i due uomini di Stato impiccioni, per lo Stato deviante non fu per nulla complicato. Le uniche complicazioni le ebbe Gulotta. Oggi finalmente Giuseppe può raccontare la sua storia. Da uomo libero. Da uomo distrutto che però non ha perso fiducia nelle istituzioni. Ce lo ha raccontato l’avvocato Lauria: «Dice che ha un solo rammarico, Giuseppe. Dice che quando finì in carcere aveva un bimbo di un anno e mezzo. Gli sarebbe piaciuto accompagnarlo a scuola. Almeno un giorno. Un giorno solo della sua vita».
Gulotta è da considerare un impresentabile?
Il Codice Chiaromonte, scrive Finemondo di Marco Damilano su “L’Espresso”. «Non possiamo affidare all'arma dei carabinieri o alle questure il compito di preparare elenchi di uomini politici e di amministratori sui quali gravono sospetti non provati, o a volte soltanto dicerie di vario tipo». Così parlava il presidente della Commissione parlamentare Antimafia illustrando alla stampa la nuova iniziativa della commissione per arginare l'infiltrazioni delle cosche criminali nelle liste elettorali. Un codice di autoregolamentazione sottoscritto da tutti i partiti, in cui le forze politiche si impegnavano a escludere dalle candidature quei nomi per cui fosse stato emesso decreto che disponeva il giudizio, o che presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio...In questi giorni l'iniziativa della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi di stilare una lista di cosiddetti impresentabili alla vigilia del voto regionale è stata definita in vari modi. «Sul piano umano volgare, sul piano politico infame, sul piano costituzionale eversiva», ha tuonato a notte fonda di fronte alla direzione del Pd il neo-presidente della Campania Vincenzo De Luca, il più illustre degli impresentabili. Parole accolte con l'applauso dei dirigenti del Pd, in linea del resto con quanto dichiarato nei giorni scorsi dai principali esponenti del partito. Contro De Luca? No, contro la Bindi. Si è detto: lista di proscrizione (Orfini), lista che lede i diritti costituzionali (Serracchiani), lista personale (Guerini, Carbone). E anche, ma da altro pulpito, più prestigioso e autorevole, il presidente dell'Anti-corruzione Raffaele Cantone: «quella lista è un errore grave. Non spetta all'antimafia fare liste, ma studiare il fenomeno mafioso». Eppure la lista Bindi non è un caso senza precedenti. Perché già in passato la commissione Antimafia provò a prendere un'iniziativa identica per modalità, tempistica e reazioni dei politici coinvolti. Di diverso c'era l'epoca: il 1991-92, il tramonto della Prima Repubblica. E la figura del presidente dell'Antimafia: il comunista Gerardo Chiaromonte, amico di Giorgio Napolitano e di Emanuele Macaluso, lontano anni luce da pulsioni giustizialiste e anzi severo critico nelle fasi successive degli eccessi di Mani Pulite. Un comunista di destra, garantista e prudente, se vogliamo dire così l'opposto per carattere e origine di Rosy Bindi, passionale cattolica di sinistra. Eppure il garantista Chiaromonte segue lo stesso percorso della Bindi e sarà oggetto di attacchi simili sul piano personale da parte dei vertici del suo partito, il Pds appena nato sulle ceneri del Pci. Il codice fa il suo esordio in vista delle elezioni regionali in Sicilia del giugno 1991. C'è ancora la Dc del 40 per cento nell'isola, Salvo Lima è potente europarlamentare, il partito sul piano nazionale è fortissimo, Andreotti regna a Palazzo Chigi con il Caf (Craxi Andreotti Forlani). «Il codice è uno strumento di selezione del personale politico e amministrativo e inverte un processo di degenerazione che non si può regolare altrimenti, perché le esclusioni per legge sono contrarie allo stato di diritto», spiega Chiaromonte. Una libera scelta della politica, chiamata a vigilare con più forza su se stessa, non una violazione della presunzione di innocenza. Anche in quel caso inizialmente i partiti sono o fingono di essere entusiasti: «Un tassello di grande importanza nella lotta alle deviazioni. Si interviene sulla candidabilità non attraverso una legge, ma un patto politico che può semplificare, in qualche caso, anche il problema delle nomine», si spertica in lodi il presidente della regione Sicilia, il dc Rino Nicolosi. I guai arrivano, naturalmente, quando dalle parole si passa ai fatti, cioè ai nomi. Per le regionali siciliane (stravinte dalla Dc) la commissione decide di pubblicare le conclusioni sulle liste a elezioni svolte, tre mesi dopo, senza dare i nomi ma soltanto il numero dei candidati che partito per partito hanno violato il codice: cinque deputati dell' assemblea regionale siciliana (Dc, Pds, Psi, Psdi e Msi-dn) sono stati candidati fuori dalle regole. «Abbiamo inviato i nominativi segnalatici ai segretari dei partiti. Rinnoviamo loro l'invito ad assumere le iniziative più opportune per una riforma sostanziale del modo di far politica e amministrazione soprattutto, ma non solo, nel mezzogiorno». A rispondere, a sorpresa, è il segretario del partito di Chiaromonte, Achille Occhetto, inferocito per l'inserimento nella lista di alcuni candidati del Pds: «La Commissione fornisca elementi di fatto più documentati di quelli indicati». Passa qualche mese e arrivano le elezioni politiche del 1992. Elezioni decisive: le prime con la preferenza unica, segnate dall'arresto a Milano del socialista Mario Chiesa e dall'omicidio a Palermo del dc andreottiano Salvo Lima. L'Antimafia decide di fare un passo avanti. «Per lottare contro la mafia, non solo Cesare, ma anche la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto», dice il garantista Chiaromonte. «Il nostro invito a tutti i partiti e ai movimenti che presenteranno candidature nella imminente consultazione elettorale, è quello di applicare con puntualità e rigore le norme esistenti e di onorare l'adesione data al codice di autoregolamentazione suggerito dalla commissione Antimafia». La domenica elettorale è il 5 aprile 1992. Nella settimana del voto (esattamente com'è succeduto per la Commissione Bindi), il 31 marzo, l'Antimafia pubblica la lista dei nomi «che dimostrano come da parte della maggioranza dei partiti non sia stata data un' interpretazione rigorosa dell' impegno a non presentare candidati che pur non essendo stati rinviati a giudizio hanno pendenze giudiziarie in corso». I nomi sono 33: 8 per il Msi, 6 per il Psdi, 4 per Psi, Pli e Lega, uno per Dc, Rifondazione Comunista, Pri, Verdi, Verdi Federalisti, Lega delle Leghe e Lista Civica di Taranto (ovvero Giancarlo Cito). Il primo in elenco è il missino Massimo Abbateangelo, condannato in primo grado all'ergastolo per banda armata, l'ultimo è il liberale Gianluigi Zelli, condannato per ricettazione e per detenzione e spaccio di droga. Il giorno dopo infuriano le polemiche. «L'Antimafia ha svolto un lavoro fazioso utilizzato da 'giornali e telegiornali per gettare in abbondanza fango sul Msi-Dn, presenteremo querele per diffamazione», reagisce il portavoce del partito, Francesco Storace. Un paio di nomi vengono depennati perché non rientrano nei requisiti indicati. E l'Antimafia viene lasciata sola. «La decisione di procedere alla pubblicazione prima delle elezioni era stata assunta dalla commissione in una seduta a gennaio, era universalmente nota e noi eravamo tenuti a rispettarla. Per la pubblicazione dei nomi ci siamo attenuti a un criterio assai rigoroso, facendo riferimento soltanto a persone condannate o rinviate a giudizio. Non possiamo esercitare noi una qualsiasi valutazione sull'entità dei reati per i quali erano state emanate condanne o decisi rinvii a giudizio», si difende Chiaromonte usando quasi le stesse parole utilizzate oggi dalla Bindi. È il 2 aprile 1992. Chiaromonte morirà un anno dopo, il 7 aprile 1993. La legislatura che comincia nell'indifferenza dei partiti per l'inquinamento delle liste eleggerà il Parlamento di Tangentopoli e delle stragi di mafia, Falcone, Borsellino, le bombe del 1993, i parlamentari siciliani rinchiusi a Roma con la paura di essere uccisi. De Luca era un comunista campano, immaginiamo devoto di Chiaromonte. Oggi il Pd lo applaude e isola Rosy Bindi, nessuno ha sentito il bisogno di chiederle scusa. E forse stasera in commissione Antimafia ci sarà un inedito processo, con la presidente nelle vesti dell'imputata e un pezzo di Pd sui banchi dell'accusa. Eppure, a distanza di anni, è lecito chiedersi chi è in continuità con la storia politica della sinistra e con quella istituzionale dell'Antimafia che fu di Gerardo Chiaromonte: Rosy Bindi o Vincenzo De Luca?
IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI.
Appello dei genitori agli insegnanti: "Non bocciate i nostri figli". Lettera a tutti gli istituti della provincia di Modena: "Bravi alle medie, disastrosi dopo. La colpa è della scuola", scrive Davide Berti su “L’Espresso”. Si parla di Buona Scuola, gli scrutini si fermano, sale la tensione per chi ha gli esami, qualcuno ha concluso percorsi formativi, magari particolari e interessanti, con docenti appassionati. La scuola è anche questo. Poi ci sono i genitori, che nei giorni scorsi hanno preso una iniziativa che mai a Modena si era vista, forse segno dei tempi. Il coordinamento provinciale dei presidenti dei consigli di circolo, di istituto e i comitati genitori di Modena - vale a dire i genitori eletti nelle scuole e quindi rappresentanti delle famiglie modenesi - hanno scritto una lettera aperta ai docenti, ai consigli di istituto delle scuole secondarie di secondo grado della provincia, indirizzandola in modo particolare agli insegnanti delle classi prime. Motivo? Una sorta di clemenza per gli scrutini del primo anno delle superiori, che rappresentano da sempre uno degli sbarramenti più severi del percorso scolastico. Colpa delle medie troppo larghe o delle superiori troppo severe? Per i genitori la colpa è della scuola in generale. Iniziativa quanto meno curiosa: «Nei prossimi giorni - scrivono i genitori agli insegnanti - sarete chiamati al difficile e delicato compito di valutare i nostri ragazzi e di decidere sul loro futuro. Conoscendovi ed apprezzando la vostra competenza, preparazione, capacità e serietà siamo certi che saprete farlo con grande attenzione. Ci permettiamo solamente di rivolgervi un accalorato invito a riflettere sulla situazione dei ragazzi delle prime superiori. Nella scuola italiana il momento più arduo e complesso è certamente il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori. I dati dimostrano come, alla fine del ciclo triennale delle scuole secondarie di primo grado, colleghi altrettanto bravi, preparati e coscienziosi come voi “licenziano” i nostri ragazzi in misura elevatissima: all’esame di terza media la percentuale dei promossi sfiora il 99 per cento, la metà di loro con punteggi superiori al sette. I dati dimostrano che dopo soli 12 mesi gli stessi ragazzi, forse per una mutazione genetica intervenuta, hanno risultati disastrosi alla fine della prima superiore, soprattutto negli indirizzi di scuola “apparentemente più facili”, tecnici e professionali». Poi una sottolineatura: «Diciamolo, c’è qualcosa che non va. Non nei ragazzi, non nelle loro famiglie, ma nel funzionamento della scuola italiana. I ragazzi e le famiglie pagano però le conseguenze, a volte anche molto pesanti in termini di dispersione scolastica, di questa situazione. Come associazione Coordinamento Provinciale Consigli di Circolo d’Istituto e Comitati Genitori, non abbiamo soluzioni pronte, formule magiche da proporre. Non chiediamo il “6 politico”, la promozione per tutti. Sarebbe un’ingiustizia ancora maggiore per i nostri ragazzi. Vi invitiamo semplicemente a riflettere su questa situazione nella convinzione che la vostra sensibilità, la vostra preparazione, la vostra professionalità vi aiuteranno a trovare la soluzione migliore per i nostri ragazzi». È una richiesta che parla da sola...
il commento su la rubrica "Non volevo fare la prof" di Mariangela Galatea Vaglio su “L’Espresso”. I genitori di Modena e la scuola media che non va. A Modena i genitori eletti nei consigli di circolo (quindi non dei genitori qualsiasi, i genitori che rappresentano la componente dei genitori nelle istituzioni scolastiche) hanno scritto a tutte le scuole della Provincia, chiedendo ai professori delle prime di "essere clementi": i loro figli, dicono, sono usciti dalle medie con punteggi buoni, ma poi in prima superiore non arrivano al sei. Di chi sarà mai la colpa? Per i genitori è chiaro: della scuola. "Ci permettiamo solamente di rivolgervi un accalorato invito a riflettere sulla situazione dei ragazzi delle prime superiori. Nella scuola italiana il momento più arduo e complesso è certamente il passaggio dalle scuole medie alle scuole superiori. I dati dimostrano come, alla fine del ciclo triennale delle scuole secondarie di primo grado, colleghi altrettanto bravi, preparati e coscienziosi come voi “licenziano” i nostri ragazzi in misura elevatissima: all’esame di terza media la percentuale dei promossi sfiora il 99 per cento, la metà di loro con punteggi superiori al sette. I dati dimostrano che dopo soli 12 mesi gli stessi ragazzi, forse per una mutazione genetica intervenuta, hanno risultati disastrosi alla fine della prima superiore, soprattutto negli indirizzi di scuola “apparentemente più facili”, tecnici e professionali. Diciamolo, c’è qualcosa che non va. Non nei ragazzi, non nelle loro famiglie, ma nel funzionamento della scuola italiana. I ragazzi e le famiglie pagano però le conseguenze, a volte anche molto pesanti in termini di dispersione scolastica, di questa situazione. Come associazione Coordinamento Provinciale Consigli di Circolo d’Istituto e Comitati Genitori, non abbiamo soluzioni pronte, formule magiche da proporre. Non chiediamo il “6 politico”, la promozione per tutti. Sarebbe un’ingiustizia ancora maggiore per i nostri ragazzi. Vi invitiamo semplicemente a riflettere su questa situazione nella convinzione che la vostra sensibilità, la vostra preparazione, la vostra professionalità vi aiuteranno a trovare la soluzione migliore per i nostri ragazzi." Ora, che si deve rispondere ad una lettera come questa? Per un insegnante, sbottare sarebbe facilissimo, e anche con fondati motivi. Perché non è chiaro poi esattamente cosa richiedano i genitori con il loro accorato appello: il sei politico no, lo dicono esplicitamente. Però non vogliono che i figlioli siano bocciati. Siamo dalle parti della botte piena e la moglie ubriaca: con tutta la buona volontà anche la mente più agile non riesce a trovare soluzione a questo paradosso. Tanto è vero che anche i genitori non suggeriscono strategie: dicono ai professori "pensateci voi", come i se poveri insegnanti fossero delle specie di geni della lampada, dotati di poteri miracolosi. Intendiamoci: la situazione descritta dalla lettera è reale, e spesso noi delle medie patiamo la difficoltà di trovare un coordinamento più stretto con i colleghi delle superiori, cosa difficile non per cattiva volontà ma perché l'ordinamento scolastico odierno non lo prevede e non esistono in pratica spazi e tempi di confronto. E' vero che ogni anno escono dalle medie quasi tutti. Agli esami di terza è rarissimo il caso di qualcuno che non sia ammesso ed ancor più raro quello di qualcuno che sia bocciato. E fra tanti alcuni ragazzi escono anche avendo avuto una sufficienza che è un vero e proprio regalo. I professori delle medie sono dunque troppo di "manica larga"? Be', non sempre: come al solito le dinamiche di certi voti andrebbero spiegate meglio perché spesso e volentieri il percorso della valutazione non è compreso appieno né dal genitore né dalla società in generale. Premettiamo una cosa: se alle medie si boccia sempre meno, anzi quasi nulla, è dovuto al fatto che la società nel suo complesso ha ormai deciso che la bocciatura alle medie e in tutta la scuola dell'obbligo è inaccettabile, e reagisce piccatissima quando qualcuno non viene promosso. Il Consiglio di Classe ed il Dirigente Scolastico che si azzardino a bocciare un alunno si ritrovano nel migliore dei casi ad affrontare genitori imbufaliti che si presentano in Presidenza minacciando azioni legali, anzi spesso le minacciano addirittura ad anno ancora in corso, come forma di pressione preventiva. Ma questo passi, è almeno comprensibile: a nessuno piace vedere il figlio bocciato. Meno comprensibile è che ormai i genitori si presentino con l'avvocato al seguito ed il ricorso già scritto anche se il ragazzo viene promosso, ma con un voto che non è quello sperato. A chi non è dentro al mondo della scuola sembrerà una follia, ma a luglio non si contano i padri e le madri che arrivano infuriati perché il figlio ha avuto solo sette o solo otto, come il compagno di banco che loro non sopportano, e giudicano questa un'onta da lavare con il sangue, o per lo meno in qualche aula di tribunale. Quindi non stupiamoci se alcuni voti in uscita sono magari "generosi" più del dovuto: alla prospettiva di ritrovarsi in grane legali per anni perché si è dato sei invece di sette molti, semplicemente, risolvono la questione alzando le medie, consapevoli che poi, appena il ragazzo arriverà alle superiori, la vita farà giustizia. Vi è poi un problema di fondo, meno noto ma decisivo. I giudizi delle medie e delle superiori sono basati su criteri differenti. Alle medie avendo a che fare con ragazzi più piccoli di età, il voto della singola materia tiene conto di tutta una serie di variabili. Noi, in pratica, non valutiamo in maniera secca e semplice solo quello che l'alunno ha imparato, ma teniamo conto anche del percorso complessivo che ha fatto in un periodo così delicato come è il passaggio tra l'infanzia e l'adolescenza. Per cui ragazzini che magari hanno qualche lacuna nella preparazione specifica vengono però licenziati con la sufficienza e anche di più perché teniamo conto della loro partecipazione, della loro capacità di impegnarsi, socializzare in classe, dimostrarsi disponibili e presenti. Non avendo per giunta la possibilità di rimandare a settembre come alle superiori l'alternativa è secca: o si boccia a giugno o si promuove. E così chi ha magari alcune materie lacunose viene mandato avanti, anche perché fermarlo e bloccarlo per un anno quando sappiamo che ha comunque fatto tutto il possibile e più di tanto non può dare sarebbe un atto di ingiustificata e soprattutto inutile crudeltà. Va anche detto che noi delle medie nei consigli orientativi per le superiori spesso segnaliamo questo fatto, cercando di indirizzare i ragazzi nel tipo di istituto e addirittura nella scuola specifica dove sappiamo che potranno riuscire meglio. La terminologia usata dai genitori nella lettera, che definisce "più facili" le scuole tecniche o professionali, fa un po' rabbrividire: in realtà non esistono "scuole più facili" e tecnici e professionali, anzi, sono scuole molto impegnative. Gran parte dei fallimenti sono imputabili, dati alla mano, al fatto che le famiglie e gli alunni spesso non seguono il consiglio orientativo dato dagli insegnanti, oppure, peggio ancora, danno per scontato, appunto, che un tecnico o un professionale siano scuole "facili" in cui non sono richiesti studio ed impegno serrato. Da qui molto spesso nasce l'esito disastroso del primo anno. Quindi, onestamente, io non so bene cosa rispondere ai genitori di Modena. Se non una cosa: dire a prescindere che la colpa non è dei ragazzi né delle famiglie, ma della scuola e basta non è solo ingeneroso, ma anche poco logico. Dall'uscita dalle medie, pure con un voto alto e non del tutto ingiustificato, alla bocciatura in prima superiore è passato un anno. Durante il quale un ragazzo, se si impegna, è in grado di recuperare da solo le lacune più gravi, anche in più materie. Se non viene rimandato settembre ma proprio bocciato sì, è vero, c'è sicuramente qualcosa che non va. Ma non solo ed esclusivamente nella scuola media che l'ha licenziato l'anno prima, ecco.
TITOLATI SI’, TITOLATI NO!
Essere o avere: questo è il dilemma!
“Quando sento parlare Salvini mi rendo conto di quanti libri non ha letto, dei film che non ha visto, delle canzoni che non ha ascoltato. Basta sentirlo parlare per capire che è un fuoricorso che non si è laureato, nonostante gli sforzi“. Lo ha detto il leader di Ncd, Angelino Alfano, intervenendo alla convention del partito, di fatto proseguendo quello che è ormai un lungo “botta e risposta” fra lui e il segretario della Lega Nord.
Alfano a Salvini: "Io sono laureato e tu no". Quando lo scontro politico passa dai titoli. Il ministro dell'Interno usa la laurea per attaccare il segretario leghista. Ma scorda che nel suo governo in tre sono senza laurea. E riapre il calderone dei complicati rapporti tra i politici e i titoli di studio mancanti, inventati, presi in ritardo e messi in dubbio, scrive Susanna Turco su “l’Espresso”. In un’altra giornataccia delle sue, pur di trovare un argomento da lanciare contro il leader leghista Matteo Salvini, Angelino Alfano, capo dell’Ncd, l’ha buttata sul titolo di studio: “Basta ascoltare Salvini e si capisce perché è un fuori corso. Uno che non si è nemmeno laureato nonostante i notevoli sforzi”, ha detto. Con il che simpaticamente apparendo nello stesso tempo fuorimoda e d’una certa età. Non che, persino in politica, una laurea sia carta straccia s’intende. Ma, senza stare a scomodare Platone, è appena il caso di notare che in questo periodo i titoli di studio in politica non vanno per la maggiore: non tanto perché al governo ci sono tre ministri senza laurea. Ma soprattutto perché la memoria dell’era Monti, il governo non solo dei laureati, ma addirittura dei professori, sta andando a scatafascio, tra penose esperienze politiche e tragici lasciti di esodati e di pensionati da risarcire. A dimostrazione, una volta di più, di quanto non sia affatto scontato che il sapere tecnico vada a braccetto con l’arte politica, o perfino col fare le leggi. E per di più risfodera, Alfano, un argomento più vecchio persino dell’età che porta. L’idea cioè che la laurea sia un discrimine, la controprova di essere entrati in un campo di ottimati: roba che rimanda al mondo dei padri, più che a quello dei figli, per i quali la laurea può anche non darsi, ma comunque è una conquista relativa visto che non basta più, da sola, a fare la differenza. Non per caso, alle ultime politiche Beppe Grillo andava urlando ai quattro venti che il “più scemo” dei suoi candidati, mediamente giovanissimi, aveva per lo meno “una laurea e un master”: precisando, peraltro, che “Non contano solo questi titoli”, ma anche per esempio, l’esser madre di tre figli, con tutta la “esperienza ad amministrare” che ciò comporta. Né è da dimenticarsi che una delle ultime polemiche di governo sui laureati aveva il segno inverso: “Se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato”, fu la celeberrima gaffe con la quale Michel Martone, giovane professore e sottosegretario al lavoro, oltre ad attirarsi un mare di simpatie, chiarì a suo modo cosa la laurea è diventata (per chi può permettersela): il prodromo a un master. L’orgoglio di rivendicarla capita invece per lo più a politici di una certa età. Esibire il titolo di studio che si ha, o che magari nemmeno si ha. Come fu il “grave errore dovuto a un complesso di inferiorità” di Oscar Giannino, giornalista economico, la cui esperienza politica fu appunto devastata nel 2013 dalla mancanza della sua propria asserita doppia laurea in Legge e in Economia (per non parlare del master a Chicago): il suo Fare per Fermare il declino, dopo quella vicenda, fu travolto al punto che le cronache riportano di come, dopo la tragedia, il capolista in Umbria Eugenio Guarducci girasse per la campagna elettorale portandosi appresso, tipo vessillo sacro, la sua laurea in architettura, con tanto di cornice dorata, prontamente staccata da una parete del corridoio di casa. Ecco, perché poi le più roventi polemiche del tipo “io sono laureato e tu no”, paiono appartenere in effetti ad un’altra stagione, ad altri uomini. In un Parlamento composto per due terzi da dottori in qualcosa (419 su 630 alla Camera, 210 su 315 al Senato) che Renzi sia laureato, come Angelino Alfano e Mara Carfagna, importa poco. Che non lo siano Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, Andrea Orlando, ministro della Giustizia, o Matteo Orfini, presidente Pd, importa altrettanto. E invece, giusto a proposito di Guardasigilli, c’è traccia di un piccato botta e risposta che Piero Fassino, da ministro della Giustizia, ebbe con il leghista Roberto Castelli, che peraltro sarebbe stato il suo successore a via Arenula: “Fassino ha fatto il classico come me, ma io sono laureato e lui no”. “Non è vero, mi sono laureato in scienze politiche con 110 e lode”. “E in che anno?”. “Nel 1998, a Torino”. “Ah, dunque ha studiato mentre faceva il sottosegretario agli Esteri…”. Insomma si arrivò a un passo da quel che fece poi Pier Luigi Bersani: pubblicare su Facebook la copia del suo libretto universitario (tutti 30, 30 e lode, un 28), dopo che da ministra dell’Istruzione Mariastella Gelmini gli aveva dato dello “studente ripetente”. Andando più indietro, c’è traccia di un comprensivo Clemente Mastella (“ho grande rispetto per chi ha studiato all’università della vita”) che tuttavia a Porta a porta chiarisce “io la laurea ce l’ho”, o di uno sdegnoso Pier Ferdinando Casini, che a un comizio precisa: “Mi chiami pure dottore, sono laureato a Bologna”. C’è l’affondo del forzista Francesco Giro contro Rutelli, che a un certo punto s’era detto pronto a fare “un corso di aggiornamento a Berlusconi”: “Lezioni di storia da Francesco Rutelli che non è stato capace di portare a termine i propri studi universitari di architettura? Sarebbe ridicolo”. In effetti è stato proprio Berlusconi l’uomo più affezionato al genere: il che forse spiega perché adesso Alfano ritiri fuori quell’argomento. Nel 2001 il Cavaliere ne fece un pezzo della propria campagna elettorale: “Quelli dell’Ulivo non sono neanche laureati”, andava dicendo. Fregandosene per esempio che Bossi fosse solo diplomato perito tecnico elettronico alla scuola Radio Elettra, che Marco Follini e Maurizio Gasparri fossero fermi alla maturità classica, a quella scientifica Francesco Storace e Gianni Alemanno (che poi si è laureato, da ministro, nel 2003), a quella linguistica Stefania Prestigiacomo (laurea triennale nel 2006). Tanto, di là, c’erano tra i non laureati appunto Rutelli, candidato premier, ma anche Massimo D’Alema (fermo a prima della tesi alla Normale di Pisa), Walter Veltroni e pure Fausto Bertinotti (perito industriale). Negli anni, ritrovandoselo poi come competitor nel 2008, Berlusconi se l’è presa soprattutto con Veltroni, definito “l’innovatore che invece di laurearsi si è diplomato in fiction”, colui che “dovrebbe prendersi una laurea visto che l’unica che ha è quella delle insolenze e delle menzogne”, quello da chiamare in caso di bisogno: “Lei signora fa l’attrice?”, chiese il Cavaliere a un incontro di partito, “allora si deve fare assumere da Veltroni. E’ lui che ha il diploma in cinematografia, io sono semplicemente un laureato con 110 su 110. Non può venire da me”, gigioneggiò il Cavaliere. Quel che è emerso poi, tra serate eleganti e bunga bunga, certo chiarisce da sé il peso sgocciolato di tali prese di posizione. Ma tant’è. Contro Berlusconi, il leader Idv Antonio Di Pietro intentò addirittura un processo per diffamazione, dopo che l’allora premier aveva detto, in un comizio a Viterbo, che l’ex pm di mani pulite “si era preso la laurea coi servizi segreti”. Un’onta che di Pietro ha continuato a citare, negli anni, come dimostrazione di tutte le menzogne berlusconiane: e che si è lavata in via definitiva solo di recente, quando l’ex magistrato ha accettato un risarcimento in denaro in cambio del ritiro della querela (ignoto il peso del gruzzolo). “E comunque il suo ex sodale Bettino Craxi non era laureato” resta in ogni caso a tutt’oggi la più chiara spiegazione di quanto a Di Pietro bruciasse l’accusa. A conti fatti, mentre per esempio nel centrosinistra si ha un atteggiamento molto noblesse (salvo adontarsi parecchio se i titoli vengono messi in dubbio, si sta sul: “Le esperienze maturate sul lavoro e nel volontariato valgono per lui molto di più anche delle mie due lauree”, come disse una volta Giuliano Pisapia) è proprio nella Lega che la faccenda risulta più problematica, faticosa da digerire. In questo, prendendo in giro Salvini, Alfano coglie qualcosa di vero. E se ora il leader leghista pur masticando amaro per i suoi cinque esami mancanti a Lettere spiega che “visti i risultati della Fornero sul lavoro, sono contento di non essermi laureato”, c’è da ricordare che Bossi all’inizio della sua attività politica (e persino alla prima moglie) fece credere d’essersi laureato. Mentre poi, anche degli studi del figlio Renzo talvolta accennò, prima che il Carroccio fosse travolto dalle inchieste sull’uso familista dei fondi del partito, dalle quali emerse una fantomatica laurea di Bossi junior conseguita in Albania. “Non ne so niente”, si difese Renzo. Così come fece anche la leghista Rosy Mauro, smentendo d’aver preso una laurea all’estero a spese della Lega con una argomentazione squisita: “Io ero asina a scuola, non mi ha mai neppure sfiorato l’idea di iscrivermi ad una università”. Va tuttavia detto che, nel mare delle lauree ad honorem che le università usano conferire ai politici (laureati e non), proprio Bossi è pressoché l’unico ad averla rifiutata: “Una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni a me? Sono stupidaggini. Avrei potuto fare il medico, invece ho scelto la Lega”. Almeno l’orgoglio, bontà sua.
Laurea e concorso pubblico “taroccati”. Guai per il fratello di Angelino Alfano, scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. La squadra mobile di Palermo sequestra i documenti relativi alla nomina di Alessandro Alfano a segretario generale della Camera di Commercio di Trapani. L'ipotesi è che non avesse i titoli richiesti. Il caso si aggiunge all'inchiesta aperta sull'università del capoluogo siciliano. Laurea in economia e commercio fasulla e concorso pubblico per diventare segretario generale della Camera di Commercio di Trapani taroccato. E’ la pesante ipotesi accusatoria che gli inquirenti sollevano nei confronti di Alessandro Alfano, fratello minore di Angelino, segretario del Pdl. Ieri gli agenti della sezione reati contro la pubblica amministrazione della squadra mobile di Palermo sono entrati negli uffici della Camera di Commercio trapanese per sequestrare il fascicolo del concorso vinto da Alfano junior nel 2010. E proprio stamattina il fratello dell’ex Guardasigilli si è dimesso dall’incarico al vertice della Camera di Commercio di Trapani. All’inizio di dicembre Alfano era già finito tra i trenta indagati nell’inchiesta sugli esami comprati all’università di Palermo. L’indagine, che è coordinata dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Amelia Luise e Sergio Demontis, ha preso il via proprio nel capoluogo siciliano. Per l’esattezza negli uffici di segreteria della facoltà di Economia e Commercio. Dove conseguire la laurea era diventato semplicissimo. Bastava pagare, ovviamente in contanti, un’ impiegata della segreteria che in cambio inseriva nel database informatico dell’università esami mai sostenuti. E la laurea tanto agognata arrivava senza troppa fatica. L’indagine interna all’ateneo aveva già allontanato la dipendente infedele che aveva confermato di aver inserito nel sistema informatico esami fantasma in cambio di denaro. Adesso però l’inchiesta della magistratura sta cercando di far luce sui complici della segretaria corrotta e soprattutto sui corruttori. Ovvero gli studenti che acquistavano gli esami anziché studiare e sostenerli come tutti gli altri. E nella rete della procura palermitana è finito anche Alessandro Alfano, laureato nel 2009 alla triennale d’Economia e Commercio, quando aveva già compiuto 34 anni. Dal 2006 però, quando ancora non aveva conseguito il titolo di studio, Alfano era stato nominato segretario generale di Unioncamere Sicilia. Nel 2010 poi, dopo essersi finalmente laureato, il salto di qualità al vertice della Camera di Commercio di Trapani. Ben prima che si tenesse il regolare concorso pubblico, però, un esposto anonimo aveva incredibilmente predetto la vittoria del fratello dell’ex Ministro della Giustizia nella corsa alla segreteria generale. Nell’esposto si faceva anche riferimento al curriculum di Alfano Junior, tecnicamente insufficiente dato che il fratello del segretario del Pdl non avrebbe avuto alle spalle i cinque anni richiesti di esperienza dirigenziale, requisito fondamentale per partecipare alla corsa di segretario generale della Camera di Commercio trapanese. Adesso il fascicolo del concorso è al vaglio degl’inquirenti. Che stanno anche cercando di capire quali esami Alessandro Alfano avrebbe sostenuto all’università e quali invece figurerebbero nel suo piano di studi, senza che sia presente in archivio alcuna copia del verbale o dello statino. Alfano junior ostenta serenità : “Le mie dimissioni – ha spiegato – sono un atto di rispetto nei confronti di chi indaga e della Camera di commercio di Trapani affinché questa vicenda non abbia ripercussioni sull’attività svolta dallo stesso ente. Non voglio che questa vicenda si possa prestare a strumentalizzazioni politiche e pertanto ho deciso di dimettermi. Ribadisco di aver regolarmente sostenuto gli esami all’università oggetto di verifica e a tal riguardo sono pronto a dare tutte le spiegazioni necessarie alla magistratura”. Alfano è al momento indagato soltanto per frode informatica. Alcuni tra gli altri 29 ex studenti sono invece accusati anche di concorso in falso e corruzione, dato che sarebbero state trovate le prove dei pagamenti. Dal computer di Economia era possibile accedere anche ai database delle altre facoltà, e ogni tipo di esame avrebbe avuto il suo prezzo: fino tremila euro per quelli d’Economia, meno di mille per le materie di Scienze Politiche. Pagamenti rateali invece per gli esami d’Ingegneria.
Quando la laurea non serve: 7 famosi che non l’hanno mai presa, scrive Skuolanet su “La Stampa”. Da Steve Jobs a Benigni, da Mentana a Montale e Piero Angela, ecco 7 personaggi famosi che non hanno mai preso la laurea ma che hanno avuto lo stesso enorme successo nella loro carriera. Chi ha detto che la laurea nella vita è tutto? Ci sono personaggi famosi, noti alle cronache per grandi successi, che non hanno raggiunto l’ambito obiettivo che in molti si prefiggono: la laurea. Certo laurearsi è importante, ma non è l’esclusivo strumento per il successo. Vi dice qualcosa Apple o Facebook? Conoscerete sicuramente il signor Steve Jobs, con la t-shirt nera e i jeans, colui che ha inventato il Mac e l’iPhone. Ma ci sono molti altri personaggi acclamati di casa nostra che sono diventati qualcuno senza finire gli studi. Magari avrete sentito parlare di un certo Dario Fo, il Nobel per la Letteratura, il giornalista Mentana o l’esperto di Divina Commedia Roberto Benigni. Sono esempi di persone famose che non hanno ottenuto la laurea ma raggiunto lo stesso importanti traguardi. Ecco la lista:
7. Piero Angela - Il giornalista scientifico più famoso della Tv ha svelato da poco di non aver mai ottenuto la laurea. Niente titolo di studio universitario, ma grandi riconoscimenti professionali e share televisivi, per un signore che ha formato con i suoi programmi didattici migliaia di telespettatori di ogni età.
6. Enrico Mentana - E’ noto alle cronache per essere il giornalista con la lingua più veloce, rapido e scattante come un treno,si narra che in meno di 60 secondi riesce a leggere le scalette dei sommari del suo telegiornale. Enrico Mentana non ha la laurea, ma a quanto pare è riuscito lo stesso a diventare il direttore di uno dei giornali Tv più seguiti in Italia.
5. Eugenio Montale - Premio Nobel per la letteratura. Svariate centinaia di poesie scritte e insegnate nelle scuole. Il poeta degli “Ossi di Seppia” e del “Male di vivere”, grazie alle sue metafore e al suo umorismo sottile, nell’arco di 50 anni di letteratura è riuscito a segnare una traccia profonda forse più vivida dell’inchiostro per firmare un voto sopra un foglio istituzionale.
4. Roberto Benigni - Il cantore moderno della “Divina Commedia”, protagonista di alcuni tra i film più belli del cinema italiano e premio Oscar per uno dei lungometraggi più commoventi del cinema mondiale. Sicuramente un riconoscimento che vale molto più di un 110 all’università.
3. Dario Fo - “Mistero Buffo” è il titolo della sua opera teatrale più famosa, ma anche un attributo che calza bene alla faccia comica, misteriosa e umoristica che ha portato questo saltimbanco moderno a celebrare l’Italia nel mondo grazie al premio Nobel per la Letteratura. All’università non avrà preso la laurea, certo, ma ha guadagnato un riconoscimento forse più gratificante.
2.Steve Jobs - Una delle personalità più complicate quanto affascinanti degli ultimi trent’anni. Il visionario che ha rivoluzionato la tecnologia e il modo di usarla, l’uomo che ha creato uno stile cambiando radicalmente il concetto di tecnologia: all’università non ha mai preso la laurea. Dopo aver frequentato diversi corsi ha mollato tutto per un viaggio in India e nel giro di pochi anni ha fondato una delle aziende più famose e ricche del globo.
1. Mark Zuckerberg - Era partito come un gioco,poi Facebook è diventato la piattaforma più usata sul pianeta. Milioni di persone collegate unite sulla rete social più grande mai creata. Mark Zuckerberg ha avuto un’idea geniale che gli è valsa più soddisfazione della proclamazione ufficiale del suo college ad Harvard.
Se pensate che per diventare milionari sia strettamente necessaria una laurea, probabilmente non avete accortezza di come ad oggi va il mondo. Titoli magistrali? Dottorati di ricerca? Master? Niente di tutto questo favorirebbe, secondo un recente studio di Approved Index, il successo economico nell’avvio e nello sviluppo di un proprio business. I ricercatori hanno esaminato i profili delle 100 persone più ricche del pianeta, notando che ben 32 non sono laureate. Una maggioranza schiacciante rispetto agli altri gruppi rappresentati nell’indice, con 22 ingegneri, 12 dottori in business, 9 laureati in arte, 8 in economia e 3 in finanza. Posto che l’elenco considera come criterio quello strettamente economico – non si sta qui parlando di preparazione culturale o QI – pare proprio che per essere dei Paperoni una preparazione accademica conti ben poco.
Miliardari senza laurea. Un blog americano stila una classifica di 15 super-ricchi privi del titolo universitario, scrive Alessandra Carboni su “Il Corriere della Sera”. «Devi finire le superiori, così potrai andare all'università e poi, una volta laureato, sarai sicuro di trovare un lavoro in cui far carriera». Recita più o meno così l'adagio rivolto dai genitori ai figli nell'intento di convincerli a non mollare la scuola, perchè - si sa - «studiare è importante». Ma c'è anche chi è pronto a smontare l'equazione da un altro punto di vista, per dimostrare che per diventare imprenditori di successo non è sempre obbligatorio trascorrere la gioventù sui libri. A sostenere questa teoria è il fondatore del blog College Startup , che sulle sue pagine stila una classifica di celebri ricconi diventati tali pur non avendo frequentato l'università. I nomi chiamati in causa sono 15 - tutti decisamente eccellenti - elencati in rigoroso ordine alfabetico. Scorrendo la lista ci si imbatte subito nel patron di casa Virgin, Richard Branson, che ha abbandonatogli studi a 16 anni per dedicarsi alla sua prima impresa, la rivista Student Magazine. Successivamente, la sua insaziabile fame di business lo ha portato a diventare l'imprenditore di successo che sappiamo, attualmente proprietario di ben 360 aziende. Un successo nato dal nulla anche quello della stilista Coco Chanel - orfana e senza possibilità di frequentare la scuola ma determinata a «diventare qualcuno» - come pure quello di Michael Dell, che con mille dollari in tasca ed entusiasmo da vendere ha lasciato il college all'età di 19 anni per fondare PC's Limited, ovvero quello che poi è diventato uno dei più grandi nomi nel campo della produzione di Pc: Dell Inc. E che dire di Walt Disney? Il papà di Topolino ha smesso di studiare a 16 anni, ma questo non gli ha impedito di diventare il signor Disney. Oggi la Walt Disney Company produce utili per 30 miliardi di dollari. Non male. Come la carriera di Henry Ford, che sempre a 16 anni se n'è andato di casa per lavorare come apprendista macchinista, salvo poi diventare il fondatore della Ford Motor Company e rivoluzionare l'industria automobilistica. Non ultimi, ecco altri due non-laureati illustri: Bill Gates e il suo antagonista di sempre, Steve Jobs. Il fondatore di Microsoft ha abbandonato l'università e non si è mai laureato, ma domina ugualmente la classifica degli uomini più ricchi del mondo dal 1995; Jobs si è limitato a frequentare il college per un semestre (ma lui stesso ammette che dopo l'abbandono ufficiale lo ha frequentato «clandestinamente» per un anno) prima di iniziare a lavorare per Atari e successivamente fondare la sua Apple Computers. Infine, passando dall'architettura software a quella edilizia, non si può certo ignorare che anche il genio di Frank Lloyd Wright non deve il proprio successo ad alcun titolo di studio. L'architetto di Fallingwater non si è mai iscritto alla scuola superiore, ma è stato uno degli esponenti più influenti dell'architettura del ventesimo secolo. Genio, intuito, coraggio e fortuna sono alla base della storia di tutti questi personaggi di successo, ma è assai probabile che le cose sarebbero andate così così anche se avessero avuto un titolo di studio nel cassetto. Nel dubbio, vale comunque la pena di ricordare che il tempo trascorso sui libri non è mai tempo sprecato.
15 imprenditori ricchi e famosi nel mondo senza laurea, scrive Matteo Spigolon su “Azuleia”.
Mary Kay Ash. Il fondatore di Mary Kay Inc. ha iniziato commerciando cosmetici. Senza nessun tipo di formazione, ha creato con successo un marchio conosciuto in tutto il mondo. Ad oggi, circa mezzo milione di donne hanno iniziato a vendere cosmetici per Mary Kay. Il loro apprezzamento per Mary Kay Ash è incredibile.
Richard Branson. Richard Branson è meglio conosciuto per la sua ricerca del brivido, per tattiche di business estreme e spirito emotivo. Ha abbandonato la scuola all’età di 16 ed ha iniziato la sua prima avventura d’affari di successo, Student Magazine. Egli è il proprietario del marchio Virgin e di altre 360 aziende. Le sue aziende includono Virgin Megastore e Virgin Atlantic Airway.
Coco Chanel. Orfana per molti anni, Gabrielle Coco Chanel si è “allenata” come sarta. Determinata ad inventare se stessa, lanciò l’idea coraggiosa che il mondo della moda femminile si sarebbe reinventato usando il tessuto e gli stili normalmente riservati agli uomini. Un profumo che porta il suo nome, Chanel No. 5 è famoso in tutto il mondo.
Simon Cowell. Simon Cowell ha iniziato a lavorare nell’ufficio postale di una casa editrice musicale. Da allora è diventato un artista ed un responsabile dei repertori per Sony BMG nel Regno Unito, è un produttore televisivo e giudice per le gare più importanti di talent show, tra cui American Idol.
Michael Dell. Con 1.000 dollari, la dedizione ed il desiderio, Michael Dell ha lasciato il college all’età di 19 anni per avviare PC Limited, poi chiamata Dell. Dell Inc. è diventato il più grande produttore di PC al mondo. Nel 1996, “The Michael e Susan Dell Foundation” ha offerto 50 milioni di dollari di sovvenzione alla Università del Texas a Austin da utilizzare per la salute dei bambini e l’istruzione in città.
Barry Diller. Fox Broadcasting Company è stata avviata dopo l’abbandono degli studi universitari. Diller è ora presidente di Expedia, CEO di IAC / InterActiveCorp.
Walt Disney. Dopo aver abbandonato la scuole superiori a 16 anni, la carriera di Walt Disney e le sue realizzazioni sono sbalorditive. La casa di animazione più influente, Disney detiene il record per il maggior numero di premi e nomination. Nella sua immaginazione erano previsti cartoni animati Disney e parchi a tema. The Walt Disney Company ha oggi un fatturato annuo di $ 30 miliardi.
Debbi Fields. Come giovane casalinga di 20 anni senza alcuna esperienza di business, Campi Debbi ha avviato “Mrs. Fields Chippery Chocolate”. Con una ricetta per biscotti al cioccolato, questa giovane donna è diventata la maggior titolare d’azienda di successo nel campo dei biscotti. In seguito ha cambiato nome, come franchising, poi venduto, in “Mrs.Field Cookies”.
Henry Ford. A 16 anni, Henry Ford ha lasciato casa per fare l’apprendista come macchinista. In seguito avviato la “Ford Motor Company” per la produzione di automobili. Primo grande successo di Ford, il Modello T. Ford ha poi aperto una grande fabbrica per iniziare la produzione, utilizzando la catena di montaggio, rivoluzionando il processo industriale.
Bill Gates. Classificato come uomo più ricco del mondo dal 1995 al2006, Bill Gates ha abbandonato anche lui gli studi universitari. Ha avviato la più grande società di software, Microsoft Corporation. Gates e sua moglie sono filantropi, hanno una fondazione, “The Bill & Melinda Gates Foundation”, con un focus sulla salute globale e sull’apprendimento.
Milton Hershey. Con solo la quarta elementare, Milton Hershey ha avviato la sua azienda di cioccolato. “Hershey Chocolate Milk” divenne il primo cioccolato commercializzato a livello nazionale negli Stati Uniti. Hershey è inoltre concentrato sulla costruzione di una meravigliosa comunità per i suoi operai, nota come Hershey, in Pennsylvania.
Steve Jobs. Dopo aver frequentato un semestre di college, Steve Jobs ha lavorato per Atari, prima di co-fondare Apple Computers. Ora Apple ha inventato prodotti innovativi come l’iPod, iTunes, e più recentemente l’iPhone e l’iPad. Steve Jobs è stato anche il CEO e co-fondatore di Pixar, che è stata poi rilevata dalla Walt Disney.
Rachael Ray. Pur non avendo alcuna formazione nelle arti culinarie, Rachel Ray si è creata un nome nel settore alimentare. Con numerose mostre sul Food Network, un talk show e libri di cucina. E’ anche apparsa in riviste prima di debuttare con la propria rivista nel 2006.
Ty Warner. Unico proprietario, CEO e presidente di Ty, Inc., Ty Warner è un esperto uomo d’affari. Ty, Inc., fatto $ 700 milioni in un solo anno, con la “Beanie Babies” mania, senza spendere soldi in pubblicità! Da allora ha ampliato l’offerta per includere le bambole Ty Girlz, in diretta competizione con le bambole Bratz.
Frank Lloyd Wright. Non avendo mai frequentato il liceo, Frank Lloyd Wright ha superato ogni previsione quando è diventato il più autorevole architetto del ventesimo secolo. Wright progettò più di 1.100 progetti, di cui circa la metà effettivamente costruiti. I suoi disegni hanno ispirato numerosi architetti a guardare la bellezza intorno a loro ed a migliorarla.
Un mito da sfatare: tutti all’università. La laurea non deve né può essere la massima delle aspirazioni. Ci sono professioni redditizie e indispensabili per una società che non richiedono affatto una formazione universitaria. Una buona formazione professionale basta. Dati USA, scrive Norberto Bottani su “Oxydiane”. Per riuscire nella vita e guadagnare bene non è indispensabile avere una laurea. Di cosa c’è bisogno per riuscire in una società? Quale è la chiave del successo? La laurea? Esperti americani contestano la pertinenza di questa ipotesi. Gli esperti di politiche scolastiche, le organizzazioni internazionali come l’OCSE, i macro economisti che si occupano di scuola, da decenni concordano sul fatto che la proporzione di una fascia d’età che si laurea è un fattore determinante della crescita economica . Tutti spingono dunque per aumentare la proporzione dei giovani che si laureano. Questo è uno degli indicatori con i quali si compar la qualità delle politiche scolastiche, ovverosia le politiche che riescono a portare all’università una proporzione rilevante e crescente di una fascia di età e a far sì che la percentuale di studenti che conclude con successo gli studi universitari con una laurea oppure con un dottorato sia sempre più alta. Questa è la via della massificazione degli studi superiori. Poco importa poi se questi laureati fanno fatica a trovare un posto di lavoro. In taluni paesi è più facile che trovi un posto di lavoro un diplomato dell’istruzione e formazione professionale che non un laureato. Questa situazione, non è la regola, ma è ormai assai comune e dovrebbe indurre a riflettere sugli indirizzi espansionisti delle politiche scolastiche. Il buonsenso popolare la pensa diversamente e ritiene che una laurea in generale sia garanzia di un lavoro migliore e di guadagni maggiori nella vita. Un diploma universitario è considerato come un fattore che assicura una vita più felice. Ci si deve però chiedere se l’iscrizione a un’università e la frequenza a corsi universitari siano la sola via per ottenere questi obiettivi, per essere più felici nella vita, per stare meglio, e "dulcis in fundo" per garantire la crescita economica di un paese.
A cosa servono gli studi universitari? David Leonhardt in un articolo pubblicato sul "New York Times" Il 17 maggio scorso intitolato "Il valore degli studi universitari" contesta l’opinione di coloro che ritengono che gli studi universitari sarebbero sopravalutati. Per esempio, è vero che oggigiorno occorrono molti più nano-chirurghi che non 10 o 15 anni fa ma il loro numero resta relativamente esiguo comparato al fabbisogno di infermiere e infermieri. Per funzionare il sistema della sanità necessita di migliaia di personale infermieristico nel prossimo decennio e non di migliaia di nano-chirurghi. Orbene, non è necessario andare all’università per diventare infermieri o infermiere. Questa formazione la si può impartire anche al di fuori dell’università. Un ragionamento analogo si può applicare per molte altre professioni. Questo argomento certamente pertinente mette in evidenza un punto debole alla formazione universitaria, ovverosia l’alto tasso di mortalità universitaria esistente in molti sistemi scolastici. Molte università falliscono la missione di laureare i loro studenti. Il risultato di questo disastro sono costi elevati per l’ente pubblico nonché delusioni per molti studenti che passano anni all’università senza ottenere nessun titolo. Quale lezione si deve trarre si chiede il New York Times da questa situazione? Dobbiamo persuadere molti studenti che non vale la pena andare all’università oppure dobbiamo mettere in atto i provvedimenti necessari che permettano di elevare la percentuale di laureati e dei dottorati, generalizzando la frequenza dell’università e tentando di ottenere a livello universitario quanto il sistema scolastico non riesce ad ottenere prima, ossia la riuscita di tutti gli iscritti? Per rispondere a queste domande il giornalista del New York Times ricorre a dati molto semplice e molto eloquenti: quelli riguardanti gli stipendi di un laureato rispetto a qualsiasi altro diplomato. Immaginiamo per un minuto che il divario tra la paga di un laureato e quella di qualsiasi altro sia andato calando negli anni recenti. In questo caso coloro che contestano l’opportunità dell’espansione degli studi universitari avrebbero ragione e potrebbero dimostrare, prove alla mano, che la laurea e il dottorato hanno perso di valore. Purtroppo però coloro che contestano la pertinenza di un’espansione degli studi universitari raramente tirano in ballo questo argomento perché altrimenti si troverebbero in difficoltà. È infatti appurato che la laurea o il dottorato garantiscono salari elevati e quindi una vita in linea di massima migliore, come dimostra la tavola seguente che riguarda l’evoluzione del guadagno medio settimanale di un laureato americano dal 1979 in poi. Come si può vedere molto bene dalla tavola, fa osservare Leonhardt, la paga reale dei laureati (in modo grossolano si considera in questo articolo il lessico "guadagno" analogo a quello di "paga") nel corso di questi ultimi 25 anni è aumentata mentre la paga reale di tutti gli altri gruppi di diplomati è diminuita. Il New York Times pubblica anche un’altra tavola che rende questo confronto ancora molto più eloquente. Nei confronti di qualsiasi altro gruppo, negli Stati Uniti, i laureati non hanno mai guadagnato così bene come ora sottolinea Leonahardt. In termini assoluti, ovviamente, anche loro sono stati penalizzati dalla profonda recessione iniziata alla fine del 2007. Però i laureati hanno sofferto molto meno, in media, di tutti gli altri lavoratori con un livello di istruzione inferiore. Inoltre, hanno corso minori rischi di perdere posti di lavoro e il loro livello di rimunerazione è resistito molto meglio di quello degli altri. In modo del tutto teorico, si può supporre che queste tendenze non abbiano nulla a che fare con i livelli d’istruzione che gli studenti universitari ricevono, afferma Leonhardt. Forse, il guadagno dei laureati ha poco o nulla che fare con l’università e rispetto a quanto gli studenti sapevano conosceva prima di frequentarla, ma l’economia è cambiata e favorisce attualmente le persone che hanno frequentato l’università e che hanno conseguito una laurea. Il beneficio che gli studi universitari generano è un problema difficile da risolvere e che va studiato attentamente. In ogni modo, non ci possono essere dubbi in proposito. Gli studi universitari procurano un vantaggio innegabile dal punto di vista salariale e dell’occupazione. Per dirla in altro modo, se voi foste uno studente di 19 anni che deve decidere se andare o meno all’università, sareste disposti a scommettere il vostro futuro sull’idea che le tavole qui presentate, riguardanti gli Stati Uniti, ma che in effetti possono essere applicate anche ad altri paesi, siano una pura coincidenza? Questa la domanda che pone l’autore dell’articolo del New York Times.
Studi universitari o superiori non sono sempre necessari. Secondo l’Ufficio federale americano di statistiche del lavoro che è un poco l’equivalente dell’ISFOL italiano, soltanto sette delle 30 categorie professionali che crescono molto rapidamente esigeranno nel prossimo decennio il possesso di una laurea; tra le 10 categorie in testa solamente due pongono questa condizione. In molte professioni gli studenti farebbero meglio a investire il loro tempo e i loro soldi iscrivendosi a corsi professionali piuttosto che andare all’università. Quest’argomento è difeso da pochi economisti i quali denunciano le pressioni politiche per avere molti più studenti all’università. Questa è una soluzione tra molte altre che meriterebbero di essere studiate in maniera più accurata. Ci sono risposte molteplici che meritano di essere prese in considerazione dal punto di vista della crescita economica. In altri termini ci vuole coraggio oggigiorno per sostenere che l’università non è per tutti, come lo dimostrano per esempio le statistiche sull’esito degli studi universitari. La mortalità universitaria in Italia per esempio è del 50%. Negli Stati Uniti soltanto il 30% della popolazione ha un diploma universitario. Si può pertanto chiedere se questo sia il problema scolastico più pressante è più urgente. Negli Stati Uniti , ma anche in Francia, in Germania, in Inghilterra, per non citare che alcuni paesi, un numero crescente di studenti si orientano dopo la maturità o dopo il diploma verso una formazione tecnica superiore a livello universitario e non si indirizzano più verso studi universitari tradizionali che sono molto costosi e molto più lunghi. L’idea secondo la quale cinque anni di università per conseguire un master siano essenziali per riuscire nella vita è contestata da un numero crescente di economisti, di politologi, di universitari e di responsabili politici. Sempre più si leggono articoli nei quali si afferma che altre opzioni meritano di essere prese in considerazione come per esempio quelle offerte dalle scuole universitarie professionali, questione alla quale, in Italia, la fondazione TRELLLE ha dedicato un seminario internazionale e un quaderno.
La transizione dalla formazione alla vita attiva. La transizione dalla formazione alla vita attiva è cambiata in questi ultimi decenni anche per i laureati i quali ovunque incontrano difficoltà crescenti per trovare un posto di lavoro che corrisponda alla loro formazione, ai sacrifici effettuati per laurearsi dopo anni di studio esigenti. Il numero dei laureati e dei dottorati che sono disoccupati resta elevato nonostante le considerazioni riguardanti i benefici che la laurea o il dottorato possono procurare nel corso dell’attività professionale. Un numero crescente di laureati e diplomati è costretto a svolgere professioni che nulla hanno a che fare con una formazione e i diplomi conseguiti come per esempio barista, conducente di torpedoni, camionisti, impiegati d’ufficio con contratti di durata determinata, camerieri, pizzaioli, eccetera. Questi studenti si consolano pensando che questa sia una tappa inevitabile, un trampolino, sulla via del successo. Nel frattempo, questi laureati preparano e spediscono decine di curriculum vitae sperando di ricevere una risposta positiva. Purtroppo, per la prima volta dopo la fine della seconda guerra mondiale, ossia dopo sessant’anni circa, nessuna generazione ha conosciuto difficoltà analoghe per trovare un posto di lavoro. Gli studi universitari non rappresentano più una promozione né funzionano come un ascensore sociale perché le prospettive di carriera sulle quali sfociano sono pessime. Secondo l’articolo pubblicato dal Wall Street Journal il 15 maggio scorso a cura di Joe Queenan i laureati di oggi sono confrontati a tre ostacoli formidabili.
Il primo è rappresentato dalla recessione economica. Il numero dei posti di lavoro è drammaticamente diminuito . Non ci sono più posti di lavoro e quelli che esistono non corrispondono al tipo di formazione al quale l’Università o gli istituti universitari professionali preparano e neppure a quanto hanno in mente i laureati che hanno speso anni ed anni di studio per diplomarsi.
In secondo luogo, i figli della classe media non sono stati mai educati emozionalmente alla transizione dalla formazione alla vita attiva e ad entrare nel mondo del lavoro con tutte le sue leggi e la sua durezza.
In terzo luogo, laddove gli studi universitari sono a pagamento, i debiti che il giovane ha dovuto assumere per completare gli universitari peseranno per decenni sulle loro spalle. Indubbiamente la situazione diventa drammatica. Non ci si deve neppure illudere: anche un’economia molto flessibile come quella americana dove è relativamente facile che non è in Italia costruire un’azienda o un’impresa, ricevere fondi e aiuti da una banca o da una fondazione, essere riconosciuti per l’originalità delle idee e delle proposte, queste competenze non sono affatto diffuse, non appartengono a tutti. In ogni modo questa una soluzione è del tutto particolare. Il problema immediato è soprattutto psicologico: la sconvolgente scoperta che il lavoro disponibile all’inizio del 21º secolo sarà piuttosto un inferno che non un paradiso. I giovani laureati avranno a che fare sul posto di lavoro con capi meno competenti e meno preparati di lavoro, che non esiteranno a umiliarli, che non prenderanno affatto in considerazione le loro qualità o i loro interessi. Occorrerà ingoiare molti rospi, accettare le umiliazioni.
La Laurea? Meglio non averla, scrive Bastiancontrario F. su “Valdichiana Oggi”. Questo di stasera è il sesto caso. Li ho contati tutti, uno dopo l'altro, in questo inizio Agosto. Amici o amiche laureate, fra i 25 e i 30 anni, col conto in banca prossimo allo zero e in cerca di lavoro. Magari subito dopo la laurea hanno iniziato a tentare di aprirsi qualche via nel campo per il quale avevano studiato, ma poi sapete com'è, c'erano solo gli stage (non retribuiti), i genitori cominciavano a rumoreggiare, le raccomandazioni mancavano e dopo 6 mesi o qualcuno in più di puro e semplice sfruttamento con illusioni poi restate tali hanno iniziato a farsi qualche domanda. Del tipo: qualche soldo dovrà iniziare a entrarmi nelle tasche, altrimenti tocca continuare a farsi mantenere dai genitori e non è tanto bello. Ergo. cerco un lavoro. Un lavoro "normale". Non c'entra niente con quello che sognavo di fare, non ha nulla a che vedere con quello che ho studiato e in cui potrei mettere a frutto le mie conoscenze e competenze, ma pazienza...almeno mi entra in tasca qualche soldo per un po', poi si vedrà. Il problema è andare a cercare un lavoro "normale" con la laurea in tasca. Sono appunto 6 gli amici/amiche con cui in questi ultimi giorni parlando è emerso sempre lo stesso identico problema. I datori di lavoro "normale" (che so...cameriere, commesso...) sembrano essere allergici ai laureati. Tant'è che è meglio non presentare il curriculum, o comunque non dire che si ha la laurea. Sei indizi, probabilmente, fanno una prova. "Ah, hai due lauree e vuoi venire a lavorare qui?" è la frase che risuona con annessa faccia a metà fra lo schifato e il diffidente ad ogni tentativo di farsi assumere, anche "a chiamata", part time o per poche ore a insindacabile giudizio e bisogno di chi ti dà il lavoro. Il tono è quasi pregiudiziale. Perchè? Chissà, forse pensano che uno laureato che viene a chiedere di fare il cameriere è lì perchè ha fallito nel suo ramo, e quindi non vale granchè. Oppure hanno paura che non si impegnerà, avendo studiato per qualcos'altro, oppure che pretendendo di più in quanto reduce da molti anni di studio potrà rivelarsi un insostenibile rompicoglioni. Oppure costoro sono semplicemente il simbolo di una classe imprenditoriale italiana sempre più squallida e incapace di gestire in modo degno le risorse umane (e infatti poi i risultati si vedono). Il bilancio finale è che se hai la laurea e vuoi fare il commesso ti passano avanti gli altri, quelli senza laurea. Ecco, forse piuttosto che continuare per settimane e settimane a discutere del ministro Kyenge e delle sue litigate coi leghisti, dei processi di Berlusconi o di chissà quale altra minchiata utile solo a gettare fumo negli occhi e guadagnare tempo consci di non essere in grado di fare niente (ma di non volersene comunque andare) i nostri governanti potrebbero ipotizzare una riforma del lavoro e incentivi alle assunzioni un po' diversi rispetto a quelli esistenti. Anche perchè all'estero a fare i camerieri ti ci prendono anche con la laurea e sarebbe brutto, dopo la fuga dei cervelli, trovarsi di fronte anche alla fuga dei camerieri.
Una laurea serve eccome, scrive Luca Ronchi su “Sardegna Reporter”. Anche oggi ho lavorato parecchio. Sono giorni di lavori casalinghi, questi. Spostamenti di roba, pulizia di magazzini, conservazione di vecchie cose, eliminazione di altre, accatastamenti il più possibile razionali di oggetti e mobili. Coloro che l’hanno fatto, sanno di cosa parlo. Ci si muove in ambienti angusti, a volte malsani, pieni di polvere e umidità e poco illuminati. Si ha fretta di finire per riposarsi e farsi una doccia ma si ha anche fretta di completare il lavoro per poterlo guardare con soddisfazione e dire. “Ah, come l’ho fatto bene!”. E in questi frangenti capita di doversi misurare con piccole questioni pratiche, che sarebbero anche semplici se non fosse per l’ambiente ostile in cui si opera. Tocca risolvere problemi rognosi, arrangiarsi con quel che c’è, prendere decisioni in fretta chè le mani sono due e le braccia più di tanto non ci arrivano a fare le cose. E allora l’inventiva, la fantasia, l’esperienza e -perché no- qualche nozione di fisica rimasta a circolare per le sinapsi da quei lontani giorni del liceo, concorrono a fare la differenza tra un lavoro di schifo e un lavoro fatto bene. E succede di capire che aver studiato fino alla laurea può avere il suo porco senso anche in questi casi limite. A me è capitato ieri. Stavo sistemando le parti di un mobile smontato in precedenza. Pezzi lunghi anche due metri, larghi più di un metro e pesanti, molto pesanti. Li stavo sistemando infilandoli, sdraiati sul lato lungo, in uno spazio stretto tra uno scaffale già traboccante di scatole e un altro mobile più alto di me. Per evitare di graffiarli strisciandoli contro il pavimento ruvido, avevo sistemato per terra dei listelli di legno. L’idea era di posarveli sopra, e così ho fatto. A lavoro quasi finito, con i listelli ormai bloccati dal peso di tutto quel legname, mi accorgo che restava un po’ di spazio, una sorta di piccolo pozzo incastrato tra lo scaffale, il mobile più alto di me e i pezzi ormai mirabilmente affastellati dalle mie sapienti mani. Un piccolo spazio che, in quanto maschio raziocinante alle prese con un lavoro muscolare e intellettuale, avevo intenzione di sfruttare a pieno, sistemandovi altri pezzi di forma e dimensioni appropriate. Ma occorreva prima di tutto calare in fondo a quel pertugio un altro listello di legno, per proteggere i nuovi oggetti da graffi e urti. Esco dal magazzino, mi avvicino alla catasta del legname e individuo con fare sicuro un piccolo legno di lunghezza e spessore perfettamente adeguati all’uopo. Orgoglioso, mi avvicino all’anfratto e faccio per depositare il prezioso tacco sul pavimento. Le mie lunghe braccia (le ho veramente lunghe) non sono sufficienti a toccare il pavimento da quella posizione e dunque dovrò optare per un lancio calibrato del tacco verso la posizione utile. Il piccolo legno, per mia sfortuna, anziché depositarsi nel luogo da me individuato, con un rimbalzo inatteso va a sistemarsi di sbieco su una delle pareti del cunicolo, rappresentata da una porzione del mobile di cui sopra. Disdetta! Come fare? Il braccio non ci arriva. Non ho voglia di tornare fuori a prendere altri legni, che tra l’altro piove. Di spostare il mobilio già adagiato sui listelli non se ne parla, e in testa torna la domanda: che fare? D’improvviso, mentre il tarlo dello sconforto inizia a far merenda con i miei neuroni, alzo lo sguardo allo scaffale traboccante di oggetti e vi scorgo l’arma finale. Con serena disciplina allungo il braccio, la afferro, me la guardo compiaciuto. Me la giro un po’ tra le mani assaporando il momento in cui, grazie ad essa, assesterò il colpo ferale al recalcitrante oggetto. È perfetta, la mia arma. Cilindrica, robusta, leggera, cava. La sua lunghezza è quella giusta: quaranta centimetri. La sua larghezza è quella giusta: riempie perfettamente la mia mano, richiusa e serrata su essa. È micidiale. Sembra forgiata allo scopo da un’intelligenza antica. Armato di essa mi inchino verso il mio dovere, la dirigo sicuro verso il legno e, facendo leva con salda impugnatura, sistemo il tacco nella posizione prestabilita. È fatta. Le membra si rilassano mentre lentamente mi risollevo. Staziono così per qualche istante, indugiando con lo sguardo ora al lavoro compiuto, ora al cilindrico utensile che adesso riposa inerte nella mia mano. E l’occhio mi cade, dopo tanti anni, sulle scritte che compaiono lungo la sua superficie laterale: Università degli Studi di Pisa… Gent.mo Dr. Luca Ronchi… Il presente involucro contiene esemplare originale del Suo diploma di laurea. E poi dice che la laurea non serve. Caz.
Comunque la laurea è preferibile averla, meglio se meritata, ossia si siano capiti e memorizzati i dati e le nozioni studiati. Essere ignorante significa essere in balia degli stronzisti e cazzisti di turno, che ti propinano stronzate e cazzate per verità acclarate. Se le cose tu le sai, e non certo sapute dai media o da pseudo intellettuali partigiani, la verità gliela sbatti in faccia. Anche con le pezze al culo la tua soddisfazione arriverà! Perché ci si deve ricordare che chi ha, spesso, non sa, e costui, per disbrigare le sue necessità burocratiche o culturali, parte dei suoi averi li dovrà dare a chi sa.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
IL MONDO DIVISO TRA COLTI ED IGNORANTI.
Lo spread del sapere. Il mondo diviso tra colti e ignoranti. L'accesso alla conoscenza è contraddistinto da disuguaglianze sempre più gravi. Se pensiamo, rispettivamente, alle possibilità per il futuro di una ragazzina che vive in una campagna isolata dell’Afghanistan, e di un ragazzino americano figlio di due professori di Harvard, possiamo capire quel che rischia di essere il futuro dell’umanità, scrive Marc Augè su “La Repubblica”. La crisi attuale dovrebbe fornire l’occasione per riflettere in maniera schietta sulle cause, sulla portata e sulle conseguenze della crescente diseguaglianza nel mondo, mentre a sua volta, per riprendere l’espressione di Jean-François Lyotard, la “grande narrazione” liberale perde colpi. Oggi la stragrande maggioranza degli economisti è d’accordo nel riconoscere che, se il divario di reddito tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo globalmente si è un poco ridotto, è considerevolmente aumentato quello tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri. Da ciò l’apparizione e l’incremento di una grande povertà nei paesi ricchi e di una miseria assoluta nei paesi poveri. Questo fenomeno, di cui siamo ogni giorno spettatori, implica diverse conseguenze. La prima è una minore disponibilità dei paesi ricchi ad aiutare i paesi poveri: l’incremento della povertà interna pone già loro abbastanza problemi. La seconda è un’instabilità sociale, testimoniata, in zone diverse e con modalità differenti, sia dalla crisi dei subprime, segno premonitore della tormenta attuale, sia dalle rivolte della fame. Ma un fenomeno connesso a quello della povertà, che si sviluppa parallelamente a esso e che evidentemente è ad esso collegato, quello delle crescenti diseguaglianze nell’ambito della conoscenza, è ancora più inquietante. Il problema della sopravvivenza in certi continenti e quello del potere d’acquisto in altri hanno infatti per effetto un decadimento delle riflessioni sull’insegnamento e la ricerca. Ora, anche se i temi della disoccupazione, della precarietà del lavoro e dei redditi bassi dominano legittimamente la nostra attenzione, non dovrebbero comunque distrarci e renderci ciechi sulle carenze delle nostre politiche educative, visto che anch’esse hanno conseguenze sull’aumento della povertà. Mentre la scienza progredisce a velocità esponenziale, tanto la scienza di base quanto le sue ricadute pratiche, il divario tra i suoi protagonisti, o almeno i dilettanti coltivati, e la massa di chi non ha la più pallida idea delle sue poste in gioco aumenta più rapidamente rispetto a quello dei redditi. Il divario tra i paesi che si impegnano nella ricerca scientifica e quelli che ne sono alieni, nonché, all’interno di ognuno di essi, tra l’élite scientifica e i più carenti nel campo della conoscenza, aumenta più velocemente di quello delle ricchezze. George Steiner ha fatto notare che il budget per la ricerca della sola Harvard University è superiore alla somma di tutti quelli delle università europee. Se nei paesi emergenti nascono dei poli di sviluppo scientifico, al loro interno le diseguaglianze in materia di istruzione e di conoscenze sono ancora più considerevoli che nei paesi sviluppati, dove pure continuano a crescere. Possiamo dunque temere di veder apparire, nel medio termine, non una democrazia diffusa su tutta la Terra ma un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, contrapposta a una massa di semplici consumatori e a una massa, ancora maggiore, di esclusi sia dal sapere sia dal consumo. Saremo dinanzi a un’aristocrazia globale (nei laboratori delle università americane si incontrano già individui provenienti da ogni parte del mondo, molti dei quali non ritorneranno nel paese di origine). Saremo dinanzi a un’aristocrazia polare (nel senso che le reti di circolazione delle conoscenze si incroceranno in più punti del pianeta). Infine, e senza irrigidire necessariamente i rapporti di forza esistenti, essa tenderebbe a rinforzarli (dato che il costo degli studi e le condizioni di vita sociale giocano certamente un ruolo essenziale nella diffusione del sapere). Se pensiamo, rispettivamente, alle possibilità per il futuro di una ragazzina che vive a casa del diavolo, in una campagna isolata dell’Afghanistan, e di un ragazzino americano figlio di due professori di Harvard, possiamo capire quel che rischia di essere il futuro dell’umanità. La storia ha un senso? Quale senso? L’unico senso è la conoscenza. E l’unico ostacolo alla conoscenza è l’arroganza intellettuale degli allucinati di ogni sorta che vogliono imporre le loro convinzioni all’umanità. Certo, esistono diversi livelli di allucinazione, e non metto sullo stesso piano i teorici del liberalismo e i fanatici religiosi. Ma anche i primi sono ben lontani dalla modestia scientifica (parlo della modestia della scienza in sé, non di quella degli scienziati) che mira a spostare progressivamente le frontiere dell’ignoto. Alla fin fine, la storia dell’umanità sarà quella di questa conquista paziente, la cui necessaria conseguenza dovrà essere la liberazione di ogni individuo. Solo le procedure di esclusione, messe in opera sottilmente o violentemente dai preconcetti dei sistemi ideologici e religiosi, che fondano sulla natura la diseguaglianza e il destino degli esseri umani, si oppongono a questo movimento doppio e parallelo. Se un giorno ci sarà una rivoluzione sarà una rivoluzione dell’istruzione e dell’educazione alla libertà.
L’IGNORANZA DELLE PERSONE COLTE.
Solo i colti amano imparare; gli ignoranti preferiscono insegnare. (E. Le Berquier)
Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori, scrive “Le Meraviglie”. È meglio non sapere né leggere né scrivere, che non saper fare altro che questo. Quando si vede un fannullone con un libro in mano, si può essere quasi certi che si tratta di una persona senza né forza, né voglia di stare attenta a ciò che gli accade intorno, o dentro la testa. Di un tale individuo si può dire che porta il suo giudizio ovunque con sé, in tasca, o che lo lascia a casa, sullo scaffale dei libri. Ha paura di avventurarsi in qualunque ragionamento, o di fare una qualsiasi osservazione per proprio conto che non gli venga suggerita passando meccanicamente lo sguardo su alcuni caratteri leggibili; si ritrae dalla fatica di pensare che, per mancanza d’esercizio, gli è diventata insopportabile; e si accontenta di un continuo, noioso succedersi di parole e d’immagini abbozzate, che gli riempiono il vuoto della mente. L’istruzione troppe volte è in contrasto col senso comune; un surrogato del vero sapere. I libri vengono usati meno come “occhiali” per guardare la natura, che come imposte per tenerne lontana la forte luce e la scena mutevole da occhi deboli e temperamenti apatici. Il divoratore di libri si avvolge nella sua rete di astrazioni verbali, e vede solo la pallida ombra delle cose riflessa dalla mente altrui. La natura lo sconcerta. La visione degli oggetti reali, spogliati del travestimento delle parole e delle lunghe circonlocuzioni descrittive, è un colpo che lo fa vacillare, e la loro varietà lo turba, la loro rapidità lo fa smarrire. Si ritrae dalla confusione, dal chiasso, e dal turbinoso movimento del mondo intorno a sé (non avendo né l’occhio adatto a seguirlo nei suoi capricciosi mutamenti, né un’intelligenza che sappia ricondurlo a principi fissi), per tornare alla quieta monotonia delle lingue morte e alle meno sconcertanti e più intelligibili combinazioni delle lettere dell’alfabeto. Così va bene, va proprio bene. «Lasciatemi al mio riposo» è il motto dei dormienti e dei morti. Chiedere al paralitico di saltare dalla sua sedia e buttar via la gruccia, o, senza un miracolo, di «prendere il suo letto e camminare», è come aspettarsi dal lettore colto che posi il suo libro e pensi da sé. Ci resta attaccato per avere un sostegno intellettuale, e la paura di esser lasciato solo con se stesso è come il terrore che incute il vuoto. Riesce a respirare solo un’atmosfera colta, così come gli altri uomini respirano aria comune. È uno che chiede la saggezza in prestito dagli altri. Non ha idee proprie e deve quindi vivere di quelle altrui. L’abitudine di rifornirci di idee da sorgenti non nostre «indebolisce ogni forza di pensiero interiore», proprio come l’abuso di liquori distrugge il tono dello stomaco. Le facoltà della mente, se non vengono esercitate, o se vengono paralizzate dalla continua lettura di testi autorevoli, diventano svogliate, torpide e disadatte agli scopi del pensiero e dell’azione. Possono meravigliarci allora la stanchezza e il languore prodotti da una vita di istruzione indolente e ignorante, passata con gli occhi fissi su frasi e sillabe che riescono a suscitare idee o interesse poco più che se fossero scritte in qualche lingua sconosciuta, finché il sonno non chiude gli occhi, e il libro cade dalle mani indebolite? Preferirei essere un tagliaboschi, o il più misero garzone di fattoria, che tutto il giorno «suda sotto l’occhio di Febo e la notte dorme nell’Eliso», piuttosto che consumare la mia vita così, fra il sonno e la veglia. La differenza fra lo scrittore istruito e lo studente istruito consiste in questo, che il primo trascrive ciò che il secondo legge. Il dotto non è che uno schiavo letterario. Se lo mettete a scrivere una composizione propria, gli gira la testa, e non sa più dov’è. Gli infaticabili lettori di libri sono come gli eterni copisti di quadri che, quando provano a dipingere qualcosa di originale, trovano che manca loro l’occhio veloce, la mano sicura e i colori brillanti, e perciò non riescono a riprodurre le forme viventi della natura. Chiunque sia passato per i gradi regolari dell’educazione classica senza esser stato ridotto all’imbecillità, si può ritenere salvo per miracolo. I ragazzi che figurano a scuola non sono quelli che faranno la migliore riuscita quando saranno adulti ed entreranno nel mondo: è una cosa nota da sempre. Infatti le cose che un bambino è obbligato a studiare a scuola, e dalle quali dipenderà il suo successo, sono cose che non richiedono l’esercizio né delle più alte né delle più utili facoltà mentali. La memoria (e della specie più bassa) è la qualità necessaria per ripetere meccanicamente le lezioni di grammatica, di lingue, di geografia, aritmetica, ecc., cosicché il ragazzo che ha molta di questa memoria meccanica, e pochissimo interesse per le altre cose che invece dovrebbero naturalmente e con più forza attrarre la sua attenzione fanciullesca, sarà lo scolaro più brillante di tutti. Il gergo con cui si definiscono le parti del discorso, le regole per fare un conto, o le forme di un verbo greco, non possono avere un grande interesse per un ragazzo di dieci anni, a meno che altri non gliel’abbiano imposto come dovere, o non sia spinto dalla mancanza di gusto e di interesse per altre cose. Un ragazzo di costituzione malaticcia e di mente poco attiva, che arriva appena a ricordare ciò che gli è stato fatto notare, e non ha né l’intelligenza per distinguersi, né lo spirito per divertirsi, sarà in genere il primo della classe. Un fannullone a scuola, invece, sarà spesso un ragazzo di robusta salute e di temperamento vivace, che ha presenza di spirito e un fisico agile, che sente il sangue circolargli nelle vene e battergli il cuore, che a volte ride e piange nel medesimo istante, che preferisce dare la caccia alle farfalle o correre dietro a una palla, sentire l’aria fresca sulla faccia, vedere i prati e il cielo, seguire per curiosità un sentiero serpeggiante, prendere parte a tutti i piccoli conflitti e agli interessi dei suoi conoscenti e amici, invece che addormentarsi su un noioso abecedario, ripetere dei distici barbari col suo maestro, stare inchiodato ore e ore a un banco, e ricevere poi in risarcimento del tempo e del divertimento persi una medaglietta premio a Natale e a mezza estate. Esiste una stupidità che impedisce ai ragazzi di imparare le lezioni giornaliere e di arrivare a ottenere questi miseri onori accademici. Ma quello che passa per stupidità è assai più spesso mancanza di interesse e di un motivo sufficiente per stare attenti, e applicarsi con disciplina agli aridi e insignificanti scopi dello studio scolastico. Le migliori capacità sono molto al di sopra di questa schiavitù; così come le peggiori stanno al di sotto. I nostri uomini di più grande ingegno non si sono particolarmente distinti né a scuola né all’università.
Attenti alla petulanza degli ignoranti istruiti, scrive Giuliano da Empoli su “Il Sole 24 ore”. La spiegazione migliore della crisi attuale l'ha data un garbato reazionario spagnolo alla vigilia di un'altra grande depressione. «In passato – scriveva José Ortega y Gasset nella primavera del 1929 – gli uomini potevano essere divisi tra i colti e gli ignoranti, ma lo specialista non può essere ricompreso in alcuna di queste categorie. Egli non è colto, perché ignora formalmente tutto ciò che non rientra nella sua specialità, ma non è neppure ignorante, perché è uno scienziato e conosce assai bene la sua piccola porzione dell'universo. Potremmo definirlo un ignorante istruito». Tutti conosciamo la particolare petulanza degli ignoranti istruiti che pensano di poter controllare il mondo sulla base della conoscenza di una specifica materia: credono nell'infallibilità dei numeri e nella razionalità dei comportamenti umani; tutto ciò che è ambiguo li riempie di orrore. Soprattutto, disprezzano i non iniziati. Barricati dietro le loro credenziali accademiche e professionali, accettano di discutere solo con i loro pari. Cioè altri ignoranti istruiti che la pensano esattamente come loro perché hanno imparato a memoria gli stessi ritornelli. Se, fino a ieri, si pensava che il progresso camminasse sulle gambe di professionisti sempre più specializzati, oggi salgono alla ribalta i nuovi umanisti, una generazione di scienziati, di imprenditori e di artisti che ha iniziato a far saltare le barriere tra le diverse discipline per adottare un approccio più complesso alle sfide del nostro tempo. In campo scientifico, è sempre più raro leggere paper firmati da un unico ricercatore: la maggior parte delle scoperte è ormai appannaggio di squadre multidisciplinari. Nell'intrattenimento, non c'è molta differenza tra van Eyck che inventa la pittura a olio nel Quattrocento e John Lasseter, il fondatore della Pixar che rivoluziona la computer animation all'alba del Duemila. In entrambi i casi un artista si improvvisa scienziato per risolvere un problema tecnico che gli impedisce di appagare fino in fondo il suo desiderio di esprimersi. Nel frattempo, serie televisive come I Soprano o Lost hanno recuperato i principi della Poetica di Aristotele per adattarli al gusto di milioni di spettatori. In campo industriale, il designer è emerso dall'anonimato come l'artista sei secoli fa, diventando la figura chiave che unisce l'arte alla tecnologia per produrre il valore aggiunto che determina le sorti di interi rami d'azienda. In Rete, intanto, personaggi come Jaron Lanier hanno cominciato a porre le basi di un Digital Humanism che rimetta al centro il singolo individuo, anziché le masse di internauti trasformate in un algoritmo dai cervelloni di Palo Alto. Più in generale, fenomeni come il successo delle "Ted Conferences" o il culto para-religioso che si è sviluppato intorno alla figura di Steve Jobs dimostrano che l'ideale di un approccio in grado di superare le barriere disciplinari per confrontarsi il presente è più che mai attuale. Ecco perché è fuori luogo anche il piagnisteo degli accademici che lamentano il declino della cultura umanistica. Certo, è possibile che alcune polverose facoltà universitarie abbiano raggiunto lo stadio del coma irreversibile. Ma è altrettanto vero che, nel corso degli ultimi anni, un nuovo umanesimo ha fatto la sua comparsa in ambiti imprevisti. Un po' come l'antica Grecia, sconfitta militarmente dai romani, ma capace di contaminare la cultura romana fino a dominarla, le discipline umanistiche saranno anche in crisi all'interno dei campus, ma la loro diaspora sta cambiando il volto di interi pezzi della nostra società.
Le persone più ignoranti? Di solito sono coltissime. Non sanno nulla di scienza, vivono di citazioni, non "superano" mai i maestri. Ieri come oggi coloro che hanno meno idee di tutti sono proprio i letterati, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. «La differenza fra lo scrittore istruito e lo studente istruito consiste in questo, che il primo trascrive ciò che il secondo legge. Il dotto non è che uno schiavo letterario». Così scriveva William Hazlitt, critico shakespeariano e amico di Stendhal, sulla rivista London Magazine nel 1820, in un saggio intitolato L'ignoranza delle persone colte che dà il titolo a un meraviglioso pamphlet in uscita per Fazi (pagg. 112, euro 14,50). Hazlitt ce l'ha soprattutto con i letterati, e non ha torto, perché è l'unica cultura esentata da progresso epistemologico. Mi spiego: mentre nel pensiero scientifico nessuno citerebbe più Tolomeo o Aristotele per spiegare il mondo, nel campo umanistico il pensiero è sempre orizzontale e compresente, non esistono superamenti. Mai sentirete dire che Dante è stato superato, anzi il contrario. Il letterato, per definizione, cita, e ogni citazione ha lo stesso valore conoscitivo di qualsiasi altra. Da Platone a Kant, da Ariosto a Manzoni, la cultura letteraria e filosofica è una fabbrica di citazioni senza tempo, immobili, pietrificate. Non sanno niente delle particelle elementari di Copenaghen, se gli dici atomo ti citano Democrito e stanno bene così. Anzi se ne vantano. In altre parole un cimitero popolato di mummie parlanti. Così, sempre Hazlitt: «Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. È meglio non saper né leggere né scrivere che non saper fare altro che questo». Il critico, in fondo, è uno «che prende la saggezza in prestito agli altri». Infatti per il letterato, allora come oggi, è tutto un «ismo»: platonismo, nichilismo, pessimismo (cosmico, di Leopardi), perfino la teoria evoluzionistica, alla base di tutta la biologia moderna, è diventata un darwinismo. È uno dei motivi per cui l'Occidente non ha più una cultura di riferimento: le giustifica tutte. Ne è nato anche un termine molto esemplificativo: il multiculturalismo. In base al quale, ormai, si assegnano perfino i premi Nobel, non esiste arretratezza culturale. Complice anche il cosiddetto postmoderno, una truffa critica che ha annientato ogni gerarchia culturale. Non per altro in Italia portò al Gruppo 63, ossia l'elevazione a arte del copia e incolla, cioè i ritagli di Nanni Balestrini&company. D'altra parte questo discorso rispecchia il refrain delle periodiche campagne di lettura, secondo cui leggere è bello. Dipende da cosa si legge, e da quello che si capisce. Sarà per questo che perfino i tweet di Samantha Cristoforetti dallo spazio sembrano scritti da Fabio Volo o da Fabio Fazio, le hanno insegnato che la poesia è quella. Già per Hazlitt il discorso era chiaro: «Quale beneficio reale ricaviamo dagli scritti di un Laud, del vescovo Bull, o del vescovo Waterland, dei Collegamenti di Prideaux, o da Beasonbre, Calmet, Sant'Agostino, Pufendorf, Vattel, o dai più letterari ma ugualmente dotti e inutili lavori dello Scaligero, di Cardano e dello Scioppius? Che perderebbe il mondo se domani fossero dati alle fiamme?». In effetti basta sostituire ai nomi citati quelli dei nostri letterati, la cui visione dell'uomo e dell'universo è rimasta più o meno al Medioevo. Quali studi sono stati pubblicati dai nostri critici letterari? Quale libro hanno pubblicato Alfonso Berardinelli, Carla Benedetti, Massimo Onofri, o Andrea Cortellessa che sia criticamente fondamentale? Alberto Arbasino buttò lì un'immagine ancora più semplice: «Chi non ha mai costruito neppure una capanna, può criticare un grattacielo?». Infatti cosa fanno i critici? Neppure leggono più, si leggono tra di loro e si citano l'un l'altro. Una volta Filippo La Porta mi disse che considerava la sua opera di critico importante quanto quella di un grande scrittore (gliel'aveva detto il suo maestro Berardinelli), e i saggi sulla Recherche di De Benedetti importanti quanto l'opera di Marcel Proust. A ognuno di costoro risponde Hazlitt, con duecento anni di anticipo: «Se desideriamo conoscere la forza del genio umano dobbiamo leggere Shakespeare. Se vogliamo constatare quanto sia insignificante l'istruzione umana possiamo studiare i suoi commentatori».
William Hazlitt. Sull’ignoranza delle persone colte e altri saggi.
Commento di Maglioni"Le persone che hanno meno idee di tutti sono gli scrittori e i lettori. È meglio non sapere nè leggere nè scrivere che non saper fare altro che questo". Pungente, sarcastica, elegantemente autoironica è la sferzata di Hazlitt nei confronti degli intellettuali, a cui lui peraltro apparteneva con fierezza, come testimonia la sua produzione letteraria sempre colta e inondata di citazioni: una miriade di riferimenti quasi divorano le sue frasi, dai classici latini alla Bibbia all'immancabile Shakespeare. Il modo di scrivere di Hazlitt si può definire, per usare una sua espressione, "pensare ad alta voce". Con uno stile aulico ma al tempo stesso discorsivo tipico dell'essay inglese - che affonda le sue radici nell'essai di Montaigne - Hazlitt costruisce equazioni morali per poi smontarle, contraddirle e riproporle continuamente sotto vesti diverse. Disserta "Sul pensiero e l'azione, Sul fare testamento, Sull'effeminatezza del carattere, Sulle istituzioni, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, Sulla paura della morte" in un alternarsi di "elogi in sistole e denigrazioni in diastole", come afferma Thomas McFarland, studioso e critico dello scrittore inglese. Questa collezione di saggi, tratti dalla raccolta Table-Talk (1821-22), offre al lettore una piacevole passeggiata attraverso lo spirito romantico e filosofico di Hazlitt facilitata da una buona "segnaletica stradale" a cura di Fabio de Propris.
Commento di Cristiano Cant. A chi non ha mai assaporato le delizie di una mente gentilmente rancorosa, a chi sta cercando il sollievo del sentirsi trainato da una guida sicura fra cianfrusaglie ignobilmente vacue, a chi fruga i quattro angoli della terra e si sta accorgendo che corre lungo un cerchio come e peggio di un povero cavallo nel circo. A tutta questa bolgia sfasata io imploro di acquistare e leggere questo libro, poi di tenerlo a portata sempre e poi di riaprirlo, ovunque siate e quale che sia lo stato d'animo che vivete. Se di gioia, per comprenderne la vana e sacrosanta brevità, se di pena per sentirne il morso dei suoi molari dorati. Un breviario di raffinata teologia sociale e letteraria, demolente ed etico più di un senso di colpa perenne; affronta il genio e le follie della mediocrità posata non meno delle arguzie di un cretino o della sfida per chiunque a venire a capo delle folli matasse del vivere. Ci sono libri forse non volutamente nati per dare felicità a un pubblico o a qualcuno, forse anche capaci di enorme irritazione a sapere che è questa la traccia che infine essi lasciano. Ma è questa la potenza della parola, il non controllo di sé e la linea deragliata del senso che un ragionamento o un discorso possono offrire nel loro distendersi intero. Libro indispensabile per chi ama la spina nella carne più dell'odioso e monotono profumo di rosa.
William Hazlitt (Kent 1778 – Londra 1830) fu un saggista molto particolare, inviso a tanti per il suo vizio di dire tutto quello che pensava e disposto perfino ad esporsi al ridicolo pur di mantenere la propria linea di pensiero, scrive “Il Lettore Comune”. Di lui Virginia Woolf nella seconda serie de Il lettore comune, così scriveva: In virtù del suo principio “è difficile odiare chi si conosce bene”, se avessimo conosciuto Hazlitt, lo avremmo di sicuro trovato simpatico. Ma Hazlitt è ormai morto da cent’anni, e dobbiamo forse chiederci se lo conosciamo abbastanza da superare il senso di violenta antipatia, vuoi personale vuoi intellettuale, che i suoi scritti ancora suscitano. Hazlitt – ed è uno dei suoi meriti principali – non era uno di quegli scrittori che evitando di pronunciarsi svaniscono nella nebbia e muoiono d’insulsaggine. Nei suoi saggi lui è presente, sempre e con enfasi. Senza remore e senza vergogna. Dice esattamente ciò che pensa e dice esattamente – confidenza meno lusinghiera – quel che prova. Aveva una straordinaria consapevolezza della propria esistenza; e siccome non passava giorno che non gli infliggesse uno spasmo d’odio o di gelosia, un fremito d’ira o di piacere, nel leggerlo entriamo presto in contatto con un carattere singolarissimo – bisbetico e insieme magnanimo; gretto e tuttavia nobile, assolutamente egoista eppure ispirato da genuina passione per i diritti e le libertà del genere umano. Sull’ignoranza delle persone colte è una raccolta di sette saggi, tratti da Table-Talk (1821-1822) tutti molto piacevoli da leggere, attuali e anche interessanti come si può evincere già dai titoli, oltre a quello che dà nome al libro gli altri sono: Sul pensiero e l’azione, Sul fare testamento, Sull’effeminatezza del carattere, Sulle istituzioni, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, Sulla paura della morte. Ognuno di essi presenta un sunto della tipologia umana che intende attaccare, ne viene fuori un ritratto spietato e ricco di sarcasmo di un’umanità il più delle volte gretta e inutilmente vanitosa che non accettando i propri limiti come parte essenziale di sé, scade sempre nel ridicolo. Il lato ridicolo del carattere umano in poche occasioni appare più vivo che nell’atto di fare testamento. È l’ultima possibilità che abbiamo di esercitare la naturale perversità del nostro carattere, e stiamo molto attenti a farne buon uso. La custodiamo gelosamente, la rimandiamo il più a lungo possibile, e poi prendiamo ogni precauzione perché il mondo non abbia a trar vantaggio dalla nostra morte. Quest’ultima azione della nostra vita raramente ne smentisce il tenore precedente per quanto riguarda la stupidità, il capriccio e l’insensata voglia di far dispetti. Sembra che il nostro pensiero dominante sia di sistemare le cose (facendo i conti con quelli che sono tanto maleducati da sopravviverci) in modo da fare il minor bene possibile, e di affliggere e deludere più gente che si può. Sul fare testamento è lo spaccato più esilarante di quest’umanità che si dibatte contro l’inevitabile, ovvero il fatto di essere mortale e l’attaccamento ai beni materiali supera l’intelligenza in molte occasioni. Hazlitt non lesina esempi, tratti non dalla sua immaginazione, ma da documenti reali, per quanto si tratti di comportamenti a dir poco bizzarri, dispettosi e infantili, che potremmo collocare più facilmente in una fiaba piuttosto che in un testamento redatto veramente. Può capitare perciò di ereditare una ricetta per la conservazione dei bruchi morti o una collezione di cavallette dell’anno precedente e perfino uno scarabeo cornuto. L’istruzione è la conoscenza di ciò che gli altri in genere non sanno, e che non possiamo apprendere che di seconda mano per mezzo dei libri, o di altre sorgenti artificiali. La conoscenza di ciò che è davanti o intorno a noi, che fa appello alla nostra esperienza, alle nostri passioni o ai nostri progetti, al cuore e agli affari degli uomini, non è istruzione. L’istruzione è la conoscenza di quello che solo le persone istruite conoscono. Il più istruito di tutti è colui che conosce meglio tutto ciò che vi è di più lontano dalla vita quotidiana, dall’osservazione immediata, che non è di alcuna utilità pratica, che non può essere provato dall’esperienza e che, dopo esser passato attraverso un gran numero di stadi intermedi, resta ancora pieno di incertezza, di difficoltà e di contraddizioni. È vedere e ascoltare con occhi e orecchie altrui, è credere ciecamente al giudizio degli altri. La persona istruita è fiera della sua conoscenza di nomi e di date, non di quella di uomini e cose. Non pensa e non s’interessa ai suoi vicini di casa, ma è al corrente degli usi e costumi delle tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi. Sull’ignoranza delle persone colte è l’unico dei sette che fu pubblicato prima di venire inserito nella raccolta Table-Talk, precisamente nel luglio 1818 sulla rivista The Edimburgh Magazine. Fin dall’inizio Hazlitt se la prende con un certo modo di istruire e di concepire la cultura, infatti secondo lui a passare troppo tempo sui libri si finisce con il perdere il senso della realtà che ci circonda, fino a divenire, da colti che ci si credeva a perfetti ignoranti, almeno a proposito degli aspetti pratici della vita, senza i quali tutto diviene falsato e mutilo. Puntare il dito addosso al modo di fare cultura ufficiale dell’epoca, di certo non gli avrà procurato grandi simpatie, andare contro lo sterile studio mnemonico che permette di incamerare dati senz’anima e dunque senza una vera comprensione è una critica che andava a colpire inevitabilmente anche i suoi amici letterati. Pian piano si fa strada l’idea di base del saggio che è quella di mostrare come la cultura sia portatrice di finzione. Laddove si insinua un pensiero che diventa norma e che non ha a che fare con l’aspetto pratico, allora inevitabilmente ecco affacciarsi l’impostura. Ecco come viene usato il sapere umano. Sembra che i lavoratori di questa vigna abbiano lo scopo di confondere il senso comune e le distinzioni fra il male e il bene per mezzo di massime tradizionali e di nozioni preconcette che diventano sempre più assurde col passare del tempo. Fanno ipotesi su ipotesi, ci innalzano montagne, finché non è più possibile giungere alla più semplice verità su alcunché. Vedono le cose non come sono, ma come le trovano nei libri, e “chiudono gli occhi e cancellano i dubbi” per non dover scoprire niente che sia in contrasto con i loro pregiudizi, o possa convincerli della loro assurdità. Si direbbe che la forma più alta della saggezza umana consista nel mantenere le contraddizioni e nel rendere sacro ciò che è insensato. Non c’è dogma, per quanto feroce o sciocco che sia, a cui questa gente non abbia apposto il suo sigillo, tentando di imporlo alla comprensione dei suoi seguaci come fosse la volontà del Cielo, rivestita di tutto il terrore e delle sanzioni della religione. L’intelligenza umana è stata ben poco diretta a ricercare l’utile e il vero!quanto ingegno sprecato nella difesa di credi e teologie! Quanto tempo, e quanto talento sono stati perduti in controversie teologiche, in processi, in politica, in critiche verbali, in astrologia giudiziaria e nella ricerca della pietra filosofale! Quest’ampiezza di vedute porta lo scrittore su terreni decisamente pericolosi che vanno a minare le roccaforti dell’inattaccabile pensiero occidentale. Nella sua animata critica contro il sapere Hazlitt rivela tutta la pericolosità di una fiducia cieca nella parola, va indietro nel tempo fino a riconoscere che tutta l’impostazione sociale è basata sulla menzogna. Se una cosa è vera solo perché qualcuno l’ha scritta ecco che il gioco dei potenti si fa ancora più facile, perché tutto diventa possibile, come smerciare gli scritti di uomini per parola divina in modo da porre sotto sigillo insindacabile le leggi più inique, oppure imporre un punto di vista apparentemente democratico, ma in realtà asservito al potere dominante e così via. E ancora si rimane letteralmente sbigottiti nel leggere il saggio, Sulle istituzioni, poiché a dispetto degli anni trascorsi e della diversità del luogo, il quadro della classe politica che dipinge Hazlitt è tristemente simile al disdicevole spettacolo che siamo costretti a sopportare quotidianamente qui in casa nostra: Le istituzioni sono più corrotte e più guaste degli individui, perché hanno più potere per fare del male, e sono meno esposte al disonore e alla punizione. Non provano né vergogna, né rimorso, né gratitudine, e neanche benevolenza. La coscienza individuale o naturale del singolo componente viene soffocata (non possiamo avere un principio morale nel cuore degli altri), e non si pensa ad altro che a dirigere meglio lo sforzo comune (liberato da scrupoli inutili) per ottenere vantaggi politici e privilegi, da spartirsi poi come bottino. Ciascun membro raccoglie il profitto, e rovescia la colpa sugli altri. Quante volte abbiamo sentito la frase: “lo abbiamo ereditato dal governo precedente”? Ma ecco un altro passo che ci riporta ai festini del cavaliere poco errante e molto stanziale (come tutti i colonizzatori di poltrone parlamentari del resto) che pur criticandosi l’un l’altro, tuttavia partecipano volentieri ai numerosi momenti di svago che annullano i confini imposti dai vari partiti ai quali appartengono: «La società gli deve veramente molto per quest’ultimo affare»; cioè, per qualche squallido inghippo, qualche manovra sottobanco per usurpare i diritti del prossimo, o per calpestarne le ragioni. Nel frattempo mangiano, bevono e gozzovigliano insieme. Affogano nei boccali da una pinta tutte le piccole animosità e le inevitabili differenze d’opinione. Le lagnanze della moltitudine si perdono tra il rumore delle stoviglie…Il filo conduttore di tutti questi saggi termina nella persona stessa di William Hazlitt, un uomo definito antipatico, per niente geniale, addirittura scontato, un uomo costretto a subire continui attacchi dall’esterno, vuoi per una certa selvatichezza caratteriale, ma anche per tutto quello che si percepisce in questi suoi scritti, soprattutto in quello più autobiografico, Sugli svantaggi della superiorità intellettuale, ovvero la costrizione dell’isolamento, perché sempre incompreso, perché troppo avanti e quindi invidiato e per l’insopportabile ostentazione di avere delle idee e dirle apertamente, senza fronzoli o paraventi. Un destino comune a molti pensatori. Il principale svantaggio di sapere di più, e di vedere più lontano degli altri, in genere è di non essere compresi. Chi è intellettualmente dotato tende a esprimersi per paradossi, e questo lo colloca subito fuori la portata del lettore comune. […] La grande felicità della vita è di non essere né migliore né peggiore della media di quelli che incontri. Se sei al di sotto, ti calpestano, se sei al di sopra degli altri trovi subito che il loro livello è inaccettabilmente basso, perché rimangono indifferenti davanti a ciò che t’interessa di più. A che serve essere virtuosi in un locale notturno, o saggi in un manicomio?
L’ignoranza delle persone colte: “Il desiderio di essere come tutti”, scrive “Eunews”. Riflessioni su “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo, vincitore del premio Strega 2014. “C’è un certo genere e un certo grado dell’intelletto sul quale le parole fanno presa, ma in cui le cose non hanno il potere di penetrare. Un talento mediocre, con una costituzione morale un po’ fiacca, è il suolo che produce i più brillanti esemplari di scrittori di saggi premiati”. William Hazlitt, Sull’ignoranza delle persone colte. Iniziamo da questo numero una nuova rubrica, “L’ignoranza delle persone colte”, dal titolo di uno dei più celebri saggi di William Hazlitt, il Montaigne inglese. Per il grande poeta inglese John Keats, non più di tre erano le “cose di cui godere” nella vita. Una di queste era “la profondità del gusto” di William Hazlitt. Secondo Hazlitt, se la vita è gioia, felicità ma allo stesso tempo crudeltà insensata, ignoranza, se è spavento e orrore, se è volgarità e presunzione, non c’è altro da opporre che l’eleganza e la forza di uno spirito libero. In questa rubrica, che non avrà cadenza fissa, non faremo recensioni di libri, ma ci faremo ispirare da essi. La prima ispirazione la prendiamo dal libro dello scrittore casertano Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, vincitore del premio Strega 2014. Non ci sono motivi particolari per scegliere questo libro piuttosto che un altro. Il libro di Piccolo ci è venuto in mente leggendo le parole pronunciate da papa Francesco durante una sua visita pastorale a Caserta. “È terribile, lo sfregio di questa bella terra,” ha detto il papa sorvolando in elicottero la cosiddetta “terra dei fuochi”. “Bisogna avere il coraggio di dire no a ogni forma di corruzione e di illegalità”. I protagonisti del libro di Piccolo sono Caserta e il segretario del Partito Comunista Italiano negli anni settanta e ottanta, Enrico Berlinguer, ma l’autore non fa nessun accenno ai fatti citati da papa Francesco e alle persone che ne sono responsabili. “L’abitudine è quella di sentirsi estranei agli errori, estranei alle brutture del Paese. L’estraneità rende impermeabile la conoscenza, e senza conoscere le ragioni degli altri, non si può combatterle,” dice Piccolo a conclusione del suo libro. Certo, anche a noi come a papa Francesco piacerebbe conoscere “le ragioni degli altri” di Caserta, ma se è questo che vi aspettate dalla lettura di questo libro, Il desiderio di essere come tutti non fa per voi. A differenza di alcuni nostri amici che avevano lodato, forse troppo, i racconti di Storie di primogeniti e figli unici e Momenti di trascurabile felicità per la loro scrittura ironica e sincera, avvolgente e a cerchi concentrici, che rispecchiava bene la sua generazione, e poi hanno ammirato il maschio seduttore de La separazione del maschio – egocentrico, autoreferenziale, continuamente a caccia di consensi (soprattutto sessuali), anche se il protagonista usciva fuori alla fin fine come uno cieco di fronte alle cose della vita –, a noi il libro vincitore dello Strega è piaciuto più di altri, non tanto per la scrittura, che nonostante rimanga sempre tesa e tenga incollati alla pagina, scivola verso un’elegante prosa giornalistica, povera di grandi illuminazioni, ma soprattutto perché è un libro che ci fa riflettere su un periodo della nostra storia – soprattutto quello degli anni settanta e ottanta – in modi nuovi e anche originali. La domanda che sembra essere al centro del libro è la seguente: ma Berlinguer era un perdente o un vincente? D’altra parte il tema di chi vince e chi perde viene reiterato continuamente nel corso del libro. Ci sono pagine e pagine sulle partite di tennis tra il protagonista del libro, Francesco Piccolo, e un suo amico democristiano, nipote del sindaco. “Perché la sconfitta non mette in gioco la quantità di problemi che mette in gioco la vittoria. È come se fossimo in un gigantesco spogliatoio, dopo la partita, e noi che abbiamo perso ci guardassimo tutti con soddisfazione, perché sappiamo di giocare meglio, in modo più elegante; gli avversari hanno vinto, ma sudano troppo”, commenta a un certo punto l’autore. Sul punto se Berlinguer fosse un perdente o un vincente si interroga continuamente Piccolo. Le sue risposte sono apparentemente contraddittorie. “Berlinguer lascia in eredità l’etica politica – un elemento necessario; ma non si affianca più alla strategia politica, bensì la sostituisce”. Ma poco dopo, Piccolo aggiunge: “La risposta quindi, se Berlinguer avesse una propensione alla sconfitta, è un no deciso”. Pochi oggi ricordano che il primo grande sponsor delle politiche di austerity in Europa è stato proprio Enrico Berlinguer. Se uno andasse a rileggere i punti salienti del celebre “discorso dell’austerità” fatto da Berlinguer al Teatro Eliseo nel 1977, poco prima che il “compromesso storico” tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano si concretizzasse, vi noterebbe molte assonanze con i ragionamenti che fa da alcuni anni la cancelliera tedesca Angela Merkel. Secondo Berlinguer, il paese che era stato sempre governato dal 1948 in poi dalla Democrazia Cristiana era troppo spendaccione. Cosa avrebbe voluto Berlinguer? Un paese austero, appunto, che fosse “incline al passo giudizioso, non sperperante. Austero, appunto”, come nota Piccolo. Difficile non fare l’associazione con il celeberrimo “passo dopo passo” della cancelliera. I governi guidati dalla DC spendevano troppo, secondo Berlinguer, dimenticando che in quella spesa c’erano poste come l’educazione, in quote percentuali del Pil nettamente superiori a quella di oggi, e questo non era un essere semplicemente spendaccioni. D’altra parte, gli economisti del PCI non amavano molto John Maynard Keynes, a cui preferivano le teorie di Karl Marx. Forse non è un caso se ancora oggi, all’interno del governo di Matteo Renzi, ci siano ministri che all’epoca avevano sposato le tesi di Berlinguer; o se ancora oggi abbiamo un Presidente della Repubblica che all’epoca era nella fase eurocomunista di austerità ante litteram, dopo aver superato la fase fascista da studente negli anni quaranta, quella comunista filosovietica degli anni cinquanta – “L’intervento sovietico è stato il contributo decisivo non solo per impedire che l’Ungheria finisse nel caos e nella controrivoluzione, e difendendo gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma anche salvando la pace nel mondo” – e quella anti-intellettuale degli anni sessanta – “Solo commentatori sciocchi e faziosi possono evocare lo spettro dello stalinismo, trascurando il modo in cui Solzhenitsyn ha portato le cose a un punto di rottura”. Francesco Piccolo, come spiritosamente racconta, diventò comunista e si innamorò di Berlinguer durante la partita tra Germania Ovest e Germania Est ai mondiali di calcio del 1974. Lui faceva il tifo per i poverini della Germania Est che indossavano tute sportive non all’altezza dell’eleganza richiesta dall’evento. Fece il tifo per Berlinguer durante la fase del “compromesso storico” e in quella successiva, quando Berlinguer, ormai totalmente sconfitto – il nuovo alleato della Democrazia Cristiana era ormai Bettino Craxi – lanciò nel 1980 la linea politica di “alternativa democratica”, cioè di dura opposizione alla Democrazia Cristiana. “Così, dalla sera alla mattina”, come scrive Piccolo, “decise di cambiare rotta per sempre: il Partito Comunista Italiano ritirava ogni intenzione di rapporto politico con la Democrazia Cristiana e con il Partito Socialista, sceglieva l’opposizione come collocazione stabile, in autonomia (in isolamento, per meglio dire). La decisione fu così repentina che molti dei dirigenti furono svegliati nel mezzo della notte, e alcuni altri, addirittura lo lessero la mattina dopo sulle pagine dell’Unità”. Scelta che gettò nello sconcerto tutto un ceto intellettuale di sinistra (sceneggiatori, politici, critici, produttori, giornalisti) che da allora in poi rimase scontento di tutto: della vita pubblica, di quella professionale e di quella privata, “che ha perduto prospettive e tensione morale. È un gruppo che si sente postumo, come se avesse mancato qualcosa”. Accidenti, se aveva mancato qualcosa! Alla presidenza della Rai sarebbe arrivato qualche anno più tardi il professore emerito di letteratura Walter Pedullà, e non il comunista Alberto Asor Rosa, colui che aveva sviluppato con grande impegno la tesi che la “letteratura impegnata” fosse soltanto una pura illusione populista, poiché la classe operaia non avrebbe mai potuto sperare di beneficiare delle arti e delle lettere in un mondo capitalista in cui la cultura era, per definizione, irrimediabilmente borghese (Asor Rosa, come Piccolo, è di origine piccolo borghese). Come se non bastasse, Pedullà, il critico letterario dell’odiato quotidiano socialista l’Avanti, cominciò a collezionare una serie impressionante di premi (il Vittorini, il Borghese, il Giusti, il Locri, il Melfi, l’Adelphi, il Regium Julii, il Sidereo, il Cortina, il Montesilvano tra i più noti e autorevoli) ed entrò a far parte di tutte le giurie letterarie d’Italia (Strega, Viareggio, Campiello, Mondello, Scanno, Pen Club, Flaiano, Bari nonché Penna, Pisa, Acquileia, Coni, Latina, Orient-Express, Trulli, Crotone, Vibo, Padula, Sidereo, Cortina, Montesilvano) con una capacità di lettura straordinaria. La leggenda racconta che per poter leggere tutti i libri dei premi a cui partecipava, facendosi aiutare dal figlio, fosse in grado di leggere cento libri al giorno. Anche per Piccolo, come per milioni di altri comunisti, il vangelo, dopo la svolta clamorosa del 1980, divenne la celebre intervista rilasciata da Berlinguer al direttore del quotidiano la Repubblica del 28 luglio 1981 che iniziava con il celebre attacco “I partiti non fanno più politica” e in cui Berlinguer poneva in modo forte e autorevole la questione morale al centro della vita del paese. In verità era il PCI che non era più in grado di fare nessuna politica che avesse uno sbocco concreto. Berlinguer invitava tutti a guardare il mondo dall’alto. Il PCI era il giusto sentiero, senza nei e senza macchie. Non si capiva più perché Berlinguer avesse voluto, solo alcuni anni prima, sporcarsi le mani addirittura con i corrotti politici della Democrazia Cristiana, politici che peraltro erano, per quanto riguardava la spesa pubblica, dei grandi spendaccioni. Una domanda che Eugenio Scalfari non pose a Berlinguer fu la seguente: ma non dimostrò il PCI durante il rapimento Moro di essere poco lucido? Cosa ci avrebbe rimesso Berlinguer se Moro fosse stato liberato? Veramente credeva che un piccolo gruppo come le Brigate Rosse potesse rappresentare una oggettiva minaccia per la democrazia italiana e che si sarebbero rafforzate dal rilascio di un pugno di membri che sarebbero stati sotto stretta sorveglianza da parte della polizia nel momento in cui fossero usciti dal carcere? Come ben ricorda Piccolo, “la decisione di chiusura totale alla trattativa l’aveva presa Enrico Berlinguer”. Come scrive lo storico britannico di orientamento marxista Perry Anderson, a lungo direttore della New Left Review, uno che certamente non può essere accusato di essere un anticomunista: La tesi che il prestigio dello Stato non sarebbe sopravvissuto ad una resa tale, o che migliaia di altri terroristi sarebbero spuntati fuori sulla scorta di quei fatti, non fu nient’altro che isteria instillata in maniera interessata. I socialisti lo capirono e si schierarono a favore delle trattative. Plus royalistes que le roi, i comunisti, ansiosi di dimostrarsi tra i più saldi bastioni dello stato, sacrificarono una vita e salvarono dal tracollo la loro nemesi, la DC… Durante questa crisi, una volta di più il PCI dimostrò di essere privo di umanità e buonsenso e denunciò qualunque trattativa per assicurarsi il rilascio di Moro in maniera più veemente di quanto facesse la stessa dirigenza della DC, che era comprensibilmente spaccata. Moro fu puntualmente abbandonato al suo destino. Se gli fosse stato permesso di vivere, il suo ritorno avrebbe sicuramente diviso la Democrazia Cristiana e avrebbe probabilmente posto un termine alla carriera di Andreotti. Concludiamo con una citazione nella citazione di Goffredo Parise, che negli anni settanta, come ricorda Piccolo, teneva una rubrica di dialogo con i lettori sul Corriere della Sera: “Questo mio Paese è l’Italia molto bella dei più, non il meschinissimo Paese dei meno: quello dei meno è un Paese dove non si nasce, non si mangia, non si ama, non si vive e non si fa nessuna cultura. Dove non si respira nemmeno l’aria, perché prima bisogna fiutare le arie che tirano e solo dopo si respira. Questo non è il mio Paese: il mio Paese è l’Italia piena di calore animale, quella ignorata dai poveri snob, dove mi piace vivere e scrivere”.
L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano.
Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").
BENEDETTO SIA ZALONE.
Provando a spiegare il fenomeno Zalone. Ritratto dell’uomo del momento che piace al pubblico (e ora anche alla critica) perché non pensa alla satira ma solo a far ridere, scrive il 4 Gennaio 2016 “Il Foglio”.
«Mi chiamo come mio nonno, capostazione, sosia di Terence Hill e convinto mignottaro» (Luca Pasquale Medici, in arte Checco Zalone).
Un milione di italiani ha deciso di iniziare l’anno con il nuovo film di Checco Zalone. Il primo gennaio Quo vado? ha incassato 6.852.291 di euro, oltre 930.000 spettatori. Un record assoluto, più del doppio rispetto all’ultimo capitolo di Harry Potter I doni della Morte – Parte II che deteneva il primato con 3,2 milioni nel primo giorno di programmazione.
A questo punto è difficile ipotizzare fino a dove potrà arrivare Quo Vado?. Marco Giusti: «Perché il film, qualche buonismo a parte e a parte l’appoggio di Mancuso e perfino di Mereghetti, è davvero buono, divertente, civile, uno spettacolo per tutti con poche parolacce (il mitico bokking), che non potrà che salire ai 50 e passa milioni. Non ha neanche rivali importanti per tutto gennaio».
La trama del film in due righe: le avventure di un impiegato statale che, pur di mantenere il suo posto fisso in un ufficio che rilascia licenzia di pesca e caccia, è disposto a trasferirsi persino al Polo Nord. «Qualcuno ci leggerà una satira sull’incapacità di cambiare… qualche mio amico intellettuale (che ha smesso dopo questa affermazione di essere mio amico) ha parlato di Gattopardo… gli ho detto di stare zitto altrimenti lo denuncio, con ’sta roba non si incassa».
Paolo Mereghetti: «Se passano gli anni per Luca Medici, passano anche per il suo personaggio Checco Zalone. Cado dalle nubi era del 2009 e il suo protagonista è cresciuto in consapevolezza e ambizione. Così come sono cresciuti i bersagli da colpire: ieri erano i luoghi comuni del politically correct oggi, in Quo Vado?, sono diventati i miti di una nazione che si ostina a non crescere: la cucina della mamma, la sicurezza della famiglia, la certezza del posto fisso».
«Fino a dieci anni fa il posto fisso era la mia massima aspirazione, i miei genitori mi hanno inculcato da sempre il mito del posto in banca, ho fatto pure il concorso per vice-ispettore di Polizia».
Giuseppe De Bellis (che ha fatto il liceo insieme a Zalone): «L’omosessualità, il terrorismo, la crisi, il lavoro. C’è qualcun altro che riesce a raccontare questi temi con leggerezza? Si può far ridere con un film sul posto fisso? Lo fa Checco. Con la stessa idea di fondo di una delle battute di Cado dalle nubi: “Vi faccio ascoltare una canzone. L’ho scritta l'altro giorno, dopo aver ascoltato un pezzo di Gianni Morandi, Uno su mille ce la fa. Mi sono chiesto: ma agli altri 999 stronzi nessuno ci deve dedicare una canzone? Ce l’ha fatta Checco”».
A spiegare il successo di Zalone, per Giusti, concorre il fatto che «al suo quarto film ha ancora miracolosamente intatta la sua freschezza originale, come se fosse la sua prima pellicola. Grazie alla sua completa chiusura, niente pubblicità, pochissime apparizioni pubbliche, il suo ritorno è davvero un grande evento alla Celentano».
Intervistato da Mariarosa Mancuso: «Ma come, non ti fai vedere mai, e ora che esce il tuo film vai dappertutto? Se io fossi il pubblico mi terrei sul cazzo». Fa eccezione Maria De Filippi, da cui è andato fuori promozione, con un magnifico Jep Gambardella: «Le dovevo un favore, dovevo andare a Italia’s Got Talent ma quel giorno non me la sentivo, quindi l’ho chiamata. Silenzio all’altra parte, poi “quando ti passa la depressione vieni” (imita la voce). E poi mi ha pagato, pure bene».
Tra le pochissime apparizioni tv per presentare il film, quella da Fabio Fazio. Andrea Minuz: «Per un ventina di minuti Zalone ha trasformato Che tempo che fa in una gigantesca, formidabile presa per il culo di Che Tempo che fa. Faticavamo a capire se si rideva di pancia o di testa quando Zalone si è infilato gli occhiali per diventare Gramellini che racconta il senso profondo di Quo Vado?».
Nato a Capurso, in provincia di Bari, 3 giugno 1977. La madre, Tonia, impiegata a scuola; il padre, Sandro, rappresentante farmaceutico. Diploma al liceo scientifico Sante Simone di Conversano, laurea in Giurisprudenza con 106 all’Università di Bari, Luca Medici ha un passato da pianista jazz («Non sono mai andato al Conservatorio, ma guardo sempre Bollani su internet»).
Per un anno ha fatto il rappresentante dell’Amuchina.
Gavetta a Telenorba (emittente locale pugliese), comincia a farsi conoscere con Zelig, le imitazioni e le canzoni. Autore, tra le altre, di Siamo una squadra fortissimi, inno trash trasmesso da Radio Deejay per i Mondiali di calcio 2006 («Dacci tanti orologi agli albitri internazionali/ si no co’ cazzo che vinciamo i mondiali» ecc.).
«Il colpo di culo che mi ha cambiato la vita è stato il provino di Zelig. Cantante neomelodico, cafonissimo, in scena con una tremenda maglietta rosa aderente. Sul palco faccio un numero che a Bari ripetevo spesso e non faceva ridere nessuno: “Un bacione alla casa circondariale di Trani con gli auguri di una presta libertà”. Gino e Michele mi prendono da parte: “Che fai nei prossimi mesi?”. “Ho la pratica per diventare avvocato”. “Annulla tutto, non prendere impegni per un anno”. Un sogno».
«Il 23 luglio del 2004 dopo essere sceso dal Milano-Bari in un giorno di caldo infernale, zanzare e bestemmie, trovo mio padre: “Mo’ mi hai rotto i coglioni, non c’ho più soldi, sto andando sotto in banca, falla finita”. Imbarazzatissimo, vado dal produttore di Zelig: “Non posso più venire”. Senza fiatare, mi stacca un assegno da 5.000 euro. Mi sembrò Dio. Chi cazzo li aveva mai visti 5.000 euro? Ne prendevo 50 a serata per fare il piano bar, mi pagavo la benzina e a volte mi toccava vestirmi pure da babbo Natale» (a Malcom Pagani).
La consacrazione, nel 2009 col primo film Cado dalle nubi, che incassa 14 milioni di euro. Mariarosa Mancuso: «Ricordiamo perfettamente la prima risata a scroscio, quando “Angela” nella canzone faceva rima con “Losangela”: “Ami solo me, spositi con me, che in viaggio di nozze io ti porto a Losangela”. Va ascoltata da uno con la maglietta rosa, cantante di piano bar a Polignano a mare, voglioso di raggiungere “L’acne del successo” (era già una battuta di Marcello Marchesi, ma tra grandi si può fare). Salito a Milano canta la canzone Gli uominisessuali in un locale gay, indicando ogni avventore con il dito».
«Quando ho iniziato chiamavo la macchina da presa telecamera suscitando le ire della troupe».
Seguono Che bella giornata (43 milioni al botteghino nel 2011) e Sole a catinelle nel 2013 che con oltre 52 milioni di euro ha realizzato il più alto incasso della storia per un film italiano e il terzo in assoluto dopo Avatar e Titanic.
Dei 57 milioni incassati nei primi due film quanti ne ha messi in tasca? «Diciamo che ho guadagnato meno della metà del 10%. Sarebbero stati molti più soldi se avessi preso una percentuale sugli incassi. Ma il contratto che avevo firmato non la prevedeva».
Qual è la sua donna ideale? «Quella con le tette» (ad Alessandra Comazzi).
Fidanzato con Mariangela Eboli (qualche cameo nei suoi film), hanno una figlia, Gaia, nata nel 2013. «La bambina comincia a capire, la prima volta era stranita guardando la mia immagine in tv, adesso non gliene frega un cazzo».
Un fratello, Francesco ha fatto l’aiutante di produzione nei primi due film: «Portava sul set gli attori, e poi li riaccompagnava a casa o in albergo. Ma ora fa l’aiuto attrezzista: gli attori, a volte, sono troppo antipatici». L’altro fratello fa lo steward per la Ryanair. «È identico a me. L’hanno chiamato all’Isola dei famosi: gli avrebbero dato 40mila euro. Lui mi ha preso in giro al telefono: “Se me ne dai 45mila, non vado”».
«Detesto gli artisti che fanno finta che i soldi non contino. La prima volta che ho visto un set mi è preso un colpo: 70 persone, 70 famiglie, 70 bocche da sfamare. A qualsiasi uomo di coscienza il dubbio verrebbe: “Chi cazzo li paga questi qui?”».
Ci dice una cosa di sinistra? «Le donne hanno gli stessi diritti dell’uomo. Specie se bone». E una di destra? «La famiglia è importante, l’amante meno» (ad Annalisa Venezia).
Qual è la cosa che le dà più fastidio? «Sentirmi ripetere che sono “l’uomo del momento”. Perché il momento, prima o poi, passa, e ancora non ho un piano B. Di sicuro so che a 50 anni non farò il comico. A quell’età si inizia a essere tristi, la scorreggia diventa patetica, e io le corde drammatiche non le ho. Potrei aprire un ristorante, dedicarmi alla produzione, cinematografica o musicale. Sono anni che tento di scrivere canzoni serie: purtroppo mi scappa sempre la cazzata» (ad Andrea Scarpa).
«Quo vado?», Checco Zalone e il mito del posto fisso. La prima repubblica. L’eroe di Quo vado? è Checco, trentottenne che vive con mamma (altro pilastro su cui si regge l’Italia di Zalone oltre a Al Bano e Romina e, appunto, Sanremo) e papà, impiegato della Provincia, ufficio caccia e pesca. Il paradiso in terra: sicurezza, benefici, rassicuranti abitudini (orari molto elastici, il badge già firmato), piccole e grandi regalie («Non è corruzione o concussione, ma solo educazione»). Quel piccolo mondo antico che giganteggia accontentandosi, condensato nella canzone che è già una hit La prima repubblica: «La prima repubblica / Non si scorda mai / La prima repubblica / Tu cosa ne sai / Dei quarantenni pensionati / Che danzavano sui prati / Dopo dieci anni volati all’aereonautica / E gli uscieri paraplegici saltavano / E i bidelli sordomuti cantavano». Esce il 1° gennaio 2016 in 1300 sale il quarto film di Luca Medici (vero nome d’ Checco Zalone), sempre diretto da Gennaro Nunziante. La commedia racconta le peripezie di un impiegato disposto a tutto per tenersi il suo posto fisso, scrive Stefania Ulivi il 29 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. L’Italia, una repubblica fondata sul mito del posto fisso. Agognato fin da bambino dal piccolo Checco Zalone («Cosa vuoi fare da grande?» chiede la maestra, «Io voglio fare il posto fisso»), auspicato dai parenti, assicurato da politici e notabili, preso di mira da potenziali consorti («Non amava me, amava la mia fissità di posto»). Anche Luca Medici, confessa, prima di diventare Checco Zalone lo ha rincorso: «Sono laureato in giurisprudenza, ho fatto il concorso come vice ispettore di polizia. E un altro all’Inail. Mi hanno bocciato entrambe le volte». È stata la sua fortuna: il 1 gennaio torna a invadere le sale italiane con almeno 1300 copie di Quo vado?, quarta collaborazione con Gennaro Nunziante che firma la regia (insieme hanno scritto soggetto e la sceneggiatura). Si sono lasciati alla spalle l’amata Puglia («Ormai ci girano tutti, troppo inflazionata») per spaziare fino alla Norvegia e all’Africa e girare il più politico dei loro film, ritratto impietoso (ma con finale di speranza) della stessa Italietta che Elio e le storie tese cantarono qualche Sanremo fa con La terra dei cachi. Con il senatore Binetto (Lino Banfi), dispensatore di assunzioni a fare da garante contro le velleità riformatrici del rampante ministro Magno (Nini Bruschetta) in odor di renzismo. «In Italia negli anni Sessanta per contrastare l’avanzata del comunismo, si assumevano migliaia di statali. Gli impiegati pubblici hanno salvato la democrazia nel nostro paese. Gli statali sono stati dei patrioti», sintetizza Nunziante. Un mondo messo in crisi dalla spending review. A cominciare proprio dall’abolizione delle Province, o meglio, dalla loro trasformazione in area metropolitana, e il conseguente ridimensionamento del personale. Nella dialettica tra sommersi e salvati Checco Zalone rischia di perdere l’amata scrivania. È l’implacabile dottoressa Sironi (l’ottima Sonia Bergamasco) a impegnarsi nella crociata di liberarsi di Zalone e fargli firmare la lettera di dimissioni. Ma l’irriducibile Checco riesce a surfare di trasferimento in trasferimento, scoprendo inaspettate gioie nel mobbing, e si ritroverà tra i ghiacci della Norvegia, dove lavora Valeria (Eleonora Giovanardi) ricercatrice del Cnr esperta di orsi. E il politicamente scorretto di Zalone si ferma davanti a lei e ai suoi colleghi. «Sono precati che meritano un applauso, rappresentano l’Italia migliore, fanno ricerca per pochi euro». Quo vado?, prodotto dalla Taodue di Pietro Valsecchi e distribuito da Medusa, arriva nelle sale dove domina Star Wars - Il risveglio della forza di J. J. Abrams. ma la gara al botteghino Checco Zalone la fa soprattutto contro se stesso. E la sua fama di re Mida del box office: 14.073.000 di euro per l’esordio Cado dalle nubi, 43.474.000 per Che bella giornata, 51.894.000 di Sole a catinelle. Per questa ultima commedia si tenta un esperimento inedito: il alcune sale (già oltre cento lo hanno richiesto) il film sarà proiettato allo scoccare della mezzanotte del 31. «Spero siano solo cinema del nord» mette le mani avanti Checco. «Al sud il Capodanno è sacro, capitone, famiglia, amici. Non vorrei che si arrabbiassero con me che li obbligo a lavorare...». In quanto a lui, a parte l’ansia da prestazione al box office («Sole a catinelle lo hanno visto otto milioni di italia, per superarci si dovrebbero riprodurre.»), Luca Medici si gode il successo del suo alter ego .«Vivere da Checco Zalone è bellissimo. Ve lo auguro a tutti. Mi dicono, deve essere terribile quando la gente ti ferma per strada. Non è vero,è bellissimo. Spero che duri a lungo».
Zalone si confessa: "Volevo il posto fisso fui scartato in polizia". Il suo "Quo vado?" sarà nelle sale il primo gennaio, scrive Giulia Bianconi il 30 dicembre 2015 su “Il Tempo”. Nel 2013 "Sole a catinelle" riuscì a incassare quasi 52 milioni di euro, sfiorando gli 8 milioni di spettatori. Un record per un film italiano. Tanto che ancora oggi la pellicola si trova al secondo posto della classifica dei film che hanno incassato di più nel nostro Paese, dopo "Avatar". Nei panni di un impiegato pubblico Luca Medici, alias Checco Zalone, si prepara a bissare il successo di due anni fa (e chissà se anche a batterlo) con "Quo vado?", diretto sempre da Gennaro Nunziante. La pellicola con protagonista il comico pugliese uscirà in 1.300 sale italiane il primo gennaio. E saranno più di cento gli schermi dove sarà proiettata già a partire dai primi minuti del nuovo anno. Il 2016 si apre così all’insegna della risata assicurata grazie al film dell'attore di Capurso (a poco più di dieci chilometri da Bari) che, alla sua quarta prova cinematografica, affronta temi sempre più attuali, tracciando un ritratto di ciò che siamo oggi attraverso la sua inconfondibile e frizzante comicità. In "Quo vado?” l’attore interpreta proprio un giovane di nome Checco che, da quando è piccolo, sogna il posto pubblico fisso. Lavora, infatti, nell’ufficio provinciale Caccia e pesca. Ma quando il Governo decide di tagliare le province, si trova di fronte a una difficile scelta: se vuole mantenere l’impiego pubblico deve essere trasferito, altrimenti si deve dimettere. Come gli hanno insegnato suo padre (Maurizio Micheli) e il senatore Binetto (Lino Banfi) il posto fisso è sacro. Inizia così il viaggio di Checco in giro per l’Italia, fino a quando la spietata dirigente ministeriale, la dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco), che vuole farlo dimettere, lo spedisce al Polo Nord. È tra la neve e gli orsi bianchi che il protagonista incontrerà la ricercatrice Valeria (Eleonora Giovanardi), di cui si innamorerà e che gli farà scoprire nuovi valori come l'educazione e il rispetto. «Fino a dieci anni fa il posto fisso era la mia massima aspirazione. Feci anche un concorso da viceispettore di polizia, ma fui scartato fortunatamente - ha svelato ieri Zalone durante la presentazione in anteprima del film a Roma - L’idea di ritrarre ancora una volta la Puglia con le sue masserie un po' ci angustiava. Allora abbiamo voluto raccontare una storia più complessa rispetto a quelle precedenti. Che facesse sempre ridere, ma senza volgarità. Il politically scorrect per noi ha un limite, quando si passa dalla risata all'offesa gratuita». «Abbiamo fotografato ciò che ci circonda - ha aggiunto il regista Nunziante - descrivendo l’impiegato statale come un patriota e non un parassita». Per il produttore di Taodue, Pietro Valsecchi, il film «è stato molto complicato da realizzare, visti i viaggi dal Polo Nord all'Africa in diciassette settimane di riprese. In Norvegia ha piovuto sempre, ma dovevamo girare con il sole. Questa pellicola è stata una scommessa. Dopo il successo del film precedente, abbiamo pensato che era arrivato il momento di sorprendere noi e il pubblico stesso. Così abbiamo scelto di investire in un progetto ad alto budget lungo due anni di lavoro. Il risultato è una commedia italiana simile a quella degli anni Sessanta alla Risi e Monicelli». Valsecchi è già sicuro del successo e non teme il confronto con "Star Wars". «Sono gli esercenti dei cinema ad averci chiesto la pellicola. Tutti vogliono Checco Zalone». Per Giampaolo Letta, amministratore delegato di Medusa Film, «le aspettative sono molto alte. E il lato oscuro della forza non ci spaventa perché il film di Zalone funziona». Nonostante la spavalderia nei suoi film, il comico ci va più cauto nella realtà: «È bellissimo vivere da Checco Zalone. lo auguro a tutti di poter vivere così - scherza - Con Sole a catinelle abbiamo venduto oltre otto milioni di biglietti. Penso sia impossibile ripetere quei numeri, gli italiani avrebbero dovuto riprodursi in tempi velocissimi. Ma anche se saranno quattro i milioni, va bene». «Volevamo che la gente uscisse dal cinema con la gioia e la speranza, anche a costo di sembrare buonisti - aggiunge l’attore - Io poi sono un comico e il mio compito è far ridere, per questo la canzone sulla prima repubblica è solo un espediente per la risata e non qualcosa che penso davvero». Intanto, la canzone principale del film "La Prima Repubblica”, scritta da Zalone come omaggio a Celentano, dopo pochi giorni è già una hit, al terzo posto della classifica dei brani più ascoltati. «Vengo subito dopo Steve Wonder e Justin Bieber».
Con Zalone ridiamo di noi stessi. Di quello che noi italiani siamo diventati…scrive il 4 gennaio 2016 Gianluca Bernardini (presidente Acec Milano) su "Agensir". Non c’è più il posto fisso, una famiglia “normale”, una etnia e un’unica religione che ci accomunano eppure ci possono essere valori che ci uniscono, che ci richiamano al dovere di educare la propria coscienza ad aprirci all’altro, alla condivisione ad una comunione che è più grande del giardino che ci circonda. C’è un senso di umanità in Checco, sebbene possa essere caustico e volgare in certe sue battute. La sua forza sta, però, nel codice comunicativo che usa, che sa “risvegliare” gli animi più assopiti e a volte troppo “perbenisti” (una necessità, potremmo dire). Del “fenomeno Zalone” non ce ne libereremo presto. Quarto film, quarto successo. Questa volta addirittura ha sbancato in soli due giorni di proiezione con già 22 milioni di incasso. Che si voleva di più per il cinema e per le sale che continuamente si sentono in crisi, ma che in questi giorni hanno tirato un respiro, quasi tutte “sold out”? Se Zalone certo non risolverà i problemi dell’industria cinematografica certo molti esercenti, e non solo, lo invocheranno sì lui, a Natale, come il “salvatore”. Che cosa sta sotto a tale “miracolo”? Sicuramente un lavoro geniale, fatto ad arte insieme a Gennaro Nunziante che, ricordiamolo, come regista e autore fa coppia fissa da anni con il bravo comico, “performer”, cantante nonché attore Luca Pasquale Medici (in arte Checco Zalone). C’è chi lo annovera tra i grandi della commedia italiana come Sordi, Risi, Totò e chi invece ancora lo denigra come “furbetto” di bassa volgarità o dalla risata facile. Saranno i posteri a giudicare. Checco Zalone, sta di fatto, sa arrivare dritto là dove a volte le nostre intelligenze sublimi non sanno portarci. Perché ignoranti o poco colti? Forse, ma soprattutto perché molte volte, incupiti nelle nostre riflessioni più profonde che vanno alla ricerca di un senso (quale poi?) e avvolti da parole altisonanti, auliche che messe in fila una dietro all’altra hanno il solo potere di metterci in confusione (e dunque?), abbiamo bisogno di qualcuno che con il sorriso ci faccia comprendere quello che oggi siamo. Forse sta tutto qui il suo successo “popolare”, proprio perché di tutti, accessibile e comprensibile anche dal “volgo”. In “Quo vado” noi ridiamo in fondo di noi stessi, di quello che siamo diventati grazie anche, forse, al concorso di “altri” (per cui Checco da fastidio). Non c’è più il posto fisso, una famiglia “normale”, una etnia e un’unica religione che ci accomuna eppure ci possono essere valori che ci uniscono, che ci richiamano al dovere di educare la propria coscienza ad aprirci all’altro, alla condivisone ad una comunione che è più grande del giardino che ci circonda. C’è un senso di umanità in Checco Zalone, sebbene possa essere caustico e volgare in certe sue battute. La sua forza sta, però, nel codice comunicativo che usa, che sa “risvegliare” gli animi più assopiti e a volte troppo “perbenisti” (una necessità, potremmo dire). Certo “Quo Vado” non è cinema d’autore. Non è nemmeno un cinema che scava e va in profondità. Non è questo l’intento ed è inutile giudicarlo con questi parametri. Si rincuori ogni critico che fa bene il suo mestiere. Non è nemmeno un film per le famiglie (e sbagliano quei genitori che vi portano i piccoli a vederlo). È una storia che, con l’intento di allettare e far ridere, ti fa uscire dalla sala con almeno sulle labbra: “Beh, in questo però dice il vero…”. Fa pensare, dunque, Checco Zalone? Sì questa è la verità e, forse purtroppo, il paradosso odierno. Non ci dà soluzioni e anche il finale non vuole consegnarci nulla di facile e pronto all’uso, non ci dà nemmeno la morale, tuttavia ci “restituisce” la speranza che, nonostante tutto, si può sempre essere migliori. Ancora una volta. Non solo a Natale.
Siamo tutti Checco Zalone: vince la comicità pura in cui ognuno si rispecchia, scrive Gemma Gaetani su “Libero Quotidiano il 6 gennaio 2016. Ormai lo sanno anche i sassi, Quo Vado? è il nuovo film di Checco Zalone. Che ha incassato 22.248.121 euro in tre giorni, più o meno quanto ha guadagnato Star Wars, che però è fuori da settimane e sono quasi quarant’anni che fidelizza seguaci e seduce nuovi adepti. Ma il trionfo di Checco non si sostanzia solo negli incassi. Noi l’abbiamo visto in un cinema di Milano centro sabato scorso e abbiamo assistito a scene di vero tripudio, applausi a film in corso, applausi a film finito, cori quasi da stadio: una compartecipazione dello spettatore a quanto vedeva sullo schermo che prima apparteneva soltanto ai film porno. Quo va, dove va, quindi, Checco, è facile da dire: verso la consacrazione assoluta. E come spesso accade in questi casi, è partita la «corsa collettiva al commento». Ricordate Friedrich Nietzsche a Torino quando - incominciando a impazzire - si fermò per strada a guardare un cavallo frustato e l’abbracciò piangendo, gridandogli - secondo una delle varie versioni - «Io ti capisco!»? Sta accadendo la stessa cosa con Checco: tutti quelli che prima lo snobbavano ora si sentono in diritto, anzi in dovere di esprimere il proprio parere, dall’anonimo commentatore del web al vip al ministro al quotidiano intellettuale. Tutti costoro, che prima lo consideravano ciarpame comico senza pudore, «lo capiscono» e ce lo vogliono spiegare... Il che fa piuttosto ridere. È la «comicità derivativa»: il talento comico di Zalone è così grande che si riverbera anche su chi ne parla. Quo vado? racconta, tra l’altro, uno Stato italiano che preferisce liquidare a suon di soldoni i dipendenti delle Province pur di liberarsene. È quello Stato di cui Matteo Renzi è esponente di un certo livello e dovrebbe sentirsi chiamato in causa. Invece, al solito prontissimo a vampirizzare il successo altrui, il premier ci ha tenuto a far sapere all’universo mondo, tramite intervista alla Stampa, che lui Quo Vado? l’ha visto insieme coi suoi figli, tenendoci pure la lezione di grande comicità derivativa: «Sorrido di fronte a certi cambi di atteggiamento: fino a ieri era un reietto volgare, snobbato da certi intellettuali. I professionisti del radical chic, che ora lo osannano dopo averlo ignorato o detestato, mi fanno soltanto sorridere». I professionisti del radical chic, cioè lui. Che difatti ora s’inventa fan di Checco. Renzi non è il solo a tentare di cavalcare il fenomeno-Zalone, proiettandolo su di sé nell’ennesimo «storytelling»: altro «radical chic» pronto a osannare il comico pugliese al punto da risultare grottesco è il ministro della Cultura Dario Franceschini, il quale ha twittato: «Grazie a #CheccoZalone! L’incredibile record di #QuoVado con sale ovunque stracolme di spettatori, fa bene a tutto il cinema italiano». «Grazie» di cosa? Di essere un comico che ce l’ha fatta nel ferocissimo mondo del cinema italiano, in cui spesso si coprono di finanziamenti pubblici film di vera cacca che in sala non vede pressoché nessuno? Come dicevamo, è la comicità derivativa: le uscite del ministro della Cultura fanno ridere quasi come Quo Vado?. E mentre i giornali si interrogano se Zalone sia di destra o di sinistra, sul Corriere Adriano Celentano gli ha attribuito effetti taumaturgici: «Quando mi capita magari di essere un po’ stressato a causa di una eccessiva concentrazione sul lavoro, anziché prendere 5 gocce di Lexotan accendo il televisore», ha scritto il Molleggiato. «Zalone è anche un efficace toccasana di cui le farmacie non possono essere sprovviste». Casomai la similitudine corretta sarebbe stata con un eccitante, non con un sedativo, giacché Checco fa morire dal ridere, non addormentare...Via Facebook, invece, è intervenuto Gabriele Muccino, che ha ringraziato Zalone perché «abbiamo tutti bisogno di film come i tuoi». E c’è da credere che gli odiatori del web non lo linceranno come fecero quando ebbe il fegato di criticare l’opera cinematografica di Pasolini. Ha senso che Muccino parli di cinema, essendo lui un regista con rara passione per la sua arte. Meno che di Checco si mettano a fare gli esegeti persone che col cinema e l’ideologia della comicità di Checco hanno zero a che fare. Ma qual è l’ideologia di Checco? Nessuna. Zalone incarna una comicità nuovamente pura, fatta di varie sfumature. C’è, nei suoi film, una grande percentuale di comicità demenziale, dietro la quale però si nasconde una marea di possibili letture: dalla più semplice e immediata alla più raffinata e intellettuale. La grandezza di Checco sta nella sua capacità di riscrivere comicamente tutto: dalle tirate di Massimo Gramellini alla pugnetta fatta a un orso polare (in una delle tante scene esilaranti di Quo vado?). Checco sa ridere di qualunque cosa proprio perché non è ideologico. Anzi, le ideologie le infila tutte nei suoi film per prenderle in giro. In Quo Vado? dileggia: l’italiano schiavo del posto fisso e innamorato della mamma; la femminista fricchettona con figli di tutte le etnie e religioni; l’ecologismo; l’animalismo; l’inciviltà. Prende in giro tutte queste cose però mostrandole, incarnandole, senza ergersi superiore a nessuno. La sua comicità pura è politicamente scorretta verso tutti. Vi pare poco? No, perché è la comicità che in Italia non si vedeva da tempo. Da queste parti vigeva una rigida dicotomia: da un lato la comicità ideologizzata e intellettualoide (da Nanni Moretti ai Soliti Idioti passando per i Guzzanti); dall’altro i cinepanettoni, cioè il disimpegno assoluto. Checco invece inserisce nei suoi film questioni sociali e politiche e ideologiche, ma per farne oggetto di comicità totale, senza prendere mai posizione. Questa è la sua forza: aver risciacquato i panni della comicità italiana nella comicità pura. Lo dice infatti anche lui: «Io non voglio fare analisi sociologiche (...) ma solo far passare un’ora e mezza a ridere». In realtà le analisi le fa, ma non ci conficca sopra bandiere, se non quella della risata.
Zalone, così siam tutti, scrive Fabio Ferzetti su “Il gazzettino” il 30 dicembre 2015. Dal paesino pugliese al Polo Nord. Dal calduccio del posto fisso al gelo del pack artico. Dall'italica autoindulgenza all'ipercorrettezza scandinava. Dagli incontri ravvicinati con i prosciutti e i sottolio conservati dai colleghi nei loro confortevoli uffici (pubblici), a quelli con le foche e gli orsi della stazione di ricerca in Norvegia, dove l'inamovibile impiegato di una Provincia pugliese, ufficio caccia & pesca, viene catapultato dalla perfida funzionaria Sonia Bergamasco (una meraviglia: sembra la Franca Valeri degli anni d'oro con una marcia sexy a sorpresa in più) per cercare di farlo dimettere come vuole la nuova direttiva...Secondo una teoria molto diffusa nel cinema non solo americano, ogni sceneggiatura segue più o meno fedelmente lo schema del “viaggio dell'eroe”. All'inizio l'eroe vive in un mondo ordinario dominato da un equilibrio (o squilibrio) immutabile. Poi riceve la “chiamata”, un evento che lo fa uscire dal bozzolo e tentare l'avventura. Avventura che sulle prime rifiuta, per poi accettarla grazie all'incontro con un mèntore, affrontando prove (luoghi, personaggi, ambienti) sempre più difficili in nome di una Grande Ricompensa. Ma cosa succede se l'eroe/antieroe ha la faccia di gomma e i tempi da urlo di Checco Zalone, il miglior comico del cinema italiano perché quello con l'orecchio più sensibile, oltre che l'unico capace di fare un vero gioco di squadra (premio a chi trova una faccia sbagliata, anche tra le ultime comparse in fondo all'inquadratura)? Succede che in 86 minuti secchi, misura aurea, Luca Medici/Checco Zalone e Gennaro Nunziante (che la forza continui a essere con voi) smontano e rimontano mille volte, come al pit stop, tutti i trucchi e i vizi, le bassezze e le ipocrisie, i timori e i pregiudizi, le abitudini e le omertà di cui si nutre la nostra pavida, pigra, arretrata natura italica. Fino a farci ridere a crepapelle e insieme vergognare di noi stessi come non capitava da un pezzo. Per giunta limitando al massimo quei colpi bassi e sempre troppo facili che sono le battute su emorroidi e genitali (degli orsi, in questo caso). Che conceda una licenza di caccia in cambio di una quaglia («Non è corruzione né concussione, solo educazione»), o che scambi la dirigente del Ministero per la segretaria solo perché è una donna, Checco è un tale concentrato di storture nostrane da non rendersene nemmeno più conto. Salvo trasformarsi per qualche tempo, dopo aver deciso di restare in Norvegia per amore della bella scienziata Eleonora Giovanardi, in un improbabile vichingo dal pizzetto biondo (anche se è dura resistere a Al Bano e Romina durante l'inverno boreale...). Con sconcerto dei genitori in visita (Ludovica Modugno e Maurizio Micheli, un po' sottoutilizzati), che non capiscono come più che il familismo amorale la vera “arma più forte” di quel finto immobilista sia un trasformismo alla Zelig (quello di Woody Allen). Tanto da adattarsi benissimo anche quando finisce in Calabria, da vero erede dei nostri grandi commedianti di una volta (Sordi in testa), pronti a tutto per sopravvivere. Anche se la stagione delle vere commedie non tornerà. Forse perché la realtà è ormai così caricaturale da esigere rappresentazioni “al cubo”. Nessuno possiede più un grammo di innocenza, sono tutti troppo (cinicamente) consapevoli della propria immagine per costruire un racconto comico e realistico insieme come quelli della coppia Sordi-Sonego, vero modello di Quo Vado. Di qui il trionfo di una comicità farsesca in cui le tappe del racconto sono solo palcoscenici offerti al mattatore e i comprimari, peraltro efficacissimi (il senatore Lino Banfi, il ministro Ninni Bruschetta), sono pure maschere (i Genitori, la Fidanzata, il Collega, etc.). Ma se lo schema del racconto non è certo una novità, la cura dell'invenzione, e dell'esecuzione, sono davvero fuori dal comune. È questo a fare la differenza (malgrado il lieve calo “buonista” in sottofinale), oltre alla bravura oggi inarrivabile di Checco Zalone. E poi, chi altro oserebbe far rimare “fuck” con ”Margherita Hack”?
Zalone: "Dico grazie a tutti, anche agli indignati". Checco Zalone ai microfoni di Rtl 102.5 parla dello straordinario successo di Quo vado? Scrive Luisa De Montis Lunedì 4/01/2016 su "Il Giornale". "Io non sono riuscito a controllare tutte le dichiarazioni perché sono tantissime. Però voglio ringraziare quelli che mi dicono “grazie”, ma anche gli indignati, perché siamo un popolo di indignati, anzi, soprattutto loro, perché fanno scaturire curiosità e quindi la gente va al cinema. Grazie indignati. Non puoi essere simpatico a tutti, anzi quando c’è questo consenso quasi plebiscitario, paradossalmente, senti l’esigenza di ritornare a terra e di trovare qualcuno a cui stai sulle balle, altrimenti potrei avere manie di onnipotenza. Continuate ad indignarvi che io sono contento". Parola di Checco Zalone che, ai microfoni di Rtl 102.5, parla dello straordinario successo di Quo vado?. Il comico poi aggiunge: "Chi fa questo mestiere non pensa ai beni o ai mali di questo Paese, ma solo a far ridere. Il comico per una battuta si venderebbe l’anima. Poi se la battuta è azzeccata, nel senso che muove da una realtà tangibile e familiare a tutti, è più efficace. Io però non voglio fare analisi sociologiche sul nostro Paese, sul posto fisso, sul degrado, sul berlusconismo, su tutto quello che hanno scritto in questi giorni. Io e Gennaro Nunziante (regista e coautore del film ndr) vogliamo solo far passare un’ora e mezza a ridere. Ringrazio per le analisi, sono veramente lusingato dagli articoli, Celentano ne ha parlato, Muccino ha scritto su Facebook un post lusinghiero più lungo della sceneggiatura del mio film, però la questione è molto più semplice: il comico fa ridere ed evidentemente c’è riuscito". Alla domanda se ha rivisto il film, Zalone risponde: "No, l’ho visto per quattro mesi al montaggio, il lavoro dell’attore è questo: si vede al montaggio, si taglia, quindi quando esce mi ha nauseato; non lo vedrò mai più per almeno tre o quattro anni. Poi sono ingrassato, sono un po’ più rotondo, quindi mi mette un po’ di tristezza. Ritornando al discorso di prima: far ridere è tremendamente complicato, e il pubblico di oggi poi è molto sgamato. Sì, hanno internet, c’è una nuova cifra che è molto più immediata e veloce della rete. Ci sono gli sketch, ci sono un sacco di ragazzi che fanno anche cose molto interessanti. Portare un nuovo linguaggio in un film è difficile, devi essere più veloce. Rispetto alla commedia degli anni ’80, anche a quella degli anni ’60, che era sicuramente più interessante perché dietro c’erano veri intellettuali come Risi o Sonego, ora cambia il montaggio, l’immediatezza. Bisogna essere, ahimè, molto più brevi ed efficaci, infatti non riusciamo a fare un film più lungo di 83 minuti. Siamo partiti da due ore, una palla incredibile, ci volevamo ammazzare, poi al montaggio tagliuzziamo qui e lì".
Zalone: «Celentano mi ha telefonato ma non l’ho riconosciuto». «Pensavo fosse un mio amico che mi faceva uno scherzo e l’ho mandato affanc... Che figura di m... col mio mito di sempre. Da ragazzino cantavo le sue canzoni allo specchio», scrive “Il Corriere della Sera" del 6 gennaio 2015. Dopo avergli fatto i complimenti sul Corriere, Adriano Celentano ha chiamato Checco Zalone (foto) che l’ha imitato nel suo Quo vado? Ma l’attore ha rivelato sul numero di Oggi in edicola: «Pensavo fosse un mio amico che mi faceva uno scherzo e l’ho mandato affanc... Quando mi sono reso conto che era davvero lui... che figura di m... E poi proprio col mio mito di sempre. Da ragazzino cantavo le sue canzoni davanti allo specchio e provavo le sue mosse. Lo amo».
«Il Polo? Fa più freddo che a Roccaraso». Fenomenologia di Zalone: battute, canzoni e giochi di parole alla maniera di Totò, scrive Giuliano Di Tanna il 3 gennaio 2016 su “Il Centro”. Come tutti i grandi comici, Checco Zalone. non guarda in faccia a nessuno e ha le battute che fanno ridere (e non semplicemente sorridere). Una delle battute del suo nuovo film “Quo vado?” è già un piccolo cult in Abruzzo: «Al Polo Nord fa più freddo che a Roccaraso». Ma ecco un florilegio di frasi tratte dal film campione d’incassi: «Io sono da ristorante “Tutto al cofano”»; «La segreteria è donna per definizione»; «Il mobbing rilassa»; «Tira più il sorriso di una donna che un rinoceronte»; «In Puglia patate riso e cozze, al Polo patate riso e krill»; «Partono le denunce per Bocching e Milfing». Il comico pugliese ama, soprattutto, rimettere in discussione mode e fissazioni che nessuno osa toccare. Per esempio, la pizzica: «È una bella musica, ma dopo cinque minuti non la puoi più ascoltare: gli urologi dicono che dopo un po' che la balli senti dolore alle parti basse». Uno dei suoi bersagli preferiti è il politicamente corretto di una certa sinistra perbenista italiana: «Io piaccio all'italiano terra terra o a De Gregori. All'intellettuale, è al pubblico di mezzo che sto sulle palle». Ma non disdegna il gioco di parole, un po’ dadaista, alla Totò. Ai tempi delle sue comparsate a Zelig, in tv, ringraziava così il pubblico: «Che acclamanza, grazie per questa ovulazione che mi attribuite!». Di quello stesso periodo sono altre battute come queste: «Ho stato accusato di avere copiato questa canzone, ma come dicevano i jazzisti di New Orleans: le note sono sette, chi vuole se le fotte»; «Ho una doppia personalità, sono come dottor Jack e Peter Pack, il mio è un tipo di comicità anglosassa, sono un artista con la esse maiuscola»; «Se io non avrei fatto il candande non sarei qui». Le canzoni, certo. Dieci anni fa, accompagnò la scalata della Nazionale di calcio alla Coppa del mondo con una canzone nata, invece, per prendersi gioco degli Azzurri («Siamo una squadra fortissimi»). In “Quo vado?” intona un inno alla prima repubblica e alle sue certezze costose (per il bilancio dello Stato) come il pos to fisso nel pubblico impiego. Ma cantando, cantando, ha sfottuto anche i tifosi. Per esempio, gli juventini: «I juventini siamo piccoli eroi, | gli unici martiri i capi spiatoi, | perché siete gelosi, | siete gente invidiosi | di una squadra gloriosi | come noi». E – peccato mortale nell’ Italia eternamente sentimentale – non ha risparmiato l’amore: «L'amore non ha religione | nessun confine, nessuna nazione | né americano, né bolscevica | l'amore è quando lei ti dà (quando lei ti dà) quando lei ti dà (ti dà, ti dà) la vita».
“Quo vado” da record. E Zalone diventa un caso politico, scrive “On Line news" il 6 gennaio 2015. Quo vado?” è il maggior incasso della stagione. Il film di Checco Zalone diretto da Gennaro Nunziante non solo fa boom al botteghino ma diventa un caso politico e sindacale. La storia dell’impiegato Checco, felice e senza pensieri, con il mito del posto fisso, tipico della mentalità italiana, piace al pubblico ma divide la politica, tra chi ne magnifica i successi e chi parla di trionfo del qualunquismo. Anche il leader della Uil, Carmelo Barbagallo, ha commentato la rappresentazione dei dipendenti pubblici fatta da Checco Zalone nel suo ultimo film “Quo vado”.”C’è una distorsione attuata dalla politica che ha usato il bacino elettorale dei dipendenti pubblici per fare i suoi interessi e scaricata sul sindacato. Siamo un sindacato moderno e riformista, se c’è un dipendente pubblico che non lavora deve essere licenziato così come accade nel privato. Fare la satira su questi atteggiamenti funziona perché è come la satira sui politici che fanno finta di fare politica”.Il film ironizza su quel senso rasserenante, impiegatizio e democristiano della prima repubblica e sulla mentalità assistenzialista come ha spiegato il regista.”Abbiamo pensato all’impiegato come un patriota e non come un parassita”.Che piaccia o meno, il film ha toccato nel segno mettendo a nudo le paure e i sogni di un ceto medio sempre più impoverito e disorientato.
Non vado a vedere Zalone per lo stesso motivo per cui non mi vesto di fucsia, scrive Oscar Nicodemo, Giornalista e copywriter, il 06/01/2016 su "L'huffingtonpost.it". Tra le consuetudini cosiddette sociali degli italiani ve n'è una che emerge fuori misura, contrassegnando una caratteristica dominante della popolazione: discutere animosamente di tutto e su tutto senza badare alla forma, né alla sostanza, ma cercando ad ogni costo di affermare il proprio punto di vista. Risulta accettabile, buono, spendibile ciò che piace a noi, che per la legge stessa dei numeri, delle proporzioni e delle differenze di gusto, può dispiacere e addirittura risultare detestabile a tanti altri. E succede che un film comico di ordinario successo, come Quo vado, distribuito come una colla per topi da capo a piedi della penisola, proiettandolo in 1300 sale, assurge a pretesto culturale per dibattere sul tema della necessità della risata o del ridere per decreto. Tutti, o quasi, ignorano che non necessariamente si è banali, preferendo quella proiezione; tanto meno si può essere tacciati di snobismo, sottraendosi alla sua visione. Una volta messo in moto il meccanismo che scatena l'asfissiante e monotono dibattito tra due fazioni contrastanti circa la qualità dell'opera filmica, ha luogo il tipico dilemma nazionale da fenomenologia mediatica, a cui ci si conforma schierandosi a favore o contro un tale successo cinematografico, ritenuto, da una parte, legittimo e meritevole, del tutto sproporzionato e incomprensibile, dall'altra. Pertanto, la variegata composizione (a)critica di giornali e social network mi rende edotto di un prodotto che, per sortilegio, resta sciaguratamente inaccessibile ad un povero senso estetico come il mio. Passo in lettura giudizi di merito e invettive analitiche che si trascinano dietro considerazioni tanto articolate che manco per l'introspezione metodica di Ingmar Bergman si sono mai spese. Evidentemente, l'anima gutturale del Checco d'Italia poggia su una visione intimistica sopraffina, da meritare lo sforzo esagerato dei critici. Le parole pro e contro il cineasta del momento si susseguono in una dimensione gigantesca e rende conto della sua tentacolare presenza nello spazio in cui esercito il mio diritto ad informarmi. In pratica, se pure decido di non andare a vedere il capolavoro di Checco Zalone, non posso evitare di sentirne parlare o vederne scrivere. E quel che è peggio, decido finanche di argomentarne senza conoscerne realmente i limiti che si offrono così evidenti all'intuizione e alla percezione. Considero, tuttavia, ingiustificabile la querelle tra checcozaloniani e non: ai primi sarà pur lecito sganasciarsi dalle risate contemplando il prototipo più genuino del provincialismo nazionale, mentre agli altri va riconosciuta la scelta di evitare di intristirsi, al cinema, di fronte all'esasperazione e la teatralizzazione dei luoghi comuni che si incontrano nella vita quotidiana. Va da sé che la visione di un film del genere non può distinguere categorie di persone, ma di consumatori. Io, ad esempio, non andrò a vedere il film di Zalone per lo stesso motivo per cui non comprerei un cappotto fucsia. Naturalmente, per ridere di me stesso andrei a vedere Quo vado indossando quell'indumento.
"Chi guarda Zalone è poco intelligente". The Jackal contro Checco. Il gruppo di registi e attori satirici diffondono su Facebook un "sondaggio" che determina il livello di intelligenza degli spettatori di "Quo Vado?", scrive Claudio Cartaldo Mercoledì 6/01/2016 su "Il Giornale". Chi guarda Checco Zalone ha un livello intellettuale pari a zero. E' questa la tesi, più o meno ironica, di The Jackal, un gruppo di video-maker nati su Youtube e sbarcati nel piccolo schermo grazie al programma AnnoUno su La7 condotto da Giulia Innocenzi. Sul loro profilo Facebook hanno pubblicato un'infografica che raccoglie i 5 commenti più diffusi al film di Checco Zalone, dando ad ognuno di essi il un livello di intellettualità. "La sintassi cinematografica di Zalone è elementare, il suo successo è sintomo di una malattia culturale che risiede negli strati più profondi dell’inconscio collettivo", dice il commento che ottiene un bel 4 di punteggio. Peccato che il 5 sia andato ad un poco intelligente "ahahaha andiamo al cinema ci divertimm", che ha ottenuto anche zero. Come a dire: chi va a vedere i film di Zalone è un po'...scemo. O forse era tutto uno scherzo.
Checco Zalone. Perché tante critiche? Se ne stanno leggendo tante, delle solite critiche elitarie al film “Quo Vado?” con Checco Zalone. Come se sbancare il botteghino fosse per forza un male. Non sarà perché assomiglia troppo a un documentario? Scrive Mariagrazia Pontorno mercoledì, 6 gennaio 2016, su “Art Tribune”. Il 3 gennaio 1954 la RAI inaugurava le sue trasmissioni. Non esisteva ancora un linguaggio televisivo, tutto da inventare, e la modalità di fruizione era collettiva, come al cinema. Anzi, a volte gli apparecchi venivano collocati proprio sui palchi dei cine-teatro. Domenica 3 gennaio 2016, 62 anni dopo. Con Quo Vado?, il film diretto da Gennaro Nunziante e interpretato da Checco Zalone (al secolo Luca Medici) accade più o meno lo stesso. Le sale traboccano. Fila disordinate che richiamano alla memoria l’Annona. E se proprio un paragone con il cinema del passato dobbiamo farlo, non è con la commedia degli Anni Sessanta, ma con il Neorealismo. Nel senso che sembra proprio di essere caduti dentro un film del dopoguerra, con scene di folla scomposta, i volti della povertà che sorride e per un paio d’ore dimentica i propri mali. La funzione originaria del cinema, il puro intrattenimento, la distrazione. Il problema quindi non è solo di ordine estetico. E la cosa risalta molto di più nei cinema del sud, a Natale, quando ci si accorge che Quo Vado? è l’appuntamento atteso da famiglie che questo possono permettersi. Donne vestite male, pettinate peggio. Uomini dal viso rassegnato, bimbi sguaiati, con l’accento pronunciato e dallo scarso vocabolario. Questa è l’Italia. E dobbiamo ringraziare Checco Zalone se meglio di qualsiasi indagine demografica riesce a fotografare il Paese in modo così asettico. In breve la trama: Checco è il tipico italiano medio, attaccato al posto fisso e innamorato dei suoi benefit e della madre, che è la stessa cosa. Ora, considerando che il racconto è più vicino alla realtà che alla parodia, c’è da chiedersi di cosa stiano ridendo gli italiani. Se si rendono conto di fare la fila per guardarsi allo specchio, senza le attenuanti della distanza sancita dal grottesco fantozziano o dalla maschera di Alberto Sordi, per esempio. Se cioè sono consapevoli che Zalone restituisce la loro immagine senza deformarla. In un certo senso non assistono a un film, ma a un documentario. Zalone ha scomodato fior fiore di intellettuali, premi Strega, penne impegnate, animali da scrivania anche loro incollati alla sedia, seppure per più nobili fini. Tutti a chiedersi il perché di questo successo. Ma specialmente se questi grandi numeri possono conciliarsi con l’idea di qualità, passando il film al vaglio di parametri valutativi che appartengono alla Prima Repubblica – volendo citare la hit sfoderata da Checco in una delle scene madri – e a un’epoca che è stata seppellita insieme alla definizione PAL e ai manicheismi. Senza dire che il mainstream, quando non è spazzatura, può addirittura essere capolavoro. Perché ha raggiunto e appagato tutti, a diversi livelli di lettura. Dalla Cappella Sistina a Michael Jackson, arte vera insomma. E poi non si capisce perché chi predica valori di sinistra ambisca all’élitarismo a priori, alla nicchia: altro che masse. Un’inquisizione che individua nel successo il peccato mortale. Il demone da additare, ma a cui ambire neanche troppo segretamente racimolando like sui social con frasi a effetto. Veniamo al film, alla regia di Nunziante. Classica, di genere verrebbe da dire, che sacrifica la ricerca dell’immagine sull’altare della comicità. Che ruota intorno ai gesti, ai dialoghi e ai tempi del comico. E lavora silenziosa dietro le quinte per veicolare la battuta nel modo più diretto. Tutti i film comici sono così, incentrati sull’attore. E meno si pone attenzione alla regia, più essa è riuscita. E di regia cinematografica si tratta, se si svincola dai singoli sketch per dispiegarsi in un racconto unitario e coerente, usando le tecniche del cinema e non quelle televisive. Lo stesso Guzzanti (Corrado, mi raccomando), mente tra le più belle che il nostro Paese abbia avuto la fortuna di conoscere, non è riuscito a trasformare gli episodi geniali di Fascisti su Marte in un film che avesse ragione d’esistere, quindi così facile non deve essere. E ci vuole mestiere. Altra critica: l’esportabilità. Il film è circoscritto al territorio nazionale e risulta incomprensibile all’estero: non ha mercato. Quindi gli incassi da record registrati in patria, se proiettati in uno scenario di distribuzione planetaria, non sarebbero così clamorosi. Chi vuole la nicchia poi però si aspetta il successo globale, e forse l’Oscar. C’è chi addirittura pensa a un complotto di Medusa, che ha distribuito così tante copie da imporre Checco agli italiani. Un fenomeno indotto. Però ad esempio con l’ultimo film di Muccino (Silvio) non ha funzionato: ospitate televisive ogni dove, trecento copie distribuite sul territorio nazionale e ritirate meno di due settimane dopo per flop. I grandi numeri funzionano per osmosi, vengono dal basso e derivano dall’alto, allo stesso tempo. E c’è la costante di una figura carismatica, che catalizza le proiezioni delle masse. Il corpo del comico capta con più facilità le correnti sociali striscianti, perché veicola in maniera più immediata le emozioni, saltando il filtro critico della ragione. Si ride come si tossisce, senza pensarci. Checco Zalone riesce a far ridere, tutti. E qui la crisi di chi era abituato a tenere i denti stretti e si ritrova con la bocca spalancata. E la conseguente corsa a trovare una spiegazione rassicurante, che chiarisca il meccanismo, assolva i ridaioli, senza incensare Zalone, questo no, sarebbe davvero troppo. E se invece dicessimo che far ridere in maniera così diretta e franca, senza mai scadere nella volgarità; e con un copione che dissimula onestamente uno studio accurato dei ritmi e della parola è un talento che in pochi, pochissimi possiedono? Che l’intelligenza più raffinata è quella che diverte e non annoia? E che nella semplicità immediata di una battuta si può nascondere la sintesi di un concetto complesso e stratificato? E se dicessimo che Checco Zalone è un uomo brillante, che sa lavorare con la parola, il corpo, la musica? E che non è buonista ma politicamente scorrettissimo? Tanto da richiamare gli stereotipi ingenui a cui eravamo abituati un tempo, come la tribù africana di cannibali, tipica degli albi di Topolino di qualche decennio fa? E se dicessimo che Zalone è davvero bravo, e che la sua comicità è tutt’altro che facile, bensì misteriosa, come i tutti fenomeni imprevedibili e in parte irrazionali? Qualcuno potrebbe restarci male?
Ma quanto si lagnano gli intellò e i “registi col posto fisso” per il successo di Zalone. Neanche una settimana dopo l’uscita di “Quo Vado?” ha più intellettuali chini sulle sue battute di quanto un regista premiato con l’Oscar possa sperare in una vita intera, scrive di Mariarosa Mancuso il 6 Gennaio 2016 su “Il Foglio”. Ne scrive un vincitore di premio Strega come Nicola Lagioia, in nome della comune pugliesità. Si scomoda pure Internazionale, che per penna di Christian Raimo decreta “è la critica più corrosiva che mi viene in mente portata all’anima e non alla facies del renzismo”. Ne scrive l’intellettuale Adriano Celentano, anche se fuori dalle canzonette per lui “scrivere” è una parola azzardata: “Una medicina che ci difende e ci rende immuni dalle gravi INFEZIONI che ci procurano le clamorose CAZZATE di un certo cinema internazionale…”, e via così. Checco Zalone ha fatto il pieno, non solo di incassi. Neanche una settimana dopo l’uscita di “Quo Vado?” ha più intellettuali chini sulle sue battute di quanto un regista premiato con l’Oscar possa sperare in una vita intera. I colleghi comici e registi di successo, interrogati da Fulvia Caprara sulla Stampa, abbozzano. Chi calcola “si ride più del dovuto”, chi dice “ha avuto culo perché pioveva”, chi vanta i propri successi a minor budget, chi si lancia in distinzioni tecniche tra la satira e il surreale, chi sbotta “è inutile cercare il pelo nell’uovo” (e noi che pensavamo fossero 22 milioni in tre giorni, deve essere stata un’allucinazione). Mancano all’appello della chiacchiera i registi con il posto fisso: a loro bisognava chiedere un parere, un giudizio, un commento. Succede infatti che in Italia al posto fisso non sono attaccati solo gli impiegati, come racconta il film. Lo vogliono anche i registi, e in parecchi casi lo ottengono. Come possiamo chiamare, se non “posto fisso”, i registi che girano il loro primo film con i contributi dello stato, in sala incassano poco o niente, un paio d’anni dopo vanno a batter cassa per il secondo film? Ottenendo altri soldi, girando un altro film che nessuno va a vedere, e così ben posizionandosi per ottenere il finanziamento per un terzo capolavoro (tanto si sa che il pubblico è becero, va a vedere soltanto i film di Zalone, non c’è più spazio per noi che facciamo cinema di qualità, gli esercenti smontano il film appena dopo una settimana di biglietti non staccati, dura la vita per noi artisti). Sarebbe interessante sapere cosa pensa di “Quo Vado?” la “100autori”, Associazione dell’Autorialità Cinetelevisiva. Leggiamo sul sito: “Conta oggi oltre 500 iscritti ed è presente sul territorio nazionale con sedi strutturate in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Lazio e Sicilia”. Viene in mente la dottoressa Sironi (Sonia Bergamasco, bravissima, deve darsi alla commedia come Monica Vitti quando lasciò Michelangelo Antonioni) che chiede all’inamovibile impiegato Zalone: “Quale è stato il suo contributo in questi anni?”. Zalone risponde “mettevo timbri”. Noi ricordiamo molti lamenti, e anche uno spot che chiedeva soldi, ma così maldestramente da far venire l’atroce dubbio: “Se mettendosi in cento scrivono e girano così male uno spot, perché dovrebbero far meglio con il loro film?”.A sentire la rima “il concorso per allievo maresciallo / seimila posti a Mazara del Vallo” vengono in mente le schiere di aspiranti registi che “vogliono esprimersi”: hanno fatto il Dams, quindi ne hanno il sacrosanto diritto. L’impiegato Zalone accumula in dispensa salami e carciofini sott’olio, loro ritagliano recensioni da mettere nell’album. Salvo gridare allo scandalo quando la festa finisce. O stupirsi per gli incassi di chi ha talento, e rispetta il pubblico facendolo ammazzare dalle risate.
Checco Zalone: Ovvero I Radical Contro "Laggente", scrive Alessandro A. Amato il 4 gennaio 2016. La polemica è alla base della nostra cultura. Non esiste un modo edulcorato per dirlo: siamo un popolo di imbecilli e dobbiamo rendercene conto il prima possibile. Ma andiamo con ordine: cosa succede se un giovanotto simpatico decide di fare un film e poi diventa campione e distruttore di record di incassi per ben quattro volte? In una nazione dove la normalità è di casa ci potremmo aspettare qualche critica, qualche mi piace, qualche non mi piace e poi avanti con la vita. Invece no, in Italia se un autore bravo in grado di comunicare in modo efficace riesce a mettere nel cantuccio, almeno nelle sale del Belpaese, Star Wars esiste un problema culturale. Per capire il grande nodo sociale sull’accettazione o meno del nuovo film di Zalone bisognerebbe prima tentare di dare una definizione delle due specie umane più diffuse tra Belluno e Porto Empedocle. Partiamo dai primi, quelli che il mondo tutto ci invidia: gli i Radical. Un tempo quelli come noi li chiamavano Radical Chic, ma era prima degli iPhone, prima di Twitter, prima dell’Hipsterismo acuto, prima della morte della sinistra, prima di Renzi, prima di Diprè. Oggi sono sedicenti intellettuali amanti del cinema svedese pieno di morte e silenzi, leggono i libri delle twitstar e mangiano sushi. Il loro iPhone li aiuta a salvare il mondo della cultura dalla commercializzazione americana, ma non quella di #ObamaIsMyPresident quella di Trump. Sono contro Israele, ma guai a parlar male del 27 gennaio, sono quelli dell’Isis è una minaccia, ma Berlusconi lo è di più (ancora Berlusconi si avete letto bene ancora Berlusconi). Sono quelli che le bestemmie no, ma il Piss Cristh si Serrano è arte. Insomma quelli che: “Sono pronta a sacrificare tutto in nome degli ideali, fintanto che quel tutto si limiti a un paio di minuti al giorno tra l’aperitivo e la cena”. Ecco loro tendenzialmente odiano Checco, il suo film e quello che dice, ma odiano molto di più il fatto che una persona genuina in grado di comunicare (e loro sono tutti esperti di comunicazione e grandi divulgatori di consigli per comunicare meglio) al meglio i problemi del Paese abbia fatto un sacco si soldi e senza nemmeno fare un tweet, un post su Facebook, un appello, un video su YouTube una foto su Instagram. Ecco poi c’è Laggente. Loro nemmeno se lo pongono il problema su Checco. Perché un film è bello e fa ridere e i problemi dell’Italia sono altri: le sciechimiche, politicicorrotti, appaltisenzagara, fondiperleimprese, mobastacostapoliticadeiprofessionisti. Insomma a Laggente “fotte sega” di quello che i “professoroni” berciano da dietro le scrivanie e con il vitalizio a fine mese. W Checco e abbasso il vile principe Giovanni. Come sempre Don Camillo e Peppone, i Guelfi e i Ghibellini, i comunisti e i fascisti, gli juventini e gli interesti, gli scozzesi e gli inglesi, gli scozzesi e gli irlandesi, gli scozzesi e gli scozzesi, tutti pronti a dare battaglia per la propria parrocchia e allo stesso tempo pronti a dimenticarsi che un film, per bello che sia, rimane pur sempre un film. In conclusione: evviva Checco Zalone che fa tanti soldi, fa fare tante risate e dice che il cinema italiano può anche non parlare di morte, storia, relazioni difficili, famiglie distrutte e nonni impertinenti e superattivi.
Ci meritiamo Zalone non i nostri politici, scrive Matteo Grandi su Metronews” lunedì 4/01/2016. Che il dibattito pubblico sia incentrato sul conto alla rovescia sballato del Capodanno Rai e sull'ultimo film di Checco Zalone ci può anche stare. Sono argomenti nazionalpopolari che, complici le festività natalizie, attecchiscono piuttosto bene sull'italiano ebbro di prosecco e panettone. Nel caso di Zalone poi, al di là della ridicola indignazione di una certa intellighenzia autoreferenziale, lo tsunami di incassi scatenato dal suo “Quo vado?” è benzina sul fuoco della chiacchiera da bar: ovvio quindi che se ne parli, e parecchio. Un po' meno ovvio è che lo stesso Zalone stia monopolizzando l'agenda della politica italiana. Succede quando il livello del dibattito è basso e quando la mancanza di punti di riferimento è tale che ci si aggrappa a tutto nel vano tentativo di dare un senso al proprio ruolo. Accade così che l'agone politico si azzuffi sul fenomeno Zalone e, infischiandosene di ripresa, lavoro e riforme, cerchi risposta, in questi giorni, a un unico cruciale interrogativo: i film di Zalone sono di destra o di sinistra? Un teatrino tanto triste quanto surreale che disegna meglio di qualsiasi considerazione il livello dei nostri politici. Con menzione d'onore a Dario Franceschini, il ministro della cultura, che dopo aver lungamente spiegato che Zalone non era degno del David di Donatello, in quanto la quantità di biglietti strappati non equivale alla qualità di un prodotto (in base a quel vecchio e polveroso ragionamento sinistrorso - di cui il cinema italiano è intriso - per cui “se incassa non è arte” ché le masse servono solo a portar voti, ma non capiscono una mazza), ora lo incensa pubblicamente eleggendolo nuovo feticcio della sinistra peninsulare. Con tanto di benedizione pubblica del Premier Renzi che ci tiene a far sapere di aver portato tutta la famiglia a vedere “Quo Vado?” e di mezzo PD Network, che sta cercando di saltare in ogni modo sul carro milionario del vincitore. Vezzi e atteggiamenti da Prima Repubblica, la stessa che Zalone ridicolizza nell'omonimo brano che fa da colonna sonora al film. E dimostrano di come Checco Zalone sia andato oltre la semplice opera cinematografica, creando un terremoto comunicativo che fuori dalle sale cinematografiche è diventato qualcosa a metà strada fra una performance artistica e una supercazzola politica. Perché, vedete signori, la risata non è né di destra né di sinistra, ma, in un Paese sbilenco affidato a una classe politica di disarmante pochezza, è soltanto catartica e liberatoria.
Zalone, fustigatore degli etno-radical-solidal-chic. Altro che cazzaro, disimpegnato, qualunquista: Checco Zalone distrugge i luoghi comuni della sinistra. Ma il ruolo del fanciullone vernacolare non sarà eterno, scrive Massimo Del Papa il 4 Gennaio 2016. C'è una sola categoria più odiosa degl'italici statali, pigri, infingardi e imbucati: gli animalisti italici in trasferta, che salvano il pianeta, fanno un figlio per ogni fuso orario e li tirano su multiculturali, ecumenici e terribilmente stronzi. Altro che cazzaro, disimpegnato, qualunquista: Checco Zalone è uno scontento, un esasperato, uno che ce l'ha con tutti e a tutto si oppone, eroicamente, con un pessimismo coraggioso che esclude la condanna come la compassione. Fortuna che invece di farsi scoppiare il fegato lui s'è scoperto questa vena umoristica, che c'entra niente col politicamente scorretto perché è più cattiva, va più in là. Il suo sarcasmo contempla la realtà nuda e cruda, niente coloranti né conservanti, ed è discutibile quanto sostiene il conterraneo regista Gennaro Nunziante, che loro due usano l'iper realtà: qui di “iper” non se ne vede punto, la lettura, se non la denuncia, sta tutta nei confini di una credibilità appena sporcata di comicità. E non (si) salva nessuno, in Italia come al Polo Nord, giusto forse nell'Africa nera, ma poi chissà. Il che è se non altro una bella professione di fede nell'umana fratellanza: uniti nella meschinità e nel grottesco, ma almeno uniti, tutti uguali davvero, tutti ugualmente mediocri, al netto di sfumature rituali o tradizionali. La funzionaria addetta allo smaltimento rifiuti umani, i raccomandati-esodati delle province, che lo insegue dal Polo all'Africa pur di non dargliela vinta, è orrenda; ma lo è davvero più della scienziatina che si preoccupa per gli orsi bianchi ma, in definitiva, solo di se stessa? Non chiedetevi neppure se il Checco sia di destra o di sinistra: probabilmente è troppo cosmico per infognarsi in questioni di lana caprina, certo però che di sinistra non parrebbe: la sua critica verso i luoghi comuni dell'etno-radical-solidal-chic, nessuno escluso, verbosità in primis, è molto più crudele di una Grande bellezza. Più ruspante, certo, ma la naivéte è una subdola foglia di fico, un passepartout per affondare di più la lama. Il prete di frontiera rompicoglioni è quasi peggio del mafioso, autorizzato dal retropensiero che si trasforma in legge, è un automa della solidarietà che non si ferma davanti a niente, razzola via tutto ciò che incontra lungo il cammino e poi non sa che farne, «Mah, vedrò, qualcosa, un progetto sociale». La Legalità è un totem più menzognero e insidioso ancora della Burocrazia. E la tirannide dei buoni sentimenti non è meno asfissiante del politico (cor)rotto a tutto e incallito come Lino Banfi, autentica coscienza, ma bacata, del crociato del posto fisso che non vuole perdere un'oncia dei suoi privilegi e infine li perderà tutti per la più banale delle cause. La critica è sempre la stessa: storia senza profondità. Detto questo, si può azzardare qualche critica, che poi è la stessa dei primi tre film: la storia non ha grande profondità, il suo universale è minore, campa sulla incontenibile verve di Zalone, sulla sua inventiva spiazzante anche quando si fa scontata (e ti viene il sospetto che lui giochi al cliché del cliché), sul saper produrre gag e paradossi nell'assoluta libertà di chi, con gli incassi che fa, sa di non patire limiti di sorta. Però, è vero, gli servirebbe un cortocircuito capace di indirizzarlo, di cavarne fuori il meglio che ancora attende in lui: le possibilità le ha, invece rischia di abortire in un vortice d'incassi. Ma non potrà restare inchiavardato ancora a lungo nel ruolo del fanciullone vernacolare che, catafratto a tutto, infine se la sfanga: come i film, anche gli anni passano e non aspettano. Per il momento Luca Pasquale Medici (vero nome di Checco) resta comunque un fuoriclasse, l'unico che può dipingere a quel modo il microcosmo dei dipendenti pubblici e non rischiare non si dica il linciaggio, ma neppure una criticuzza. Nel suo castigat ridendo mores è ormai l'unica alternativa credibile a Fiorello: talentuosi entrambi, completi, Zalone più sornione, però anche meno indulgente. Più amaro. Gli italiani a frotte vanno a vederlo, ridono, chissà se intuiscono. Eppure il suo attacco agli stilemi contemporanei è frontale e definitivo, neppure l'etnocentrismo pugliese ne viene risparmiato: la scintilla di genio, inQuo Vado?, sta nella brevissima sequenza con Albano e Romina redivivi a Sanremo: qui davvero tutto precipita nell'arco di pochi secondi, e la mimica di Zalone sembra sottolinearlo in modo perfino pedagogico. Tutto è perduto, con la chirurgica glacialità di un documentario di cronaca. Tutto è perduto, salvo il posto fisso, che alla fine diventa forma mentis, alienazione incurabile: lo sfaticato Checco nelle sue disavventure global previdenziali si risolve più in Caronte che in Virgilio, ché il mondo è un inferno e l'Italia il suo girone più profondo, nel quale agitarsi, in modo spastico, celentanesco, al suono del remake dell'Albero di trenta piani, che nella irresistibile versione della “Prima Repubblica” ne esce più inesorabile, più inconfutabile. E non inganni il finale etno-buonista di stampo veltroniano che mette tutto a posto: è solo l'ultimo sberleffo di un film al fiele, un happy end incongruo e implacabile, come a dire «consolatevi un po', se vi pare». Ma la scoperta del “bene” arriva per capitolazione, per normalizzazione, per male minore, quindi, in definitiva, per eterogenesi dei fini. Lo stigma è provocatorio, la vita ti sballotta quo vado, e alla fine da posto fisso ti trasforma in posto fesso. E tutti vissero felici e contenti.
Checco Zalone più Matteo Renzi uguale "Renzalone", scrive Marco Travaglio, Direttore de Il Fatto Quotidiano e scrittore, il 5 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". No, il dibattito su Checco Zalone no! Almeno non su Quo vado?, film disimpegnatissimo e divertentissimo come gli altri tre, che va semplicemente visto e applaudito per i meccanismi comici perfetti e per la leggerezza di fondo che lo sostiene per aria. Invece, per favore, sì il dibattito sì su quelli che vanno a vederlo e, appena usciti, sono colti da un’irrefrenabile voglia di discuterlo, sistematizzarlo, incasellarlo da qualche parte: a destra, a sinistra, al centro, pro o contro l’antipolitica, il qualunquismo, il populismo, dentro o fuori dalla satira politica o sociale o di costume, alla scuola di Sordi, di Totò, di Tati, di Keaton, di Bombolo. Gente che non solo non capisce il film, ma manco il titolo: ma dove credete di andare? Ma è così difficile rassegnarsi all’idea che Zalone voleva solo farvi ridere? Poi, certo, per far ridere ci vogliono intelligenza e cultura, ma vanno nascoste bene. Ed è naturale ispirarsi alla vita, alla realtà che conosciamo meglio: i nostri tic, vizi, vezzi, manie, ossessioni e quelli di chi ci sta vicino o lontano, e anche sopra, al potere: il posto fisso, le auto in doppia fila, l’assenteismo e il fancazzismo negli uffici pubblici, la finta malattia professionale, la falsa invalidità, le riforme che non cambiano nulla se non il nome degli enti inutili, la raccomandazione del politico, la mancia che diventa subito corruzione, la fila saltata al discount, le battute da bar maschiliste, sessiste e xenofobe e gli altrettanto insopportabili birignao del politicamente corretto, i ricercatori costretti a emigrare al Polo Nord, la mammoneria del bamboccione che all’estero crede di diventare civile ed evoluto almeno finché non scopre che Romina e Al Bano si son rimessi insieme e che parcheggiare in doppia fila è tanto liberatorio. Così chi va al cinema ci vede subito se stesso o qualcuno che conosce. Ma senza, per questo, introiettare “messaggi” né “istanze” particolari, tantopiù che il lieto fine lava tutto con una redenzione tutta privata e individuale. All’italiana. Non c’è niente da fare: anche stavolta, come per tutti i fenomeni nazionalpopolari, il dibbbattito politologico, filosofico, culturale e sociale incombe, urge e prorompe puntuale, ineluttabile, inarrestabile e surreale come solo noi italiani sappiamo farlo. Comico almeno quanto il film, forse anche di più. Gasparri, che quando può dire una pirlata non si tira mai indietro, twitta che Zalone ce l’ha con Renzi, “bugiardo imbroglione” per via delle Province abolite per finta. Il Giornale pensa a una satira contro la “riforma della PA”, cioè “ai provvedimenti del governo Renzi”, anche se – scandalo! complotto! – “sparisce la battuta antirenziana” contenuta nella canzone-trailer. Libero, pure, ci vede “un film anti-riforme” che “coglie un’esigenza della gente, arcistufa dei nuovi politici”, “l’idea che gli anni del rigore, della rottamazione e del grillismo, delle loro retoriche puritane abbiano stancato”, insomma “l’inno dell’Anti-antipolitica”, perchè Checco è “l’unico che capisce gli italiani”. Dall’altra parte, a sinistra, lo scrittore Lagioia lo definisce su Repubblica un “qualunquista buono” e paventa il “rischio” forse “pericoloso” di un “qualunquismo dei buoni di cuore risolutivo a fin di bene” (boh). Per Riccardo Barenghi, la Jena de La Stampa, se “milioni di italiani corrono a vedere Checco Zalone”, siamo “ingenui noi che ci meravigliamo che al governo ci sia Renzi”. Quindi Checco, a Renzi, gli tira la volata, o forse viceversa. Era già accaduto, il dibbbattito, dopo il penultimo film Sole a catinelle. Michele Serra vi notò tracce evidenti di berlusconismo. E, paradossalmente, pure Brunetta, che vide in Checco, a occhio nudo, “la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderna, serena di Berlusconi”, perché “il colore azzurro della sua risata è il nostro e la sinistra non può farci nulla”. Poi Zalone lo sfanculò alla sua maniera: “La sua interpretazione è un po’ troppo alta, anche se per Brunetta è un ossimoro”. E allora Renatino svoltò: “Il suo banale razzismo non fa ridere, Zalone ha superato l’esame: non è un berlusconiano, è un comico di sinistra”. Cosa che peraltro sosteneva pure Marco Giusti, nel suo decalogo semiserio “Perché Zalone è quasi comunista”. A metà strada si collocò il cosiddetto ministro Franceschini, che spiegò al Foglio l’ultima storica anzi epica mutazione genetica della sinistra che “oggi non ha più paura di Checco Zalone”. E furono soddisfazioni. Par di vederlo, oggi, Checco riunito in un baretto di Bari col suo gruppo di complici che il regista Gennaro Nunziante definisce “un branco di deficienti”, mentre mette giù il soggetto del prossimo film. Protagonisti: i meglio politici, commentatori e intellettuali del bigoncio che si interrogano pensosi sul successo di un film comico e non si capacitano della voglia degli italiani di farsi qualche sana risata senza l’aiuto della triade da cinepanettone culi-tette-scoregge, in un Paese dove c’è poco da ridere. E il presidente del Consiglio Renzi, noto imbucato, che non resiste alla tentazione di saltare sul carro del vincitore facendo notare che lui non l’ha mai “ignorato” o “snobbato” o detestato”, anzi è sempre stato dalla sua parte: mica come quei gufi dei “professionisti del radical chic” (espressione che lui pronuncia senza conoscerne il significato e apparirebbe un po’ vecchiotta in bocca a un colonnello in pensione in marcia con la maggioranza silenziosa nei primi anni 70, figurarsi in un politico quarantenne). Poi corre a leccare la marmitta a Marchionne. Ma forse quest’ultima scena è troppo volgare per entrare nel prossimo film di Checco.
«Quo Vado?» Un manifesto renziano. La trama del film di Checco Zalone record i incassi al botteghino figlio delle Leopolde e pure un po’ della voglia di «lieto fine», scrive Massimiliano Lenzi il 6 gennaio 2016 su “Il Tempo”. C’è poco da fare, «Quo Vado?», il film di Checco Zalone, che sta facendo impazzire i botteghini e gli italiani, è un manifesto renziano. Non nel senso politico, badate bene, ma culturale. È figlio del renzismo di questi anni, delle Leopolde e pure un po' della voglia di «lieto fine» che ognuno di noi, dal più ricco al più disperato, si porta addosso perché la vita è sempre troppo breve, anche quando dura tanto. Marco Travaglio, che ieri ironizzava su «Il Fatto» proprio sulla corsa di Renzi a mettere la bandierina su Zalone non si è accorto che i due sono intercambiabili, narrativamente, Checco Renzi e Matteo Zalone. Dire manifesto renziano non vuol dire certo che Zalone l’abbia pensato renziano, ci mancherebbe, è che così gli è venuto, per sua fortuna visti gli incassi. Premessa è plot della storia è la vita di un impiegato pubblico, della provincia, che si ritrova di colpo a dover mutare abitudini, per via della riforma che abolisce le province, una riforma che lo spinge a lottare per non mollare il posto fisso. Non solo, a metterlo lì, al sicuro nel posto di lavoro, era stato un politico della Prima Repubblica che è stato poi rottamato dal nuovo corso. Quanto al posto fisso, mito da far cadere, lo stesso Zalone giorni fa ha detto che questo film è anche figlio del Jobs Act, la riforma del lavoro di Renzi che ha tolto l'articolo 18 cambiando le modalità di licenziamento. Una narrazione che messa in fila -abolizione delle province, riforma sbandierata da Renzi, rottamazione dei vecchi politici, termine coniato da Renzi, Jobs Act e posto fisso abbiamo già detto - più 'renziana' di così si muore. Che poi, diciamola tutta, la parte più 'renziana' deve ancora venire e sta tutta nel lieto fine, inno all'ottimismo della vita, quello che ad ogni piè sospinto sottolinea, invoca, chiede Renzi alle opposizioni contro quelli che lui chiama i gufi. Ora la forza di seduzione di questo film Renzi l'ha capita al volo, andandolo a vedere con famiglia e elogiando come geniale Zalone in una intervista. L'ha capita perché è come se si fosse visto allo specchio, le sue campagne diventate soggetto cinematografico. Chi ne fa una questione politica, badate bene, sbaglia. Si tratta di un fatto culturale, di linguaggio, di uno spirito dei tempi, di un fenomeno di massa come nessun altro film è stato in questi anni, tantomeno se impegnato e di parte come lo fu «Il Caimano» di Nanni Moretti su Silvio Berlusconi. Zalone è contemporaneo. Ogni stagione ha il suo cinema, l'Italia della Dc e del Pci ebbe Totò ed il neorealismo, l'Italia di Renzi ha Checco Zalone. In questo, la riflessione sul successo di massa del film, andrebbe allargata al cambio di frontiera della percezione del pubblico. Ai tempi di Berlusconi la trincea vera dello scontro politico era sulla televisione, tutta lì, tra talk show anti Cavaliere, battaglie sul conflitto di interessi e girotondi ad ogni angolo. Una stagione di lotta politica, a suo modo, senza esclusioni di colpi che oggi si è attenuata di parecchio, e con lei il livello di scontro reale nei talk. Ecco che allora il cinema di un quasi coetaneo del Premier Renzi (Zalone ha solo due anni meno di Matteo Renzi), diviene la spia più chiara dello spirito dei tempi. Il cattivo, che per la sinistra per venti e passa anni, è stato Silvio Berlusconi oggi non c'è quasi più. Largo all'ottimismo allora. In questo senso «Quo vado», è un manifesto renziano, se ne esce rinfrancati, dopo aver fatto parecchie risate, anche su quel che sarà di noi, con o senza posto fisso. C'è un dettaglio, curioso, di poco più di due anni fa. Era il novembre del 2013 - in piena campagna per le Primarie del segretario Pd vinte poi da Renzi, vittoria che l'avrebbe da lì proiettato in breve a Palazzo Chigi - e nelle sale cinematografiche era uscito con grandi incassi «Sole a Catinelle», film di Checco Zalone prima di «Quo Vado», quando a Gianni Cuperlo, candidato contro Renzi alle primarie Pd chiesero proprio del successo di Zalone e se sarebbe servito un Checco Zalone per battere Renzi. Lui, Cuperlo, rispose che "Checco Zalone è un artista abbastanza geniale e divertente anche in questa sua ironia brutale" e il fatto che il suo film abbia fatto incassi record in pochissimi giorni è «una buonissima notizia per il cinema italiano». Un contrappasso straordinario riletto oggi, nel 2016, con Zalone fenomeno di massa e con Renzi che ci gode sopra: "Io ho riso dall'inizio alla fine. I professionisti del radical-chic, che ora lo osannano dopo averlo ignorato o detestato, mi fanno soltanto sorridere". In fondo l'ha scritto pure Adriano Celentano: Zalone è meglio del Lexotan.
«Checco Zalone è di destra». Parola della rossa Sabina Guzzanti, scrive Antonio Marras martedì 5 gennaio 2016 su “Il Secolo D’Italia”. Su Facebook s’è spogliata della sua solita puzza sotto al naso che in genere orienta le scelte della sinistra pseuso-intellettuale e ha elogiato il collega comico Checco Zalone, quasi con imbarazzo, visto che lei si considera diversa, meno nazional popolare, più da salotto di denuncia politica che cinepanettone post-natalizio. Ma Sabina Guzzanti, a suo modo, è stata sincera e nel messaggio di complimenti al comico pugliese per il successo di “Quo vado?” lo ha anche etichettato politicamente: «Quello che siamo all’oggi, arretrati, pigri, ladri, lo ha descritto meglio Zalone di tanti altri e lo ha fatto con una freschezza e una vitalità che fa ben sperare. Mi era piaciuto anche Sole a Catinelle. Indubbiamente destrorso nei contenuti, ma pieno di ottime gag, ben costruito, mi ha fatto ridere e mi ha suscitato il rispetto che un lavoro bene fatto merita». Destrorso, dunque: chissà se lo considera tale perché interpreta un personaggio identificato dalla sinistra come rozzo o demagogico o perché, in fin dei conti, sa leggere la realtà, da destra, molto meglio dei suoi amici intellettuali, da Nanni Moretti a Benigni e Paolo Rossi, che pontificano, strapagati, dal piccolo schermo della Rai nazionale, ma che forse non hanno mai messo piede in un ufficio della Provincia.
Il successo di Zalone è di destra o di sinistra? Record d’incassi. Così la politica cerca di arruolare i personaggi più amati, scrive Mattia Feltri il 3 gennaio 2016 su “La Stampa”. Stavolta non è colpa di Matteo Renzi: il premier è andato a vedere il film di Checco Zalone ed è finita lì, non ha detto nulla, non ha detto nemmeno mi piace o non mi piace, tantomeno ha detto che il successo di Quo Vado? è il successo dell’Italia che riparte, o qualcosa del genere. Magari non è nemmeno colpa di Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, uno dei più incontrollati produttori di tweet del mondo occidentale; in uno di essi ieri ha scritto proprio a Renzi: «Anche Zalone ti considera un bugiardo imbroglione» per via delle Province forse abolite e forse no. Speriamo non sia colpa di nessuno, che il tweet di Gasparri evapori nella bolgia online, che il milionario Zalone non torni a essere unità di misura politica, sacerdote del terzo millennio col potere di separare il bene dal male, il supercampione da ingaggiare nel morente campionato delbipolarismo. Due anni fa era andata a schifìo la dichiarazione d’amore e d’arruolamento di Renato Brunetta: «Zalone esprime in pieno la filosofia positiva, generosa, anticomunista, moderna, serena di Silvio Berlusconi». Il produttore Pietro Valsecchi, geloso del mistero vano (è di destra o di sinistra?), aveva scelto la sfrontatezza: «Tutti salgono sul cavallo del vincitore». Però, siccome Brunetta insisteva sul berlusconismo azzurrino di Zalone («il colore della sua risata è il nostro, e la sinistra non può farci niente»), Zalone medesimo decise di imbracciare le armi del suo arsenale: «Mi pare un’interpretazione un po’ troppo alta, anche se per Brunetta è un ossimoro». Funzionò, Brunetta si persuase: «Non fa ridere, è banale razzismo, e con ciò Zalone ha superato l’esame: non è un berlusconiano, è un comico di sinistra». Ieri abbiamo letto, sempre su twitter, anche un’«ode liberista» e tempo fa, in campagna elettorale, quelli di Scelta civica avevano detto che Zalone è molto meglio di Beppe Grillo; ancora prima Gennaro Malgieri, ex missino, lo aveva definito «luogocomunista» mentre per Michele Serra erano evidenti le tracce di berlusconismo, per cui gli rispose Marco Giusti con un decalogo surreale sul comunismo di Zalone. E avanti così, fino a una grande intervista del ministro della Cultura, Dario Franceschini, che a Claudio Cerasa (ora direttore del Foglio) confidò la liberazione: «Oggi la sinistra non ha più paura di Checco Zalone». Voleva essere il definitivo tuffo nel postmoderno non ideologico.
Salvini fan di Zalone: «Lo voglio fare ministro». «Non è uno che si mette a fare pipponi, appelli alla Nanni Moretti o alla Gad Lerner», scrive “Il Tempo” il 6 gennaio 2016. «Non è uno che si mette a fare pipponi, appelli alla Nanni Moretti o alla Gad Lerner»: così anche Matteo Salvini si aggiunge alla lista, bipartisan, di estimatori del comico Checco Zalone. «È un grande. Non ho ancora visto il film per mancanza di tempo, ci andrò presto. Però mi piace perché è l'esempio che si può avere successo nel mondo del cinema e dell’arte, della cosiddetta cultura, senza essere schierato a sinistra», ha spiegato il segretario della Lega Nord a La Zanzara su Radio 24. «Almeno Zalone non è uno di quei fenomeni che fanno i girotondi, il popolo viola, il popolo lilla, quelle menate lì. Il suo mestiere lo fa bene», ha voluto aggiungere. «In Italia è già tanto: in certi ambienti pseudoculturali, se non sei di sinistra non entri. Mi piace - afferma ancora - che non faccia il leccapiedi della sinistra, questo gli rende merito». Però è anche vero che nei film di Zalone la Lega viene sonoramente presa in giro. Qualcosina c’è anche in «Quo vado», l’ultimo film del comico pugliese che, dopo sole 48 ore in sala, sembra già destinato a stracciare tutti i record di incassi in Italia. «Mi dicono - risponde ai conduttori il leader della Lega - ci sia un bambino che si chiama "Salvino". Allora riderò il doppio quando vedrò il "Salvino". Mi piace ridere di me stesso, anche quando mi imita Crozza. Se uno è bravo è bravo. Punto». E ancora: «Checco Zalone ministro della cultura al posto di Franceschini che è la tristezza fatta persona. Poi lo scrittore Mauro Corona con la delega alla Montagna Caccia e Agricoltura. Devo scegliere tra Claudio Borghi e Alberto Bagnai come ministro all’Economia. Farebbero sicuramente sicuramente meglio di Padoan». E agli Esteri? «Berlusconi. Rispetto a Renzi sulla Libia, sulla Russia, sui rapporti con il Medio Oriente è avanti anni luce. Mentre gli Interni me li tengo io per sei mesi, per recuperare al dramma di Alfano. Un po' di ordine in giro lo porto». Sempre volando sulle ali della Zanzara, su Radio 24, Salvini ha anche svelato quale potrebbe essere un governo a guida leghista, con presidente del Consiglio lui stesso. Tra gli uomini di punta Checco Zalone, che non si lascia impressionare dalle lodi e nemmeno dalle critiche. «Voglio ringraziare quelli che mi dicono "grazie" ma anche gli indignati - ha detto il comico ai microfoni di RTL 102.5 durante "Non Stop News" - perché siamo un popolo di indignati, anzi, soprattutto loro, perché fanno scaturire curiosità e quindi la gente va al cinema. Grazie indignati. Non puoi essere simpatico a tutti, anzi quando c'è questo consenso quasi plebiscitario, paradossalmente, senti l'esigenza di ritornare a terra e di trovare qualcuno a cui stai sulle balle, altrimenti potrei avere manie di onnipotenza. Continuate ad indignarvi che io sono contento».
La riabilitazione del politicamente scorretto, scrive Paolo Pillitteri su “L’Opinione del 5 gennaio 2016. Più che di riabilitazione sarebbe il caso di parlare di scuse (tardive) ad un autore la cui riscoperta serve, tuttavia, a spiegare l’impressionante galleria di facce di bronzo della nostra cultura-informazione. È chiaro che stiamo parlando di Checco Zalone, anzi riparlando giacché su questo giornale nel dicembre del 2013 gli dedicammo una sorta di ritratto insistendo (già allora non è incredibile?) proprio sulle tantissime “facce di bronzo” del politically correct ferocemente astiose nei confronti di quello stesso regista che oggi osannano. “Ha ragione Checco Zalone, eccome!” era il titolo di allora, concludendo che avrebbero fatto bene, sia Matteo Renzi che Angelino Alfano, ad andare a vedere il film di Zalone “Cado dalle nubi” non solo per rilassarsi un po’ ma per curarsi intellettualmente, confrontandosi col vero interprete- protagonista del nostro Paese sempre sull’orlo di una crisi di nervi; un autore la cui rappresentazione dall’interno della pancia del Paese “costituisce la più vera narrazione storica, politica e sociologica dell’Italia della quale il cinema di Zalone è specchio, immagine e, al tempo stesso, reazione irridente, anarchica, ingenua, anticonformista, irriverente contro tutti, cioè politicamente scorretta”: perché dice la verità. L’invito al cinema zaloniano a Renzi (e Alfano) è stato accolto con più di due anni di ritardo, almeno dal Premier, che ha dichiarato di essersi divertito molto, di disprezzare i critici d’antan contro l’autore oggi alla moda, del quale riconosce, comunque, la grande abilità nel marketing del suo ultimo film. Meglio tardi che mai, beninteso. Il punto più vero del successo di Zalone sta nell’ingenuità, costruita con enorme cura anche nei dettagli, con la quale si pone nei confronti della materia narrativa senza sposare alcuna idea politica ma, al contrario, smontando tutti i luoghi comuni edificati in nome del politicamente corretto, che è la vera peste intellettuale dei nostri tempi e che costituisce il mostro del pensiero unico al quale sacrificare libertà di scelte, fantasia, poesia, e la politica stessa. Il successo di “Quo vado?”, pur non essendo cattivo come l’ormai cult “Cado dalle nubi”, sta dunque nella revisione integrale dei canoni cinematografici, superando di slancio sia i cinepanettoni eredi della commedia all’italiana, ormai logorati da oltre un ventennio di successi, che, soprattutto, il cinema e gran parte della televisione di satira di un periodo storico dopo il 1994, con l’avvento cioè di Berlusconi. Fu il tempo del “Caimano”, tanto per semplificare, per intenderci del nannimorettismo di lotta, di governo, e infine di delusione, in cui la deriva anti-Cav. si impancò a inattaccabile sedia gestatoria, una sorta di luogo irraggiungibile, immacolato e dispensatore di licenze morali i cui detentori sembravano essere soltanto coloro che pretendevano dalle vestali che recassero doni al mostro sacro, occultando così la verità ovverosia di portare il proprio cervello all’ammasso. Scrivendo tanti anni fa di Totò, il grande Aldo Palazzeschi ebbe a dire: “È apparso all’orizzonte del cinema italiano come un arcobaleno dopo il temporale”, allo stesso modo oggi si può affermare che il trionfale successo di Zalone sopraggiunge come un soffio di liberazione, una ventata rigeneratrice che farà bene non tanto o non soltanto ad un nostrano cinema sempre più asfittico e ripetitivo, ma soprattutto ai tantissimi cervelli portati all’ammasso, liberandoli da una cappa che sembrava inscalfibile tanti ne erano i sacerdoti. Libertà della fantasia significa innanzitutto liberazione dal luogocomunismo. Ed è questa la lezione più vera che ci proviene da “Quo vado?”, alla faccia delle facce di bronzo. Ancorché pentite.
Checco Zalone e le adozioni gay: Su Twitter infuria la polemica, scrive "Meltybuzz.it" il 06/gen/2016. Checco Zalone ha portato un matrimonio gay sullo schermo, ma nel 2011 si schierò contro le adozioni. Su Twitter la vicenda è molto discussa. Checco Zalone, nel suo nuovo film Quo Vado, ha portato sugli schermi un matrimonio gay (non è uno spoiler, non aggiungeremo altro se non l'avete ancora visto). Questo articolo de “Il Giornale”, però, ha riportato alla ribalta un'intervista rilasciata da Zalone a Vanity Fair nel 2011 in cui il comico si schierava a favore delle unioni civili ma assolutamente contro il fatto che coppie omosessuali potessero adottare dei bambini. Questa frase, che non necessariamente contraddice il film (visto che nella pellicola si vede un matrimonio, cosa nei confronti della quale non si era espresso negativamente), sta creando un polverone su Twitter con accuse di omofobia nei confronti di Zalone, come possiamo notare dai commenti di @alexyahoo “Boicotterò Checco Zalone, non andrò a vedere il suo film” e di @IlMici8 “Parliamoci chiaro! Checco Zalone può pensare e dire quello che vuole sui gay! Ma essendo personaggio pubblico non si stupisca delle reazioni”.
Unioni civili, quando Zalone diceva no alle adozioni gay. Nei suoi film le nozze gay sono già realtà. Ma nel 2011 l'attore disse: "Sì alle unioni, ma non ammetto l'adozione", scrive Giovanni Corato Martedì 5/01/2016 su "Il Giornale". È stato da più parti definito "l'italiano medio". Una caratteristica che sarebbe alla base del suo successo. Stiamo parlando di Checco Zalone, che sta spopolando con il suo "Quo Vado?". Nell'ultimo film - così come già in "Cado dalle nubi" - l'attore ha rappresentato uno dei temi di maggior discussione in parlamento: le unioni civili. Ma cosa ne pensa "l'italiano medio Zalone" della questione? Sul tema era già stato interrogato nel 2011, in un'intervista aVanity Fair. Allora la sua posizione era chiara: "È giusto che ci siano le unioni civili mentre non ammetto l’idea che una coppia omosessuale possa adottare un bambino".
Benedetto sia Zalone che illumina la fede del popolo. Fu la versione "rustica" del Guercino. Le sue opere sono trepidanti testimonianze di umile devozione, scrive Vittorio Sgarbi Domenica 3/01/2016 su "Il Giornale". Avevo coltivato in gran segreto il culto di un pittore a tutti sconosciuto, e pieno di una poesia semplice, rurale, contadina. Aveva il nome più insolito e raro rispetto ai maestri vicini, noti e meno noti, dello stesso tempo, il Guercino, Guido Reni, Matteo Loves: emiliano come loro, e con un vivo istinto della vita e della natura. Zalone si chiama. Benedetto Zalone. E oggi il suo nome è il più popolare tra quelli che corrono sulle bocche dei giovani, dopo tanti precedenti profanati. Si inizia con Carpaccio, tramutato in carne cruda sottile (così che il piatto si è mangiato il pittore), e si prosegue con scultori oscurati da politici: Andreotti (da Libero a Giulio), Gelli (da Lelio a Licio); altri pittori umiliati da cantanti, Morandi (Giorgio da Gianni), Rossi (Gino da Vasco), Ligabue (Antonio da Luciano), Tiziano (chi? Tiziano Ferro?). E ancora, travolti, Baudo (Luca da Pippo) e Sacchi (Andrea da Arrigo). Per arrivare, oggi, a Zalone. Checco, non Benedetto; la cui fama supera di secoli il silenzio, e minaccia di essere durevole nella satira nichilista del nostro tempo, come toccò piu di mezzo secolo fa ad Alberto Sordi, e un secolo fa a Chaplin (da Elisabeth a Charlie). Dunque sarà sempre più difficile far intendere che Zalone da Cento (non da Bari) è stato un pittore originale e autentico; un alter ego rustico del Guercino, che non si mosse dalla sua patria, dalla sua città, a cavallo fra due capitali estensi, Ferrara e Modena, l'una arrivata alla fine, l'altra capace di attrarre i più grandi artisti moderni, Bernini e Velázquez. Così, (Benedetto) Zalone nasce nel 1595 a Pieve di Cento e a casa lascia la Madonna con i santi Francesco e Orsola, la Madonna di San Luca con quattro Santi, per la chiesa di San Pietro, la Madonna di Loreto, la Madonna con i santi Bonaventura e Francesco (nella Pinacoteca civica), trepidanti testimonianze di una devozione popolare, profondamente partecipata da un'umanità commossa, e colma di speranza in quella che non è una liturgia o una celebrazione di riti, ma una fede nella certezza di Dio e nella misericordiosa intercessione della Vergine. La Controriforma e le indicazioni ancora recenti sulle immagini sacre del cardinale Paleotti sono lontane; il popolo dei credenti «vede» e sente la divinità vicina, il suo calore, la sua presenza. Sarà così anche nel più impegnativo capolavoro dello Zalone, dopo la tela umanissima per la chiesa di San Pietro a Cento: la potente, maestosa, e insieme vera, pala con il San Matteo e l'angelo sotto la protezione della Madonna in cielo adorata da san Nicola da Tolentino e santa Francesca Romana, per la chiesa di Sant'Agostino (ora in Pinacoteca). Qui Zalone mostra compostezza e un intuitivo, spontaneo classicismo che nulla deve a Guido Reni, ma ha tutta la forza di una rinnovata e umanissima visione del sacro, reverente e accostante, solenne e protettiva. Zalone non conosce Caravaggio, ma, in questo vigoroso ed esitante San Matteo come in quello ostinato, senza la protezione del cielo, per la Chiesa del Voto di Modena, ha la stessa immediatezza e brutale umanità che troviamo nella prima versione del San Matteo e l'angelo in San Luigi dei Francesi, e persegue il vero non della natura, ma del pensiero e della volontà. A Modena un vecchio determinato e riflessivo è accompagnato da un angelo giovane e discreto, mite badante di un uomo incolto e cocciuto nella sua risoluzione di scrivere. Analfabeta, Matteo non si preoccupa di tenere i libri mai letti sotto i piedi, nella posizione più compatibile con la sua ignoranza, mentre l'angelo lo compatisce con rassegnato e immutato affetto, e vigila con benevolenza sul testo che viene scrivendo l'improvvisato evangelista, molto concentrato, sotto un cielo padano annuvolato. Da questo, intuitivamente caravaggesco, avvicinamento, Zalone approda al suo capolavoro, in due versioni, l'una a Digione, l'altra presso di me: il Riposo nella fuga in Egitto, un'invenzione commovente nella quiete di un bosco sul fiume. La Madonna non riposa dalla stanchezza ma dalla funzione di madre, e contempla innamorata il bambino fra la braccia di Giuseppe, come mai prima era stato, in tutte le innumerevoli rappresentazioni della Sacra famiglia. Sempre ad assistere era il san Giuseppe, e il gruppo sacro era la Madonna con il bambino. Ora la Madonna, dolcissima e serena, guarda il figlio dormire sotto la paterna protezione, sottolineata dalla mano sotto la testa del bambino, in un quieto pomeriggio di primavera, al tramonto. Siamo verso il 1640, e Guercino è lontano, si sta avvicinando al forzato idealismo di Guido Reni, ma Zalone ne ricorda la poesia degli anni giovanili, fresca, rugiadosa, nei paesaggi bagnati da piogge recenti. C'è una magia, un incanto, in questi riposi, che va oltre ogni letteratura e ogni compiacimento. Chi scoprì il primo, il piccolo rame del Museo Magnin di Digione, fu Carlo Volpe, valoroso studioso bolognese, che lo interpretò «come un ritratto domestico ambientato sul ciglio dell'aia, alla fine della giornata».Zalone si è difeso, restando per tanto tempo riparato. Non poteva immaginare che il suo nome, per un comico equivoco, sarebbe diventato tanto popolare. Benedetto Zalone.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…